Religioso Marista
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Le Chiese dell'oriente cristiano
Le chiese ortodosse autocefale
di Mervyn Duffy
Ci sono tredici chiese ortodosse generalmente riconosciute come “autocefale”, che in greco significa “con un proprio capo”. Una chiesa autocefala possiede il diritto di risolvere tutti i problemi interni con la sua autorità ed è abilitata a scegliere i propri vescovi, incluso il Patriarca, l’Arcivescovo o il Metropolita che è a capo della chiesa. Mentre ogni chiesa autocefala agisce indipendentemente, essa rimane in piena comunione sacramentale e canonica con tutte le altre.
Oggi queste chiese ortodosse autocefale includono i quattro antichi patriarcati orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), esistono poi dieci altre chiese ortodosse emerse nel corso dei secoli in Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, e nelle repubbliche Ceca e Slovacca. Di sua iniziativa, il patriarcato di Mosca ha concesso lo status autocefalo a molte delle sue parrocchie nordamericane sotto il nome di Chiesa Ortodossa in America. Tuttavia, poiché il Patriarcato di Costantinopoli reclama il diritto esclusivo a concedere lo status autocefalo, esso e molte altre chiese ortodosse non riconoscono l’autocefalia della Chiesa americana.
Nove di queste chiese autocefale sono patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia. Le altre sono guidate da un arcivescovo o da un metropolita.Perché riviva il Vaticano II
di Marcelo Barros
L’8 dicembre 1965, in piazza San Pietro, a Roma, una solenne santa messa celebrata da Papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II. Dopo la celebrazione eucaristica, il pontefice benedisse la prima pietra di una chiesa romana dedicata a Maria, Madre della Chiesa, che sarebbe servita da memoriale del Concilio. Sempre in quell'occasione, dopo aver inviato "al mondo" una lunga serie di messaggi. il Papa consegnò a mons. Felici il breve con cui chiudeva ufficialmente la grande assise. Nel discorso di chiusura, il Papa affermò: «Il culto di Dio che si è fatto uomo è andato incontro al culto dell'uomo che si è fatto Dio». Quale perfetta descrizione del mistero del Natale, che si sarebbe celebrato di lì a poche settimane!
Oggi, a 40 anni esatti da quella data, molti cristiani propongono la celebrazione di un nuovo concilio. Essi sono convinti che occorra rilanciare l'opera allora iniziata ma - è questa la loro opinione - sfortunatamente interrotta e messa da parte agli inizi degli anni Settanta. E spiegano: mentre la società civile è alla ricerca di un nuovo mondo possibile, le comunità cristiane hanno il diritto di sperare in una chiesa "sempre rinnovata", capace di essere la profetica anticipazione di una umanità più giusta e fraterna.
il deposito della fede e la formulazione in cui esso è espresso. Pertanto, egli varò il Concilio sulla base di tre grandi intuizioni: apertura al mondo con-temporaneo. vocazione ecumenica e opzione per i poveri».In verità, l'invito rivolto alla chiesa di diventate “chiesa dei poveri" fu più volte udito nel corso dei lavori conciliari, ma non li recepito e sviluppato. Sarebbe per lo più servito. alcuni anni dopo. a convincere i poveri del Terzo Mondo che la chiesa non sarebbe mai stata profondamente evangelica, se non avesse accettato la proposta formulata nel corso della Seconda Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellin (1968): «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa autenticamente povera, missionaria, pasquale, spoglia di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli esseri umani e di tutto intero l'essere umano» (Medellin 5,15a).
Va da sé che questo cammino fu reso possibile dal fatto che il Concilio aveva sottolineato il carattere locale della chiesa. Si disse che la chiesa locale o particolare altro non è che la chiesa universale che si «ha evento In un luogo determinato. Di recente, la Federazione dei vescovi cattolici dell'Asia, nel 'documento di sintesi preparato in occasione del Sinodo per l'Asia e intitolato Ciò che Lo spirito dice alte chiese, ha affermato: «La comprensione che la chiesa ha di sé stessa è di essere veramente chiesa locale, incarnata in un popolo, autoctona e inculturata. Essa è il corpo di Cristo fitto reale e incarnato in un popolo particolare, nel tempo e nello spazio». La chiesa universale è più che una somma di chiese: essa è la comunione delle chiese locali.
Organismi ecumenici e comunità ecclesiali di base sono oggi convinti che è urgente iniziare un processo conciliare che ponga la chiesa in costante stato sinodale, cioè di dialogo e di ricerca comune. Quando Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica attraversava un periodo di estrema chiusura istituzionale e di rigidità dottrinale. Nel frattempo, però, a partire dell'inizio del secolo XX, anche se sospettati e messi sotto accusa dalla curia vaticana e dalla maggior parte dei vescovi, erano sorti il movimento biblico, il movimento delle comunità di base e altri ancora. Per decenni e superando molte difficoltà, questi movimenti, formati da laici, sacerdoti e religiosi, avevano aiutato le comunità locali a crescere. Benché quasi relegate nella clandestinità, furono proprio queste nuove realtà ecclesiali vive a offrire alla chiesa tutta una base teologica e una spiritualità nuove che avrebbero trasformato l'evento Concilio in una vera e propria primavera per tutta la comunità cattolica.
Quella primavera non deve finire. Essa va rinnovata. Pertanto, mentre ci apprestiamo a celebrare il Natale di Gesù Cristo - il mistero in cui «il culto di Dio che si è si è fitto uomo va incontro al culto dell'uomo che si è fitto Dio» - dobbiamo desiderare ardentemente anche un nuovo natale della chiesa. Pronti anche ad andare «contro corrente" e contro l'oscurità della notte. Perché solo così si può accelerare il ritorno dell'aurora.
(da Nigrizia, dicembre 2005)
“Il pensiero di Cristo”:
la conoscenza mistica
nelle "Centurie gnostiche"
di San Massimo Confessore
di Vladimir Zelinskij
“Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture...” (Lc.24, 45)
San Massimo il Confessore, “il genio della sintesi” secondo l’espressione di Harnak, “il modello esemplare per una nuova era” (1), come lo chiama lo studioso moderno W. Völker, ha creato il ponte fra l’eredità patristica dei primi cinque secoli e lo sviluppo teologico delle epoche successive. Nel suo pensiero la fedeltà assoluta ai predecessori va insieme con l’originalità non meno assoluta del suo spirito creativo. E fra le sue numerose opere le “Centurie gnostiche” sono ritenute da un teologo di statura come Hans Urs von Balthasar “ciò che di più significativo noi possediamo dalla penna del Confessore”. (2) Ma, forse, anche ciò che vi è di più difficile, come già faceva notare il patriarca Fozio.
Ma che cosa sono le “Centurie”? Un mosaico di sentenze sparse, con la loro ricchezza stupenda di colori, di sfumature, di incisioni del pensiero, ma con una struttura irreperibile? Un albero di duecento rami, con foglie che mantengono tutta la loro freschezza spirituale ed intellettuale, ma con la radice, che dà la vita a tutto, nascosta? La forma aforistica, abbastanza tradizionale, che Massimo ha recepito dal suo maestro Evagrio, ha una somiglianza soltanto esteriore con le opere analoghe dei suoi predecessori: né in Evagrio, né in nessun altro troviamo questa stupenda confusione di generi. Infatti, nei “Duecento capitoli sulla conoscenza di Dio e sull’incarnazione di Cristo” (un altro titolo delle “Centurie gnostiche”) la teologia non si separa dall’amore alla sapienza, il trattato gnoseologico dalla poesia del pensiero, e il concetto dall’allegoria e dalla contemplazione.
Questa originalità del genere letterario proviene da un carattere esistenziale dell’opera massimiana: qui non si tratta della dottrina cristologica nel senso stretto e preciso, ma - diciamo in modo metaforico – dell’“inabitazione” nel pensiero imbevuto dalla preghiera davanti al mistero aperto e rivelato del Dio Vivente. Questo mistero agisce nell’essere umano, e noi siamo chiamati dal nostro autore ad essere non soltanto testimoni di questa “inabitazione”, ma anche gli ospiti invitati a condividere il suo spazio spirituale. Quando entriamo in questo spazio, sembra di sentire il battito del cuore, mentre il pensiero prega nella contemplazione.
