 
        
                Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

1. Il popolo sacerdotale dell’Antica e Nuova Alleanza
È giusto parlare del popolo sacerdotale delle due Alleanze, per indicare al contempo una continuità ed un superamento. Allo stesso modo, del tutto pertinente, parliamo di una Chiesa che non sorge all’improvviso con Gesù Cristo, ma è preparata già nell’antica alleanza. Il primo riferimento biblico fondante e previo ad ogni discorso è Es 19,1-9. Lì c’è la premessa ed il punto di partenza per la teologia sul popolo sacerdotale. Ed è interessante notare, fin dall’inizio, che si parla di ‘popolo’ sacerdotale. Lo stesso avverrà anche nel NT. Tuttavia lo sviluppo successivo metterà in ombra questa verità elementare per concentrare quasi tutta l’attenzione sulla classe sacerdotale. Ha senz’altro il suo posto ed il suo ruolo, ma non deve oscurare quello più universale del popolo sacerdotale.
Così leggiamo in Esodo 19, 1-9: “Il terzo mese dall’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono al deserto del Sinai. Partirono da Refidim e arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono. Israele si accampò di fronte al monte. Mosè salì verso Dio. Il Signore lo chiamò dalla montagna, dicendo:”Così parlerai alla casa di Giacobbe e annuncerai ai figli d’Israele:’Voi avete visto quello che ho fatto all’Egitto: vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotto da me. E ora, se ascoltate la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa’. Queste cose le dirai ai figli d’Israele”. Mosè andò a convocare gli anziani del popolo ed espose loro tutte quelle cose che il Signore gli aveva ordinato. Tutto il popolo, insieme, rispose dicendo:”Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo”. Mosè riportò le parole del popolo al Signore”.
La celebrazione dell’alleanza viene descritta nel capitolo 24, ma qui è già considerata un fatto compiuto e la base della scelta da parte di Dio. Ora essere ‘proprietà’ di Dio e ‘regno’ di sacerdoti e ‘nazione’ santa, dice una stessa cosa: un rapporto del tutto speciale con il Signore, dove valgono non i termini di possesso, ma di affetto. In realtà, Israele è proprietà di Dio, nel senso che egli la considera sua, in termini di affetto, come il padre dice al figlio : ‘mio figlio’. Nella stessa linea corrono le altre due espressioni, ma acquistano un significato più dinamico o missionario. Infatti questo popolo sacerdotale svolge un ruolo di mediazione con gli altri popoli, ad analogia di quanto Mosè fa all’interno del suo popolo. E così quando si parla di ‘nazione santa’ si pensa non tanto ad una qualità astratta e spiritualizzata, quando invece al compito di testimonianza che Israele è chiamato a svolgere verso i popoli vicini. È anche la convinzione che traspare dal libro di Tobia:”Celebratelo, Israeliti, davanti alle nazioni, perché egli vi ha disperso in mezzo ad esse, e qui vi ha fatto vedere la sua grandezza” (13, 3-4).
Sulla base di questa convinzione, continua nel NT il discorso sul popolo sacerdotale. Ci limitiamo a presentare solo alcuni testi, perché possiamo vedere la continuità in un servizio e la sua novità, costituita dall’evento di Gesù Cristo. Il primo testo solenne che la tradizione apostolica legata a Pietro, ci ha tramandato, è il brano classico di 1Pt, 2,4-10. E’ singolare il fatto che esso risulta a sua volta, di citazioni, la più importante delle quali è il testo dell’Esodo sopra citato. La lettera di Pietro può essere considerata come una omelia pasquale, in cui vengono richiamate le linee essenziali della salvezza operata da Cristo e il nuovo statuto dei battezzati, resi partecipi della giustizia di Dio. A questi il testo si rivolge richiamando la loro nuova dignità.
“Avvicinandovi a lui, la pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore, siete costruiti anche voi come pietre viventi in edificio spirituale per formare un organismo sacerdotale santo, che offra sacrifici spirituali bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Per questo si trova nella Scrittura: Ecco, pongo in Sion una pietra scelta, angolare, di valore, e chi crede in essa non rimarrà confuso. Il valore è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati. Ma voi siete una stirpe scelta, un organismo sacerdotale, regale, un popolo santo, un popolo destinato ad essere posseduto da Dio, così da annunziare pubblicamente le opere degne di colui che dalle tenebre vi chiamò alla sua luce meravigliosa, voi che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio, eravate non beneficati dalla bontà divina, ora invece siete beneficati”.
Possiamo dire che qui abbiamo una specie di statuto generale dell’essere e dell’agire del nuovo popolo di Dio. L’essere è descritto da ciò che i battezzati sono divenuti per mezzo di Cristo, appunto il popolo sacerdotale. Questo evento non è un fatto pacifico, perché è il risultato della passione di Cristo, del suo rifiuto, della sua morte. Il richiamo al dramma della pasqua è esplicito e forte, per dire che l’inserimento in Cristo non è una cosa scontata, ma frutto di lotta e di fatica. I cristiani non possono dimenticare la loro origine dalla pasqua di Cristo. Del resto anche la nascita del primo popolo sacerdotale era avvenuta nel travaglio dell’Esodo e delle peripezie conseguenti. Ma poi ciò che resta ed è decisivo è la nuova dignità acquisita.
Questo nuovo popolo ha due compiti ben precisi e distinti. Il primo consiste nell’offrire sacrifici spirituali, a Dio bene accetti. Non si precisa in che cosa consistano, forse si dà per noto ai lettori che cosa ciò significhi. Comunque c’è un aggettivo importante che può orientare in modo sicuro: si tratta di sacrifici ‘spirituali’, celebrati cioè nello Spirito Santo. Non è difficile vedere in questo termine il superamento dell’apparato sacrificale del tempio antico e la designazione del nuovo sacrificio di Cristo, comprensibile solo nello Spirito di Dio. Tutto l’argomento viene ripreso ed analizzato in modo esauriente nella lettera agli Ebrei.
Il secondo compito è l’annuncio al mondo di quanto Dio ha fatto con il suo popolo: il passaggio dalle tenebre alla luce, il passaggio dalla morte alla vita. E’ in breve l’annuncio del Vangelo nel segno della nuova vita ricevuta in dono. Quanto sia superata la sola ed univoca dimensione cerimoniale della liturgia cristiana è del tutto perspicuo nel nostro testo, ed è altresì annotata la necessità per il nuovo popolo sacerdotale di non limitarsi ad una fede che non conosca annuncio, nel fatto stesso che è vissuta dinanzi al mondo e a beneficio del mondo.
Nel libro dell’Apocalisse abbiamo altri due passaggi significativi sul nostro tema. Gesù Cristo “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (1,6). Tu o Cristo, “Acquistasti per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù e lingua e popolo e nazione, ne facesti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sulla terra!” (5,9-10). Qui è evidenziato in modo molto più forte che nel testo precedente l’opera di Gesù Cristo, anche in considerazione dell’impostazione dell’Apocalisse. Ma è del tutto chiaro che in ogni testo del NT quando si parla di qualcosa in riferimento alla nuova condizione dei redenti, l’accentuazione dell’opera di Cristo è particolarmente forte, perché da esso e su di essa tutto consiste e sta.
