Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Le grandi incertezze nella Chiesa attuale

(prima parte)


di José Comblin





Sommario
: La Chiesa ancora non ha preso conoscenza della grande rivoluzione degli anni ‘70. Non ha capito la grande aspirazione alla libertà e i passi fatti. Questa rivoluzione include la critica di tutte le istituzioni perché sono repressive e sono di ostacolo alla libertà. La critica delle istituzioni tocca anche la Chiesa e sta alla base delle crisi interne della Chiesa fin dagli anni ‘70. D’ora in avanti la distinzione tra Chiesa e l’istituzione è inevitabile. L’istituzione è tutto quello che è stato aggiunto al messaggio di Gesù. Essa varia e ancora può e deve variare. La nuova situazione provocata dalla conquista del mondo da parte del sistema capitalistico mondiale, obbliga a cambiare l’atteggiamento davanti al mondo. La Chiesa pare muta e disorientata. Il Papa potrà dare segni profetici chiari in questo mondo neoliberale? Continuerà a pensare che la funzione della Chiesa è di offrire una dottrina sociale?

1. Il fatto fondamentale

Il fatto fondamentale è che la Chiesa ancora non si è accorta o non ha riconosciuto o non ha voluto accettare la grande rivoluzione della società occidentale che si è manifestata negli anni ‘70 del secolo passato e si è estesa rapidamente al mondo intero. Quello che succede attualmente in Cina e nei paesi detti “tigri asiatiche” è altamente significativo. Popoli che avevano una lunga tradizione di civiltà adottano con entusiasmo e quasi con furia la nuova società occidentale nata dalla rivoluzione degli anni ‘70.

La Chiesa vive ancora nell’illusione del mondo del tempo del Vaticano II, come se non ci fosse stata una rivoluzione così radicale quanto la rivoluzione francese, subito dopo il concilio. Chi oggigiorno legge certi testi conciliari, per esempio la Gaudium et spes, non può non rimanere impressionato dall’ingenuità della concezione del mondo che si aveva in quel tempo. Il Vaticano II ha parlato per un mondo che oggi non esiste più. E’ entrato nella storia, ma non fornisce orientamento per il mondo di oggi.

A partire dagli anni ‘70 è cominciata la frana della cristianità. Ai tempi del Vaticano II, alcuni frettolosi avevano proclamato la fine della cristianità. Ma non era ancora la fine. Al contrario, il concilio visse in un ambiente di neo-cristianità. Pochi anni dopo, cominciò la grande rivoluzione della società occidentale che si ripercosse anche dentro la Chiesa come un uragano. Molti cattolici si allontanarono dall’istituzione e anche molti sacerdoti e molti religiosi. I conservatori intransigenti attribuirono questo fatto al concilio, ma il concilio non aveva niente a che vedere con questo. Quello che era avvenuto era una grande rivoluzione totale della società occidentale: rivoluzione nella scienza, nell’economia, nella politica, nella cultura; rivoluzione totale e profonda con conseguenze di una rivoluzione nell’etica e nella religione.

Questa rivoluzione scosse tutte le istituzioni: la famiglia, l’impresa, la scuola, l’università, lo Stato e, naturalmente, le istituzioni religiose. Scomparvero antichi poteri e apparvero nuovi poteri. Ora sì, stiamo arrivando alla fine della cristianità. Ma ancora non è la fine della coscienza della cristianità all’interno della Chiesa. Al contrario, tutta l’istituzione continua a funzionare come se niente fosse cambiato e come se la Chiesa avesse ancora lo stesso potere sociale di sempre. Ci sono movimenti potenti che pensano che possono rifare di nuovo una neo-cristianità come era avvenuto dopo la rivoluzione francese. Pura illusione. Mancano gli elementi sociali per ricominciare questa operazione.

Tuttavia questa coscienza di cristianità in una situazione di svuotamento della stessa cristianità, genera un sentimento abbastanza generalizzato di malessere. Provate a paragonare la psicologia dei cattolici e perfino del clero con la psicologia degli evangelici! Tra gli evangelici prevale un sentimento di euforia, di fiducia, di vittoria. Gli evangelici si sentono vincitori e i cattolici hanno la coscienza degli sconfitti che cercano di coltivare il passato senza molta convinzione.

Ora, la fine della cristianità significa che l’evangelizzazione e la pastorale non possono essere fatte a partire da una posizione di potere.

Dai tempi di Costantino, la pastorale si è fatta partire da posizione di potere dei vescovi e del clero. Loro insegnano, amministrano i sacramenti, governano le comunità. Ogni parroco è papa nella sua parrocchia: lui è infallibile, con piena giurisdizione. I laici sono oggetto di obblighi: i laici devono frequentare la parrocchia, devono ubbidire e, soprattutto, sostenere finanziariamente una istituzione in cui non hanno nessun potere. E il potere del clero appare come se fosse il potere di Dio. La parrocchia è l’immagine del potere. Il parroco è inviato dal vescovo senza chiedere nessun parere ai laici. Lui comanda, non perché riconosciuto dal suo popolo come la persona più capace, ma semplicemente per imposizione del vescovo. All’improvviso, arriva e può comandare in tutto. L’unico limite al suo potere è la resistenza del popolo, l’indifferenza della maggioranza e un’attitudine di difesa così frequente tra i cattolici che fa sì che soltanto una piccola minoranza partecipi della parrocchia.

Quanto all’evangelizzazione del mondo, essa si fa quasi sempre per imposizione. L’evangelizzazione è andata di pari passo con le conquiste delle potenze della cristianità dell’Occidente, attraverso guerre di religione o conquiste di colonizzazione. L’America Latina è l’esempio più completo di quest’evangelizzazione attraverso conquiste e conversioni forzate. Ci sono state eccezioni. Ci sono stati missionari che hanno protestato contro la conquista. Essi però non ebbero nessuna influenza. Il loro scritti non furono pubblicati prima del secolo XIX quando gli imperi di Spagna e Portogallo erano già scomparsi. I popoli conquistati ricevettero il cristianesimo attraverso la pressione del potere politico militare associato alla missione.

Oggigiorno, la Chiesa non ha più potere oppure solamente mantiene alcune illusioni di potere. Ma già fin d’ora non può evangelizzare a partire dal potere. Questo lascia la Chiesa sconcertata, con un sentimento di impotenza. Io stesso ho sentito un Nunzio affermare che senza l’appoggio del potere civile la Chiesa non riesce a evangelizzare. Coloro che stanno attaccati alla tradizione restano sconcertati. Abituati all’idea che il prete è una persona di potere, improvvisamente restano disorientati, quando percepiscono che nessuno più accetta il loro potere, salvo alcune pie donne che si prendono cura della chiesa parrocchiale. Mons. Expedito, di São Paulo do Potengi, raccontava le parole del Vescovo di Natal che lo aveva nominato parroco. Diceva il vescovo: “Expedito, non dimenticare mai che tu sei un’autorità. Cerca di avere buone relazioni col Prefetto, col Delegato di polizia, e con il giudice. Quanto al resto fa quello che puoi”.

Il problema tra tutti i problemi e che sta alla base di tutti è la necessità di evangelizzare senza potere, a partire da una relazione di uguaglianza: un essere umano davanti a un altro essere umano, come modo di relazionarsi fra persone uguali e non in un relazionarsi da superiore a inferiore.

E’ il dramma di molti giovani sacerdoti che sono stati formati per il potere in un ambiente di potere e scoprono all'improvviso che non esiste più questo potere. Ma non sono stati preparati per un relazionarsi da persona a persona come fratelli uguali.

Nel linguaggio del Vaticano II, i laici sono stati promossi. Da allora sono stati pubblicati molti documenti eccezionali sui laici nella Chiesa. I documenti della CNBB sono particolarmente eccellenti e mostrano la qualità dei consiglieri che assistono i vescovi. Tuttavia nella pratica non è cambiato niente. I laici non hanno più potere, più autonomia di quello che avevano prima. Tutto è rimasto nelle parole, perché niente è cambiato nell’istituzione. Durante il precedente pontificato è stato pubblicato un catechismo cattolico. Qual è stata la partecipazione del popolo di Dio nella preparazione di questo catechismo? Zero. Nemmeno si sapeva chi erano le persone che stavano elaborando questo catechismo. E’ stato pubblicato un nuovo codice di Diritto Canonico. Qual è stata la partecipazione del popolo cristiano nella redazione di questo codice? Zero. I laici non valgono niente; in pratica, non hanno lo Spirito Santo. Essi sono ignoranti e come ignoranti devono accettare tutto senza reclamare. Prima di questo c’erano state riforme liturgiche. Il popolo cristiano era stato consultato? No. Il popolo è ignorante, i laici sono ignoranti. Tutto questo come se lo Spirito di Dio stesse soltanto nella gerarchia. Quello che dicono i documenti resta pura parola. In pratica, tutto continua come al solito, come sempre: un relazionarsi di poteri e una pastorale di potere. E’ questo che deve cambiare, se vogliamo evangelizzare questo mondo nuovo nel quale ora siamo immersi.

Perché nel mondo nuovo ci stiamo già. La grande maggioranza dei battezzati ormai non conosce neanche il Padrenostro e ignora tutto della Chiesa. La vita e un corri corri, passando da un’attività all'altra, per sopravvivere. La disorganizzazione sociale è tale che le persone vivono come individui solitari, isolati, senza fiducia gli uni negli altri, senza relazione umana di stabile: a volte, nemmeno tra si. La cristianità tradizionale, con il suo stile di vita, sopravvive in alcune tradizionali famiglie di tipo “mineiro” (da Minas, uno Stato del Brasile, n.d.t.). Sempre ci sarà qualche rappresentante del passato. Tuttavia, questi non hanno più influenza nella società e costituiscono rifugi ecclesiastici. Per i 5 milioni di abitanti dei condomini di San Paolo che cosa significa la Chiesa? Per i 3 milioni di abitanti delle “favelas” che cosa significa la Chiesa? Qual è il suo potere? Quel che vale sono i missionari che sono riusciti a formare piccole comunità vive, partendo da una relazione di fratelli, relazione di uguaglianza, senza invocare nessun potere ecclesiastico.