Ma dalla densità esistenziale nasce anche la difficoltà del testo: esso non è scritto come sistema logico e coerente, e neanche come codice segreto da decifrare per ricostruire il senso celato, ma è come un cammino che, già battuto, ogni lettore deve fare proprio sulle tracce del santo pensatore, diventando discepolo alla scuola della sua fede. E il cammino si ripete in quasi tutte le duecento stradine che portano alla stessa meta: la vita nella Parola di Dio, che è – secondo le parole di s. Massimo - “rugiada, acqua, fonte e fiume” (Centurie, II, 67), ma altresì “via, porta, chiave e regno” (II, 69) nascosti nel cuore umano; il lettore è in tal modo condotto a quel “Verbo-pensiero”, che nasce nell’uomo e lo santifica.
Come avviene questa nascita? Il capitolo 83 della seconda “Centuria” dice:
“Il pensiero di Cristo che i santi ricevono secondo il detto ‘Noi abbiamo il pensiero di Cristo’, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettiva, né come completamento del nostro pensiero, ma come illuminando mediante la propria qualità la potenza del nostro pensiero e portandola alla sua stessa operazione. Anch’io, infatti, dico di avere il pensiero di Cristo, che pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte cose”. (3)
Così san Paolo, alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1 Cor.2,16), “Nos autem sensum Christi habemus”, secondo la Vulgata. Qui in un attimo, come è spesso da Paolo, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il “pensiero di Cristo” (νουν Χριστου), il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso, significa che il nostro intelletto e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori” (Ef.3,17) abbiano qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama lo Spirito Santo. “Conformando l’operazione intellettiva umana a quella di Cristo, lo Spirito Santo mette l’anima in grado di conoscere per oscura, intima esperienza mistica Colui nel quale si concentra la contemplazione del Cristo: il Padre... Lo Spirito Santo, che scruta la profondità di Dio comunica al credente il mistero di Dio che non può essere scrutato da nessun intelletto umano, lo rende partecipe – attraverso la fede – della conoscenza che Cristo ha del Padre”. (4)
Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano, che è stata data all’apostolo dei pagani, trova il suo sviluppo nella teologia di Massimo il Confessore, teologia costruita alla scuola dello Pseudo Dionigi, ma anche dell’esegesi di Filone d’Alessandria e di Origene. Da tutta questa eredità il Confessore è riuscito a creare una sintesi completamente originale ed organica. Il suo “pensiero di Cristo che ricevono i santi” si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).
“Il pensiero di Cristo... non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos, in altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo Basile Osborn, la sua “struttura interiore”. Ma, come sappiamo, il simile è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé l’immagine di lui, che è capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo”: con il “pensiero di Cristo” pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato, né con i sensi, né con l’intelletto.
“Ogni pensiero è proprio di chi pensa e di chi è pensato, ma Dio non appartiene né alla categoria di chi pensa, né di chi è pensato: infatti è superiore a queste”, dice s. Massimo (II, 2), poiché il nostro intelletto - pensando – sottopone Dio alle condizioni delle cose che appartengono all’intelletto stesso, cioè limitate. Dio non può in nessun caso essere un soggetto del pensiero, ma nello stesso tempo può essere vissuto e “toccato” con la mente, il cui “logos” umano partecipa al Logos divino. L’essenza del divino è oltre qualsiasi atto della conoscenza; ma essa si lascia “spogliare” dall'illuminazione dello Spirito Santo, che si unisce all’intelletto. “Il pensiero di Cristo” si riempie con la forza illuminatrice dello Spirito che si comunica attraverso la fede in Cristo. In altre parole: il nostro pensiero con il suo logos partecipa, per la fede, al Logos divino e alla Trinità, ma anche a tutto il creato. Perché
“infatti la fede è una conoscenza vera che possiede principi indimostrabili (i logoi), essendo come sostanza (ipostasi) di cose superiori alla mente ed alla ragione” (I, 9).
La fede in Massimo è un organo della vera conoscenza delle cose, in cui i logoi, o “principi indimostrabili”, offrono (mediante la fede) “la prova delle cose, che non si vedono”, come dice la Lettera agli Ebrei (11,1).
Ma c’è un’analogia con la definizione paolina anche più profonda: la fede come conoscenza della “sostanza di cose superiori alla ragione” coincide – ciò che ha notato anche von Balthasar - con il fondamento delle cose che si sperano: la parola greca – ipostasis – è la stessa, ed anche il messaggio è quello di Paolo. La fede, che viene come dono, scaturisce della stessa dimensione divina che l’uomo porta in sé. (5) La capacità di credere, il dono della fede e l’ipostasi stessa della fede, logica massimiana, sono come “una cosa sola”, di cui l’immagine più incisiva è “il pensiero di Cristo”. In questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica; in questo pensiero siamo chiamati ad entrare, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.
“Il mistero dell’Incarnazione (letteralmente “incorporazione”) del Verbo ha la fede, forza di tutti i segreti e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili” (I, 66).
Il capitolo sull’Incarnazione, che ci introduce - secondo von Balthasar - nel santuario del pensiero di Massimo”, (6) serve da chiave alla pratica della sua conoscenza mistica. Il mistero dell’Incarnazione entra in ogni suo pensiero, in ogni immagine; si chiarisce nella profondità splendida dalla sua vita in Cristo.
Ma è davvero corretto, secondo l’essenza delle cose, parlare di mistero nei confronti di Colui che il profeta (Ml. 4,2) chiama, “Il Sole di giustizia” (I,12)? Di fatto in Lui s’incontrano la sostanza dell’inconoscibilità e l’essenza della luce; ciò che si cela, che sfugge all’occhio e ciò che si rivela a noi; ciò che non può essere visibile e ciò che è più reale di qualsiasi realtà terrena. La presenza di questo mistero, che si rivela in noi “nel pensiero di Cristo”, come in tutte queste immagini della Parola che troviamo nei Capitoli, mantiene il suo carattere paradossale. Infatti, nella logica delle “Centurie” si possono trovare due “teorie della conoscenza”: una areopagitiana, che insiste sull’inaccessibilità assoluta di Dio allo spirito umano; un’altra di radice origeniana ed evagriana, che sviluppa il proprio cammino verso Dio nell’abbandono di qualsiasi immagine e forma per accedere direttamente alla luce del Dio trinitario. Ma, come osserva Hans Urs von Balthasar, (7) una siffatta contrapposizione è artificiale: le due visioni provengono dallo stesso “mistero dell’Incarnazione” che, nella vita spirituale, si esprime attraverso la carità e la pratica dell’ascesi.
Questa pratica serve per la purificazione, ossia la liberazione del mistero dentro di noi, nascosto e incarnato nella sostanza dell’ipostasi della speranza. La liberazione del mistero significa la ricerca della sua trasparenza nel buio del nostro essere, il suo “sfaccettarsi” in immagini e concetti. I “Duecento capitoli” ci offrono, con particolare ricchezza, i simboli sfaccettati del cammino interiore dell’uomo verso il mistero di Cristo nascosto dentro lui. L’idea dell’ascetismo, tradizionale per l’Oriente cristiano, sotto la penna del Confessore si riveste della poesia biblica delle allegorie.
Ascetismo, secondo la tradizione patristica, è un ritorno a se stesso, alla propria natura creata da Dio, attraverso la purificazione del cuore e il rifiuto dei “movimenti innaturali dell’ira e della concupiscenza” (I, 16). L’uomo si purifica trattandosi come una pietra preziosa, liberando lo splendore interiore a lui proprio; così “chi risplende è ritenuto degno di riposare con il Verbo sposo nel talamo dei misteri” (I,16).
Il suo cammino spirituale, secondo i “Capitoli” di s. Massimo, ha due livelli. Il primo grado si acquista con il silenzio (ossia, il sabato) e con la circoncisione dell’anima (ossia, con la mietitura). Tutte queste figure hanno lo stesso significato di stadio iniziale della guerra contro le passioni e “l’assalto dei nemici invisibili”. Perciò il lavoro ascetico (spiegato da s. Massimo sulle tracce dei suoi grandi predecessori) precede sempre i frutti della conoscenza nello Spirito.