Da questa sintetica presentazione possiamo fare due brevi considerazioni conclusive. La prima è che nel corso dei secoli si è persa la prospettiva di questo popolo sacerdotale, a vantaggio di una impostazione più clericale, che ha raggiunto il suo vertice all’inizio del secondo millennio. Questa sfasatura ha arrecato i suoi danni, che sono all’origine neanche tanto nascosta anche della contestazione luterana del modello ecclesiale del suo tempo. La seconda consiste nel ricuperare il senso di questo popolo sacerdotale, composto dai battezzati, in vista di una rinnovata coscienza dell’essere Chiesa e della sua missione nel mondo.
di Marino Qualizza

6. L'eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l'eucarestia
Negli ambienti sacerdotali dei leviti viene prodotto il documento che sta alla base del Deuteronomio, in cui si prevede la centralizzazione del culto a Gerusalemme.
di Djénane Kareh Tager

Il nostro incontro è fissato a Parigi, nella hall del CCFD (Comitato  cattolico contro la fame e per lo sviluppo) che ha fatto arrivare padre  Lourdunathan Yesumarian dalla sua India nativa per partecipare all’incontro  nazionale del Comitato. Non c’è molta gente, questo pomeriggio, nella hall. Il  prete mi viene incontro, scortato dall’addetto stampa, che lo presenta:  "Padre Lourdunathan". Qualche secondo di silenzio. Lui incalza:  "Sono un dalit". Mormoro un vago "sì". E lui insiste:  "Un intoccabile". Gli tendo la mano. Lui la stringe, sorride. In  questo preciso momento, ho come l'impressione che un muro di ghiaccio sia  andato in frantumi…
  "Intoccabile", questo gesuita, ma avvocato specializzato in diritto  internazionale e portabandiera del movimento dalit, lo è nel senso proprio del  termine. Così come lo sono duecentocinquanta milioni di suoi compatrioti  indiani nati nella casta dei senza casta, degli impuri, degli  "intoccabili", appunto. Esseri che le altre caste esitano a definire  umani. E ai quali l’India non applica le carte e le altre convenzioni nazionali  che affermano l’uguaglianza degli esseri umani, in particolare la Carta dei  diritti dell’uomo, anche se sono state ratificate dal loro Paese.
  Cerco di capire perché. "È semplice, spiega il gesuita. Secondo la mitologia  indù, la casta dei bramini è nata dalla testa del Dio creatore, quella dei  guerrieri dalla sua spalla, altre caste dal suo ventre o dai suoi piedi. Noi, i  dalit, non siamo nati da Dio. Non siamo niente". Ovviamente mi sento  obbligata a ricordare al padre Lourdunathan che egli è cattolico. Che dovrebbe  quindi, secondo la logica, non sentirsi toccato da questo mito. La sua risposta  è agghiacciante: "La religione è un vestito che si può cambiare. La casta  è una pelle. Si nasce con la propria pelle, si muore con lei". E poi,  soprattutto, si vive con lei nel quotidiano, come lo dimostra la sua storia  personale…
  "Sono l'ultimo di una famiglia di otto figli. Una famiglia di dalit,  cattolica da tempo. Sono nato nel 1955, in un piccolo villaggio del Tamil Nadu,  Stato del sud dell'India. Mio padre è morto quando avevo tre anni, mia madre ha  lavorato duro per crescerci. Ho sempre saputo di essere un intoccabile, anche  se la parola non era mai pronunciata apertamente. Ero alto come un soldo di  cacio ma già sapevo che davanti alla drogheria dovevo stare nella coda  riservata ai dalit. Attingere acqua alla fontana dei dalit. Sedermi a scuola o  in chiesa sui banchi riservati ai dalit. Giocare solo con i dalit. Un giorno ho  osato chiedere perché. La risposta di mia madre non si è fatta attendere:  "Vuoi farti ammazzare?".
  "Ho continuato gli studi, mia madre e i miei fratelli maggiori  desideravano che diventassi prete. Sono sempre stato il primo della mia classe:  era il minimo che potessi fare di fronte ai sacrifici che facevano per me. A  diciannove anni mi sono presentato per entrare nel seminario della mia diocesi.  Avevo bei voti, una forte motivazione. Ma sono stato rifiutato: ero un dalit,  rischiavo di infangare o almeno di perturbare gli altri giovani che, come me, volevano  consacrare la loro vita al servizio di Dio. Il Dio cristiano, del quale tutti  siamo figli, e che ci ama tutti nello stesso modo. Avrei potuto voltare le  spalle a quella religione che non mi voleva a causa della mia casta. Riconosco  di essere un tignoso: dovevo assolutamente raccogliere la sfida. E lottare,  dall'interno, contro quel sistema".
  "Ho fatto domanda in altre diocesi, in altre congregazioni. I gesuiti  hanno accettato di accogliermi. Mia madre mi ha accompagnato fino all'autobus  per la città: due giorni di cammino sotto un sole cocente. Camminava con la  testa scoperta, come una dalit. Evitavamo con cura di incrociare l'ombra di un  bramino. Sa, l'ombra che facciamo quando c'è il sole. Schiacciandola con i  nostri piedi, avremmo infangato un individuo di una casta superiore… Quando  sono salito sull'autobus, mia madre mi ha detto: "Non voglio niente da te.  Consacra tutte le tue forze ad aiutare i nostri". È l'unica volta in cui  l'ho sentita fare allusione al sistema delle caste. Eppure ha dovuto soffrire  la discriminazione, piangere vedendo i suoi figli considerati come  impuri…".
Imporre le mani, quindi toccare
  Lourdunathan è stato ordinato. Da un vescovo che ha accettato di procedere  alla cerimonia di imposizione delle mani - che implica di toccare  l'intoccabile, cosa alla quale non tutti i gerarchi cattolici indiani  acconsentono automaticamente. Anche se testardo, è stato obbligato a piegarsi  ad alcune regole. Per esempio, concelebrare la messa quando è fuori dalla sua  parrocchia, in modo che i fedeli delle caste superiori possano ricevere la  comunione da un prete della loro casta. Inumare i morti dalit nei cimiteri che  sono loro riservati - altri cimiteri accolgono i non dalit. Ammettere -  tollerare, precisa - che un prete che accoglie un omologo dalit nella sua  parrocchia, per celebrare una messa, proceda in seguito ad una purificazione  del calice insudiciato dalle mani impure.
  Tutto questo è niente, dice, rispetto alle atrocità commesse nei confronti dei  fuori casta, che siano indù, buddisti, sikh o cristiani. Padre Lourdunathan  indica le cifre, implacabili: ogni giorno, in India, cinque dalit sono uccisi e  cinquanta case dalit bruciate. Ogni ora, cinque donne dalit sono violentate -  le relazioni sessuali non obbediscono alle leggi delle caste. Sono in seguito  spesso uccise dai loro familiari, per lavare l'onore. "E tutto questo  perché i dalit vogliono liberarsi dalla loro condizione. Essere considerati  come umani. Più reclamiamo i nostri diritti, più la repressione è violenta. I  nostri aggressori sono generalmente rilasciati senza processo".
  Fuori dall'India, la discriminazione continua. Lourdunathan si ricorda del suo  primo viaggio all'estero. Era in Francia, due anni fa. Una famiglia indiana  cattolica lo aveva invitato a cena. Poi gli ha proposto di continuare la serata  dai vicini, anche loro indiani, "per pregare tutti insieme". Per la  strada, i suoi ospiti - che ignoravano di avere a che fare con un dalit - hanno  cercato di rassicurarlo: "Non tema, i nostri vicini sono di alta casta".  Senza dire una parola, il prete ha fatto dietro front e se ne è andato.