Questa è la sfida pratica ancora non assunta collettivamente dalla Chiesa: riconoscere che non si può più evangelizzare a partire da una posizione di potere, ma solo in una relazione di esseri umani con esseri umani uguali. In teoria, nessuno contesta, ma in pratica, tutto continua come se la chiesa ancora avesse nella società i poteri che aveva fino agli anni ‘70 del secolo XX.

2. Grande rivoluzione culturale

Esiste un’abbondante ed eccellente letteratura sulla rivoluzione dell’economia e della politica dopo gli anni ‘70. C’è stato un trasferimento di poteri con ripercussioni immense nella vita di tutti i giorni della gente come pure nella vita sociale. Volevo soltanto qui riproporre all’attenzione la rivoluzione culturale o, per meglio dire, uno dei suoi aspetti.

Un elemento importante di questa rivoluzione è stato, e ancora è, la critica sistematica di tutte le istituzioni, denunciate come macchine di potere e di repressione della libertà e della personalità individuali. La prima istituzione criticata è stata la famiglia, ed è chiaro che la famiglia tradizionale si disintegra. Perfino negli Stati Uniti dove l’ortodossia capitalista aveva sempre postulato che le relazioni di competitività e di ricerca del maggiore vantaggio nella vita pubblica non avrebbero toccato la vita privata delle famiglie, i più conservatori, come Francis Fukuyama, devono riconoscere che la famiglia è in piena crisi. Chi provoca la crisi sono i giovani che si sentono oppressi dalla cultura antiquata dei loro genitori, i cui i valori essi ormai non riconoscono.

La seconda crisi ha per oggetto tutto il sistema di educazione, dall’università fino alla scuola elementare. Il sistema è stato denunciato come oppressivo, sia per la maniera di imporre ed esercitare l’autorità sui giovani, quanto per il vuoto di contenuto che vuole imporre loro, senza prepararli alla vita reale. Questa critica ha provocato, di fatto, un indebolimento del sistema scolare ed educativo nel mondo intero. In tutti i paesi si riconosce una diminuzione dei risultati del sistema scolare, sempre più improduttivo, in modo che la scuola appare come scuola di analfabetismo. Le statistiche ufficiali sono ingannevoli, perché forniscono indici elevati di alfabetizzazione, ma non riferiscono il numero degli analfabeti funzionali che sono incapaci di leggere un testo e di capirne il contenuto.

La crisi dello Stato è generale. Essa provoca una disistima crescente della democrazia e l’indifferenza politica dei giovani, in modo generale. La crisi politica è oggetto di continui commenti, fin dagli anni ‘70. In America Latina, la lotta contro le dittature militari ha messo in sordina quello che stava succedendo nei paesi dominanti dell’Occidente: la disistima crescente dello Stato. Quando si ritornò al regime democratico, molti ebbero illusioni, perché non sapevano quello che stava succedendo alla democrazia.

Tutte le altre istituzioni sono state vittime della stessa critica e sono rimaste senza prestigio: decadenza dei partiti politici, dei sindacati, delle associazioni di quartiere e di quasi tutti i tipi di associazione. Molti sono entrati nel cammino della corruzione fino al punto che la corruzione ha raggiunto perfino i club del calcio e tutto il sistema imprenditoriale. Manca la repressione della corruzione, che è diventata la nuova istituzione sociale.

La critica a tutte le istituzioni ha aperto la porta a una nuova istituzionalizzazione. Ha aperto la porta alle entità economiche e alla priorità dell’economia nella società. Oggigiorno, sempre di più, il potere appartiene alle multinazionali, che si concentrano sempre più e a acquisiscono sempre più potere. In nome della libertà del mercato, acquisiscono sempre più potere, costituendo una piccola rete di megaimprese che impongono le loro leggi. Riescono a mettere al loro proprio servizio lo Stato, il sistema di educazione (a cominciare dalle università), il lavoro scientifico, e a corrompere, comprare o mettere al proprio servizio, sempre più tutta la rete delle istituzioni private. Dirigono tutto il sistema di informazione e di comunicazione, tutto il sistema di pubblicazione e di trasmissione dei messaggi. Trasformano la cultura in commercio, cioè, in una fonte di capitale. Tutto questo è stato molto bene analizzato. Approfittano del vuoto delle istituzioni forti e si trasformano in un solo potere totale, che riesce a dominare la vita, senza che la maggioranza degli abitanti se ne rendano conto. Grazie alla manipolazione dei media riescono a fare sì che i cittadini si trasformino in consumatori, aumentando così il loro potere.

Succede qualcosa di simile a quello che era successo alla rivoluzione francese. Questa soppresse tutti i sistemi di obbligazione del commercio e della circolazione delle mercanzie ed aprì il cammino al capitalismo. La rivoluzione culturale dell’attualità ha aperto il cammino una nuova forma di capitalismo molto più potente, perché invade tutti i settori della vita e può contare con un immenso progresso tecnologico e scientifico. Come lottare contro gli abusi di questo nuovo potere? Ci vorranno cento anni.

3. La Chiesa davanti alla rivoluzione culturale

Globalmente, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, possiamo dire che la Chiesa ha preso un atteggiamento negativo in relazione alla rivoluzione culturale. Così era successo anche dopo la rivoluzione francese. Sia ben chiaro che ci sono aspetti negativi nella nuova cultura: essa distrugge valori che avevano molta importanza in passato, che erano parte del patrimonio della cristianità.

Tuttavia, ci sono anche valori positivi, e soprattutto, valori definitivi contro i quali è vano lottare. Senza dubbio, c’è, dagli anni ‘70, un risvegliarsi della libertà personale, della volontà di conquistare più libertà, una denuncia e un rifiuto di tutte le forme di repressione. Mettiamo pure che appaiano nuove forme di dipendenza, ma la coscienza non è più la stessa.

Questa coscienza di libertà si è svegliata, soprattutto, nelle donne. Quello che più è cambiato è stata giustamente la coscienza delle donne, che vogliono essere riconosciute come esseri umani completi e autentici, con lo stesso valore degli uomini. Per la prima volta una rivoluzione diretta dalle donne per l'emancipazione delle donne. Ma, c’è pure un risvegliarsi di coscienza di libertà nei giovani. C’è voglia di vivere pienamente la vita, anche se questa voglia possa essere contaminata dal consumismo.

C’è una voglia di vivere pienamente la vita con lo sviluppo massimo di tutte le capacità. Per molti, il cristianesimo ha perso valore perché insegna una maniera penitenziale di vivere la vita. Il cristianesimo ha fama di essere una forza di repressione di tutti i movimenti vitali, un freno alla liberazione umana.

Bisogna riconoscere che, nella cristianità, il clero insegnava ai cristiani che la vita cristiana era una vita di sacrifici, che era necessario non solo accettare le mortificazioni che Dio mandava, ma anche aggiungerne delle altre, facoltative, per aumentare i meriti. C’era quello che Jean Delumeau ha chiamato “la pastorale della paura”, che consisteva nel mantenere vivo un sentimento permanente di peccato, accompagnato dalla paura della condanna finale e, per questo, dalla necessità di opere di espiazione. Le donne vestivano di nero e coprivano l’intero corpo. La rivoluzione culturale ha liberato da queste cose che non appartengono al Vangelo, ma sono state introdotte nella cristianità durante il Medio Evo.

Dopo la rivoluzione culturale, milioni di uomini e, soprattutto, di donne sono usciti dalla Chiesa, non per motivi di dottrina o di fede, ma perché non accettavano più lo stile penitenziale della spiritualità che si insegnava. Hanno smesso di aver paura dell’inferno e dei castighi di Dio. Quello che rifiutano nella Chiesa non sono i dogmi, e meno ancora il Vangelo, ma l’austerità della vita, la preoccupazione costante per il peccato e la paura che si infondeva nella coscienza del peccatore. I giovani fuggono da questo come dalla peste. Non ne vogliono proprio sapere. I movimenti integralisti, come l’Opus Dei o i Legionari di Cristo devono praticare un lavaggio cerebrale radicale perché i loro membri accettino questo ritorno al passato.

Cristo non è venuto a creare un movimento penitenziale, ma ad annunciare la gioia dell’arrivo del regno di Dio. Il centro del cristianesimo è la proclamazione della resurrezione, che è promessa di vita e di vita abbondante.

Dobbiamo cambiare l’asse fondamentale della spiritualità. Durante il periodo della cristianità occidentale l’asse è stato il venerdì santo, la maggior festa celebrata dal popolo. La spiritualità era concentrata intorno all’espiazione dei peccati. La stessa eucaristia era stata intesa per tutta questa epoca come una preghiera di suffragio per le anime del Purgatorio. Al centro della figura di Gesù stavano la passione e la croce, a quel tempo i grandi simboli della cristianità. Questo è penetrato profondamente nella mente e nel cuore del popolo cattolico e le chiese della riforma lo accentuarono ancora di più.

D’ora in avanti, l’asse della spiritualità dovrà essere la resurrezione, ossia, la vittoria della vita, nonostante la morte e il peccato. Ancora non sappiamo quale sarà l’asse della spiritualità del nuovo papa. Non sappiamo se entrerà nella mentalità della nuova cultura o se cercherà di restaurare la spiritualità medievale.

D’altra parte, in relazione alla nascita di un nuovo potere, il potere economico delle multinazionali, il sistema finanziario mondiale e la formazione di una nuova borghesia, il magistero si è mostrato abbastanza timido e riservato. Nessuno si è sentito toccato dalle sue condanne molto vaghe. C’è stata, e ancora c’è, l'impressione che la Chiesa non voglia entrare in conflitto con i nuovi poteri e preferisce un’alleanza con essi, anche se in maniera discreta per non scandalizzare i fedeli. Pensa che potrà adattarsi all’economia, anche se rigetta l’insieme della loro cultura.

