Religioso Marista
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I discepoli
di Giovanni Vannucci
L'azione di rendere i pagani offerta a Dio gradita deve essere continuata, nel tempo, da tutti i missionari sparsi fino agli estremi angoli della terra.
Il dialogo con le altre religioni
Curia Generale O.F.M.
(Segreteria dell'evangelizzazione
Segreteraia della formazione e degli studi)
Il dialogo è diventato necessario
Viviamo in un mondo che nell'ultimo decennio ha prodotto più di cento guerre. In ognuna di queste guerre la religione ha svolto un ruolo di notevole peso. Se si può confidare nel potere positivo delle religioni fra molta gente di buona volontà, i recenti conflitti sono diventati un ostacolo per la missione essenziale di tutte queste religioni. L'esclusivismo religioso costituisce molto spesso un ostacolo per coloro che cercano Dio.
Dalle religioni ci si attende un influsso positivo nella ricerca di soluzioni eque e soddisfacenti nel dilagare di una globalizzazione che spesso acuisce la divisione fra ricchi e poveri, produce disastri ambientali e conflitti fra civiltà, culture e religioni.
Per questi motivi, oggi abbiamo bisogno di una nuova visione e ispirazione che porti a una responsabilità globale, e ciò lo si attende dalle religioni. Di fatto, "non ci sarà pace fra le nazioni senza pace fra le religioni, non ci sarà pace fra le religioni senza dialogo fra le religioni" (Hans Küng).
D'altra parte) abbiamo visto credenti delle varie religioni i quali dalla loro fede hanno attinto l'ispirazione per stabilire pace, convivenza e cooperazione con altre religioni. Ogni religione porta in sé una ricchezza di rispetto e considerazione nei confronti del prossimo, specialmente di coloro fra i quali si vive. Da questa ricchezza di ispirazione spirituale si è sviluppata nella società una pacifica coesistenza di religioni e fedi. Nel nostro mondo, il dialogo interreligioso sta diventando un imperativo necessario per la sopravvivenza del mondo e delle religioni. In tutte le religioni, molti individui, associazioni e istituzioni, attraverso il dialogo interreligioso ed ecumenico stanno offrendo al nostro mondo un nuovo volto e nuove opportunità per il futuro.
Il vero dialogo permette di superare il rischio di quel relativismo che vanifica ogni certezza e unifica le diversità, e del sincretismo, che elimina tutte le specificità fondendole in una nuova e generica sintesi. Nel nostro tempo, questi rischi sono sempre più reali. Il mondo nel quale viviamo sta diventando un supermercato di molteplici offerte religiose con una crescente libertà di scelta.
C'è pure un'altra tendenza, che vuole unire in un unica religione mondiale tutte le fedi e le religioni.
Per tutti questi motivi si impone la necessità di un serio dialogo fra tutte le religioni dove ciascuna di esse si presenti con la propria fede e coerenza, proponendo i propri valori e aprendosi a quelli delle altre.
È importante sottolineare che in ogni dialogo noi cristiani siamo mossi dall’amore di Dio nei nostri riguardi e dal desiderio di preparare la strada per l'avvento del suo Regno in tutti i popoli.
Cos'è il dialogo interreligioso?
Spesso, molti concepiscono il dialogo semplicemente come un "discorrere". Invece, il significato etimologico del termine "dialogo" è proprio quello di "parlare con". Comunque, parlando di dialogo interreligioso, questa parola va considerata in un senso più ampio: dialogo significa convivere con i membri di altre tradizioni religiose, rispettarsi, cooperare per la soluzione dei comuni problemi, e naturalmente parlarsi.
In realtà, il dialogo interreligioso può assumere forme diverse. Di solito si divide in quattro forme, o generi, di dialogo:
a) dialogo di vita, "dove la gente si sforza di vivere in uno spirito aperto e amichevole, condividendo gioie e dolori, problemi e preoccupazioni umane";
b) dialogo d’azione "in cui cristiani ed altri collaborano per lo sviluppo integrale e la liberazione delle persone";
c) dialogo di esperti "in cui degli specialisti cercano di approfondire la loro comprensione dei loro rispettivi patrimoni religiosi, e di apprezzare l’uno i valori spirituali dell’altro";
d) dialogo di esperienza religiosa, "in cui le persone, radicate nelle proprie tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali, ad esempio riguardo la preghiera e contemplazione, fede e percorsi di ricerca di Dio o dell’Assoluto".
Alcuni aggiungono un quinto genere di dialogo, "il dialogo culturale", perché la religione può dirsi parte della cultura, rappresentando "l'anima di una cultura"; alcune religioni sono associate ad una particolare cultura (come le Religioni Tradizionali), altre sono "sovraculturali", nel senso che fanno parte di un certo numero di culture (come l'Islam e il Cristianesimo).