Il sabato nel suo sistema ha tanti significato, o piuttosto compiti che l’anima deve svolgere. Il sabato è l’attuazione di buone opere, ma anche il compimento della saggezza - che deriva dalla vita attiva - nella carità, il compimento della conoscenza, naturale e divina, dei logoi delle cose e del loro divenire; il sabato è il possesso del logos degli esseri, ma anche “l’imperturbabilità dell’anima razionale che secondo la vita attiva ha eliminato del tutto le tracce del peccato” (1,37).
Ma dopo essere ascesa al sabato, l’anima va avanti ed entra nel “sabato dei sabati”, nella circoncisione della circoncisione, nella mietitura della mietitura ch’è “la comprensione di Dio, a tutti inaccessibile, che sussiste in modo inconoscibile nella mente in seguito alla contemplazione mistica degli esseri intelligibili” (1,43).
La comprensione di Dio nella Sua incomprensibilità fa intravedere la Sua sapienza, scoperta anzitutto negli esseri, poi nella Sua propria sostanza inaccessibile, che può essere trovata, ma non toccata, vissuta, ma non posseduta, rivelata, ma non conquistata, perché “Dio dona senza fatica a noi, che non ce l’attendevamo, le sagge contemplazioni della sua sapienza” (I,17)... “Ora l’esperto asceta è un agricoltore spirituale, che trapianta - come un albero selvatico - la contemplazione delle cose visibili alla sensazione nella regione delle cose intelligibili, e trova il tesoro, cioè la manifestazione per grazia della Sapienza che si trova negli esseri” (I,17).
Ma l’anima dell’asceta che scopre la sapienza del “pensiero di Cristo” in sé (quel pensiero che abbraccia tutti gli esseri nella luce della grazia), l’anima che vive l’ineffabile esperienza della scoperta della propria vicinanza con Dio diventa - nel suo sabato mistico e silenzioso - il modello del cosmo in cui si riuniscono i “principi” di tutte le cose. “Riposo del sabato - dice il Confessore - è il totale incontro in Lui di tutte le creature” (I,47). E poco oltre ripete le parole del Libro della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto ed ecco andava molto bene” (I,57).
Il cammino delle “Centurie” ruota attorno alla sua scoperta di una bellezza ineffabile che non si lascia mai esprimere pienamente nelle parole o nelle immagini. Per questo esso crea tante immagini, tante parole, che cercano di raccogliere “il tesoro in vasi di creta” (2 Cor. 4,7), ossia i “beni della grazia” che si ricevono e si danno.
“Il pensiero di Cristo” è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale, o comunione della ragione (secondo il termine di Lev Karsavin), che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili ed invisibili, e “contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute” (Rom.1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito “che ci è stato dato” (Rom.5,5) o, se si vuole, nel “pensiero di Cristo che pensa Lui attraverso tutte le cose”.
Rileggendo i “Capitoli gnostici” e le altre opere di Massimo il Confessore si capisce ciò che dovrebbe essere la vocazione della filosofia cristiana. Non si tratta solo dell’insegnamento della sana dottrina, ma della cosa più essenziale: di ragionare nello Spirito, di creare la conoscenza a partire dalla propria vita spirituale. Infatti le “Centurie” portano in sé i semi delle grandi idee che avranno il loro sviluppo nella filosofia europea, anche più recente. Non riconosciamo forse nel concetto massimiano del “pensiero nudo”, “della mente spogliata” (I, 84) che percepisce Dio, l’intuizione fondamentale dell’“epoché” della fenomenologia husserliana? O nell’idea dell’essere che non può essere pensato, ma che si apre alla conoscenza negli esseri, la distinzione fra “das Sein” e “das Seiende” di Heidegger? O nell’immagine di Dio come Pensiero puro una certa eco della filosofia della religione di Hegel (“Dio stesso è secondo la sostanza il pensiero, dice Massimo...” (I. 82)? O nel concetto di due tipi della conoscenza ciò che diventerà quasi un luogo comune nella filosofia europea? E nella visione della “sapienza che si trova negli esseri” non c’è una radice della sofiologia russa? Anche il confronto spirituale dell’uomo con il suo proprio pensiero non è degenerato all’alba del razionalismo moderno nella solitudine metafisica del “Cogito ergo sum”?
Certo, c’è una differenza radicale fra la creazione del suo universo a partire dalla ragione pura e la scoperta del mistero della Parola fuori e dentro di noi. Il pensiero di s. Massimo non è teso a sviluppare un sistema segnato dalla coerenza intellettuale, chiuso ed autonomo, ma si trova in comunione permanente con la fonte che lo nutre. Esso aspira alla trasparenza assoluta dell’intelletto aperto ed illuminato dalla vita di Cristo, per cui la trasparenza del pensiero diventa la sapienza che porta in sé i logoi degli esseri. In tal modo la mente umana riesce ad “uscire dal ‘se stesso’, oltrepassare il pensiero, rimanere nel silenzio” (I,81) o, in altre parole, riesce a diventare il sacramento della conoscenza, la comunione dell’intero nostro essere alla “pienezza della divinità” che abita in Cristo (Vd. Col. 2,9)
“Chi ha imparato a scavare secondo i patriarchi mediante la vita attiva e contemplativa i pozzi che sono in lui della virtù e della conoscenza - dice s. Massimo (II,40) - vi troverà dentro Cristo fonte della vita, da cui la sapienza ci ordina di bere dicendo: ‘Bevi le acque dalle tue cisterne e dalla fonte dei tuoi pozzi’ (Prov.5,15). Facendo ciò, troveremo i suoi tesori che sono dentro di noi”.
Nella filosofia russa esiste il concetto della “conoscenza integrale”, che fa eco alla nostalgia, all’ideale impossibile, all’ideale perduto piuttosto che alla realtà della sapienza. Nel pensiero di s. Massimo questa conoscenza è pienamente realizzata, non soltanto nella genialità dell’intelletto creativo, ma nell’armonia di tutto l’essere umano in quanto tempio di Dio, in cui l’attività del pensiero si svolge come celebrazione liturgica, come offerta portata all’altare. La conoscenza integrale può nascere solo nell’uomo deificato, e le “Centurie” servono in questo caso anche come scuola pratica e spirituale della deificazione. Nella conoscenza integrale il corpo e la mente diventano lo strumento di Dio; e la parola umana che dà la sua carne alla parola di Dio e il pensiero completamente posseduto da Dio appaiono lavoro dell’intelletto che - nella luce dello Spirito - si trasforma nel pensiero di Cristo.
“Chi mediante la virtù e la conoscenza - dice s. Massimo nell’ultimo capitolo delle Centurie - ha armonizzato il corpo con l’anima, è divenuto cetra, flauto e tempio di Dio: cetra, perché ha custodito bene l’armonia delle virtù; flauto, perché ha accolto mediante la contemplazione divina l’ispirazione dello Spirito; tempio, perché è divenuto dimora della Parola mediante la purezza della mente” (II,100).
Note
1) Cfr. W.Völker, Maximus Confessore al Meister der geistlichen Leben, Wiesbaden 1965. In Massimo Confessore, Il Dio-uomo, a cura di Aldo Ceresa-Castaldo, Jaca Book, Milano, 1980, p. 15-16.
2) Hans Urs von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Welbild Maximus‘ des Bekenners, Zweite Auflage, Einsiedeln, p. 482; in Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 17.
3) Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 103.
4) Giuseppe de Gennari - Elisabetta S. Salzer, Letteratura mistica. San Paolo mistico, Libreria Editrice Vaticana, 1999, p. 203.
5) “Dio offre ai pii la capacità di credere e confessare la sua reale esistenza” (I,9).
6) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 628.
7) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 504.
L’anno liturgico celebra Cristo
di Francesco Pio Tamburrino
L’anno liturgico si presenta come il calendario di Dio, che fissa gli appunta,menti decisivi per la vita dei fedeli e apre loro le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti di Cristo Signore, così da renderli in qualche modo presenti in ogni tempo.
Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eb 13,8)
Le espressioni di cui si è servita la tradizione per indicare l’anno liturgico sono tutte cariche di riferimenti teologici: “anno del Signore”; “anno della redenzione” (cf. Lc 4,19-21); “anno della grazia” (cf. Is 61, 1-2);”anno di salvezza”. In filigrana, il riferimento di fondo è al mistero di Cristo, centro della storia di salvezza, al quale si riannoda, mediante il memoriale, il nostro tempo consacrato dalle celebrazioni della liturgia. “Le tappe dell’”anno di grazia” riflettono i momenti decisivi della realizzazione della nostra salvezza in Gesù Cristo. Nel suo svolgimento l’anno liturgico ci fa seguire il dispiegamento di tutta la ricchezza del mistero di Cristo (1).
La prima e più Importante nota teologica dell’anno liturgico è il riferimento a Cristo Signore. “L’anno liturgico non è un’idea, ma è una persona, Gesù Cristo e il suo mistero attuato nel tempo e che oggi LA Chiesa celebra sacramentalmente come “memoria”, “presenza”, “profezia” (2).
1. Mistero di Cristo
Il riferimento allo sviluppo storico dell’anno liturgico è particolarmente indicativo per cogliere la teologia che soggiace ad esso. Le scansioni celebrative sono nate nell’antichità cristiana da un unico centro vitale: il mistero pasquale. Il culto della Chiesa è nato dalla Pasqua e per celebrare la Pasqua nel “dies dominicus”. All’inizio della liturgia cristiana l’unica festa era la domenica, memoriale ebdomadario del grande giorno della resurrezione. Ben presto, i legami delle comunità cristiane con l’ebraismo hanno fatto organizzare una celebrazione annuale del mistero pasquale, che resterà il punto culminante dell’anno liturgico, come del resto lo fu di tutta la missione di Cristo nella sua morte e resurrezione.
Un po’ alla volta, intorno a questo centro salvifico, sotto l’esigenza di “storicizzare” il mistero pasquale, le celebrazioni si sono dilatate in un “triduo pasquale”, nella settimana santa. Dando luogo ai battesimi nella grande Veglia Pasquale, e organizzando la disciplina penitenziale nei “quaranta giorni” che precedono la Pasqua, ne è nata la Quaresima come forte periodo preparatorio alla Pasqua. Così pure, l’esigenza di accompagnare i neofiti in un itinerario di approfondimento dei sacramenti ricevuti ha prodotto un ulteriore ampliamento nella celebrazione della cinquantina pasquale, che si conclude con la Pentecoste. Lo sviluppo delle celebrazioni è fortemente unificato da quell’unico centro focale, che è la Pasqua di Resurrezione.
Si può dire che la genesi dell’anno liturgico non avvenne principalmente sotto la spinta del pensiero teologico, che pure si andava sviluppando e organizzando nelle dispute contro le tendenze ereticali. Le celebrazioni nascevano dalla percezione della “eccedenza” del mistero di Cristo. La ricchezza inesauribile di tale mistero, compresa anche, nelle sue molteplici sfaccettature, alla luce della historia salutis e dei Vangeli ha determinato l’espansione del mistero di Cristo su spazi sempre più ampi.
L’anno liturgico celebra essenzialmente Cristo, non solo nei due cicli “cristologici” per eccellenza (Natale e Pasqua) e nel proprio del tempo dall’Avvento alla Pentecoste, ma anche nelle feste della Beata Vergine Maria e dei santi. Il “santorale” infatti celebra lo stesso evento salvifico di Cristo, in quanto ricevuto dalle membra di cristo, visto cioè nei suoi frutti, realizzato nelle sue membra più perfettamente configurate al Cristo morto e risorto (3).
Dopo una eccessiva proliferazione di feste dei Santi e delle devozioni particolari, che minacciavano di oscurare nella mente dei fedeli il punto centrale e primario, costituito dal mistero di Cristo, il Concilio Vaticano II, nel classico articolo 104 della Costituzione Liturgica Sacrosanctum Concilium afferma che la Chiesa celebra sempre e soltanto il mistero pasquale anche nelle feste dei suoi Santi, in quanto questi, più o meno perfettamente sono configurati al mistero di Cristo morto e risorto, e come tali sono celebrati e presentati come modelli alla Chiesa.
2. Crescita in Cristo
L’anno liturgico è cristocentrico anche in forza dei sacramenti che si celebrano perché gli uomini possano essere associati alla salvezza operata da Cristo. “Moritur Christus ut fiat Ecclesia: muore Cristo perché nasca la Chiesa” (4): la Chiesa nasce dal mistero pasquale di Cristo comunicato nei sacramenti. In tal modo Cristo ci raggiunge e ci convoca nel suo mistero pasquale. I sacramenti, che riuniscono tutti i diversi aspetti del mistero, con la meravigliosa semplicità di un solo segno ricco di una straordinaria pienezza, ci permettono di accogliere, per mezzo di “ritus et praeces” i gesti che Cristo ha compiuto “per noi uomini e per la nostra salvezza”.
“L’anno liturgico è la vicenda di Cristo che si inserisce sul piano personale per diventare salvezza, non isolando la persona, ma immettendola nel dinamismo della “istoria salutis” (5)”. In esso infatti “mysteria redemptionis… (Ecclesia) fidelibus aperit, adeo ut omni tempore quodammodo praesentia reddantur: ricordando i misteri della redenzione, la Chiesa aopre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi” (Sacrosanctum Concilium, 102).
Nella liturgia cristiana, nessuna celebrazione è identica all’altra. L’anno liturgico è un andare avanti, a partire dal punto in cui si era arrivati, è un nuovo avvento di Cristo nella vita della Chiesa e di ciascuno. Di festa in festa siamo “sempre di nuovo” davanti a Dio in Cristo, per realizzare il “crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e testimoniarlo con una degna condotta di vita” (Colletta della I dom. di Quaresima).
O. Casel paragona l’anno liturgico alla salita di una montagna attraverso tornanti che si affacciano sugli stessi versanti, ma a quote differenti: “Come una strada corre serpeggiando intorno ad un monte, allo scopo di poter raggiungere a poco a poco, in graduale salita, la ripida vetta, così noi dobbiamo ogni anno ripercorrere su un piano più elevato la stessa via, finché non sia raggiunto il punto finale, Cristo stesso, nostra meta”.
Si tratta insomma di “vivere questa vita di Cristo Signore, questo cammino imponente, dal seno della Vergine fino al trono della divina maestà nell’alto dei cieli, questo mistero. Si tratta di celebrare e di fare nostre grandi realtà della salvezza, non semplicemente di contemplare e imitare nel sentimento la vita terrena del Signore, nei suoi particolari.
Questo potrebbe farlo anche un non battezzato, mentre noi cristiani e cattolici siamo chiamati a celebrare il mistero di Cristo, servendoci della potenza che ci viene dallo Spirito di Dio; non ricevendo soltanto illuminazioni e grazie, ma partecipando all’oggettiva spirituale realtà di Cristo presente… Soltanto così possiamo attingere, pieni di gioia, dalla sorgente di vita che è Cristo Salvatore… L’affermazione di Cristo: Io sono la via si realizza così nel modo più elevato. Cristo non è semplicemente l’esempio e tanto meno uno che indichi la via: è invece la via vera e propria, che ci porta fino alla meta” (6). L’anno liturgico non ricalca la concezione statica, greco-romana, del tempo, chiuso nella ripetitiva ciclicità di mesi, stagioni e anni; deriva invece da quella biblica, che concepisce il succedersi del tempo come una spirale progressiva, diretta verso il compimento finale della salvezza.
“L’articolazione del ciclo liturgico non deve trarre in inganno. Le varie fasi (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua) si giustificano come diversi approcci dell’unico mistero, e si caratterizzano per il riferimento alle sue fasi.
Procedimento pienamente legittimo e altamente pedagogici, purché si tenga ben presente che il mistero è uno solo: Cristo pasquale. E allora, quando celebro l’Avvento, non dimentico che egli è già venuto; quando celebro la Quaresima non mi sento come uno che attende ancora la purificazione dal sangue di Cristo, ma come un credente che porta già il sigillo della croce e vuole solo immedesimarsi meglio con essa… Ogni fase va collegata con il paschale sacramentum.
Così il Natale non è solo la celebrazione della nascita di Cristo: è il mistero della redenzione, vista in una determinata angolazione: il Verbo che si fa carne per salvarci (7).