4. La critica dell’istituzione ecclesiastica

La critica delle istituzioni non poteva lasciare da parte le istituzioni ecclesiastiche. La critica delle istituzioni, che si manifesta chiaramente fin dagli anni ‘70 ci obbliga a fare una distinzione che non era stata mai fatto prima di questa data e quindi è assente nei documenti del Concilio Vaticano II. Quando il Concilio parla della Chiesa, parla allo stesso tempo dell’istituzione cattolica romana e della Chiesa come mistero di Dio, come realizzazione presente del regno di Dio. Non fa distinzioni. Parla come se tutto l’apparato istituzionalizzato, il burocratizzato dell’istituzione ecclesiastica appartenesse all’essenza della Chiesa. Ora, sia la storia come le scienze umane, specialmente la sociologia, mostrano che tutto questo apparato è una costruzione storica, che è cambiata abbastanza durante i secoli e che è stato definito a partire da presunti contratti con altre istituzioni che appartenevano a culture nelle quali la cristianità era entrata. L’istituzione è cambiata e può cambiare ancora, anzi deve cambiare perché ormai non costituisce un aiuto per l’evangelizzazione, ma, molte volte, un ostacolo.

Hanno cominciato a manifestarsi movimenti critici, soprattutto a partire dagli anni ‘70. Prima di questa data, prevaleva l’idea che il Concilio Vaticano II avesse portato le risposte alle preoccupazioni del popolo di Dio. A partire dagli anni ‘70, la rivista Concilium cambiò il suo orientamento: diventò sempre più critica, essendo portavoce del pensiero di vari movimenti di molte persone nella Chiesa cattolica in contatto con la nuova cultura.

A queste critiche fatte all’istituzione la gerarchia rispose con silenzio assoluto. Essa ignora o finge di ignorare queste rivendicazioni.

Davanti alla critica all’istituzione, Giovanni Paolo II rispondeva ritornando alla grande disciplina. La sua risposta è stata restaurare tradizioni, usi, costumi, devozioni anteriori al Vaticano II e che avevano perso il prestigio o erano cadute in disuso. Il Papa volle restaurare il sacramento della penitenza mediante la confessione auricolare al sacerdote, anche se questa disciplina era stata introdotta ormai in una fase molto avanzata del Medio Evo ed era stata ignorata nella Chiesa per quasi dodici secoli. Tutto questo mantenendo un ambiente di rigore nella dottrina tradizionale, nella liturgia e in tutta l’organizzazione istituzionale, dichiarando terminata la fase sperimentale.

In questo modo, Giovanni Paolo II ha ripetuto quello che era successo nel secolo XIX dopo la rivoluzione francese. La Chiesa aveva restaurato il passato a partire dalla classe dei contadini. Molti missionari si erano dedicati a evangelizzare le campagne e i contadini, ancora erano la grande maggioranza della popolazione. Nell’ambiente rurale fu possibile ricostituire un frammento della cristianità anche se sempre in conflitto con la società dominante. L’atteggiamento dell’istituzione verso la modernità è sempre stato più di rifiuto, fino a raggiungere un punto culminante nel pontificato del Papa Pio X.

Questa nuova cristianità non poteva non essere fragile, anche se a quel tempo non si sapeva. Non si poteva prevedere l’immensa migrazione dalle campagne alla città. Tuttavia, era prevedibile che era pericoloso concentrare la chiesa in una classe sociale che cominciava a diminuire, e alcuni cattolici dettero l’allarme perché avevano visto il pericolo che c’era nel rigettare tutta la modernità. C’erano in essa valori positivi che era pericoloso attaccare. Durante tutto il secolo XIX l’atteggiamento dominante fu quello del rifiuto. Il prezzo fu la perdita di tutta la classe intellettuale e delle persone che avevano studiato, e la perdita della classe operaia. Quando finalmente con Giovanni XXIII la Chiesa accettò i principi della dichiarazione dei diritti umani, ormai era troppo tardi. L’immensa maggioranza dei cattolici già se n’erano usciti.

Fino gli anni ‘50 del secolo XX, l’America Latina visse nella dipendenza culturale dall’Europa. Assimilò a poco a poco la lotta contro la modernità nei suoi diversi aspetti, e una piccola classe operaia nacque quasi senza la presenza della Chiesa. Anche in America Latina la classe istruita si allontanò dalla Chiesa. Le donne rimasero fedeli, perché esse non potevano istruirsi. Quando fu aperta loro la porta dell’università, esse reagirono come gli uomini. Trovarono la Chiesa una istituzione rispettabile, potente tra la classe dirigente, ma senza valore per la loro vita personale e senza rilievo per il loro pensiero. Sebbene meno profonda che in Europa, la separazione tra Chiesa e classe istruita mantiene ancora forti ripercussioni nel mondo universitario intellettuale di adesso: predomina un atteggiamento di indifferenza. Pochi e poche pensano che potrebbero trovare nella Chiesa qualcosa d’importante per la loro vita. Sono cristiani fedeli al messaggio evangelico, ma senza contatto con l’istituzione.

Oggigiorno, la strategia di condannare le loro culture non ha più l’appoggio della classe dei contadini, perché i contadini sono andati in città e quelli che sono rimasti stanno in contatto permanente con la cultura urbana mediante la TV. Giovanni Paolo II proclamò che gli agenti della nuova evangelizzazione si sarebbero chiamati movimenti, cioè: Opus Dei, legionari di Cristo, Focolarini, Comunione e Liberazione e altri simili. Questi costituirebbero una truppa d’assalto, ma senza una massa al seguito. E’ una base molto stretta per fondare una nuova neo-cristianità.

Quali sono le critiche che si fanno all'istituzione? In primo luogo, c’è la critica della burocratizzazione. A tutti i livelli, il clero si è burocratizzato. L’agenda dei preti, dei vescovi, della curia romana è piena di riunioni, seminari, congressi, programmazione, relatori, documenti, assessorati, progetti. Naturalmente tutto questo rimane lì sulla carta. La burocrazia enuncia tutto quello che dovrebbe essere fatto senza dire mai chi lo farà. Perciò, tutto resta sulla carta. Questo non importa alla burocrazia. Dato che la burocrazia cerca di rispondere e accontentare il capo, molto più che non i “clienti”. Quello che importa con tutta questa attività fatta di parole è che si dicano cose che accontentano il capo. E’ necessario nascondere i problemi, dimostrare ottimismo, mostrare che si stanno risolvendo i problemi. Qual è la finalità di qualsiasi burocrazia? Sopravvivere, crescere, garantire il proprio futuro e aumentare il proprio potere. Una burocrazia ha una sua finalità in se stessa. Quello che succede là fuori, nel mondo, in mezzo agli uomini, alle donne, non importa molto. Basta evitare che le critiche arrivino fino all’orecchio del capo. Cresce nella Chiesa l’impressione che tutto quello che il clero fa, dalla curia romana fino alla parrocchia, è totalmente irrilevante e artificiale e rimane lontano dalla realtà degli uomini e delle donne. La burocrazia si costituisce come corpo autonomo indipendente. La burocrazia ecclesiastica è diventata fine a se stessa.

Un pubblicista francese del secolo XX, Charles Murras, fondatore del movimento di destra “Action Française”, era agnostico. Ma un giorno dichiarò che si congratulava con la Chiesa romana, che era stata capace di purificare il cristianesimo dal pericoloso fermento del Vangelo. In pratica, ci sono casi in cui di fatto il lavoro della burocrazia ecclesiastica serve per evitare che il fermento pericoloso del Vangelo possa penetrare.

In secondo luogo, nonostante la concessione fatta nel nuovo Codice di Diritto Canonico, la Chiesa mantiene nelle città la struttura obsoleta della parrocchia. Il clero viene preparato per agire in un quadro parrocchiale. Gli stessi religiosi sono integrati in parrocchie. Ora, strutturalmente, la parrocchia è fatta per conservare, aiutare, promuovere quelli che partecipano al culto, le persone che appartengono a una piccola minoranza di quelli che stanno nel tempio. La parrocchia vive in funzione del tempio, anche se si dice il contrario. Invece che preparare i cristiani per evangelizzare la società essa si chiude sulla minoranza fedele alle istituzioni del passato.

La parrocchia non considera né fabbriche, né supermercati, né scuole, né collegi, né università, né ospedali, né istituzioni sportive, culturali o di svago, né mezzi di comunicazione della città. Essa sta organizzata intorno ai sacramenti e alle feste liturgiche. Nemmeno riesce a organizzare la catechesi degli adulti e meno ancora la loro formazione missionaria. Essa concentra le energie dei fedeli nel tempio stesso, in se stessa. La Chiesa sta chiaramente a servizio di se stessa, non si può negare le eccellenti intenzioni di molti parroci, tutta l’immaginazione per fare una parrocchia missionaria. Il problema è strutturale ed già era stato denunciato da San Tommaso di Aquino. Dopo otto secoli ancora non si è visto la soluzione. La conseguenza è un popolo passivo, incapace di dare testimonianza nella società, chiuso in stesso, in una spiritualità di pura interiorità.

Intanto, in America Latina, c’è stata l’esperienza di base che poteva aver dato una risposta. E stata l’esperienza delle Comunità Ecclesiali di Base (CEBs). L’esperienza sta continuando, ma non è stata adottata ufficialmente dalla Chiesa. Non è stata loro dato uno statuto ufficiale, e le CEBs rimangono come qualcosa di estraneo e fragile, perché qualsiasi parroco o qualsiasi vescovo può disfare il lavoro fecondo di decine di anni.