Il dialogo interreligioso non è semplicemente lo studio delle diverse religioni, benché questo naturalmente sia molto importante. Non è un dibattito per provare la propria ragione e il torto altrui. Non è un mero sforzo "modernizzato" per persuadere l'altro ad abbracciare la religione di qualcuno. Il dialogo interreligioso è piuttosto un incontro in libertà e disponibilità ad ascoltare l'altro, a capire l'altro e a condividerne le convinzioni religiose, a vivere con l'altro in armonia, e a cercare possibilità di collaborazione. Presuppone delle differenze; a livello di credo e consuetudini, spesso le differenze sono grandi, e dobbiamo esserne consapevoli ed essere pronti a conviverci, persino nel caso in cui fossimo in contrasto con esse. Perciò il dialogo implica la disponibilità ad accettate i diversi doni dell'altro, e la disponibilità a trasmettere attivamente i nostri propri doni.
Perché dialogare?
Nelle nostre città e talvolta nei nostri villaggi, incontriamo sempre più persone di fedi diverse; in realtà, molti di noi vivono come una minoranza fra persone di altre religioni. Specialmente quando si viaggia, persone di fedi diverse possono sedere fianco a fianco. Ad esempio, a bordo degli aerei di linea, avrete notato che gli assistenti di volo domandano ai passeggeri che genere a cibo o bevanda essi preferiscano. Nei campi per rifugiati, fra gli emigranti, nelle fabbriche, si incontrano sempre più persone di altre culture e religioni. Di conseguenza, dobbiamo conoscere le diverse culture e religioni almeno un po', per essere in grado di rispettare queste persone.
Nel mondo d'oggi non possiamo ignorare le nuove invenzioni e scoperte, se non vogliamo rimanere indietro. Così dovrebbe essere per le religioni: le diverse tradizioni religiose portano con sé un grande patrimonio di esperienza religiosa, di personaggi significativi (Gandhi, il Dalai Lama, al-Ghazzali, e altri), di libri "ispirati", etc., che possono arricchire anche la nostra vita culturale e spirituale.
Il dialogo interreligioso può favorire la promozione di valori morali, come per esempio è avvenuto con l’''intesa" fra la Santa Sede e alcuni stati musulmani per la difesa e la promozione dei valori tradizionali della famiglia alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla Famiglia, tenutasi a Il Cairo nel 1994. può aiutare i cittadini di religioni diverse a vivere in armonia, come in Tanzania, dove cristiani, musulmani e membri della religione tradizionale africana riescono a convivere pacificamente. Può sanare, e prevenire forme di fondamentalismo religioso che, qua e là, minacciano di dividere le genti di uno stesso Paese. Può aiutare anche a rimarginare il ricordo di antiche ferite: l’olocausto, le guerre di religione etc. Può favorire la mutua collaborazione; ad esempio l’incontro con i cristiani è di aiuto ai buddisti nel ritrovare più interesse verso il lavoro sociale, le religioni tradizionali possono aiutare la nostra chiesa ad essere più "cattolica" (universale) e perciò più acculturata.
I requisiti per un fruttuoso dialogo interreligioso
Il vero dialogo è possibile solo se le persone possiedono solide basi nelle loro tradizioni, nei loro credo e nella pratica della loro religione; solo una chiara identità religiosa rende possibile il dialogo. Le persone che hanno dei problemi con il loro gruppo religioso, non possono essere membri di un autentico dialogo.
Le persone coinvolte in un dialogo, devono essere convinte del suo valore: esso può portare frutti a livello personale, di comunità e sociale. Alcuni considerano il dialogo come qualcosa di riservato a degli specialisti. Ma non è così: ogni cristiano e ogni frate è chiamato ad esso. Altri sospettano che il dialogo sia un segnale di incertezza nei confronti della propria religione, o un sintomo di debolezza o scarsità di successo nell'ottenere delle conversioni. No, il dialogo è un'esperienza di grande arricchimento, che aiuta la crescita spirituale nostra così come quella degli altri.
Il dialogo richiede apertura mentale. Apertura verso Dio significa essere aperti all’azione della grazia di Dio in noi e nelle persone di altre religioni. L’apertura verso gli altri credenti "implica l’essere pronti a rivedere le idee preconcette nei loro riguardi, i radicati pregiudizi, le generalizzazioni di vecchia data e i giudizi sommari" (Card. Arinze), ma soprattutto significa scoprire ciò che di buono vi è negli altri.
Lavorando con i miei amici Buddisti nel campo dello sviluppo umano, della giustizia e della pace, sono ispirato dalla loro semplicità di vita, dalla loro apertura, dalle loro relazioni' umane', dal loro modo sottomesso di relazionarsi con gli altri. Questa è la Buona Notizia che mi danno i Buddisti. Sono essi ad evangelizzarci.