Pluralismo è più di tolleranza; il pluralismo è il riconoscimento che nessun uomo e nessuna cultura ha accesso alla totalità dell’esperienza umana, che nessuno di noi dal suo punto di vista può abbracciare tutto il reale (Raimon Panikkar).
di Sebastiano Cesca
LE TRACCE, L'EREDITA', L'ISOLAMENTO  
A 40 anni dalla scomparsa del suo eccezionale "curato di campagna",  Bozzolo, un paesino agricolo della bassa mantovana di 4000 anime,  conserva ancora segni significativi della presenza di don Primo  Mazzolari. Il visitatore che arriva nella chiesa principale del paese,  la bella parrocchiale dedicata a S. Pietro, trova in testa alla navata  destra una lastra tombale che reca semplicemente scritto PRIMO  MAZZOLARI - SACERDOTE e due date: quella del battesimo (1890) e quella  della morte (1959). Addossato al muro c'è il nudo bassorilievo ovale di  un ramoscello d'ulivo innestato su un tronco. A pochi metri di  distanza, oltre la sacrestia, si trova lo studio, ove per 27 anni dal  '32 al '59, don Primo ha letto, meditato e scritto, attorniato da  cumuli di carte e libri.
 Oggi quei libri sono raccolti ed ordinati  nella biblioteca della "Fondazione P. Mazzolari", sempre in Bozzolo, in  un edificio ad essa dedicato ove sono sistematicamente catalogati anche  i testi di centinaia d'articoli, saggi, discorsi prodotti lungo oltre  un quarantennio d'intensa attività pastorale ed intellettuale. La  Fondazione, costituita nel 1985 con decreto del presidente della  Repubblica, è guidata da un comitato scientifico composto da docenti  universitari, in prevalenza storici, sociologi e pubblicisti, fra i  quali si segnalano G. Campanini, M.Guasco, A.Bergamaschi ed altri.  Semestralmente è pubblicata, ormai da 10 anni, la rivista "IMPEGNO -  Rassegna di religione, attualità e cultura", che si prefigge di  presentare, analizzare, studiare il messaggio mazzolariano con il  contributo, anzitutto, dei componenti del comitato scientifico, ma  anche di giovani studiosi: oltre una settantina di laureandi ha attinto  alla documentazione raccolta a Bozzolo per i lavori di tesi.
 La  Fondazione cura anche la pubblicazione di QUADERNI di documentazione  che raccoglie testi d'articoli apparsi su giornali e riviste; inoltre  mantiene i rapporti con gli editori che pubblicano le opere postume di  don Primo.
 Si tratta complessivamente di un lavoro non indifferente  se si considera che i 20 volumi pubblicati tra il '32 e il '58 sono  stati seguiti da altrettante opere postume tra il '60 e il '91. Si  tenga conto, poi, che solo sul "Nuovo Cittadino" di Genova sono apparsi  67 articoli tra il '37 e il '49! Si tratta quindi di un'ingente mole di  materiale che ben si presta ad analisi e connessioni con l'intensa  produzione saggistica e letteraria francese di quegli anni (Maritain,  Mounier, De Lubac, Bernanos, Mauriac...). Don Primo leggeva  correntemente il francese ed anche il tedesco, così superava i limiti  di un isolamento che il regime fascista riservava ai suoi oppositori.  Egli, infatti, avversò decisamente il fascismo fin dal '25; nel '31 fu  oggetto di un attentato - tre colpi di rivoltella sparati nella notte  contro la finestra, dopo averlo chiamato - a Cicognara (MN), iniziale  destinazione come parroco prima di Bozzolo.
 Anche la cultura  letteraria ufficiale lo ignorò per lungo tempo, ma fu soprattutto  l'isolamento nella Chiesa che tanto amava - e dalla quale mai si  allontanò nonostante i sospetti, i richiami e i provvedimenti - a  costargli un'indicibile pena. Disse di sé stesso: "Pronto  all'obbedienza, ma con la schiena diritta".
 Ma prima di  chiederci chi fu don Mazzolari, che cosa ci ha lasciato, lasciatemi  dire di un altro segno della sua presenza colto a Bozzolo: la profonda  emozione che ho avvertito nella sua chiesa quando ho ascoltato dal suo  attuale successore - don Giovanni - un'omelia che echeggiava nei toni  di voce, nell'essenzialità dei temi evangelici (si trattava del perdono  nella vita di coppia durante una cerimonia nuziale), nella fine  sensibilità psicologica, non solo lo stile, ma soprattutto l'anima, la  passione apostolica di don Primo. 
LA PRIMA CONTESTAZIONE E UN GIORNALE SCOMODO
  Avevo conosciuto don Mazzolari attraverso il suo quindicinale "ADESSO"  negli anni dell'università. Erano gli anni caldi della prima  contestazione cattolica in impaziente attesa del rinnovamento  conciliare che sarebbe sopravvenuto solo una decina d'anni dopo; ed era  il tempo in cui Mario V. Rossi era presidente della Gioventù Cattolica  - ex-GIAC - e don Arturo Paoli assistente centrale: entrambi,  unitamente ad altri dirigenti del movimento - interpretando un certo  disagio della "base" - si opponevano alle operazioni para-politiche di  L. Gedda (fondatore e gestore incontrastato dei "comitati civici") che  sostenevano l'alleanza coi fascisti nelle elezioni comunali di Roma  (1951). Ma Gedda godeva di larghe approvazioni curiali e politiche,  cosicché la sua linea risultò vincente ancora per un decennio.  Naturalmente M. V. Rossi, don A. Paoli ed altri dirigenti centrali  furono dimissionati. Molti "reduci" da quella battaglia si ritrovavano  idealmente sulle pagine di "ADESSO", il giornale fondato nel 1949 da  don Mazzolari che aveva fatta sua la frase del grande teologo svizzero  Karl Barth "un cristiano con la Bibbia in una mano e nel cuore, e  nell'altra il giornale" per esprimere un'attiva partecipazione ai  processi culturali e agli avvenimenti del suo mondo. Il quindicinale  aveva ripreso le pubblicazioni nel novembre del '51 dopo sei mesi di  sospensione su richiesta del card. Schuster sollecitato dal S. Ufficio;  ma poi lo stesso cardinale revocò la sospensione affermando che " il  quindicinale fa del bene ai cattolici".
 "ADESSO" era un foglio che  si rivolgeva a chi avvertiva la necessità di una formazione  socio-politica autenticamente cristiana e don Primo profondeva tutta la  sua passione evangelica nel cogliere i limiti e le contraddizioni di un  potere che si diceva cristiano, ma l'accezione era strumentale e  trionfalistica. Quelli erano " gli anni dell'onnipotenza"  democristiana, ma anche i tempi in cui René Voillaume pubblicava "COME  LORO" (il titolo originale, ben più significativo, era "Au coeur des  masses"), il testo della spiritualità dei Piccoli Fratelli di Ch. De  Foucald, fra i quali sarebbero presto approdati Carlo Carretto  (predecessore di M. V. Rossi alla guida della GIAC) e Arturo Paoli:  anche questi sacrifici incruenti erano nel solco di quanto avveniva a  Bozzolo.