Le CEBs che ancora sussistono rimangono subordinate alle parrocchie, alla dipendenza dei parroci. Succede loro quello che è successo all'Azione Cattolica in molti paesi: la subordinazione alla parrocchia è una sterilizzazione di fatto. I movimenti di Azione Cattolica, o non si sono sottomessi all’ordine parrocchiale e furono condannati come nel caso della JUC, o si sono integrati e sono stati assorbiti, o rimasero come gruppi piccoli, semiclandestini. Le comunità devono adottare il programma parrocchiale e finiscono per dedicarsi innanzitutto al culto e alle feste religiose, anche conservando il discorso delle origini. Il modello iniziale di comunità inserite nel mondo popolare e impegnate con il mondo popolare è stato sfigurato. Il nuovo clero non lo adotta. Invece l’autonomia delle piccole comunità integrate in una pastorale della città e non della parrocchia è l’unico cammino. Non serve determinare che d’ora in poi la parrocchia sarà missionaria. Strutturalmente, essa non può essere missionaria, perché non è organizzata in funzione della città, ma in funzione della sua propria crescita.

In terzo luogo, la critica che si fa alla Chiesa come istituzione è che essa mantiene un sistema di potere obsoleto e inefficace. E’ il famoso problema del clero. Il clero monopolizza tutti i poteri e sta al comando in maniera assoluta, unicamente perché inviato dal vescovo senza che i laici possano avere un piccolo spazio di azione. Ogni cinque anni essi sono obbligati a sottomettersi agli umori del nuovo parroco. La ragione è amministrativa. Il vescovo fa le nomine in funzione dei problemi del clero e non in funzione della capacità evangelizzatrice del medesimo. Il prete lotta per conquistare una autorità che un pò alla volta sta esaurendosi.

Il prete non è stato preparato per stare in mezzo al mondo dando testimonianza del Vangelo. E’ stato preparato per amministrare una parrocchia secondo le tradizioni religiose. Alcuni riescono ad andare al di là della formazione ricevuta, ma la maggioranza rimane con quello che hanno imparato in seminario.

Io ho scritto molto in passato sul problema del clero. Non voglio ripetere quello già detto molte volte. Eppure non credo che il nuovo papa abbia la sia pur minima disposizione a cambiare qualche cosa riguardo al clero e alla struttura di potere della Chiesa.

Ci sono molti laici e laiche, che lavorano effettivamente come missionarie e missionarie, generalmente senza mandato, senza riconoscimento ufficiale, senza potere e gratuitamente. Sono eroi che hanno tempo e energia e si dedicano alla missione con molta generosità e gratuità. Ci potrebbero essere molti più uomini e molte più donne se si facesse un appello, offrendo loro riconoscimento, fiducia, autonomia, perché molti semplicemente non vogliono essere “ausiliari” del prete. Quante migliaia di pastori evangelici sono sorti in Brasile ultimamente che si dedicano alla predicazione, alla missione, con entusiasmo, sacrificio e dedicazione! Sono più di 100.000. Molti avrebbero potuto essere missionari e missionarie nella Chiesa cattolica, se soltanto fosse stata loro offerta questa missione, riponendo fiducia in loro.

In futuro, i ministri saranno riconosciuti e identificati dalle comunità, grazie alle loro qualità di profeti e ai loro doni spirituali. In ogni città ci sarà un nucleo permanente di persone con profonda conoscenza dei diversi aspetti della vita della città, e potranno consigliare e organizzare attività pubbliche comuni, riunendo la grande comunità.

Una quarta critica ha per oggetto la strategia, che consiste nell’educare i cristiani quando sono bambini. La catechesi si dirige ai bambini. Dal secolo XIX la pastorale della Chiesa si è concentrata sui bambini. Per questo si dà la priorità assoluta alle scuole cattoliche e alla catechesi infantile. In questo modo gli adulti cristiani sembrano infantilizzati. Del cristianesimo essi sanno quello che gli è stato insegnato quando erano bambini. Mai hanno imparato che cosa significhi essere cristiano come lavoratore, cittadino, padre o madre di famiglia, dentro alle circostanze e agli ostacoli reali della vita.

Il risultato è che i bambini educati nella catechesi cattolica passano agli evangelici quando diventano adulti perché il messaggio degli evangelici è per gli adulti non per i bambini. La pastorale concentrata sui bambini non è efficiente nella nuova società. Ormai è finita, fallendo nel secolo XX.


(continua)
Sul celibato ecclesiastico

di Emmanuel Leroy Ladurie


Nelle sue lettere a Tito e Timoteo, san Paolo scrive che « il vescovo deve avere una sola donna”. Certo il Cristo ammetteva quest’idea, pur privilegiando la semplice castità, cioè l’autocastrazione (puramente simbolica), come quelli dei suoi discepoli che volevano situarsi in modo assoluto in una prospettiva celeste. E tuttavia il vescovo o il prete doveva decidere da sé: userà o no dei diritti coniugali che gli spettano nei confronti della sposa che Dio gli ha dato?. Nessuna legge canonica, e in ogni caso civile o cristiana, proibiva questo “uso”. San Gregorio di Nazianzio (nato nel 330) ricorda che quando fu generato suo padre era già vescovo. Quanto al prete Novaziano, non gli viene rimproverato il suo matrimonio, ma la violenza in “virtù” della quale ha provocato un aborto di cui fu vittima la sua compagna. Sinesio, che fu vescovo di Tolemaide, rivendicava il diritto di vivere con sua moglie dopo la consacrazione episcopale, e di avere così molti figli. Sant’Atanasio (nato verso il 295) nella sua lettera al monaco Draconzio, fa allusione ai prelati sposati e padri di famiglia. Clemente di Alessandria (nato verso il 150) dichiara che la Chiesa ammette benissimo che uno sia il marito di una sola donna e che poco importa che l’uomo in questione faccia professione di essere prete, diacono o laico. Se questo signore vive il suo matrimonio in maniera irreprensibile genererà molta progenie e nessuno vi troverà da ridire.

Un po’ più tardi il concilio di Gangres lancia l’anatema contro qualcuno che pretende che non si possa partecipare ai santi misteri (messa, ecc.) in compagnia di un prete sposato. Tutt’al più la Costituzioni apostoliche verso l’anno 400 della nostra era proibiscono ai preti vedovi di concludere una nuova unione coniugale.. Un certo Socrate (omonimo del filosofo) segnala che un gran numero di preti illustri nonché di vescovi ebbero (durante il loro magistero) dei figli dalle loro legittime spose. Al concilio di Nicea, nel 325, Pafnuzio, venerabile anziano e celibatario indurito, si leva contro coloro che vogliono che vescovi e preti si astengano da ogni commercio coniugale dopo la loro ordinazione. Il testo di Pafnuzio è superbo: “La relazione sessuale del marito e di sua moglie, possiamo crederlo, è anche una forma di castità, e ognuno deve seguire le preferenze del suo cuore.” Le parole di Pafnuzio, illuminate, troncheranno la discussione a Nicea, nel senso coniugale.

L’importante è di notare che in epoche assai antiche non esisteva nessuna legge della Chiesa che costringesse il clero al celibato. A partire dal IV° secolo, e soprattutto dal V° della nostra era, la Chiesa romana invece evidenzia il celibato come uno dei valori supremi del sacerdozio. Tale è la lezione di un concilio del 386, sotto la direzione del papa Siricio: “I Ministri del culto dovranno rinunciare per sempre alle opere della carne”. Da allora sant’Agostino e san Gerolamo faranno fuoco e fiamme contro un autore chiamato Vigilanza (sic) eccessivamente tollerante per le debolezze umane, troppo umane: san Paolino da Nola e san Salviano di Marsiglia dovranno dunque vivere con le loro mogli come con sorelle.

Non contestiamo questa evoluzione “castissima”. Ma nel nostro tempo di rarefazione estrema di vocazioni al sacerdozio, sarebbe certamente indicato di ritornare alle consuetudini della primitiva Chiesa delle dieci generazioni iniziali, questa Chiesa che ci viene sempre data come esempio. Nel Belgio attuale pochissime vocazioni si manifestano: bisogna dunque ricorrere a preti polacchi o congolesi, uomini di valore, ma che hanno talora difficoltà a comunicare, per ragioni linguistiche, con i loro greggi. Non si potrebbero reclutare dei celebranti nell’immensa colonia dei pensionati, compresi i non vedovi. Una volta formati, debitamente ordinati, diventerebbero senza dubbio ottimi soldati al servizio dell’esercito pacifico di un certo Cristo. Questa è la lezione che si potrebbe trarre da alcuni vecchi testi dei più antichi padri della Chiesa.

(In Le monde des religions, 17, p. 43)

Domenica, 30 Dicembre 2007 00:06

5. Sacerdozio ministeriale (Marino Qualizza)

6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

5. Sacerdozio ministeriale

Di solito quando si parla di sacerdozio ministeriale, si cercano indicazioni nella lettera agli Ebrei. A stretto rigore di termini, lì si parla solo del sommo sacerdote in riferimento a Cristo che ne ha portato a compimento il servizio in modo unico ed irripetibile, per tutte le motivazioni che vengono addotte nella lettera stessa. E si parla pure di un sacerdozio che ha esaurito la sua funzione, sostituito da Cristo, che ha inaugurato la nuova epoca, quella della grazia, oltre le cerimonie ed i sacrifici. Indirettamente si possono ricavare delle indicazioni sul sacerdozio ministeriale; è preferibile allora l’accesso ad altri testi e soprattutto a quanto i Vangeli sinottici ci dicono sull’attività dei discepoli e poi su quanto Paolo ha scritto occasionalmente sul suo ministero e su quello dei collaboratori. Abbiamo poi i testi preziosi delle lettere pastorali a Timoteo e Tito, dove si parla di episcopi, presbiteri e diaconi, pur senza specificare nei minimi particolari i loro compiti. Altra fonte importante sono gli Atti degli Apostoli, dove si racconta di come Paolo e Barnaba, nel primo viaggio missionario, abbiano costituito le prime comunità cristiane e vi abbiano preposto dei responsabili, perché le guidassero nella fede appena ricevuta ed accolta. <

<Per loro costituirono nelle singole chiese degli anziani, e dopo aver pregato e digiunato li raccomandarono al Signore nel quale avevano creduto>

> (At 14, 23).