I miei amici Buddisti sono scandalizzati dal nostro atteggiamento trionfalistico, dal nostro assolutismo o arroganza. Si risentono del nostro rigido trattamento dei problemi umani. Ai loro occhi, la nostra Chiesa Tailandese si presenta ancora 'straniera' e 'occidentale'. Nel contesto di quanto abbiamo detto dovremmo chiederci: come possiamo incarnare la Chiesa in Asia? (Vescovo Mansap - Thailandia)
Il dialogo richiede amore e rispetto: l'amore ci aiuta a comprendere, ad essere amichevoli e pazienti con gli altri, ad evitate la polemica. L'amore e il rispetto "includono l'adattamento alle differenze culturali e alle conseguenze derivanti da disuguali livelli di istruzione, così come la flessibilità verso posizioni differenti riguardo la puntualità, il rispondere alla corrispondenza, il mantenimento delle promesse" (Card. Arinze). Il dialogo richiede libertà di espressione, il vero dialogo ricerca la giustizia e la pace per tutti; i diritti umani sono un valore per tutti, non soltanto per alcuni.
Un dialogo fruttuoso naturalmente richiede uno sforzo volto a conoscere meglio la religione dell'altro. Per alcuni di noi può esigere un impegno ulteriore, finalizzato a sedare infelici ricordi storici, come jihad, le guerre sante, le "Crociate" fra cristiani e musulmani, la colonizzazione e la tratta degli schiavi, etc. Forse, è necessario rivedere il modo in cui i nostri libri di storia o di spiritualità ci hanno fatto conoscere le altre religioni. (…)
Alcune ragioni teologiche
La Bibbia ci parla di "santi pagani" come Abel, Enoch, Noè, Melchisedech, Giobbe. La gente al di fuori di Israele può rispondere alla chiamata di Dio, come Cito (Is 44, 28), o gli abitanti di Ninive (Gion 3, 1-10). Nel Nuovo Testamento Gesù ammira la fede della donna cananea (Mt 15, 28), e prende ad esempio di amore attivo un samaritano (Lc 10, 25-37); e san Paolo ha una posizione di apertura nei confronti delle espressioni religiose degli ateniesi, nel suo discorso all'areopago (At 17, 22-31).
Sant'Ireneo dice che tutte le manifestazioni divine hanno luogo tramite la Parola di Dio (Logos); la prima di queste manifestazioni è la creazione stessa, poiché per mezzo di essa viene reso possibile l'incontro personale con Dio; inoltre abbiamo le manifestazioni ebraiche nel Vecchio Testamento, che sono anticipazioni della Cristofania (la manifestazione del Logos in Cristo) del Nuovo Testamento.
Il Concilio Vaticano Secondo (Lumen Gentium 16; Nostra Aetate; Ad Gentes 3, 9, 11) ci dice che le grandi tradizioni religiose dell'umanità mantengono valori positivi che meritano l'attenzione e la stima dei cristiani.
"Il dialogo di esperienza religiosa riguarda le persone che condividono esperienze di meditazione, preghiera, contemplazione, fede ed espressioni di fede, percorsi di ricerca di Dio come Assoluto, o di vita monastica o eremitica, e anche di misticismo" (Card. Arinze).
Papa Paolo VI nella sua enciclica Ecclesiam suam disse: "la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere" (67); così come Dio vuole il dialogo della salvezza con tutti gli esseri umani, anche "il nostro parimente dev'essere potenzialmente universale, cioè cattolico e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l'uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo" (78).
Papa Giovanni Paolo II in Redemptoris hominis (6; 12) sostiene una presenza operativa dello Spirito Santo nella vita religiosa dei non-cristiani, e nelle tradizioni religiose cui esse appartengono; ogni autentica preghiera viene fatta scaturire dallo Spirito Santo, misteriosamente presente nel cuore di ciascun individuo. In Dominum et vivificantem il papa menziona esplicitamente l’attività universale dello Spirito Santo prima dell’avvento di Cristo, e persino oggi, al di fuori della Chiesa. In Redemptoris missio (28-29), egli afferma che l’attività dello Spirito incide anche su altre religioni; perciò "il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice rispetto: rispetto per l’uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l’azione dello Spirito nell’uomo".
Dio è l'origine e la fine di tutti gli esseri umani perciò noi siamo tutti suoi figli. Questo è reso più evidente dall'incarnazione del Figlio a Dio: egli è misteriosamente presente in ogni essere umano (Mt 25, 31-46). Gesù è il salvatore di tutti gli esseri umani perché ha versato il suo sangue "della nuova ed eterna alleanza per molti in remissione dei peccati". In che modo la salvezza di Cristo sia offerta a tutti gli esseri umani è noto soltanto a Dio, e la teologia, nelle sue diverse tendenze, tenta di scoprirlo.
Il Regno di Dio proclamato da Gesù è "già" presente, ma non "ancora" compiuto; esso è particolarmente attuale nella Chiesa, ma è all'opera anche al di là di essa, nel mondo intero e particolarmente in quegli elementi di bontà e grazia contenuti nelle tradizioni religiose dei popoli; perciò, in un certo modo possiamo dire di essere co-membri e co-costruttori del Regno di Dio. Nella Chiesa troviamo la manifestazione visibile del progetto che Dio sta silenziosamente realizzando nel mondo. La Chiesa è al servizio del Regno di Dio e dei suoi valori; questo Regno è presente anche dove i valori del Vangelo sono all'opera e dove le persone sono aperte all'azione dello Spirito; attraverso il dialogo la Chiesa può scoprire e sviluppare i valori del Regno presenti fra genti di religioni diverse.