 Il piccolo gregge che si ritrovava attorno ad "ADESSO"  viveva una vita sempre difficile. Mazzolari, infatti, come ha detto  molto bene L. F. Riffato "inseguiva il sogno di una società  autenticamente cristiana, pacifica, libera e solidale: una radicale  rivoluzione sociale cristiana. Non un partito". Evidentemente il  "sistema" non poteva accettarlo; a fatica lo tollerava. In questo  contesto si sono prodotti gli undici richiami della Chiesa gerarchica a  don Mazzolari, soprattutto per "ADESSO", che continuava ad essere un  foglio di frontiera sul piano religioso e sociale; sul piano politico  inseguiva tenacemente il centro-sinistra, un tabù per quell'epoca.
LA MISSIONE A MILANO
  Ma i tempi dell'intransigenza (politica e dottrinale) stavano  lentamente tramontando; di lì a poco. Alle soglie del Concilio, le  opinioni su don Primo si sarebbero capovolte: "ha avuto ragione troppo  presto", "ha anticipato i tempi del Vaticano II", che avrebbe recepito  i suoi messaggi fondamentali. In realtà don Primo è stato non solo un  pastore fedele al Vangelo, un educatore dei piccoli e degli adulti, un  appassionato difensore dei deboli e dei valori democratici, un tenace  cercatore di pace attraverso la comprensione delle ragioni altrui, un  prete di vedute ecumeniche quando l'ecumene era ridotto ad un ambito  ristretto; è stato un oratore affascinante ed anche un tenace  polemista, un insistente annunciatore delle sue più profonde  convinzioni, ma è stato soprattutto un "profeta degno di fede "(Sir.  36, 18).
 Il futuro Paolo VI, allora arcivescovo di Milano,  riconobbe nel 1957 a P.Mazzolari, D.M. Turoldo, E. Balducci, N.  Fabretti, C. Del Piaz ed altri ancora, un'acuta capacità di  discernimento, di cogliere i segni dei tempi, di saper dialogare col  mondo contemporaneo: e li invitò tutti alla grande Missione cittadina.  Per don Primo, come scrisse nel suo diario, "fu di grande consolazione  la fiducia inattesa" espressa dall'invito di mons. Pignedoli a nome  dell'arcivescovo.
 Nel novembre di quell'anno ero divenuto fedele  ambrosiano da pochi mesi; l'andare ad ascoltare don Mazzolari  nell'ambito della Missione in via Torino, nella chiesa-tempio di S.  Sebastiano, era impossibile; la folla traboccava in strada... A Bozzolo  ho ritrovato i temi (le registrazioni!) di quegli incontri: sono titoli  che esprimono tutta la sensibilità e la passione missionaria di don  Primo: "La sofferenza nella Chiesa", "Il tuo volto, Signore, io cerco",  "Il mistero dell'ingiustizia", "Il mistero del dolore","Zaccheo", "Il  Padre nostro".
 Un altro vertice don Primo lo toccò nell'omelia del  giovedì Santo 1958, un anno prima di morire; parlò di "Nostro fratello  Giuda", sul filo di una speranza che va oltre ogni limite perché  fondata su un Amore sconfinato di cui egli riusciva a farci percepire  l'incommensurabilità.Ma solo ascoltando le parole di don Primo si può  comprendere che sorta di prete fosse:
 "Io credo che se in questi  giorni di Missione avessimo avuto il coraggio di aprire certe pagine  del Vangelo (le voci che parlano del Padre), di ripetere certe parole,  io credo che il primo a chiudere il libro sarebbe stato questo povero  prete, che finora non ha avuto il coraggio di aprire con franchezza  estrema, con spudorata chiarezza. Forse, vedete, la nostra Missione  avrebbe un significato tremendo, qualcheduno di voi direbbe aggressivo.
  E del resto, miei cari fratelli, se una verità non ha il coraggio di  aggredire, vale a dire se non diventa una passione,se non ci  crocifigge..."
 "Quello che importa, per la mia fede e la vostra, se  avete la forza di credere, è che il Figlio di Dio ci dà il volto del  Padre, ci dà la misura umana della carità, perché altrimenti noi non  saremmo riusciti ad accoglierla, ad accettarla ...Perché non dovete  dimenticare che il mistero dell'incarnazione rappresenta  l'"occupazione" dell'Amore, una delle più inimmaginabili maniere di  occupare il mondo da parte di Dio...".
 Ma non basta cercare il  Padre: "Se noi non riusciamo, attraverso il Padre, a sentire il  "fratello", niente conta. Se non troviamo il fratello, anche il volto  del Padre non esiste più. Ed è qui, vedete, dove comincia la Missione.  Voi direte qui comincia l'aggressività. Può anche darsi. Io però userei  un'altra parola, userei la parola impegno. E' qui, vedete, la prova  della nostra fede. E' qui la prova se il Padre ha una consistenza, ha  una realtà... Chi è mio fratello?C'è la parabola,una di quelle parabole  che non si possono leggere se non in ginocchio: la parabola del  Samaritano. Tutti,tutti... E' qui, o miei cari, dove comincia la  difficoltà d'essere cristiani".
 Nel tradimento di questo rapporto  di fratellanza ha origine il mistero del male e dell'ingiustizia: "La  nostra implacabilità non viene, molte volte, da quello che è il senso o  l'esigenza della giustizia; viene da un'attenuazione, o da un  oscuramento di quello che è il senso della paternità, e se volete - per  quello che riguarda noi, non per quello che riguarda Dio - della  corresponsabilità...Non abbiamo mai misurato quello che c'è di nostro  nel male. Ad un certo momento abbiamo l'impressione che sia fuori di  noi, che non ci riguardi,che la nostra mano non l'abbia mai toccato: ma  non c'è nessuna manifestazione del male, non c'è nessuna ingiustizia, o  miei cari fratelli, non c'è nessun delitto che non porti una piena  corresponsabilità... Cuore paterno, corresponsabilità fraterna: in  fondo quando gridiamo, se abbiamo il coraggio di gridare, ricordatevi  che in quel momento ci dimentichiamo che l'accusato siamo noi".
 E  infine le parole che attingono alle profondità della coscienza della  propria ostinazione cristiana: "La storia che mantiene viva nella  coscienza degli uomini il senso della giustizia, e che soprattutto dà  forza alla coscienza è la parola del profeta, è la parola del  resistente cristiano, del resistente umano, che non bada al costo della  verità. Perché voi lo sapete, la verità non la si mette al mondo  facilmente: costa tremendamente".
LA RIABILITAZIONE
  Fece in tempo don Primo, prima di morire, - due mesi prima che l'ictus  cerebrale lo colpisse durante la messa domenicale del 5 aprile '59 - ad  ascoltare da Giovanni XXIII quella riabilitazione totale che  coinvolgeva direttamente la sua persona e con lui quanti avevano atteso  e invocato la stagione conciliare. Disse, in quella udienza  indimenticabile, il "Papa buono": "Ecco la tromba dello Spirito Santo  in terra mantovana". E il giorno dopo don Primo scrisse sul suo diario:  "Ho dimenticato tutto!".