3. Storia della salvezza in atto
La concentrazione cristologica del mistero celebrato nella liturgia va intesa secondo la legge intrinseca della economia di salvezza contenuta nelle Scritture e che ha raggiunto la sua pienezza in Cristo. Dalla creazione all’Apocalisse Dio entra nella storia degli uomini con un piano organico e progressivo, in cui “con eventi e parole intimamente connessi tra di loro” (Dei Verbum, 2), Dio attua la salvezza ponendovi Cristo Signore quale centro verso cui tutto converge e da cui tutto si irradia.”L’anno liturgico celebra il mistero di Dio in Cristo, quindi è radicato su quella serie di eventi mediante i quali Dio è entrato nella storia e nella vita dell’uomo” (8). La liturgia celebra tutta la storia della salvezza incentrata nella persona e nei fatti della vita storica di Gesù . il prima di Cristo è la storia sacra dell’Antico Testamento, colta nella sua dimensione essenzialmente profetica; il dopo di Cristo è il tempo della Chiesa, che ha per pietra angolare Cristo Gesù e per fondamento gli apostoli e i profeti della Nuova Alleanza.
Questa triplice dimensione storica è resa presente nella liturgia dall’annuncio degli avvenimento dell’Antico Testamento, del Vangelo e degli scritti apostolici. L’esempio più luminoso è presentato dalla successione delle letture della Veglia pasquale; ma anche le grandi formule di benedizione (dell’acqua, degli oli), di ordinazione,di dedicazione del tempio e dell’altare, le preghiere di “raccomandazione dell’anima”, seguono lo stesso modulo.
Il modo proprio con cui la liturgia permette di rivivere oggi gli eventi salvifici annunciati e commemorati nella celebrazione è il memoriale.
E’ vero che l’anno liturgico ha una sua funzione didascalica, utile per la catechesi, e nei contenuti offre l’essenziale per un itinerario di fede e di evangelizzazione. Tuttavia va tenuto presente che l’anno liturgico non è un album di cartelloni per la catechesi, ma la persona di Cristo: esso ci permette di entrare in contatto con i suoi misteri, che sono vivi e operanti nella liturgia.
Nel memoriale le azioni salvifiche di Cristo sono rese ritualmente contemporanee e attualizzate. L’avvenimento salvifico del passato non si ripete, ma si fa presente ed efficace qui-ora-per noi. “Ciò che era visibile del nostro redentore – afferma San Leone Magno – è passato nei riti sacramentali” (Discorso II sull’Ascensione, 1,4).
Se la festa della Chiesa è Cristo, celebrare significa partecipare alla sua grazia che ci salva. La categoria della “partecipazione” non deve essere banalizzata, limitandola – come spesso si è fatto nel periodo post- conciliare – al coinvolgimento dell’assemblea nei canti, nelle preghiere e nei ministeri, tirandola fuori dal mutismo e dalla passività in cui si era rifugiata per secoli. Partecipare è accogliere la presenza del Risorto, legarsi a lui e vivere con lui; è diventare parte di Cristo, divenendo suo pleroma, con la Chiesa e come la Chiesa. Cristo ci prende dentro i suoi misteri; mediante lo Spirito Santo li innesta nella nostra vita e li fa vivere in noi.
4. Riscatto del tempo
Nella liturgia convergono, come eredità della visione biblica, tre livelli del tempo: quello regolato dai cicli della natura (tempo cosmico); quello che si svolge nel fluire degli avvenimenti (tempo storico); l’uno e l’altro Dio li governa e li orienta verso un fine (tempo salvifico).
Nell’anno liturgico i cicli stagionali, la successione dei mesi, delle settimane e dei giorni, la sera e il mattino, la notte e il giorno, il tempo della vita terrena pieno di esperienze umane e luogo del divenire di tutte le cose, insomma il chronos assume una qualifica salvifica, mediante il kairòs: spazio e tempo propizio per la salvezza, abitato dal mistero di morte-resurrezione di Cristo.
Il tempo astronomico (chronos) misura in modo inarrestabile il nostro divenire e la nostra decadenza fisica. Dio riscatta la vita umana, facendole superare la prigione del proprio limite esistenziale, introducendola nella “pienezza del tempo” (Ef 1,10). “La realizzazione del mistero di Cristo ha inaugurato un’era nuova, cioè dei tempi che non sono più assoggettati alla vanità, alla decomposizione, ma riempiti ormai dell’azione dello Spirito in vista del ristabilimento di tutte le cose.
In Cristo ci è donato di vivere un tempo reale, non vuoto ma pieno, non fuggevole ma compiuto (K. Barth). Perché in lui il passato non si deposita in un pur ricorso, non si allontana, ma ci accompagna come una realtà viva; in lui il presente non si perde continuamente nella fretta della vita, non è subito sorpassato, ma si trova già, in maniera del compimento finale, della gloria a venire” (9).
Dio ha già operato la redenzione del tempo, con tutti i gesti di salvezza che ha compiuto dalla creazione fino ad oggi, da Abramo a Mosè, a Davide, ai profeti, fino alla pienezza dei tempi, in cui il Figlio eterno si è fatto uomo nel tempo e nello spazio e ha riempito di amore e di salvezza la vita degli uomini. Cristo Gesù è il punto di interferenza e di approdo nella storia del “tempo divino”.
La liturgia cristiana è l’ultima tappa della storia della salvezza, in continuità con ciò che Dio ha compiuto “in illo tempore”, e insieme aperta verso la realizzazione finale nel mistero che celebra.
L’anno liturgico è la continuazione della storia della salvezza. Il passato è costellato dai grandi interventi divini. Questi “magnalia”, nel tempo presente, sono i sacramenti. Senza clamore, sotto il velo dei segni, sono interventi meravigliosi di grazia che si svolgono sul nostro cammino.
ConclusioneNella teologia dell’anno liturgico c’è la risposta al più angoscioso interrogativo dell’esistenza umana: la vita umana nel tempo non è una corsa insensata verso il nulla. La storia è lo spazio in cui Dio si affianca all’uomo e cammina con lui: luogo d’incontro e di amore, svelamento della filantropia divina, che si compromette fino a dare un nuovo senso s tutti gli interrogativi della vita: dal nascere al morire, dalle gioie alla sofferenza. La piccola storia, il frammento in cui si trova a vivere ogni uomo è un calice che attende di riempirsi in Cristo. La “virus” che usciva da Cristo deve poter raggiungere l’uomo, toccarlo (Lc 6,19) per guarirlo.
Il primato di Cristo, nell’anno liturgico, è primato di Dio nell’opera della salvezza. Egli è “il solo che opera meraviglie, perché eterna è la sua misericordia” (Sal 135,4). Il protagonista principale della liturgia non è né il ministro, né l’assemblea dei fedeli. Nella liturgia noi “movemur: siamo mossi” dallo Spirito (Rm 8,14). E’ lo Spirito che ci prende per mano, ci conduce verso il “Padre santo fonte di ogni santità” e ci introduce, mediante l’epiclesi, nella “grazia di Dio, che è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,23) (10).
Note
1) F. STOOP, L'an del grâce, in AA.VV., Les étapes de l’an de grâce, Neuchâtel 1962, p. 7.
2) A. BERGAMINI, Anno liturgico, in D. SARTORE – A.M. TRIACCA, Nuovo Dizionario di liturgia, Roma 1984, p. 65.
3) Cf. P. VISENTIN, La celebrazione del mistero pasquale nella memoria della Vergine e dei Santi, in ID., Culmen et fons, I, Padova 1987, pp. 340-344.
4) S. AGOSTINO, Tract. in Io 9,10.
5) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, in Liturgia 12 (1978) p. 781.
6) O. CASEL, Il mistero del culto cristiano, tr. it., Torino 1959, pp. 113-114.
7) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, cit., p. 783.
8) A. BERGAMINI, Anno Liturgico, cit., p. 67.
9) F. STOOP, L’an de grâce, cit. p. 22.
10) A. M. TRIACCA, Anno liturgico: «icona del rapporto tra “hodie” e l’”escaton”», in Rivista Liturgica 75 (1988) p. 479.
Memoria, azione nel presente
di Geneviève Makaping
«L’antisemitismo non è un'opinione. È una perversione. Una perversione che uccide. Non dobbiamo dimenticare quello che non si è potuto fermare». Parole del presidente francese Jacques Chirac.