Dialogo interreligioso e proclamazione
Nella nostra missione fra tutti i popoli, il dialogo con i membri di altre tradizioni religiose tende ad una conversione più profonda a Dio, che opera nella nostra tradizione cristiana, ma che opera misteriosamente anche "nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni" (Dominus Iesus, n. 12). Talvolta, le diverse tradizioni religiose hanno sviluppato certe intuizioni a proposito del Mistero di Dio e certi atteggiamenti pratici, che possono arricchire anche noi cristiani. Questo perché il dialogo ha un valore in sé. La conclusione appropriata del dialogo interreligioso è la conversione comune dei cristiani e dei membri di altre tradizioni religiose ad un medesimo Mistero Divino, al medesimo Dio, il Dio di Gesù Cristo. In tal modo, noi tutti stiamo allargando il Regno di Dio nella storia, che rimane indirizzata verso la realizzazione di questo alla fine dei tempi. (…)
"Quando i vicini di differenti religioni sono aperti l'uno nei confronti dell'altro, quando condividono progetti e speranze, preoccupazioni e dolori, essi sono impegnati in un dialogo di vita. Non necessariamente discutono di religione, ma fanno appello ai valori dei loro diversi credo e tradizioni" (Card. Arinze).
Conclusione
Il problema principale del dialogo è la formazione, formazione umana e formazione religiosa. Ma finché nelle scuole non verrà fatto nessuno sforzo per presentare le altre religioni in un modo più obiettivo, non si faranno progressi. Il dialogo deve diventare un atteggiamento di rispetto nei confronti dell'altro, che per noi non è un ostacolo, ma una benedizione. Per la ricchezza del vivere nel dialogo, ciascuno deve accostarsi all'altro rimanendo se stesso. Dialogare non significa relativizzare la verità di tutte le religioni. Significa credere che vi sia una verità più alta, che non si potrà mai raggiungere per mezzo delle nostre verità parziali.
(da Ordine dei Frati Minori, La vita come dialogo, Quaderni di studi ecumenici n. 5, I.S.E. Venezia - Roma, 2002, pp. 83-93).
Apertura al trascendente
di Franco Gioannetti
L’esperienza religiosa ha coinvolto l’uomo fin dai tempi più remoti, assumendo varie caratteristiche.
Brahamanesimo: Già dal 2000 a.C. si ritrovano credenze e riti "vedici". Una religiosità, quella vedica, fondata su pratiche ascetiche tendenti ad ottenere la liberazione attraverso vari cammini, tra cui quelli della grazia e dell’amore. Dio è pronto ad aiutare l’anima e la grazia è uno stato divino di luce e di pace.
Una elevata riflessione religiosa del VII secolo d. C. così si esprime:
"Tu sei per me, o Signore, padre e madre
Tu sei per me l’amato
Tu mi doni vita e gioia
O Perla, o Ricchezza, Tu sei il mio tutto".
Buddismo: nasce alla fine del VI secolo a.C.; pensa ad una successione di esistenze che si deve interrompere per avere la felicità.
Questa interruzione può avvenire:
A questo occorre aggiungere i cinque elementi che nell’uomo corrispondono alle cinque viscere il cui equilibrio è fonte di salute fisica e salvezza morale. La santità è lo stato di equilibrio. L’anima pura non è separata dal principio supremo. Il santo è pieno del soffio vitale che coincide con il principio della vita.
Sciamanesimo: tutti i movimenti che raggruppano coloro che si sentono vicini alle forze della natura.
Individui particolarmente dotati, fanno da intermediari tra il mondo degli uomini ed il mondo degli spiriti e delle forze misteriose attraverso riti, trance, poteri inspiegabili. Per restaurare la relazione io-altro.
Vedere Dio
di Franco Gioannetti
Angelo Silesio in "Il pellegrino cherubico" scrive: "Tu dici che vedrai Dio e la luce: stolto, mai lo vedrai se non lo vedi già ora!".
Vedere Dio è accorgersi che c’è e comprendere che ognuno deve cercarlo dentro di sé.
La mistica, esperienza soprannaturale che si svolge nelle profondità dell’incontro uomo-Dio, è il tentativo di cogliere appunto l’esperienza che l’uomo ha fatto e fa di questa esperienza misteriosa ma anche luminosa.
La mistica è acquisire conoscenza di come i mistici sono stati capaci, perché aperti al divino, di vivere e di raccontare le meraviglie di Dio, di aprirsi all'intimità più profonda con il Dio che li ha creati.
Mistici ce ne sono stati, ce ne sono, ce ne saranno perché pensare misticamente è un bisogno insopprimibile della vita.