 Don Primo, invece, non fu dimenticato dai  successori di Giovanni XXIII; infatti, 11 anni dopo la sua scomparsa,  Paolo VI, testimone sofferente di tante vicende curiali, diceva con  lucidissima chiarezza ed altrettanto evidente pena:" Non era sempre  possibile condividere le sue posizioni: don Primo camminava avanti con  un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così  ha sofferto lui ed abbiamo sofferto noi. E' il destino dei profeti". Ed  è quasi incredibile che Papa Luciani, nel suo pontificato di soli 30  giorni, abbia trovato modo di dire di lui :"Don Primo fu un uomo leale,  un cristiano vero, un prete che cammina con Dio, sincero ed ardente. Un  pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la  bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutto cuore, mente e passione  evangelica".
L'EREDITA' SPIRITUALE.
 Ma cosa ci resta di don Mazzolari? Dov'è la sua attualità?
  Ci ha aiutato molto,durante la nostra visita a Bozzolo, il presidente  della Fondazione don Giuseppe Giussani, a cogliere sinteticamente  l'eredità spirituale di don Primo.
 Qui,però, non posso non dire  grazie all'Associazione "G. Lazzati" che ha avuto la felice idea di  organizzare la visita a Bozzolo e di offrire tanti stimoli attraverso i  ricordi incrociati dei presidenti dell'Associazione, della Fondazione e  del suo segretario.
 Ricordava don Giussani:
1. Il primato della Parola di Dio.  Il Concilio Vaticano II accoglierà questa intuizione, sviluppandola in  profondità, nella costituzione "Dei Verbum", a suggello di un lungo  percorso denso di studi, ricerche e prodigioso lavoro, ma anche di  contrasti ed opposizioni all'inizio del secolo. Uomo di sofferta e  profonda spiritualità don Primo disse:" Il Signore ha una maniera di  fare e di dire che dà le vertigini perché Egli è la Parola che  congiunge le vette dell'infinita misericordia con gli abissi della  nostra sconfinata miseria".
2. La teologia della Croce.  Don Primo ha sperimentato di persona sofferenze pungenti, anche se  incruenti, e la spiritualità che maturò fu davvero cristologica,  centrata sul Crocifisso. Scriveva al card. Montini nel gennaio del '59  dopo altre drammatiche tensioni: "Nel 1954 mi fu tolta la parola e la  penna per un "filocomunismo" che nessuno ha mai potuto provare, perché  smentito dai fatti. Fui condannato senza essere interrogato nè prima nè  poi, sotto banco e senza termine. Se non fosse intervenuta Vostra  Eminenza,con una bontà di cui vi sarò sempre riconoscente, chiamandomi  alla Missione di Milano, nessuno, e comincio dal mio Vescovo che  avrebbe potuto spendere una parola per un suo vecchio prete, si sarebbe  accorto che non si può condannare a vita un prete che ha sempre voluto  bene alla Chiesa più che a sè stesso".
 Ha scritto lapidariamente  qualche anno fa "Civiltà Cattolica": "Mazzolari ha il diritto di essere  inserito fra quelli che hanno fatto della loro vita una testimonianza  eroica, talvolta anche clamorosa, di Cristo e del Vangelo".
 Nei  momenti di suprema asperità don Primo attingeva alla sua capacità  contemplativa ; quando fu sospeso "ADESSO" scrisse :" Tutto è speranza  perché tutto è fatica; tutto è grazia, anche il morire; tutto è  testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Chi vive con  i poveri da quando è nato e si dà attorno per fermare la loro  diserzione dalla Chiesa, può sbagliare nel por mano ai rimedi. La  Madonna avrà misericordia di un vecchio prete che è riprovato senza  misericordia". Amarezza, coscienza della giusta battaglia e speranza si  fondono in alta spiritualità.
3. Una ecclesiologia ecumenica.  L'insegnamento della " Lumen gentium" e le aperture ecumeniche dei  recenti pontificati,da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, hanno forti  anticipazioni nelle intuizioni ecumeniche di don Mazzolari mutuate  dalla Scrittura al di fuori - o meglio, oltre - l'ecclesiologia  ufficiale del tempo, e dai contatti coltivati con pastori protestanti;  in quegli anni simili aperture erano viste come indice di debole  ortodossia.
4. La corresponsabilità dei cristiani laici.  E' stata largamente accolta nelle costituzioni conciliari " Gaudium et  spes" e " Lumen gentium" per quanto riguarda, rispettivamente, gli  aspetti "ad extra" e " ad intra" la cittadella ecclesiale. Su questi  temi don Primo trovò grande sintonia con G. Lazzati che fece della  promozione laicale un "leitmotiv" della sua alta testimonianza. E'  significativo che don Mazzolari abbia collaborato col quotidiano  cattolico milanese "L'Italia" quando Lazzati faceva parte della  direzione del giornale. La stessa fondazione di "ADESSO" - e le  battaglie condotte per la sua sopravvivenza - avvenne per realizzare  una palestra di quella formazione socio-politica che doveva preludere  all'assunzione diretta di responsabilità sociali da parte di laici  evangelicamente ispirati.
 Non dimentica la parrocchia don Primo e  segue attentamente l'involuzione che - a suo parere - stava avvenendo  nell'organizzazione laicale dell'Azione Cattolica; si legge su "ADESSO"  del 1958:" L'invito del Pontefice ai laici perché escano dal loro stato  di minorità è sistematicamente dimenticato proprio da coloro che  dovrebbero esserne i più fedeli interpreti: clero ed Azione Cattolica".
  Vivendo intensamente l'esperienza parrocchiale e scrivendone  ripetutamente, fa della parrocchia la "casa dell'anima" e la vede "come  base di un rinnovamento della vita religiosa". Essa è la cellula della  Chiesa. Al suo interno vanno superati i pericoli di clericalizzazione  del laicato che paventa come una sterilizzazione del tessuto  ecclesiale. Scriveva: "Dalla parrocchia devono transitare le grandi  correnti del vivere moderno, non dico senza controllo, ma senza pagare  pedaggi umilianti e immeritati".
 Nel 1938 don Primo pubblicava una  cinquantina di pagine sul problema dei "lontani" dedicandole "Alle  anime sofferenti e audaci". Non piacque il titolo e ancor meno i motivi  che a parecchi parvero temerari. Vent'anni dopo si teneva presso  l'Università Cattolica la settimana nazionale d'aggiornamento pastorale  dedicata a "La comunità cristiana e i lontani" e l'analisi di vent'anni  prima ("L'animo di colui che se ne va"- "Il metodo di conquista"-  "Verso il mondo dei lontani" - "Il compito dell'intelligenza") fu  considerata ancora attuale.
 La preoccupazione per i cosiddetti  "lontani" e lo sforzo di ricerca di un dialogo con essi fu una costante  nella riflessione di don Primo, come testimoniano le pagine di "ADESSO".