Originalità e novità dei ministeri nel NT

Nelle lettere pastorali i testi sono più diffusi e costituiscono una base importante per la comprensione ed anche l’organizzazione del ministero ordinato nella Chiesa, nel triplice grado di episcopi, presbiteri e diaconi. I testi sono distribuiti in 1Tim3, 1-13; 5, 17-18; Tito 1, 5-9: <<Per questo ti ho lasciato
a Creta, allo scopo cioè di mettere in ordine quanto rimaneva da completare e per stabilire presbiteri in ogni città secondo le istruzioni da me ricevute. Ognuno di loro sia irreprensibile, sia marito di una sola moglie, abbia figli credenti che non siano accusati di vita dissoluta né siano insubordinati. Bisogna infatti che l’episcopo, in quanto amministratore di Dio, sia irreprensibile, non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di vile guadagno; al contrario sia ospitale, amante del bene, saggio, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla parola sicura, secondo la dottrina trasmessa, per essere capace sia di esortare nella sana dottrina, sia di confutare coloro che vi si oppongono>

>.

Il carisma dello Spirito

I testi ci fanno capire che la guida delle chiese locali era basata su istruzioni e prassi per sé note e quindi non riprodotte nei testi. In essi,come nel presente, si insiste soprattutto sulle doti morali e sul comportamento da avere e da seguire. Ma in 2Tim 1, 6 troviamo un’altra indicazione di grande rilievo che ci da capire che la guida della Chiesa non è questione burocratica o di doti solo umane. << Per questo motivo, ti esorto a ravvivare il carisma di Dio, che è in te per l’imposizione delle mani>

>. Qui c’è l’indicazione originale del ministero ordinato: si tratta di un carisma, di un dono che viene dall’alto, ed è invocato da Dio con l’imposizione delle mani. Si entra così in una prospettiva carismatica, non ereditaria, del conferimento di un ministero. La sua natura dunque, andrà letta e interpretata alla luce del dono di Dio.

San Paolo fonderà in modo teologicamente perfetto il carattere di questo ministero e la sua portata, in 2Cor 5, 18-20: <<E tutto ciò è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro>>. Questa è il fondamento teologico del ministero ordinato, inteso nel suo significato generale. È una partecipazione all’opera di riconciliazione compiuta da Cristo e resa presente dal ministero di coloro che fungono da ambasciatori per Cristo, mediante l’imposizione delle mani.

Lo sviluppo di questi e altri temi verrà ripreso in altro contesto.


Bibliografia essenziale

S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002

M. KEHL, La Chiesa, trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995

E. CASTELUCCI, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002

M. QUALIZZA (a cura), Il ministero ordinato, nodi teologici e prassi ecclesiali, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004

«Il logos in principio»
Il prologo giovanneo (Gv. 1,1-18)

di Roberto Vignolo


A che serve un prologo?

Istituita non per la manipolazione del consenso, bensì per inventare parole benefiche, capaci d’incrementare la qualità dell’esistenza, la retorica antiva sosteneva che il prologo di un discorso serviva all’autore per un triplice scopo, e cioè rendere il proprio uditore/lettore benevolo, attento e docile all’esposizione successiva.

Dove però si trattasse non di un discorso, bensì di un racconto storiografico, erano sufficienti sue sole funzioni: bastava consegnare al lettore solo quanto corrispondeva al suo interesse e alla sua istruzione, tralasciando la captatio benevolentiae. Se infatti lo storico saprà parlare «di cose grandi, necessarie, familiari, utili», sicuramente gli si presterà attenzione.

All’autore poi la scelta tra due possibilità, e cioè tra un prologo reale, esplicito, diffusamente elaborato, e invece uno solo virtuale, implicito, abbozzato nelle prime righe del racconto, addirittura nascosto nelle sue pieghe, ridotto al minimo indispensabile per agganciare il lettore. In fondo, ricorda E. Canetti, restano due sole alternative: rimarcare il prologo, perfino esasperarlo rispetto al corpo successivo; oppure ridurlo a poche battute, rapidamente incorporate all’ulteriore sviluppo narrativo.

Questi chiari propositi non possono tuttavia far dimenticare il brivido intrinseco a qualunque prologo, l’emozione davanti alla pagina ancora tutta bianca, al silenzio da dove emerge qualunque avvio di discorso, nella consapevolezza del rischio intrinseco a ogni nostra presa di parola. Infrangere questo silenzio è un impegno energico, che pone il dilemma di come e con che cosa partire, nonché quello d’individuare il nostro interlocutore, a chi parliamo. Per ragionate che siano, le nostre scelte sapranno sempre di agrodolce, perché libere quanto condizionanti. Possiamo infatti iniziare un racconto come meglio crediamo, ma da quella partenza resteremo necessitati, e dovremo proseguire vincolati a direzione e modalità del primo passo.

Il prologo di Giovanni

Quale comunicazione e quale interpretazione della storia di Gesù ci veicola dunque il prologo giovanneo? Proviamo a enucleare alcuni riferimenti di una materia complessa.

Il prologo giovanneo (1,18, che converrà specificare come prologo poetico) ha il merito di restituirci come non mai il brivido della presa di parola, unendolo a quello ben più intenso della somma «meraviglia dell’inizio». Riascoltandolo in una traduzione con qualche differenza rispetto a quella ufficiale:

In principio era il Logos, e il Logos era rivolto a Dio, e il Logos era Dio.
Era lui un principio rivolto a Dio.
Ogni evento in lui era vita, la luce per gli uomini era quella vita!
E la luce brilla nelle tenebre, imprendibile alle tenebre.
Venne un uomo, mandato da Dio, che ha nome Giovanni.
Lui venne a testimoniare, per dar testimonianza alla luce, perché tutti credessero mediante lui.
Però non era lui la luce, ma per dar testimonianza alla luce.
Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire al mondo.
Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero.
Ma a quanti l’accolsero, diede potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome,
- lui non da sangue, né da voglia di carne, né da voglia di uomo, ma da Dio generato!
Così il Logos si fece carne, e prese dimora tra noi, e noi contemplammo la sua gloria, -
gloria di unico generato dal Padre, pieno di grazia e verità.
Di lui, Giovanni attesta e proclama:
«Ecco, di lui ho detto:
Viene dietro di me, ma sta davanti a me, primo era infatti su di me!
Sì, dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia sopra grazia!
La legge infatti fu data a Mosè.
la grazia e la verità vennero con Gesù Cristo.
Vedere Dio – nessuno ha mai potuto.
Un unico Dio generato – proteso al seno de Padre –
lui ha potuto narrarne!»

«In principio»

Davvero insuperabile quest’avvio, che muove dall’ in principio stesso, sicché oltre a questo momento originante da lui additato diventerà davvero impossibile andare, visto che esso addirittura viene ricondotto ancor prima della stessa creazione (Gn 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra»), e perfino alla stessa Sapienza, figlia primogenita di Dio, testimone e mediatrice d’ogni azione divina vivificante, creatrice e salvifica (Pr 8-9; Gb 28; Sir 24; Bar 3-4; Sap 6-10).

L’in principio scandito dal quarto Vangelo non è infatti identico a quello che in Gn 1,1ss. vediamo sospeso allo Spirito di Dio volteggiante sopra le acque del tenebroso caos primordiale (Gn 1,2), per dieci volte scandito dall’imperativo creatore (Gn 1,3ss.) che ordina un cosmo secondo le capitali distinzioni di luce e tenebre, acque e asciutto, luminari maggiori e minori, cosicché – una volta che ne siano poste le condizioni di sussistenza (spazio, tempo, riproducibilità) – fiorisca ogni forma e specie di vita vegetale, animale, umana. Infatti, piuttosto che impegnarsi subito ad extra, cioè nel rapporto creatore Dio/mondo, di per sé già inaccessibile a qualunque mortale, Gv 1,1-18 spicca un più audace balzo all’indietro, guardando ad intra, nientemeno che al mistero di Dio pulsante in se stesso, pur sempre invisibile e rigorosamente uno, cui siamo iniziati attraverso il suo Logos, Il Figlio unico generato (1,1-2.18).

Ecco allora individuato l’ in principio nel logos divino, o meglio nel suo legame eterno e vitale a Dio, e tutt’uno con lui, unico e primo destinatario e mediatore di tutto, della vita e della luce per gli uomini (1,3-5.9-11), e in quanto Logos fatto carne (1,14) identificato con l’uomo Gesù Cristo (1,17).

Della storia nel tempo, avente come soggetto «quell’uomo chiamato Gesù» (9,11) l’intero Vangelo racconta attraverso molteplici voci attestanti, prima fra tutte quella di Giovanni battista (1,19ss.), già udita nel prologo (1,5ss.), ultime quelle del discepolo amato, autore del libro, e della sua comunità che ce lo trasmette (21,24; cf. 19,35). Il prologo giovanneo ci parla di Gesù, che però nella sua specifica identità tuttavia resterebbe perfettamente incomprensibile senza diretto riferimento a Dio, nonché al beneficio di vita e di luce apportato ai credenti che l’accolgono. L’uno e l’altro rimandano simultaneamente alla storia di Gesù, mandato dal Padre per dare vita al mondo.

Gesù è il Logos divino

Da subito Giovanni intende confessare:

- Gesù Logos divino e Dio da principio (1,1-2.18),- Logos incarnato (1,14)- Figlio unico generato (1,18) identificato in Gesù Cristo (1,17).