L’uomo è fatto ad immagine di Dio, perché allora non pensare che in ogni uomo vi sia capacità di provare qualcosa della presenza divina?
Questa immagine è tesa al raggiungimento della somiglianza con Lui.
Questa immagine, per noi cristiani, è un dono ricevuto con l’essere. La somiglianza si realizza sotto l’influsso dello Spirito Santo, in dipendenza dall’incarnazione redentrice.
La pace, gli slogan e il cuore nuovo
di Gerolamo Fazzini
Dinamismi comunitari inceppati
Il coraggio di confrontarsi
di Ennio Bianchi
La parresia, ossia la franchezza, l’apertura e la libertà di parlare, spesso è sopraffatta dalla paura di esporsi. In questo modo ne soffre il dialogo e si rinuncia a costruire insieme quella comunione che è fondamento dello stare insieme come Chiesa e come comunità.
«Se vuoi stare a galla, devi fare il morto» ci diceva in un serissimo corso di esercizi spirituali un dotto e arguto teologo e pastoralista. Il detto (oculatamente tenuto in grande considerazione in molti "palazzi") fotografa molte comunità ecclesiali e di vita consacrata, dove spesso esporsi troppo con le proprie convinzioni genera diffidenza, sospetti, emarginazioni e, per coloro che ci tengono, lo stop alla carriera.
Per questo la tradizione religiosa ha generato un'astuta e accorta prassi, piuttosto frequente nelle comunità cristiane: strategici silenzi, tattici mutismi, conniventi sorrisi, scaltri compromessi. Il tutto, magari, accompagnato da qualche mormorio, ma privato e circospetto e comunque sempre aperto - caso mai lo si venisse a sapere - a multiformi intendimenti e interpretazioni.
Atteggiamenti senz'altro avveduti per stare in linea con le indicazioni "superiori", ma contrari alla parresia biblica. Termine per molti alquanto ostico (e non solo linguisticamente), ma che tradotto connota le doti che dovrebbero essere in gran voga nelle Comunità di Cristo, considerato che nella parola di Dio esso significa franchezza, apertura, libertà di parlare, virtù che sono o dovrebbero essere una caratteristica della Chiesa di Cristo.
VIRTÙ DEL DISCEPOLO DI CRISTO
Un accenno soltanto alla parresia nell'AT, che pure ha pagine formidabili, rivelatrici della libertà e della sincerità che guidano il vero innamorato della verità di Dio. I profeti sono lì a dirci con quale forza e indipendenza di spinto occorre comunicare (in qualsiasi situazione esistenziale e sociale) la parola di Dio e le proprie convinzioni, senza tenere conto delle conseguenze personali, con l'atteggiamento etico dell'uomo libero, afferrato da Dio e che non teme di esporsi pubblicamente, sia nei palazzi del potere politico che nei palazzi del potere religioso. Nei salmi risuona più volte la voce “impertinente” del credente che sì rivolge a Dio per interrogarlo sul suo silenzio, sulla sua sordità alle preghiere, sul suo ritardo a fare giustizia.
Nel NT il termine (vi compare 31 volte) risplende in tutta la sua ricchezza e importanza. Il modello di parresia è Cristo stesso: l'intera sua predicazione è un parlare apertamente, senza sottintesi e fughe nel vago, delle esigenze del Regno, delle distorsioni portate dalle tradizioni alla genuinità e all’originalità della parola di Dio, delle ipocrisie di certi comportamenti, dell’insensibilità alla legge di Dio. Più volte deve intervenire con fermezza per chiarire ai suoi discepoli recalcitranti la natura della sua missione per richiamare senza mezzi termini la necessità della croce. Una vita, quella di Cristo, all'insegna della libertà interiore di proclamare le novità del Regno nella storia dell'uomo.
Ma i vangeli documentano anche il comportamento franco dei discepoli con Gesù, come quando essi - si fai portavoce Pietro - lo rimproverano apertamente per le sue parole che preannunciano la sua morte sulla croce. Ovviamente sbagliano, ma il fatto testimonia la circolazione di una libertà dialettica all'interno del gruppo, che non esita a contestare anche il venerato Maestro.
La Chiesa dei primi tempi respira o adotta - sia verso l'esterno che al suo interno - la parresia di Cristo, i discepoli annunciano con franchezza le opere di Dio, noncuranti delle persecuzioni, delle intimidazioni, consapevoli che non possono tacere le verità apprese. E resta proverbiale e paradigmatico lo scontro a viso aperto tra Paolo e i "conservatori" della religione e morale tradizionali e l'onestà e la schiettezza con le quali il problema è stato trattato e risolto. Inoltre le sue lettere lasciano chiaramente trasparire il dialogo, la schietta circolazione di idee, ma anche gli scontri e le diatribe, con i membri delle chiese da lui fondate. Un rapporto tra persone libere.