5. La scelta dei poveri  fu in realtà, per don Primo, una condivisione delle condizioni di vita  dei suoi parrocchiani, in gran parte agricoltori. Egli conobbe bene le  condizioni di povertà del bracciantato agricolo fra le due guerre e  reclamò ripetutamente e a gran voce maggior giustizia sociale per  coloro che conservavano sempre la dignità di persone anche  nell'indigenza. In questo "milieu" nacque e si sviluppò la sua grande  passione sociale e politica sempre illuminata dalla Parola rivelata.  Com'è noto, buona parte della "Gaudium et spes" affronta queste  complesse tematiche che hanno indotto molte Chiese locali - come le  comunità latino-americane - alla scelta radicale a favore dei poveri;  analogo, rivoluzionario passo è stato compiuto da Ordini,  Congregazioni, Istituti, Famiglie religiose sia di lunga tradizione (si  pensi ai Gesuiti) che di più recente costituzione. Scriveva don Primo: "  Occorre un grande amore per comprendere i poveri, per rinunciare a  giudicarli. Dove non c'è amore il di più non c'è; dove c'è tanto amore  tutto è di più, anche la propria vita. Chi ha poca carità vede  pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna  carità non vede nessuno. Per impedire ai poveri di disperare basterà la  parola pazienza? Senza una carità folle non si salva il mondo. Il mondo  attende una nuova Pentecoste".
6. L'utopia della pace: " Pace nostra ostinazione".  Quante volte sono apparse queste tre parole sulle pagine di "ADESSO"!  Tuttavia è singolare il percorso intellettuale e spirituale che don  Primo fece a riguardo. Fu cappellano militare nella 1° guerra mondiale,  interventista convinto, inizialmente persuaso che i travagli  dell'umanità potessero essere risolti con lo scontro armato. Così  pensando pagava un debito alla cultura ufficiale post-risorgimentale  che permeava le nostre scuole e che vedeva nel compimento dell'unità un  imperativo categorico. Ma gli bastò l'esperienza sul fronte e fra i  reduci nel primo dopo-guerra e,successivamente, il dover respirare  l'atmosfera falsa e bellicosa della prepotenza fascista, ed ancora,  l'avventura della 2° guerra mondiale, per arrivare a condannare ogni  guerra e scrivere, nel 1955, quel "Tu non uccidere" che fu per lungo  tempo una delle più forti prese di posizione antimilitaristiche.  Scriveva: "Per un cristiano il far morire è il colmo dell'atrocità. Ove  comincia l'errore, l'iniquità, cessa la santità del dovere...incomincia  un altro dovere: disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio".
7. L'orizzonte planetario.  Don Primo anche se vive tutta la sua vita confinato fisicamente entro  il mondo agricolo della "bassa" padana, spiritualmente vive - anzi,  anticipa con le sue intuizioni - la stagione nuova della Chiesa  "percorrendo le strade di un paese, ma quel paese è uno spicchio di  universo". Lungi da lui un'ottica provinciale,percepisce l'accorciarsi  delle distanze sotto la spinta delle nuove vie di comunicazione e dello  sviluppo di processi decisionali sovraregionali sempre più  interconnessi, anche se tutt'altro che unitari. E' l'intuizione del "  villaggio globale",dell'"uomo planetario" come dirà vent'anni dopo p.  E. Balducci che investigherà a fondo questi temi con altro approccio ed  altre finalità. In Mazzolari la prospettiva d'impegno è locale, mentre  l'orizzonte intellettuale e spirituale è globale: un'ottica che è  pressoché coincidente con quella dell'Associazione " G. Lazzati".
  E' una notazione che dice, anche da questo versante, l'attualità di don  Primo. Per cui il nostro andare a Bozzolo è stato - oltre che una  riscoperta - un segno di gratitudine verso colui che è stato, ed è  tuttora, punto di riferimento per chi fa della fede cristiana un  impegno di vita.        
L'OPINIONE DELLO STORICO E IL SUGGELLO DEL CARD. C. M. MARTINI
Molti storici hanno studiato, e stanno ancora vagliando, l'opera di don  Mazzolari nei suoi molteplici aspetti. Don Lorenzo Bedeschi, storico  all'università di Urbino, ha riferito di recente (1990) sull'attività  giornalistica di don Primo, come si è manifestata sulle pagine del suo  giornale. Riportiamo le conclusioni di quel lavoro come le ha espresse  G. Vaggi, primo direttore del giornale: "ADESSO" ha rappresentato senza  dubbio una voce originale ed inconsueta, voce impastata di passione  cristiana e civile, di laicità schietta e di dialogo con le sinistre,  di ostinato pacifismo e di sofferta lealtà evangelica. La pur cospicua  componente polemica con quelli di casa non esauriva affatto la  posizione di Mazzolari, benché abbia avuto una parte importante come  parte critica nella linea di "ADESSO".
 Vi si legava  indissolubilmente una parte costruttiva che nella chiesa preconciliare  diventava il vero nocciolo di aggregazione ideale per quanti non si  riconoscevano nè nell'anticomunismo borghese,nè nell'associazionismo  cattolico integrista,poichè cercavano un servizio responsabilmente  libero. Suo grande assillo era di allarmare e di inquietare onde  impedire la chiusura del mondo cattolico e delle sue meravigliose forze  in un ghetto di marca clericale e falangista, senza alcun pregiudizio  ed avversione per chicchessia, senza alcuna condanna dell'uomo onesto e  sincero". Dopo le solenni parole di ben tre pontefici su Mazzolari  -sopra riportate anche se datate- vi è stato molto di recente (aprile  '99) il ricordo del card. C.M. Martini che appare come il commosso  suggello di un vescovo alla tormentata vita di un prete idealmente suo:  "Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di  Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di  cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli di  "ADESSO". Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del  Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei  tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri,  rispettò gli increduli, ricercò ed amò i lontani, visse la tolleranza  come imitazione dell'agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio  prezioso anche per l'oggi".
(da Impegno cristiano, dicembre 1999, anno XIX n° 42)
Ahimsa: il sentiero della  nonviolenza 
di Thich Nhat Hanh
di Card. Aloísio Lorscheider

Il giorno in cui nasciamo, cominciamo a invecchiare. Il tempo passa; solo l’eternità non passa. Il tempo che ci è dato deve essere impiegato bene per il servizio di Dio e del prossimo. Anche l’età anziana è chiamata a portare i suoi frutti.
Il cardinale Aloisio Lorscheider, ofm, arcivescovo emerito di Aparecida (Brasile), giunto ormai all’età di 82 anni, essendo nato l’8 ottobre 1924, riflette sul significato dell’età anziana, proponendo alcuni spunti che qui riprendiamo.
Il 27 giugno 2005 Troyes ha reso omaggio solenne a Rashi, figlio del paese. Col suo irraggiamento fu il professore di quasi tutti i sapienti dell'Europa del Nord, ebrei e cristiani, e i suoi lavori hanno rinnovato profondamente il modo di interpretare i testi fondamentali.
di Madeleine Scodello
Un vangelo apocrifo di recente pubblicazione fa di Giuda il contrario dell’apostolo traditore al quale i Vangeli canonici ci hanno abituati. Come ha potuto questo testo di ispirazione gnostica arrivare a un tale capovolgimento?
Si tratta di un manoscritto di una quindicina di foglietti di papiro, scritto in copto, la lingua parlata in Egitto nei primi secoli dell’era cristiana: il Vangelo di Giuda. Ritrovato nel Medio-Egitto (e non si sa esattamente dove) negli anni ’70 e in seguito inaccessibile, è stato ora messo a disposizione dei ricercatori. Il testo appartiene a un codice composto di quattro trattati di contenuto religioso, che risale al sec. IV (la datazione è confermata dall’analisi al carbonio 14), denominato “codice Tchacos”, dal nome dell’antiquario svizzero Frieda Tchacos, che lo acquistò nel 2000, dopo una serie di transazioni commerciali. Ma il codice aveva in precedenza subito gravi danni, dovuti in larga parte all’incuria dei venditori di antiquariato. Affidato da Frieda Tchacos per il restauro alla fondazione svizzera Maecenas, il prezioso codice ha trovato nuova vita grazie alla competenza degli specialisti, fra cui il professor Rodolphe Kasser, dell’università di Ginevra, che hanno proceduto alla difficilissima ricostruzione.