Tutti i commentari sottolineano la grande inclusione tra 1,1-2 (il Logos era Dio) con la confessione di Tommaso davanti al risorto: «mio Signore e mio Dio!» (20,28). Questo collegamento tra 1,1 ( in bocca al narratore) e la confessione di fede di un personaggio all’altro capo del racconto è una forma di comunicazione già efficacemente inaugurata da Marco, con le sue non meno note inclusioni tra 1,1 («Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio»), e la confessione di Pietro a cesarea («Tu sei il Cristo»: Mc 8,29, che conclude la prima parte del Vangelo), e quella del centurione sotto la croce («Veramente quest’uomo era figlio di Dio»: Mc 15,36, a conclusione della seconda). Il prologo veicola immediatamente l’ermeneutica più alta possibile della figura cristologica.

Nel prologo come pure nel Vangelo Giovanni media in proposito tradizione e novità. Per un verso, ricorre infatti a titoli tradizionali (per esempio, Cristo, e Figlio/Figlio di Dio, comunque rinforzati con contenuto e formule più pregnanti); e d’altra parte ne introduce di nuovi, quali l’inedito titolo Logos (1,1-2.14), nonché quello di luce (11,4-5.8-9), e di monoghenes («unigenito», cf. 3,14.16), che non è un semplice sinonimo di agapetos («amato», Mc 1,11 e par.), bensì molto letteralmente «figlio unico generato», con esplicito richiamo al campo semantico della vita filiale ricevuta dal Padre a titolo personale e unico, quella stessa che quindi il Logos-Figlio è abilitato a trasmettere come mediatore salvifico.

Restando nel solco della tradizione d’Israele, consideriamo come il Logos evochi due temi intimamente connessi nel monoteismo giudaico: la confessione dell’unico Dio creatore e salvatore, e la teologia della sapienza.

La confessione dell’unico Dio, creatore e salvatore

Il riferimento al Dio creatore e salvatore spicca fin dai primi cinque versetti (1,1-5; cf. Gn 1,1.3-5). Che si tratti del Dio d’Israele lo si intende senz’ombra di equivoci per l’ulteriore riferimento a Giovanni Battista, nonché alla Torah data tramite Mosè (1,14.17).

Ma nell’idea tradizionale di questo Dio vivificante, come creatore e salvatore, viene introdotta quella nuova, in ultima analisi davvero inaudita (soprattutto per un orecchio greco, ma, pur in misura minore, anche ebraico) di un Dio in se stesso dialogico, con il proprio eterno Logos, di un unico Dio al tempo stesso Padre generante e Figlio generato.

Che Dio sia il vivente e vivificante, creatore e salvatore in forza della sua Torah, sapienza e parola, Israel l’ha sempre saputo. Ma, come inizialmente accennato, che Dio en archè, «prima» di tutto e tutti, generi e abbia un Logos davanti a sé in cui riversare completamente se stesso con questo suo attributo di vivente/vivificante, ecco (insieme a 1,14) la novità squisitamente cristiana di un monoteismo non monastico, bensì dialogico.

Così Giovanni nel prologo comunica con i suoi destinatari (originari e impliciti) tramite un’idea di Dio tradizionalmente giudaica, ma re-interpretandola in una chiave che rimane momentaneamente binaria (limitata a Dio Padre e il Logos Figlio incarnato, Dio unico generato), e solo in seguito si dispiegherà come esplicitamente trinitaria. Sintomatico infatti il silenzio del prologo sullo Spirito, per cui, stando a Gv 1,1-18, non potremmo ancora essere certi di poter distinguere tra Gesù e lo Spirito, dal momento che Gesù Logos potrebbe tranquillamente assommarne in sé la funzione (nella più recente tradizione sapienziale, la Sapienza personificata si caratterizza sia come Logos sia come Spirito). Toccherà a Giovanni Battista, con la sua testimonianza a Gesù (1,32-33; 3,34), a insinuare una distinzione tra lo Spirito e Gesù. Ma solo quest’ultimo istruirà i discepoli in termini decisivi riguardo allo Spirito come «altro Paraclito» (14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11.12-15).

Importante comunque notare come Gv 1,1-18 condivida insieme all’inno di Fil 2,5-11 un cristocentrismo dal trasparente orientamento teo-logico. Entrambi gli inni obbediscono ala logica della rivelazione del Padre nel nome di Gesù. Iniziano infatti dal Figlio/logos collocato in originaria massimale comunione con Dio (Fil 2,6; Gv 1,1-2), e solo alla fine della loro vicenda – dopo la loro kenosi/saltazione (Fil) e incarnazione (Gv) -, menzionano (e quindi svelano) Dio come Padre di Gesù ) Fil 2,11; Gv 1,14-18), in stretta connessione al nome (Fil 2,9.10; Gv 1,12) di Gesù Cristo (Fil 2,5.9.10.11; Gv 1,17). Ambedue gli inni si ispirano al principio di una rivelazione divina non data per scontata, ma riattinta appunto attraverso la mediazione cristologica, quella storia di Gesù, che fornisce un nuovo volto della paternità di Dio.

La teologia della sapienza

Propriamente parlando, tuttavia, la nuova idea di Dio viene introdotta con una rinnovata concezione di logos, che ne propizia la trasformazione. Infatti, l’evidente ripresa di Gn 1,1 da parte di Gv 1,1 avviene tuttavia per la mediazione dei poemi sapienziali, la cui prospettiva di una sapienza primogenita di dio, mediatrice di ogni bene agli uomini, eppur sempre sua creatura, viene comunque ulteriormente trascesa.

Il Logos giovanneo, per i sopraindicati motivi, mentre assolve le funzioni mediatrici e salvifiche, assegnate tradizionalmente alla sapienza, alla parola e alla Torah, tuttavia ne supera la portata, in ragion della sua identità con Dio e della sua storicità riferita a Gesù Cristo (1,17) e alla sua esistenza nella carne entro cui il Logos diviene (1,14). Così, da una parte, in quanto in principio originariamente «verso Dio», rivolto a lui (1,1b.2; cf. 1,18; meglio del «presso Dio» della CEI) il Logos è presentato divino a ogni effetti («Era Dio»: v. 1c). E, dall’altra, in quanto riferito all’evento dell’incarnazione (1,14) – e addirittura, no a caso solo verso la fine, esplicitamente identificato nella persona stessa di Gesù Cristo (1,17) -, ecco del Logos l’ulteriore novità della sua estrema storicizzazione, più accentuata e radicalizzata rispetto a ogni già vivace manifestazione della Torah, sapienza e parola divine, che lancia il proprio appello non più solo dall’interno della vita sociale (Pr 8), ovvero attraverso il libro salomonico (Pr 1; 9), ovvero prendendo dimora nel più autorevole «libro della legge di Mosè», proclamato nella liturgia del tempio (Sir 24,23; bar 4,1).

Rispetto a tutte le esperienze salvifiche già note al popolo di Dio (Sap 10) la novità del Logos giovanneo offre una semplificazione massimale delle sue coordinate abituali, tanto rispetto a Dio, come pure rispetto alla storia, in quella che potremmo intendere appunto come «incarnazione e cristologizzazione del Logos» che fa coincidere nella persona di Gesù l’unità di due grandezze stimate incompatibile per loro intrinseca differenza, e cioè la potenza del Logos divino, creatore e salvatore, nella fragilità di un’esistenza creaturale, nella carne di Gesù di Nazareth (cf. Is 40,6-8).

Il titolo «Logos»

Si discute molto sul perché sia stato prescelto per Gesù questo titolo di Logos, (piuttosto che quelli di torah / nomos / legge ovvero di hokman / sophia / sapienza), e sul perché questo avvenga solo nel prologo giovanneo rispetto all’intero Vangelo (dove non compare più applicato a Gesù).

La spiegazione avanzata in forza del genere maschile di logos preferibile al femminile sophia, incompatibile con la mascolinità di Gesù, non sembra soddisfare (e certamente è invalida per il termine nomos che in greco, a differenza dell’ebraico, è rigorosamente maschile).

Risulta forse più pertinente il riferimento alla tradizione del pensiero greco, elaborata anzitutto dal filosofo efesino Eraclito (soprannominato «l’oscuro», vissuto cinquecento anni prima, a cavallo tra VI e V sec. a.C. ma assai vivo nella memoria della sua città, che gli aveva dedicato una statua). Secondo lui il Logos, indicato con la stessa denominazione assoluta di Giovanni, è quel principio eterno, a tutti «comune», coesivo e interno al mondo, così da farne un cosmo ordinato. Tutto accade quindi «secondo questo Logos», ancorché, paradossalmente, gli uomini sia che lo ascoltino, sia che non lo ascoltino, non ne hanno intelligenza ( fr. 1350372). Sul presupposto di Efeseo come ambiente designato dalla tradizione ecclesiastica per la redazione finale del Vangelo giovanneo, qualche contatto tra il logos eracliteo e quello giovanneo sarebbe rintracciabile nel comune riferimento all’eternità e universalità del logos, nonché al suo rifiuto da parte degli stessi uomini che pur viene a illuminare ( 1,1-5.9-11). In questo caso Giovanni interfaccerebbe il mondo greco interessato alla ragione, al principio e legame universale che congiunge assieme le cose (un pensiero tenuto vivo più recentemente anche dagli stoici), conferendo loro senso e comunicabilità, ma attribuendo al Logos il nuovo assetto della divinità, personalità e storicità cristologica.