Nel giorno della memoria, mi suscita angoscia profonda vedere documentari storicamente ben costruiti, libri che ci ricordano quello che fu e che non si poté fermare. Ma perché non si poté fermare? Cercare risposte sarebbe infruttuoso e porrebbe alimentare ritorsione, odio. Più utile chiederci che cosa possiamo fare ora.
Il ricordo, per ambire a dignità, dev'essere attivo, dinamico e vivo Perché tutto non si riduca a ovvie commemorazioni, dovremmo essere capaci di progettare l'azione del ricordo. È così che la Memoria diventa azione nel presente.
Nessuna cultura o comunità è mai minoranza in sé. Ciò implicherebbe che da qualche parte vi sia una maggioranza culturale. Ciascun gruppo è maggioranza rispetto a sé stesso. E poi, l'essere maggioranza o minoranza non ci fornisce nessuna informazione rispetto alla bontà o meno degli intenti. Appartenenza superiore o inferiore: questa visione del mondo in termini gerarchici ha generato razzismo e morte.
Guerre dimenticate, guerre mediatizzate, guerre dell'acqua, della fame e delle malattie. 60 anni fa, il genocidio. Bisogna andare oltre il pianto. Il ricordo da solo non basta. Siamo stati capaci di litigare persino sulle tragedie che abbiamo generato: è più drammatica la Shoah o sono più sconvolgenti le foibe? Vergogna. Vergogna due volte. Abbiamo reso bipartisan i nostri crimini contro l'umanità. Sì, mi vergogno anch'io.
Ah, le foibe!. Lo confesso: non sapevo cosa fossero. Solo a 47 anni, ho appreso l'esistenza del termine infoibare. Ho subito pensato a nok guè, parola bamiléké (la mia etnia; sono camerunese) per significare il grande serpente capace di ingoiare grandi prede. Da buona migrante, ho aperto l'enciclopedia. Foiba (dal lat.. fovèa, fossa). Caverne a grande sviluppo verticale presenti nella Venezia Giulia, con struttura a pozzo, al fonda del quale si accumulano materiali rocciosi o scorrono ruscelli sotterranei. Le F. sono uno dei più appariscenti fenomeni carsici dell’Istria. Tra il 1943 e il 1945 nelle F istriane trovarono la morte migliaia di italiani, massacrati dalle truppe partigiane del maresciallo Tito. Come dire che il buon Dio ha intarsiato e cesellato quel territorio e noi ci abbiamo messo il significato.
Memoria dinamica. Come? Dotandoci di strumenti che ci aiutino a non costruire barriere. Ve ne sono ancora molte.
Tra i gruppi perseguitati dai nazisti vi erano i nomadi, i testimoni di Geova, i tedeschi oppositori del nazismo, i membri dell'intellighenzia polacca, gli omosessuali, i delinquenti abituali, le persone cosiddette antisociali (erano considerati tali i mendicanti, i vagabondi e i venditori ambulanti).
Oggi, questi stessi uomini e donne vivono nella nostra società. Con quali occhi li guardiamo? Con quali stereotipi li rappresentiamo e li teniamo a distanza.? Ancora si perpetrano genocidi. Abbiamo perso la capacità di ricordare, di indignarci e ribellarci di fronte ai soprusi?
Racconta un a internato, che aveva il compito di accudire un carnefice: «Io lo guardavo senza quegli stivali, senza quel cappello e senza quel cappotto, lui era niente - capite? - un niente. Poi gli infilavo gli stivali e il cappotto e il cappello e ritornava a essere l'espressione della morte».
Memoria dinamica. Va costruita senza il sentimento di vendetta. Vendetta contro chi? Contro la nostra storia? La storia appartiene a tutti. Fino ai diciotto anni, vivevo in Africa. Non avevo sentito mai parlare di genocidio; o meglio, non ne avevo sentito parlare in modo da sentirmi parte di quella brutta pagina della storia. Mi ricordo, però, che noi studenti e studentesse ripetevamo in modo ossessivo: «Deutschland Uber Alles». Noi, piccoli neri, lo dicevamo persino con un piglio di fierezza, essendo stati colonizzati dai tedeschi, i più forti d'Europa. I più forti tra i bianchi. Noi eravamo sedati e, inconsapevolmente, servi dei più forti.
Non ricordo di aver mai sentito il numero sei milioni o dieci milioni. Ne avessero parlato o scritto, fossi stata anche in cima a una palma da cocco, me ne sarei ricordata. Neanche i miei genitori potevano ricordarsene: erano analfabeti, come ce ne sono ancora canti nei mondi terzi.
Allora, contro chi dovremmo vendicarci di quanto accadde? Contro noi stessi o contro le nuove generazioni? La verità storica deve far nascere in noi la volontà di ricostruire quello che abbiamo disfatto, senza rancore. Un accessibile linguaggio di pace, che dica cosa sono fame, guerra, odio, stenti, senza necessariamente doverli sperimentare.
Proviamo a contare fino a 10 milioni 860mila. Dicono le statistiche che gli ebrei uccisi nei campi furono 5.860.000 e 5 milioni i civili non ebrei trucidati. E il numero degli infoibati? C'è chi dice da 250 a 300mila, e chi dai 4mila a 5mila. Non sappiamo il numero esatto? Basta la conta.
Proviamo a scavare. Dove? Nella nostra coscienza. Vi saluto, addolorati.
(Tratto da Nigrizia, marzo 2005, pag. 77)
Il primo, André Rochette, è partito quando aveva quarantasette anni per un ricerca non sapeva di che, verso l'India, su istigazione del suo maestro Arnaud Desjardin. La seconda, Hermes Garanger, è rimasta in Francia, ma per fare un viaggio interiore, un ritiro buddista di tre anni, tre mesi, e tre giorni. Il terzo, fratel Didier Maury, aiuta gli altri a superare le tappe di un cammino iniziatici. Tre itinerari, tre incontri.
Il ritorno a Dio
nell'insegnamento monastico
di San Bernardo
di Sr Maria Pia Schindele o. cist.
La regola di San Benedetto inizia con l'invito, di « ritornare a Dio con la fatica dell'obbedienza, dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza» (RB Prol. 2).
Il pensiero di San Bernardo, nell'insegnamento della vita monastica, è improntato sul ritorno a Dio. Nei suoi scritti troviamo la consapevolezza che Dio ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Mediante la similitudo - ossia la somiglianza con Lui - dovremmo essere compartecipi della sua vita divina. La disobbedienza a Dio però ci allontanò dalla regio similitudinis e ci portò verso la dissimilitudinis cioè verso «la regione della dissomiglianza», di modo che noi soltanto attraverso l'obbedienza al piano salvifico di Dio possiamo ritornare a Lui.
Tra gli antichi testi dei Padri della Chiesa, che hanno ispirato in lui questi pensieri, potrebbero essere state le Confessioni di Sant'Agostino che dice: «Mi scoprii lontano da Te in una regione dissimile». (1)
Bernardo sviluppa il tema del ritorno a Dio soprattutto nel trattato intitolato «La grazia e il libero arbitrio» e in alcuni degli ultimi sermoni sul Commento al Cantico dei Cantici. Questo tema è ricorrente anche negli altri suoi scritti e sermoni.
1) Ritorno a Dio nel trattato "De Gratia et libero arbitrio"
Nell’analisi sul concetto della grazia e del libero arbitrio, Bernardo sviluppa il ritorno dell'anima a Dio nella regione della similitudine. Espone la nozione che, per il libero arbitrio che Dio ci ha elargito, siamo sempre immagine di Dio, imago Dei, e lo resteremo malgrado le nostre errate decisioni che facciamo con la disobbedienza, perché l'immagine di Dio è indistruttibile; mentre alla somiglianza con Dio, similitudo, arriviamo solo se ci lasciamo trasformare dall'obbedienza ai suoi comandamenti. Questo lasciarsi trasformare rinnova le forze dell'anima e, attraverso la rectitudo, la rettitudine dei nostri sentimenti e del nostro comportamento indirizza tutto il nostro essere verso Dio.
a) Il nostro ritorno nella regione della somiglianza
Bernardo nel suo trattato chiama Gesù Cristo «la Divina Sapienza» che vuole ricondurci a Dio. Descrive questo ritorno a Dio paragonando la Divina Sapienza alla donna del Vangelo che cerca la dracma perduta (Lc 15,8). Così il Figlio dell'Uomo cerca in noi l'immagine di Dio sfigurata fino alla irriconoscibilità dal nostro peccato di disobbedienza. Bernardo spiega a proposito che questa immagine è il nostro indistruttibile libero arbitrio, con il quale possiamo obbedire oppure disobbedire a Dio. Alla somiglianza con Dio l'uomo è riportato attraverso l'obbedienza al Verbo Incarnato.