Generalmente le scoperte archeologiche e i ritrovamenti di testi molto antichi non sollecitano a tal punto l’attenzione del grande pubblico. Tuttavia la storia avventurosa di questo manoscritto si prestava bene a costruire un romanzo a effetto, in cui sono stati spesso confuse, se si legge la stampa internazionale, le peripezie moderne di un testo di grande valore con i danni che esso aveva certamente subito in tempi antichi.
Come catalizzatore ha agito il titolo del trattato. Un vangelo attribuito a Giuda, il traditore per eccellenza, conteneva in sé una contraddizione: il termine vangelo, in greco “buona notizia”, è inestricabilmente legato alla storia di Gesù, riferita dai quattro evangelisti, le cui opere costituiscono una parte del Nuovo Testamento. Ma come spiegare l’esistenza di un vangelo attribuito a colui che consegnò Gesù, rompendo il vincolo di fedeltà con lui e con la comunità degli apostoli?
Il Vangelo di Giuda evidentemente non è stato scritto da Giuda al tempo della vita di Cristo. È un apocrifo, cioè un testo che il suo autore, anonimo, ha attribuito a Giuda, per mettere il suo scritto sotto il patronato di una figura autorevole, anche se è quella di un personaggio negativo.Questo procedimento di attribuzione fittizia di un testo, già conosciuto nell’antichità greco-romana, è stato sovente impiegato da autori ebrei e cristiani che hanno attribuito i loro scritti a figure mitiche (Adamo, Set, Enoch) o a personaggi dell’ambiente di Gesù.
Ciò tuttavia non toglie nulla all’originalità del testo, né al suo interesse. Il Vangelo di Giuda appartiene con assoluta evidenza alla sfera d'influenza della gnosi. Alla fine del sec. II, Ireneo, vescovo di Lione e confutatore delle dottrine gnostiche, menziona un “vangelo di Giuda” che circolava in un gruppo di gnostici, detto “cainita”, che aveva in grande stima Caino (Contra haereses I, 31, 1). Questo vangelo era scritto sicuramente in greco, la lingua nella quale Ireneo aveva composto la sua opera polemica.
Il manoscritto copto del Vangelo di Giuda, più recente di due secoli, è la traduzione di un testo scritto in greco, attestata dalla presenza nel testo copto di termini tecnici teologici e filosofici. Il testo greco, perduto, deve essere stato composto durante il II secolo, come si può supporre dal contenuto del trattato. Si tratta allora di quello ricordato da Ireneo? L’ipotesi è verosimile, anche se i testi potevano subire modifiche e riscritture nel passare di mano in mano.
Il Vangelo di Giuda nel contesto dello gnosticismoIl Vangelo di Giuda elabora una serie di temi e motivi gnostici, sia dal punto di vista della forma che da quello del contenuto.
Non è un vangelo nel senso che si dà ai vangeli canonici: narrazioni fatte da un apostolo, il cui scopo era di trasmettere il messaggio di Cristo e di raccontare gli eventi della sua vita. È invece un vangelo come lo intendono gli gnostici e nella tradizione di quelli che sono stati trovati a Nag Hammadi: vangeli che si focalizzano su un episodio, situato prima o dopo la Resurrezione, in cui Gesù rivela parole segrete ai suoi discepoli o, più spesso, a uno di essi. Tali parole cariche di mistero non possono essere rivelate che a un circolo ristretto di iniziati.
Nel Vangelo di Giuda l’insegnamento segreto di Cristo è inserito in un dialogo con i discepoli, tre giorni dopo la celebrazione della Pasqua, e che si prolunga per una settimana (33,1-4). Se le domande poste dai discepoli, e in particolare da Giuda, sono brevi, le risposte sono lunghe e costituiscono delle esposizioni dottrinali svolte bene e sulle quali dobbiamo ritornare per individuarne il contenuto.
I discepoli scelti dagli gnostici come depositari delle parole di Gesù non sono quelli che la tradizione della Chiesa ufficiale ha messo in valore. Sono invece delle figure relegate in secondo piano, come Filippo, Tommaso, Giacomo o Maria Maddalena, che ritrovano nella letteratura gnostica tutto il loro splendore.
La struttura dialogica non è propria solo a questo nuovo vangelo: la si ritrova a più riprese nella letteratura gnostica. Il Vangelo di Tommaso (Nag Hammadi, codice II, 2), la Sapienza di Gesù Cristo (Nag Hammadi, II, 4 e il papiro di Berlino 8502, 3), il Dialogo del Salvatore (Nag Hammadi, V, 3) o il Vangelo di Maria [Maddalena] (papiro di Berlino, 8502, 1) ne sono alcuni esempi. Il dialogo è anche presente in alcuni trattati di Nag Hammadi che hanno il titolo di “apocalisse” (in greco, “rivelazione”), per esempio le Prima Apocalisse e la Seconda Apocalisse di Giacomo.
Generalmente in questi dialoghi di rivelazione un discepolo si distingue sempre dagli altri ed è messo in evidenza per la sua comprensione del messaggio di Cristo, la sua capacità di porre domande giuste e poi di comprendere l’insegnamento. È il caso di Giuda nel vangelo omonimo. Le prime parole che rivolge a Gesù in forma di affermazione (“Io so chi tu sei e da dove sei venuto, Tu provieni dal regno immortale di Barbelo [entità femminile uscita da Dio in certi sistemi gnostici]” 35, 20-21) gli conquistano subito la considerazione del Cristo che gli risponde: “Allontanati dagli altri e ti dirò i misteri del Regno” (35, 23). A suo confronto gli altri apostoli non fanno bella figura, sono persino ripresi varie volte da Gesù, che rimprovera loro duramente la scarsa comprensione. Essi, anche se pensano di aderire alla verità rivelata dal Cristo, non si sono in verità distaccati dalle loro vecchie credenze e continuano a onorare il creatore del mondo, il demiurgo inferiore (34, 10-13). Se pretendono di conoscere chi è veramente Gesù, si ingannano, come lui stesso fa loro osservare con durezza: “Come mi conoscereste? Ve lo dico in verità, nessuna generazione di coloro che sono tra voi sarà in grado di conoscermi” (34,13-15). Gli apostoli saranno allora presi da collera, una collera che denota la loro schiavitù al demiurgo. La loro incapacità di “stare dritti” davanti al Signore (espressione che indica come l’uomo abitato dallo spirito è capace di elevarsi verso la conoscenza, di tenersi in una posizione eretta, grazie al suo intelletto, cosa che lo distingue dagli animali), contrasta con l’atteggiamento di Giuda che, solo, sta davanti a Gesù anche se non osa guardarlo negli occhi (35,23). Per questo sarà degno di ricevere la rivelazione dei misteri del regno.