Tuttavia, la preferenza di Gv 1,1-18 per Logos rispetto a sophia può spiegarsi semplicemente, considerando che la Sapienza, per quanto preesistente al resto della creazione, ne risulta pur sempre primizia, creatura primogenita di Dio, e quindi dalla parte della creazione stessa di cui ha bisogno; mentre non altrettanto potrà dirsi della parola divina, in quanto legata a una più diretta autocomunicazione divina ( di Dio si dice che ha creato la Sapienza, mai però che avrebbe creato la propria parola, espressione in certo qual modo più diretta di lui). Pur coincidendo largamente con la Sapienza (entrambi escono dalla bocca dell’Altissimo: Sir 24,3; Is 55,11), il Logos pronunciato da Dio intrattiene con Dio stesso un rapporto più originario, più agevolmente identificabile con lo stesso oggetto che la pronuncia. Rispetto a nomos (parola per Giovanni di sapore polemico) e a sophia, Logos dispone quindi di maggior flessibilità semantica verso la trascendenza divina.

Quanto al senso di logos come titolo cristologico riservato a Gv 1,1-18, esso si dimostra subordinato a Gesù in quanto Figlio/Figlio di Dio, che è il principale titolo cristologico giovanneo ( rispettivamente 17x e 9x nel Vangelo, e che nel prologo torna solo implicitamente per riferimento al monoghenes: 1,14.18).

In quanto «Vangelo del Figlio», Giovanni si serve solo inizialmente del Logos nella sua nuova determinazione cristologica non solo per meglio garantire la divinità e la trascendenza, ma anche l’universalità e la capacità di comunicazione vivificante onnipervasiva, cosmica e intrastorica, intrinseca a questo titolo.

La testimonianza di Giovanni Battista

Anche la mediazione testimoniale di Giovanni il battezzatore (1,6-8.15) è di speciale rilievo nel prologo giovanneo, tanto più che è l’unica voce di un personaggio, diversa dal narratore, udibile al v. 15 (e forse possiamo attribuirle tutti i restanti vv. 15-18). Di certo è la prima voce testimoniale ripresa dal prologo narrativo in prosa, in triplice progressione drammatica, con interlocutori rispettivamente

- le autorità di Gerusalemme (1,19-28),
- Israele (1,29-34),
- I primi due discepoli (1,35ss).

Non la sua stessa presenza di precursore conta, di per sé tradizionale per gli inizi del Vangelo e della storia di Gesù, quanto piuttosto la sua nuova qualifica di testimone (1,6-8). Così egli ne esce al tempo stesso più esaltato e anche più relativizzato rispetto a quanto non avvenga nei Sinottici ( non lui la luce, ma solo suo testimone: 1,8; cf. 3,27-30).

Per spiegarne la maggiorazione simultanea al ridimensionamento, non si sbaglierà a pensare che attraverso la figura di Giovanni (20x ca. in tutto) il quarto Vangelo comunichi con la comunità dei battisti. Pur a distanza cronologica notevole della sua morte (29 a.C. ca.), la sua figura risulta ancora imponente nei contesti giudaico-cristiani, e, così sembra, anche in Asia Minore.

Il confronto con Mosè

Dopo Giovanni, Mosè è l’altro personaggio storico-salvifico rilevante nel prologo (1,14-18 ripreso in 1,45; 3,14…, fino a 12x in tutto il Vangelo), evocato non solo in quanto mediatore sinatico della legge, ma anche perché nel giudaismo dell’epoca stimato aver goduto di un’autentica visione diretta, faccia a faccia di Dio (similmente a Isaia ed Ezechiele, nonché all’intera generazione del Sinai)

Sebbene i testi biblici siano al riguardo notoriamente piuttosto restrittivi, proprio nei confronti di Mosè («Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo», gli dice il signore in Es 33,20), una corrente giudaica del tempo, mossa da interessi al tempo stesso mistici e legislativi, era invece piuttosto generosa nell’attribuirgli assai di più di quanto non faccia la tradizione scritturistica. Si spiegano così certe insistenze di Giovanni: «Nessuno ha mai visto Dio» (1,18a); «Non che alcuno abbia visto il Padre…» (6,64a), sciolte solo a favore di Gesù «Un Dio unico generato – proteso al cuore del Padre – lui ha saputo narrarne!» (1,18b); «Ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,46b).

Si anticipa qui il drammatico confronto con il mondo giudaico, probabilmente quello risultante dal sinodo rabbinico di Jamnia (90 d.C. ca.), caratterizzato non più dal pluralismo di correnti e partiti del tempo di Gesù, bensì dall’uniformità e prevalenza farisaica, con cui la comunità giovannea si scontra, patendo la confessione di fede cristologica con la sanzione di espulsione dalla sinagoga (9,22; 12,42; 16,2), episodio cruciale per lo scollamento del cristianesimo dal suo primitivo alveo giudaico.

La drammaticità dello scontro diventa un conflitto ermeneutica intorno alla tradizione veterotestamentaria, che Giovanni – lungi dal ripudiare – rilegge appunto in senso eminentemente cristologico, in contrasto con la legge, polemicamente e ripetutamente dichiarata da Gesù come «vostra legge» (10,34-35 ecc.).

Le reazioni dei destinatari

Ma c’è un momento cruciale in cui il prologo giovanneo riesce a far coincidere strettamente la comunicazione col lettore con la corretta ermeneutica della storia di Gesù, quando – questa volta in chiave antropologica – presenta le reazioni dei destinatari della venuta del Logos luce trai suoi:

E la luce brilla nelle tenebre , imprendibile alle tenebre... Era la luce vera che rischiara ogni uomo a venire nel mondo. Era nel mondo, e mediante lui fu il mondo, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne tra i suoi, ma i suoi, lui, non l’accolsero. Ma a quanti l’accolgono, dona potere di diventar figli di Dio, a quanti credono nel suo nome…(1,5.9-12).

Col contrasto luce / tenebre, nonché che l’alternativa tra accogliere – credere / non accogliere – non riconoscere (un linguaggio davvero giovanneo nei verbi come l’antitesi), il prologo anticipa sinteticamente quell’opzione (non alla pari) tra fede e incredulità che lungo il Vangelo scandirà tutti gli episodi di Giovanni, regolarmente conclusi con la menzione di fede o incredulità in Gesù mandato dal Padre da parte dei diversi personaggi, che il programma narrativo giovanneo, mirante a confermare e far crescere i credenti (19,35; 20,31), mette a confronto diretto con il lettore.

Un ottimo preludio

A ogni pagina il racconto obbedisce alla logica sua propria di «tutto nel frammento», e a questa logica è già improntato il prologo poetico di 1,1-18.

Rispetto al Vangelo non offre quell’ auspicata perfetta sintesi contenutistica che si amerebbe attribuirgli, ma ne costituisce un ottimo preludio che anticipatamente (e anche un po’ enigmaticamente), «dice quasi tutto» della storia successiva, riservando tuttavia allo sviluppo del Vangelo la sorprendente scoperta di un Gesù datore dello Spirito come un altro paraclito, l’icona pregnante e sintetica del libro giovanneo, oggetto precipuo della sua testimonianza (1,32-33; 19,30-37; 20,22-23).

Una volta ascoltata per intero, converrà sempre tornare al preludio iniziale, per riapprezzare la radice trascendente della storia singolare di Gesù.


Il logos e il logos giovanneo

di Roberto Vignolo


Logos in greco è termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse («discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg- richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo.

Per capire l’uso di logos nel Nuovo Testamento, scritto in greco (dove compare 330x), in realtà si deve tener presente lo sfondo dell’Antico Testamento. Qui troviamo per lo più il dabar ebraico (1440x), col senso di «parola», «evento», «episodio», «affare»), senza nulla togliere alla sua qualità noetica, per cui tanto energia quanto intelligibilità caratterizzano la teologia della parola profetica («Parola del Signore»: 230x circa). Così questa locuzione designa la rivelazione divina attraverso la Torah, capace di vivificare (Dt 32,46-47) e di illuminare gli uomini (Sal 19,8; 119,105). Oppure è la parola creatrice (Sal 33,6; Sap 9,1). Una notevole personificazione precorritrice di quella giovannea offre Is 55,11 (la Parola del Signore esce dalla sua bocca, scende efficace come la pioggia e la neve, compie il suo mandato, e poi ritorna a lui; analogamente, Sal 147,15.18; Sap 18,5). A sua volta la Sapienza è assimilata alla Parola ( Sir 24,3; Sap 9,1-2).

«La parola»diventa nel primo cristianesimo il contrassegno sintetico del vangelo predicato da Gesù e dagli apostoli (Mc 4,14-15;At 8,4). Solo 4x nei Vangeli si usa «la parola di Dio» per la predicazione di Gesù, mentre la formula è molto frequente per il vangelo apostolico, volentieri specificata («parola di Dio»: At 4,29.31;6,2.7; «del Signore»: At 8,25; 13,44.49; «della salvezza»:At 13,26). In contrasto con «parola di uomini» (1Ts 2,5.13), con «parola di Dio», Paolo indica la sua predicazione kerygmatica.

Giovanni dà molto peso alla parola che Gesù pronuncia (2,22; 4,50; 12,48), caratterizzandola col possessivo cristologico («mia»: 5,24; 8,31.37), o teologico, di parola ricevuta dal Padre (14,24; «la tua parola»: 17,6.14.17).

Quella di Gesù è parola che si compie, alla stregua della promessa divina (18,9.32). Tutto questo tema del logos è egemonizzato dalla figura cristologica: alla/e parola/e di Gesù i discepoli hanno da prestare fede (4,41), ascoltandola (5,24), accogliendola (12,48), così che tra loro e Gesù si instauri un’ immanenza reciproca (15,4ss.). È riconoscibile una tendenziale identificazione tra Gesù e la sua parola (del resto già in Mc 8,38 e par.).

Ancorché non al livello di Gv 1,1-18, altri due testi della tradizione giovannea danno un senso già altamente personificato in chiave cristologica:

- in Ap 19,11-16 il guerriero e giudice in groppa ad un cavallo bianco, porta come nome, oltre a quello di «Fedele» e «Verace» (v. 11), anche di «Logos di Dio» (v. 13), nonchè di «Re dei re e Signore dei signori»(v. 16);

- In 1Gv 1,1 logos viene connesso alla formula «dal principio» e al concetto di vita, indicando l’oggetto dell’annuncio apostolico.