Franchezza, audacia, coraggio sono tutte espressioni della parresia e soltanto attraverso una sana manifestazione di queste virtù arrivano le novità di Cristo. Tacere, glissare vuol dire restare nel ricevuto, con la comodità e con il timore di chi non vuole essere libero, ma ubbidire passivamente, e di chi si rassegna a non essere portatore di qualcosa di nuovo.
L'ardire del discepolo di Cristo non è superbia, ma consapevolezza umile di essere figlio di Dio e quindi di avere il diritto di stare in piedi di fronte all'uomo e di avere il dovere di comunicare quanto - in coscienza - sì sente di dire per essere fedele a se stesso, in Dio.
Limitiamoci ad alcune brevi considerazioni a partire dal Vaticano II che - come noto - è stato un concilio essenzialmente ecclesiale e che ha messo in risalto l'uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, parlando di popolo di Dio.
VIRTÙ DEL POPOLO DI DIO
Di qui è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la “comunione” è l'idea centrale e fondamentale dei documenti conciliari, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri. Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti.
Non fanno certo difetto i documenti del magistero che ribadiscono alcune verità dell'essere popolo di Dio. Le indicazioni sono allettanti - sulla carta - e attendono ancora, in molte comunità ecclesiali e particolarmente religiose, di essere prima conosciute e poi seguite. Ne richiamiamo il senso sintetico globale, ma rivelatore, cogliendolo da vari documenti:
- la comunicazione e il dialogo sono indispensabili per l'efficienza della vita della Chiesa;
- il dialogo e la comunione nella Chiesa richiedono particolare attenzione all'opinione pubblica dentro e fuori della comunità ecclesiale;
- se l'opinione pubblica venisse a mancare mancherebbe qualcosa alla natura della Chiesa;
- i cattolici debbono essere coscienti di avere quella libertà di parola e di espressione che si fonda sul senso della fede e della carità;
- il libero dialogo non nuoce certamente alla saldezza e unità della Chiesa, anzi favorisce la concordia di intenti e di opere;
- si deve riconoscere - tenendo presente che l'opinione pubblica e il dialogo sono essenziali per la Chiesa - che i fedeli hanno il diritto di ottenere quelle le informazioni indispensabili per affrontare la loro responsabilità nell'ambito della vita ecclesiale.
Le linee generali per una bella e diffusa parresia sono - sulla carta, ripetiamo - tracciate. Attendono ancora, in molti ambiti della vita ecclesiale di essere applicate.
Al riparo della parola di Dio e incoraggiata dal magistero della Chiesa, la parresia dovrebbe dilagare nelle comunità religiose, anche perché tutte ci tengono a fregiarsi della qualifica di "famiglia".
DELLA "FAMIGLIA" RELIGIOSA
Ora nelle famiglie - quelle autentiche - si parla, si dialoga, si discute, magari ci si scontra e ci si arrabbia, ma sempre con l'obiettivo - dichiarato e riconosciuto - di cercare il bene di tutti.
Le parole di Cristo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no» vogliono pure significare qualcosa: intendono richiamare alla veracità e alla sincerità del dialogo, proclamare che la relazione autentica con Dio e con gli uomini può fondarsi soltanto su una parola e un atteggiamento trasparenti e schietti. La prudenza (niente affatto cristiana) di certi comportamenti rivela il desiderio di non avere fastidi che rovinino la tranquillità esistenziale conquistata dopo anni di presenze defilate nei cantucci della comunità, quando non manifesta il sostanziale vuoto (colpevole perché cercato nel tempo) di proposte da presentare.
Le parole astratte, sfuggenti, prudenti non coinvolgono più di tanto il nostro essere, ci lasciano, psicologicamente e di fatto, ai margini dei problemi e degli interessi reali della comunità: sono chiacchiere che non dicono il significato profondo di quello che sentiamo e viviamo personalmente e che sogniamo per la nostra vita di consacrati. In questo caso nascondiamo sempre qualcosa di noi stessi e quindi ci rifiutiamo di donarci, con le nostre ricchezze e povertà, alla comunità.
Il rinnovamento tanto auspicato della vita consacrata passa anche, e in gran parte, attraverso il coinvolgimento coraggioso e responsabile - anche questo è parresia - di tutti i religiosi nei problemi in discussione. Restare ai margini svela il poco o il nessun interesse reale alla famiglia nella quale si vive e non costruisce una realtà condivisa perché discussa, partecipata, comunicata. La parresia dichiara che i religiosi sono dei credenti nella nobiltà dei figli di Dio e nella libertà interiore che Gesù ha portato. E la sua accettazione da parte di chi è proposto alla comunità esprime il riconoscimento della dignità del discepolo di Cristo e la volontà di condivisione, di revisione, di corresponsabilità. In una parola che il dialogo è l’unica via per edificare una comunità dove non vi siano ostracismi, relegazioni, livelli e gradi più o meno percettibili, ma fratelli, uniti dalla stessa missione di edificare, il meno peggio possibile, la comunità di Cristo.