Il Dio trascendente e il demiurgoIl Vangelo di Giuda trasmette temi e motivi che si radicano nella dottrina gnostica e che possono ricevere luce da una lettura comparata con i testi di Nag Hammadi.La ricerca su questo nuovo trattato è ancora agli inizi, ma si possono indicare alcune linee di interpretazione.
La teologia del Vangelo di Giuda è costruita sull’opposizione fra il Dio trascendente e perfetto e un demiurgo, responsabile di una creazione difettosa, che egli ha realizzato imitando maldestramente il mondo divino. Il Dio trascendente è chiamato il Grande Spirito divino (47, 86). Il suo regno è senza limiti (ibid), eterno (45, 79), abitato da entità celesti da lui chiamate all’esistenza e da santi angeli (47,84-99). Le note sintetiche con le quali l’autore del vangelo descrive l’entità suprema trovano punti di confronto in trattati di Nag Hammadi, che presentano complesse esposizioni sulla trascendenza divina al modo della filosofia del medio platonismo, la corrente di pensiero che fiorì nel II secolo e che ha influenzato profondamente gli gnostici.
Subordinato al Grande Spirito invisibile si trova l’Autogenerato (46, 92). Adamas (48, 99), figura primordiale che preannuncia l’Adamo terrestre, si manifesta anch’esso, seguito da Set (48, 101), figura di riferimento, prototipo in certi ambienti gnostici di colui che possiede la conoscenza.
Il Dio supremo non ha svolto alcun compito nella creazione del mondo e dell’uomo. Il cosmo, chiamato anche “perdizione” (50,106), dipende da una entità chiamata El (51, 109), che chiama dodici angeli per regnare sul caos. Fra essi si distingue Nebro, “il ribelle” dal volto di fuoco e di sangue. Anche Saklas fa la sua apparizione. L’uno e l’altro sono accompagnati da accoliti che, pur se ricevono il nome di angeli, sono in realtà dei demoni.
Tutti i nomi trovano paralleli nei testi mitologici della gnosi o designano il demiurgo. Il nome El è con tutta evidenza un riferimento polemico al Dio della Bibbia (probabilmente una abbreviazione della parola ebraica Elohim che significa Dio; d’altronde “el” è il suffisso di divinità nei nomi degli angeli), al quale gli gnostici attribuiscono la creazione imperfetta del mondo.
A costui succede la creazione dell’uomo operata da Saklas e dai suoi angeli cattivi. Eva e Adamo vengono alla luce come creature legate alla catena della vita e delle generazioni (52,117-119). Questo tema centrale dell’antropologia gnostica, elaborato dettagliatamente da certi trattati di Nag Hammadi, è soltanto sfiorato nel Vangelo di Giuda, dato che probabilmente i suoi lettori conoscono altri opere che trattano l’argomento.
Adamo è sottomesso agli dei del caos che lo hanno creato. Tuttavia il Dio trascendente gli ha trasmesso, come anche ai suoi discendenti, la conoscenza, affinché gli “dei del caos e del mondo sotterraneo non abbiano potere su di lui” (54,126-128). L’autore del vangelo non si dilunga su questo punto, ma altri pensatori gnostici lo hanno fatto con dovizia. Anche nella decadenza della sua condizione umana, e pur essendo asservito ai suoi creatori, Adamo conserva una particella di conoscenza, che i suoi carcerieri non possono afferrare. Grazie ad essa egli potrà ritornare a Dio. Poiché lo spirito, l’anima vengono da altrove, il demiurgo si è limitato a fornire ad Adamo e ai suoi discendenti di un soffio di vita (53, 121-124)
Che ne è dunque del corpo? Il Vangelo di Giuda affronta tale problema in maniera sorprendente e drammatica, facendo sua la dottrina gnostica che concepisce il corpo come una prigione di tenebre nella quale lo spirito dell’uomo soffoca e, inebriato dal male e dalle seduzioni della carne, dimentica la sua vera origine. Il tema del corpo-prigione (di origine platonica) ha nutrito pagine e pagine della letteratura gnostica, di un pessimismo esacerbato ma di grande bellezza poetica.
Giuda o la fedeltà assolutaQui è posto in primo piano il corpo di Gesù, che può raggiungere la conoscenza suprema solo attraverso il suo annientamento. Così Gesù dice a Giuda: “Tu le sorpasserai tutte (intendiamo, le potenze negative dell’universo). Perché tu sacrificherai l’uomo che mi riveste” (56,136).. Si tratta del corpo carnale, dell'involucro, del vestito, secondo altre metafore correnti nei documenti gnostici, che, su invito espresso di Gesù, Giuda deve sacrificare. Così l’atto del tradimento supremo di Giuda nei confronti di Gesù è riletto, in una sconvolgente re-interpretazione, come l'atto di fedeltà assoluta del discepolo più amato a causa della sua capacità di conoscenza.
Sotto questa interpretazione troviamo la teoria del Cristo come entità divina pre-esistente. Il Cristo è un essere celeste che, secondo certi gnostici, non ha rivestito che un corpo apparente, e dunque non ha potuto soffrire la sua Passione. La sua uccisione, le sue sofferenze sulla croce non sono state che una finta di fronte alle potenze dominatrici del mondo, per convincerle di aver avuto causa vinta (temi elaborati per esempio nell'Apocalisse di Pietro di Nag Hammadi).
Nel Vangelo di Giuda, tuttavia, la prospettiva è un po' diversa: Gesù, come ogni individuo ha un corpo di carne che gli appartiene durante il periodo di vita sulla terra. Il suo ritorno al mondo divino avrà luogo dopo che avrà lasciato questo peso che gli è fondamentalmente estraneo.Giuda è il mezzo mediante il quale questa liberazione si realizza. Siamo qui ben lontani dall'atto di tradimento in cambio di un po' di denaro che ci viene narrato nei Vangeli canonici. Qui la consegna da parte di Giuda è una messa in scena decisa dallo stesso Gesù, cosciente, secondo il trattato, del peso di maledizione che peserà allora sulle spalle di Giuda : “Tu sarai maledetto dalle altre generazioni” (46,83). Maledetto agli occhi del mondo, ma Giuda riceve però una ricompensa immediata per la sua fedeltà: Gesù lo invita ad alzare gli occhi e a contemplare una nube di luce circondata di stelle. La stella più splendente è quella dell'apostolo (57,141-144).
Come spiegare questo rovesciamento totale della figura di Giuda in rapporto alla tradizione evangelica in un testo del II secolo, tradotto, e dunque letto, nel IV secolo dagli gnostici stabilitisi in Egitto? In alcuni estratti trasmessi dai Padri della Chiesa certi gnostici tendevano a rivalutare figure considerate come negative dalla Bibbia, fra cui Caino e gli abitanti delle città maledette, Sodoma e Gomorra. Ciò si spiega con il rifiuto della figura del demiurgo, divenuto ai loro occhi un dio cattivo, al quale questi personaggi, individui e collettività, avevano disobbedito.
Da questo punto di vista Giuda diventa dunque il simbolo di una resistenza esacerbata contro la Grande Chiesa che presto trionferà delle dissidenze nate nel suo seno.
(da Le monde des religions, 18, pp. 6-10)
Ricercatrice al CNS, Parigi IV - Sorbonne, dottore in lettere dell'università di Torino.
Ultimo libro pubblicato: Femme, gnose et manichéisme. De l'espace mythique au territoire du réel (éditions Brill, 2005)