Bernardo dice:
«Se quella donna del Vangelo non accendesse la lampada, cioè se la Sapienza Incarnata, non mettesse sottosopra la casa, ovviamente quella dei vizi, e non cercasse la sua dracma (l'uomo) che aveva perduto, la sua immagine, questa che, privata della nativa bellezza e tutta brutta sotto la pelle sporca del peccato, era nascosta come nella polvere, egli trovatala la pulisce e l’innalza dal luogo della dissomiglianza, e la reintegra nel primitivo aspetto, la rende simile a Sé nella gloria dei santi, anzi un giorno la renderà in tutto conforme a Se stesso, come dice la Scrittura: «Sappiamo che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (1Gv 3,2)». (2)
b) Il nostro rinnovamento per mezzo di Gesù Cristo
Bernardo afferma che il nostro ritorno a Dio prevede, che veniamo «trasformati» secondo l'ideale di Gesù Cristo e lo indica quale «forma» (3)- modello - corrispondente al suo essere divino, al quale dobbiamo conformarci. Se viviamo secondo il suo ideale, saremo da Lui trasformati, gli assomiglieremo e sperimenteremo la Sua vita in noi.
Riguardo al rinnovamento della nostra volontà secondo l'ideale del Signore Bernardo scrive:
«Venne perciò la stessa, forma, cui si doveva conformare il libero arbitrio: infatti per recuperare la forma primitiva, l'uomo doveva essere riformato da quella forma in base alla quale era stato anche formato». (4)
Questo concetto viene riproposto anche da un'altra angolatura, per ribadire il fondamentale significato salvifico a tutta la comunità ecclesiale avente necessità di redenzione, Bernardo dice, «Colui che era deforme ha dovuto essere formato di nuovo per mezzo della forma, Cristo Gesù; le membra non possono essere condotte a compimento se non con il capo». (5)
c) Il rinnovamento delle nostre forze d'animo
pensiero, attraverso il quale cominciamo a riconoscere do che è buono e quindi ciò che corrisponde alla volontà di Dio. Dal consensus voluntatis - dal consenso della nostra volontà - dipende l'ulteriore aiuto di Dio, che elimina la nostra incapacità di fare il bene. Dandoci la gioia per il bene, ci dà la forza di fare il bene. Così Dio ci rende idonei alla «libertà dal peccato», e ci conduce alla «libertà dalla miseria»; quindi alla somiglianza con Lui e alla compartecipazione della sua gloria divina. (6)Come altri scrittori ecclesiastici prima e contemporanei del suo tempo, Bernardo distingue le forze d'animo dell'uomo in memoria, ratio e voluntas. La memoria è la capacità data a noi di sperimentare Dio e di entrare in contatto con Lui. È in certo qual modo il nostro «ricordo» o «memoria» di Dio e quindi viene qualche volta anche chiamato recordatio.
La ragione con la quale possiamo «riconoscere» o «ravvisare» il bene viene chiamata ratio oppure sensus. Qualche volta questa parola è indicata con intentio, perché noi formiamo con la ragione la nostra «intenzione», che viene indicata anche come «modo di pensare» o «desiderio».
Siccome il nostro volere - voluntas - è accompagnato dai nostri sentimenti e dal nostro amore, troviamo per esso nei testi aventi per oggetto il nostro «rinnovamento» le parole voluntas, affectio oppure amor.
Quando Bernardo definisce il rinnova-mento interiore dell'uomo dice che consiste in tre disposizioni dell'anima: proposito retto - rettitudine intentionis -, sentimento puro -, puritate affectionis - e ricordo del bene operare - recordatione bonae operationis - grazie al quale la memoria risplende per la consapevolezza della sua buona coscienza. (7)
Nel trattato sulla grazia e il libero arbitrio Bernardo menziona il «proposito incurvato dalle preoccupazioni terrene», (8)che si può trovare nell'uomo e che deve essere sollevato con la rettitudo intentionis - «la rettitudine dell'intenzione». In questo contesto è da considerare, quello che egli dice nel XXIV Sermone sul Cantico dei Cantici sul confronto tra l'homo rectus - l'«uomo retto» - e l’homo curvatus - l'«uomo gobbo», quando scrive: cose terrene, è una gobba dell'anima e, al contrario, meditare e desiderare le cose di lassù, è rettitudine». (9)
Riguardo a tutti gli sforzi, che noi intraprendiamo in questo desiderio rivolto verso l'alto, Bernardo spiega nel trattato «La grazia e il libero arbitrio», che attraverso essi «il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno» (2 Cor 4, 16). E continua:
«Poiché il proposito, incurvato dalle preoccupazioni terrene, a poco a poco dal basso risorge verso l'alto: e il sentimento, che langue per i desideri della carne, gradatamente s’irrobustisce all'amore dello spirito, e la memoria, ch’è macchiata dalla bruttura delle vecchie opere, resa candida dalle nuove e buone azioni di giorno in giorno gioisce di più. Infatti il rinnovamento interiore consiste in queste tre disposizioni: proposito retto, sentimento puro, ricordo del bene operare grazie al quale la memoria rifulge ben consapevole di sé». (10)
d) Significato della rectitudo
Riguardo al nostro rinnovamento interiore è importante la rectitudo - la «retta intenzione» - del nostro modo di pensare e di agire, perché se la nostra volontà è interamente indirizzata a Dio, è ordinata.
Bernardo descrive la volontà ordinata, ad lineam rectitudinis, - la norma del retto agire-, con la risposta negativa di Gesù a quei discepoli che lo pregavano di avere posti d'onore nel suo regno, dice Bernardo: «Fu loro insegnato a ricondurre la volontà distorta sulla retta linea, quando udirono: "Potete bere il calice, che io berrò?» (Mt 20,22)». (11)
Secondo S. Bernardo sono pochi gli uomini spirituali che posseggono la piena libertà di ragionare, che li porti sempre al retto agire, per questo dice:
regno!” (Mt 6, 10). Questo regno non si realizzerà compiutamente neppure in loro, fino al momento in cui non solo il peccato non regnerà nel loro corpo mortale, ma non ci sarà più assolutamente, ne potrà esserci, nel corpo ormai immortale». (12)2) Il ritorno a Dio nei Sermones super Cantica Canticorum
Negli ultimi sermoni sul commento al Cantico dei Cantici, che S. Bernardo ci regalò poco prima della sua morte, egli non si riferisce più alla somiglianza con Dio «persa» a causa del peccato, ma a quella «sovrapposta» dal peccato. Bisogna scoprire questa somiglianza con Dio evitando il peccato e abbandonando tutto quello che ci impedisce di essere uniti completamente a Dio.
a) Alla nostra "grandezza" manca l'orientamento lineare verso il Signore
Nel suo 80° sermone sul Cantico dei Cantici, Bernardo insegna che la nostra somiglianza con Dio donataci al momento della creazione consiste nella semplicità, nell'immortalità e nella libertà. In questi tre doni di Dio egli riconosce la magnitudo, cioè la «grandezza» dataci, che non possiamo perdere. Ma neanche la possiamo sviluppare finché non abbiamo ottenuta la rectitudo, ossia il nostro «orientamento lineare» versoil Signore. (13)
b) Il ritorno a Dio è ritorno a noi stessi
Nel sermone 82 sul Cantico dei Cantici, Bernardo spiega la «somiglianza con Dio» come la forma nativa, cioè la «figura nativa dell'anima». Pero, in noi, rimane senza effetto, perché è coperta ed oscurata dalla nostra forma peregrina, la «forma estranea del peccato», Bernardo afferma:
«Quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza.