(da Testimoni, 7, 2004)
Centralità della prospettiva ecumenica
nei documenti del concilio
di Lorenzo Cappelletti
I libri della Bibbia
e gli "apocrifi"
di Gaetano Castello
Una qualunque edizione cattolica della Bibbia elenca settantatre libri, divisi nelle due grandi sezioni dell'Antico (quarantasei libri) e del Nuovo Testamento (ventisette libri). Anche la loro successione è costante. È tuttavia naturale, per la natura stessa della Bibbia, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, che la sistemazione dei libri riconosciuti dalla Chiesa come "ispirati" sia avvenuta nel tempo. Può meravigliare sapere che il "canone", la lista completa dei libri biblici, fu fissato in maniera autorevole e definitiva solamente nel 1546, con i Decreta de Sacris Scripturis del Concilio di Trento. Prima di quel momento non mancava certamente il riferimento a liste ritenute ufficiali, ma la crisi determinata all'interno del mondo cristiano con la riforma protestante che rifiutò la canonicità di alcuni libri, impose con urgenza il problema di stabilire in maniera definitiva "semel pro semper", quali fossero i libri ritenuti "ispirati" dalla Chiesa.
Il canone della Scrittura
Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È già accaduto quando si è accennato alla formazione della Bibbia ed alla sua natura divino-umana. E per questa sua caratteristica fondamentale che la Sacra Scrittura non può essere assimilata a una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell'uomo. La collaborazione tra Dio e l'uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo: continuò nell'impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell'opera di discernimento a cui i credenti furono chiamati per accogliere le divine Scritture distinguendole da tanti scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. Questo processo continua oggi con l'azione dello Spirito che accompagna la lettura e la comprensione delle sacre Scritture nella comunità dei credenti, e nel servizio di discernimento, affidato ai successori degli apostoli, sull'interpretazione autentica della Scrittura.
È in quest'ampio contesto, storico e di fede, che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 8, afferma perciò che "la stessa tradizione (che trae origine dagli apostoli) fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri".
A determinare la canonicità, il riconoscimento cioè che quei libri sono frutto dell'azione ispiratrice dello Spirito Santo, non fu un unico e determinato elemento, ma l'uso e l'accoglienza di essi nelle comunità cristiane vagliato dal discernimento attento di chi nellaChiesa continuò la missione degli apostoli.
Il canone ebraico
La definizione del canone biblico fu dunque graduale. Già molto tempo prima di Gesù Cristo, nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Torah, i primi cinque libri della Bibbia definiti dai cristiani, con termine greco, Pentateuco. La loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all'interno stesso dell' ebraismo. Così, per es., i samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Torah come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, che per gli ebrei comprendono i "profeti anteriori" (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele e 1 e 2 Re) ed i "profeti posteriori" (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori) vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione.
Ne dà testimonianza, in particolare, il prologo del Siracide che parla, già alla sua epoca (II sec. a.C.), di Torah, Profeti e Scritti. Proprio la terza categoria fu quella più fluttuante. Comprendeva infatti libri di diverso genere, dai salmi ai libri sapienziali, a libri di tipo storico. Dall'altra parte vi sono testimonianze antiche circa l'uso di libri che poi non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non deve meravigliare. La definizione del canone avvenne, come si è detto, non per un principio unico prestabilito, ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, consigliabili per la consultazione e per l'edificazione, non esprimevano autenticamente la parola di Dio.
Gesù e i suoi discepoli condivisero, all' inizio dell' era cristiana, quest'uso spontaneo delle scritture sacre dei giudei, il cui primo posto era senza dubbio assegnato alla Torah. La liturgia sinagogale, come riferiscono gli stessi Vangeli, sin da allora prevedeva la lettura di pagine dei profeti, come Gesù stesso ebbe modo di fare (cf Lc 4,16-19). Tuttavia ancora a quell'epoca non si può parlare di un "canone" ebraico, di qualcosa che corrisponda alla nostra idea di una lista ben fissata e definita di tutti i libri ispirati. Il bisogno di una definizione dovette farsi sentire soprattutto nel conflitto crescente tra sinagoga e Chiesa. Il fatto che i cristiani si ritenessero gli eredi legittimi delle scritture di Israele portò, tra le prime conseguenze, al rifiuto ebraico della traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta (in sigla L XX). Il largo uso che i cristiani fecero delle scritture ebraiche nella loro versione greca, portò i giudei a sostituire quella traduzione, nata per i tanti giudei sparsi nell'area mediterranea e che comprendevano ormai solamente il greco, con nuove versioni greche comparse nel secondo secolo dopo Cristo (Aquila, Simmaco, Teodozione).