(da Parole di Vita, 6)

Il mistero del Natale nel canto degli umili
di Benno Scharf

La ricorrenza del Natale ha ispirato la musica religiosa fin dai primi secoli dell’era cristiana. Nel Medioevo, agli inni liturgici, in latino, si sono via via andate sovrapponendo melodie popolari e testi in lingua volgare. E’ interessante rilevare come la tradizione abbia subito sottolineato il ruolo centrale della Vergine nel mistero della Natività.

L’icona della natività

di Vladimir Zelinskij


Se la fede cristiana è l’invisibile dono di Dio al cuore dell’uomo, l’icona è il dono visibile ai suoi occhi. Un teologo russo l’ha chiamato “la contemplazione a colori”. Si può chiamarla anche “l’evento a colori”, che unisce in sé il tempo e l’eternità. L’incarnazione del Signore e la Sua nascita, insieme con la Sua Risurrezione, sono gli eventi vissuti e contemplati fin dall’inizio con gli occhi della fede. Ogni icona è il frutto della contemplazione, ma anche dell'esperienza reale dell’avvenimento.

L’icona della Natività è l’immagine del mondo redento e salvato, avvolto nella bellezza. Tutto è già compiuto e nello stesso tempo si trova nell’attesa. La Madre di Dio è al centro, sdraiata; la Sua figura esprime la meditazione secondo le parole di Lc 2,54: «Maria, meditava tutte queste cose serbandole nel Suo cuore». Questa meditazione, secondo il concetto ortodosso, è l’immagine della memoria sacra della Chiesa, la Tradizione. Maria sembra guardare verso di noi. Il Bambino accanto è collocato in una mangiatoia molto singolare, poiché ha la stessa forma del Sepolcro nel quale egli verrà calato: già alla nascita viene indicato quale sarà il cammino di Gesù di Nazareth. Tutti gli altri: gli angeli, i magi, Giuseppe, le donne, anche la montagna rappresentano un modello del mondo appena creato, ma anche il mondo della nuova terra e del nuovo cielo. Ogni dettaglio ha il suo significato: i magi a cavallo sono il simbolo dell’umanità alla ricerca del Paradiso perduto, gli angeli sono gli adoratori del Verbo incarnato, la grotta è il simbolo dell’inferno vinto. Ma le fasce del Bambino hanno la forma delle bende funebri. San Giuseppe sembra immerso nei dubbi e davanti a lui sta il diavolo nelle sembianze di un pastore, che lo tenta. La stella raffigura la discesa della Gloria sulla terra e si divide in tre, raffigurazione delle tre Persone Divine.

La Natività. Icona della scuola di Andrej Rublev, secolo XV, proveniente dalla iconostasi della chiesa di san Nicola di Gostinopol'e (Novgorod). Collezione Ambroveneta, Vicenza.

Venerdì, 21 Dicembre 2007 00:49

Ippolito di Roma (Lorenzo Dattrino)

IPPOLITO DI ROMA

di Lorenzo Dattrino

Sembra fosse originario della Grecia. A Roma egli divenne prete durante il pontificato di Zefirino (199-217). Alla morte di Zefirino divenne papa Callisto (217-222). Ippolito si pose in una posizione di contrasto, soprattutto perché giudicava troppo indulgente la condotta disciplinare del vescovo di Roma nei riguardi della penitenza e del matrimonio. Ormai è opinione comune che Ippolito spingesse la sua opposizione fino alla creazione di uno scisma che durò fino al 235: fu il primo antipapa della storia. L’assunzione al trono imperiale di Massimino il Trace, nemico dei cristiani, portò all’arresto contemporaneo di Ippolito, riconciliatosi con la chiesa, e del nuovo vescovo di Roma, Ponziano. Furono deportati in Sardegna, dove ambedue morirono martiri della fede. Il papa Fabiano, successo a Ponziano, fece portare a Roma i loro corpi. Nel 1551, nella zona dell’antico cimitero di Via Tiburtina, si scoprì una statua che venne dai più riconosciuta per quella di Ippolito: ora essa è conservata nell’atrio della Biblioteca Vaticana. Su uno degli stipiti, lo stesso marmo porta pure inciso il catalogo delle opere che si riferiscono al periodo degli scritti di Ippolito pubblicati prima del 224, anno in cui fu eretto il monumento.

Molto numerose sono le opere attribuite alla mano di Ippolito, sull’autenticità delle quali però non sempre concorde risulta il parere degli studiosi. Mi limiterò pertanto a richiamare le più importanti:

• Il Syntagma, o Riassunto contro trentadue eresie. Questo breve trattato appartiene al primo periodo dell’attività di Ippolito, durante il pontificato di Zefirino (199-217).

• I Philosophumena. È la più importante delle opere di Ippolito. Composta dopo il 222, è conosciuta e citata con diversi titoli, a cominciare da quello con cui la designò l’autore: Elenchos, o Confutazione di tutte le eresie. L’opera comprende complessivamente dieci libri. Il titolo Philosophumena significa Esposizione delle dottrine filosofiche; come tale, si riferisce ai soli primi quattro libri, che trattano della filosofia dei greci. I libri restanti (V-IX) tendono a dimostrare che tutte le eresie non fanno che attingere alle dottrine dei filosofi pagani, ai misteri e all’astrologia, e non alla Scrittura e alla Tradizione della chiesa. Il decimo libro, incompiuto, riassume teorie filosofiche ed eretiche già in precedenza trattate.

L’Anticristo è la sola opera di Ippolito che ci sia pervenuta completa: fu scritta verso il 200. L’autore dichiara che I ‘apparizione dell’Anticristo non può ritenersi imminente.

• Della tradizione apostolica. L’opera risulta anzitutto un testo di liturgia pressoché codificato, e si riferisce alla consacrazione del vescovo, seguita dalla celebrazione della messa pontificale: una liturgia eucaristica destinata ad avere grande influsso sulla tradizione liturgica posteriore, soprattutto in Occidente. Quindi ha luogo l’amministrazione del battesimo, con tutti i particolari del rito battesimale.

• Non mancano altre opere più brevi, di carattere esegetico, come il Commento a Daniele e parecchie Omelie.

Nella Tradizione apostolica si trova la Preghiera eucaristica che rappresenta il canone più antico che si conosca. Ad esso si ispira direttamente, come risulta dalla prossima lettura, la seconda preghiera eucaristica della liturgia oggi introdotta.



Lettura

Preghiera eucaristica

«Per compiere la tua volontà e per conquistarti un popolo santo, Gesù Cristo ha teso le mani nella passione per liberare dalla sofferenza coloro che hanno fiducia in Te. E, accettando volontariamente la sofferenza per distruggere la morte [...] e manifestare la risurrezione, prendendo il pane, ti rese grazie e disse: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo, che sarà spezzato per voi”. Lo stesso fece con il calice, dicendo: “Questo è il mio sangue, che verrà sparso per voi. Quando fate questo, fatelo in memoria di me”».

(La Tradizione apostolica, 4. Tr. di R. Tateo, Ippolito di Roma: La Tradizione apostolica, Alba 1972, pp. 84ss)

Nello studio della personalità di Ippolito, appare anzitutto il rappresentante del vecchio presbiterato romano, di cui ci tramanda la tradizione catechetica e le usanze liturgiche. Non manca però un altro aspetto del suo temperamento, vale a dire un certo qual spirito reazionario. Egli non si rese conto che lo sviluppo del popolo di Dio porta con sé situazioni nuove e che il cristianesimo non è una setta di puri, ma la città di tutti gli uomini. A parte questo, non c’è nessun motivo di farne uno scismatico. I suoi scritti respirano la più pura Tradizione. La sua violenza dipende in buona parte da un genere letterario. E’ stato il rappresentante di un «integrismo» che la gerarchia ha avuto ragione di non accettare. Ma è stato ugualmente un grande dottore della chiesa. (1)



Per l’approfondimento

Edizioni

PG 10,16,3; GCS 1,1 (1891) 1-340; 1,2 (1897) 1-47; 26(1916)1- 293; B. Botte, Hyppolite de Rame: la Tradition Apostolique (SCh 11), Paris 1946; P. Nautin, Hippolyte: Contre les hérésies, Paris 1949, pp. 19-37; IDEM, Homélies pascales (SChI 27), Paris 1950; IDEM, Hyppolite et Josipe, Paris 1947.

Traduzioni

E. Norelli, L’Anticristo, Firenze 1987; R. Tateo, La Tradizione apostolica, Roma 1979.

Studi

L’accesso più comodo alla bibliografia generale ippolitea è costituito dai due voll.: Ricerche su Ippolito (Sea 13), Roma 1977, e Nuove Ricerche su Ippolito (Sea 30), Roma 1989, che forniscono anche le più aggiornate prospettive di ricerca. In quest’ultimo volume è contenuto lo studio di M. Guarducci sulla statua della Biblioteca Vaticana (pp. 61ss).

1) Cf. J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, Torino 1970, p. 145.
Venerdì, 21 Dicembre 2007 00:11

Madre di Dio (Luigi De Candido)

La divina maternità è stato il primo dei dogmi mariologici a essere definito. Il Vaticano II si concentra intorno al significato ecclesiale della verginale maternità di Maria.

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

di Camille Eid *

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.

Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (VI sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.

Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.

Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.

Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.

Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modernità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.

Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.

Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.

Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.

Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.

Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.

Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!

Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

(da MC Gennaio 2007)

* Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull'islam; I cristiani venuti dall’islam.


DIFFONDERE L’ISLAM MODERATO

di Ali Schuet *

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.

(...) Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi... è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.

Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.

Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.

Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita... Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole... Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo II vi ha pregato a Damasco.

Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.

La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani... Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».

Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.

In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.

Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!

Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

(da MC Gennaio 2007)

* Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.