Il dodicesimo gradino
Il dodicesimo gradino si ha quando il monaco non solo nel cuore, ma anche con lo stesso atteggiamento del corpo, manifesta sempre l’umiltà a chi lo vede: cioè all’Ufficio divino, in chiesa, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque; sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: “Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo”.
Il dodicesimo gradino potrebbe sembrare ancora più sconcertante degli altri, perché ci descrive un monaco col capo chino, con gli occhi fissi a terra, che pensa continuamente ai suoi peccati e si vede già davanti al tremendo giudizio di Dio.
Chi di noi oggi può accettare una simile raffigurazione e chi può approvare un simile comportamento? Sono proprio necessari questi contorcimenti, per praticare la virtù dell'umiltà? Se qualcuno volesse tentare di atteggiarsi a umile con queste forme artificiose si renderebbe semplicemente ridicolo e lancerebbe piuttosto un messaggio, non di umiltà, ma di falsità e di ipocrisia.
È notevole il fatto che un tale atteggiamento del corpo, che del resto ci appare piuttosto consono a una certa cultura del suo tempo e ostico alla nostra sensibilità moderna, sia da san Benedetto descritto non come premessa a un cammino ascetico o come propedeutica alla scuola del servizio divino, ma solo come coronamento alla fine di un lungo e duro cammino spirituale che ha dovuto trasformare completamente il cuore.
Ma non possiamo negare che l’umiltà del cuore, acquisita attraverso tutte le tappe successive presentate dalla regola, determina necessariamente, quasi da sé, anche un comportamento esterno e che la persona davvero umile si lascia vedere tale, senza che neppure lo voglia, senza sapere di essere umile, senza percepire l’effetto che può produrre il suo comportamento.
La conoscenza della nostra limitatezza e della nostra povertà (e chi è senza peccato sulla terra?) ci porta quasi istintivamente a identificarci non con i grandi santi fulgenti di eminenti virtù, né con gli angeli del cielo che vedono continuamente il volto di Dio, ma con il povero pubblicano di cui ci parla Gesù, che non osa alzare gli occhi al cielo e, con onesta sincerità e dolorosa compunzione, si proclama peccatore, chiedendo a Dio di aver pietà di lui.
Allora forse noi non avremo il collo torto, non terremo gli occhi fissi a terra: alzeremo la testa e guarderemo negli occhi il fratello che ci sta dinanzi; ma il nostro sguardo sarà senza alterigia e senza arroganza, senza puntigliosa curiosità, senza giudizio o spirito di contesa: lo sguardo di colui che sa la propria miseria e perciò sa compatire quella degli altri, che è consapevole delle proprie colpe e non può condannare quelle degli altri, che è avvolto nella misericordia del Signore e perciò sa dispensarla ai fratelli; perché ormai è nella pace e non ha più nulla da rivendicare né da salvare perché è già salvato dal perdono di Dio.
Non è forse questo il culmine della libertà? Libertà dal giudizio su di sé, libertà dalla paura del giudizio degli altri, libertà dalla ricerca di una immagine da salvaguardare, libertà dalla necessità di custodire una maschera. Non sarà questa la via dell'infanzia spirituale di cui è così difficile parlare? Se non diventerete come bambini…(Mt 18,3).
Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo (Salmo 138).
sr. Francesca osb