È dunque in questo contesto di tipo polemico, soprattutto a difesa della propria identità, che si andò a mano a mano precisando quali fossero i libri sacri per il mondo giudaico. Il processo di definizione fu sollecitato anche dal grande disastro determinato dai Romani che nel 70 d.C. ad opera di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, deportarono molti giudei, annientando dal punto di vista organizzativo, politico, militare, religioso, quello che era sino ad allora il mondo giudaico. Dopo una simile catastrofe è indubbio che fosse avvertito con urgenza il problema di una ricostituzione, del recupero della propria identità nazionale e religiosa che dovette passare, tra l'altro, attraverso la distinzione da quel gruppo di giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia atteso e che utilizzavano gli scritti sacri dell'ebraismo.
Gli ebrei esclusero così alcuni libri di cui non si conosceva l'originale ebraico o che furono addirittura composti in greco. Si tratta dei cosiddetti deuterocanonici: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Baruk ed epistola di Geremia ( = Bar 6), Siracide, Sapienza, con le sezioni di Daniele ed Ester scritte in greco (Dn 13-14; Est 10,4-16,24). È per questo che la Bibbia ebraica presenta sette libri in meno rispetto all'AT dei cattolici. Al canone ebraico si uniformeranno più tardi i riformatori protestanti che definiranno "apocrifi" i libri deuterocanonici sopra elencati, escludendoli dalle loro Bibbie.
Come si diceva, la Chiesa primitiva condivise la comune fede ebraica nell'autorità dei libri ritenuti sacri. Vi sono testimonianze, anche presso alcuni antichi autori cristiani, circa l'uso di libri che non entreranno a far parte del canone biblico, né di quello ebraico né di quello cristiano; il caso più evidente è quello della lettera di Giuda che al v. 14 cita il libro di Enoch, uno scritto giudaico che non entrerà nel canone ebraico né in quello cristiano. Segno evidente che l'estensione del canone dell'AT andrà chiarendosi solo gradualmente.
Il canone del NT
Sempre in questa chiave storico-religiosa, va individuata l'origine del canone del Nuovo Testamento. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di alcuni libri ritenuti universalmente come ispirati (è il caso dei Vangeli, delle lettere di Paolo), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre.
È il caso della lettera agli Ebrei, quella di Giacomo, la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza di Giovanni, quella di Giuda e l'Apocalisse.
Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come testi ispirati. Anche per il NT non esistette un unico criterio per decidere della canonicità, benché l'origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento.
La formazione del canone dipese, insomma, dalla coscienza dell'ispirazione. Nella misura in cui ebraismo cristianesimo si andarono organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sorse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti come "parola di Dio". Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso "Frammento muratoriano", del II secolo d.C.; della lista di Origene (III sec.) o di quella di Eusebio (IV sec.). Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei Concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà la lista lunga valida nell'Occidente cristiano. Si tratta del canone che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze (1441).
Nessuno dei Concili citati aveva tuttavia affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno, che invece si presentò come urgenza quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Essi designarono, tali libri con il nome di "apocrifi", riservato dai cattolici a quei testi che pur trattando di argomenti simili ai libri biblici, ed in forma simile, furono esclusi dal canone delle Scritture Sacre perché non riconosciuti come libri "ispirati".
Questi libri conservano naturalmente un interesse del tipo storico e culturale sempre meglio apprezzato, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti. In relazione all’ AT è il caso di quella vasta produzione letteraria che si sviluppò nell’ambito della cosiddetta "apocalittica giudaica", tra il II sec. a.C. ed il I d.C.
Un caso particolarmente interessante per i cristiani è quello dei cosiddetti Vange li apocrifi da cui derivano addirittura notizie mantenute nell'ambito della tradizione cristiana (come per es., le notizie sull'infanzia e sui genitori di Maria, Gioachino è d Anna, dei quali si ha notizia nel Protoevangelo di Giacomo, del 200 d.C., ca.).
Sempre relativamente ai vangeli apocrifi non è difficile notare come si differenzino notevolmente dai Vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù di Nazaret, finalizzata alla testimonianza di fede, vero scopodegli scritti evangelici (cf Gv 20,30-31), gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso.
Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l'eco in racconti tramandati soprattutto ai bambini sull'infanzia di Gesù, o alcune rappresentazioni della passione di Gesù (per es. il Vangelo di Nicodemo) con evidenti tendenze pro-romane, in cui Pilato, rappresentante del vittorioso mondo di Roma, appare quasi come un eroe del cristianesimo, vinto dalla protervia giudaica. Altri scritti apocrifi, come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo ecc., ebbero una più chiara origine di elaborazione gnosticheggiante del messaggio cristiano. Proprio l’uso di alcuni di questi scritti da parte di gruppi eterodossi fu uno degli elementi che ne determinarono l'esclusione dal canone.
Oggi nel mondo protestante le Bibbie presentano l'AT nella forma ridotta dei primi riformatori. Come nei primi tempi della Riforma, tuttavia, i sette libri deuterocanonici vengono spesso raccolti in appendice all'AT chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico. Non si presentano invece differenze per quanto riguarda il canone del NT.
Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi originari della rottura tra cattolici e protestanti, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di la dialogo ecumenico.
(da Parole di vita)
Il fuoco sacro della pace
di Marcelo Barros