L'anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta; e quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla». (14)
Secondo l'esperienza di Bernardo il nostro ritorno a Dio è anche un ritorno a noi stessi e dimostra che non possiamo essere «simili a noi stessi», cioè essere veramente «noi stessi», prima che tutto il nostro essere non si sia rinnovato in Dio: «Quindi l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa». (15) Il mistico tedesco Meister Eckhart, vissuto nel 13° secolo, cita spesso questo passo con la breve formula:«Allontanato Dio, ti sei anche allontanato da te stesso».
c) Riscoprire la somiglianza con Dio attraverso la purezza del cuore
Bernardo poi confronta la somiglianza con Dio all'oro, diventato scuro per una sovrapposizione di impurità, così l’anima per il peccato è diventata irriconoscibile. Secondo la sua consuetudine, fa riferimento sia a un passo del Nuovo che dell'Antico Testamento: «Si è ottenebrata la loro mente ottusa», dice l’apostolo (Rm 1, 21) e il Profeta: «Ah! come si è annerito l’oro, si è alterato l'oro migliore» (Lam 4,1). Bernardo dice che l'autoredi queste lamentazioni
distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell'umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia». (16)Per Bernardo nostro tendere alla compartecipazione della vita divina, vuol dire eliminare e abbandonare tutto quello che ci separa dalla nostra somiglianza con Dio. La nostra ascesi consiste nel «lasciare la sovrapposizione: doppiezza, simulazione, ipocrisia» ed ascoltare il nostro intimo per sapere quale è la volontà di Dio riguardo a nostro comportamento e alle nostre azioni. Se noi accogliamo questa volontà divina, Dio elimina ogni dissidio in noi e ci dona la - simplicitas cordis - la «semplicità o purezza di cuore». Essa è indicata nelVangelo di Matteo, dove Gesùdice: 'Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce» (Mt 6, 22).
si purifica l'anima dal peccato e da tutti i «depositi» che coprono e oscurano la nostra somiglianza con Dio. Ci accorgiamo allora che il «togliere questi depositi» non porta ad un impoverimento di noi stessi. Si tratta piuttosto di riportare alla luce la nostra somiglianza con Dio, nella quale si fonda il nostro vero essere.Se nelle intenzioni del nostro cuore vi è soltanto l'accettazione della divina volontà, otteniamo - la simplicitas cordis - la semplicità del cuore. Con l'accettazione del divino volere ci viene concessa la – rectitudo - ossia l'orientamento verso Dio, che porta alla somiglianza con Lui e all'uniformità alla sua divina Volontà.
d) L'uniformità nel volere è "sposalizio" spirituale
Nel suo 83° sermone, Bernardo indica la totale adesione dell'anima a Dio quale «sposalizio». In questo contesto egli chiama il Signore, il VERBO, come l'Essere che corrisponde alla Seconda Persona Divina:
«Tale conformità rende l'anima sposa del VERBO. Mentre è già simile a Lui per natura, si rende ulteriormente simile a Lui attraverso la volontà, amandolo come a sua volta è amata. Dunque, se l’anima ama perfettamente, è diventata sposa. Che cosa c'è di più dolce di questa uniformità? Che cosa c'è di più desiderabile di questo amore?». (17)
Questo passo trova il suo culmine nell'affermazione:
«Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio».
Poi Bernardo continua:
«Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti». (18)
Nel sermone 85 sul commento al “Cantico dei Cantici" Bernardo afferma:
118, 106)». (19)In riferimento a quei membri della chiesa, che hanno accolto la chiamata allo sposalizio con il Signore, Bernardo aggiunge:
«L'anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al VERBO, vivere per il VERBO, secondo il VERBO comportarsi, concepire dal VERBO per poi partorire al VERBO, che possa dire: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” considerala coniuge e sposata al VERBO». (20)
Note
1) Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di M. Pellegrino e C. Carena, Città Nuova, Roma, 1965, lib. VII, 10,16, pag. 201.
2) Cfr. Le opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. 1, La grazia e il libero arbitrio, X, 32, pp. 397-399. (d’ora innanzi San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio).
3) Bernardo riprende un tema altamente tradizionale, presente nei teologi del suo tempo: Cristo, in quanto Logos divino, è il luogo delle idee, l’archetipo della creazione (= forma dell’universo).
4) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, X, 33, p. 399.
5) Ibid., XIV, 49, p. 419.
6) Cfr. Ibid., II, 4- III,7, p. 363-369.
7) Cfr. Ibid., XIV, 49, p. 419.
8) Ibid.
9) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, a cura di D. Turco, Ed. Vivere In, Roma, 1986, col. I, serm. XXIV, 7, pag. 268.
10) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, XIV, 49, p. 419.
11) Ibid., VI, 17, p. 381.
12) Ibid., IV, 12, p. 375.
13) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, LXXX, 2, pag. 381/2.
14) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.
15) Ibid., LXXXII, 5, p. 385.
16) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.
17) Ibid., LXXXIII, 3, p. 392.
18) Ibid.
19) Ibid., LXXXV, 12, p. 417.
20) Ibid., p. 418.
Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto
Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?
A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?
Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:
La questione della verità
Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.
Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.
La questione di Dio
C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.
Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.
Il dibattito cristologico
Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.
La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?
Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.
Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.
Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).
La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.
Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.
Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.
Una certa funzione salvificaIl documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.
In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?
Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.
L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).
A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.
Cristo, pienezza della rivelazione
Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.
Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.
Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.
Dialogo interreligioso
Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.
A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.
La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.
Annuncio della verità che è Cristo
Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).
Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:
1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;
2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.
Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.
In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.
Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità
Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.
Cosa dicono gli altri
Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo
Gesù per gli ebrei
Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».
Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».
Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».
Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».
Gesù per l'islam
Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».
Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.
Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.
Gesù per l'induismo
Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.
(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)
L'uso che l'Occidente ha fatto, in questi ultimi anni, del tema dei diritti, giustificando pesanti interventi verso Stati deboli e rinunciando a intervenire nei confronti di quelli potenti, è assai pericoloso...
“Se vuoi la pace, prepara la pace”
di Jean Mouttapa *
Un barlume di speranza sembra cominciare a spuntare all'orizzonte del Vicino oriente. Non si osa credervi, tanto gli ultimi due decenni si sono dimostrati disperati… Disperati specialmente a causa dello scarto delirante, mortifero, fra le dichiarazione e gli atti, fra le parole e i fatti. La parola “pace” che era sulla bocca di tutti o quasi è stata macchiata del sangue degli innocenti più che in qualunque altro conflitto. Gli anni che sono succeduti alla stretta di mano di Oslo hanno consacrato questa perversione del linguaggio: dalle due parti si è continuato a porre atti di vera guerra pur invocando un “processo di pace” del tutto privo di senso. La parola, la cui funzione primaria è di disinnescare la violenza degli uomini, non era più altro che la menzogna edulcorata che rivestiva l'orrore. In certi momenti, di fronte all'incuria dei politici, si aveva l'impressione di udire il grido del profeta Geremia che risuonò un tempo su questa stessa terra: “Curano alla leggera la ferita del mio popolo dicendo: 'Pace! Pace!', mentre non c'è pace.”
Le grandi dichiarazioni sulla coesistenza pacifica, l'abbiamo visto, non servono a niente. E persino il diritto, se non è sostenuto da una vera educazione alla pace, darà presto la prova della sua impotenza. Tutte le “iniziative di pace” saranno votate al fallimento, tutti i trattati si riveleranno dei gusci vuoti se la cultura non procede: l'insegnamento dell'odio anti-ebraico nelle scuole palestinesi e in una certa stampa araba, il disprezzo nascosto o ostentato in molti discorsi israeliani devono lasciare il posto a una preparazione volontaristica delle popolazioni civili a prospettive di pace. Utopia? Nel caso, sarebbe piuttosto l'idea di poter comporre il conflitto soltanto con i mezzi politico-giuridici a essere irrealistica. Quando la guerra ha preso a tal punto possesso degli spiriti, dei cuori e del linguaggio, la sola politica responsabile è quella di ritornare alla sapienza di Erasmo: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Speriamo che coloro che hanno in mano le decisioni, al di là dei loro discorsi, si ricordino di quell'umanesimo, che è il solo realismo.
(in Le monde des religions, n. 10, p.19)
* Jean Mouttapa, cristiano impegnato nel dialogo interreligioso, è scrittore e editore. L'ultima opera pubblicata: Un Arabe face à Auschwitz. La mémoire partagée, (Albin Michel, 2004)