Il dialogo risorsa dei forti
di Mario Marazziti
Si legge nei Racconti dei Chassidim che il rabbino Pinhas così spiegava la confusione di lingue dei popoli: "Prima della costruzione della torre tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio... Ciò che Dio fece quando li punì, fu di toglier loro la lingua santa". Era la lingua della comunicazione tra i popoli. Il dialogo tra i credenti delle diverse comunità religiose è il lavoro per riscoprire questa lingua sacra, ed è un grande bisogno dei nostri tempi.
Era questa l'intuizione di Giovanni Paolo II quando ad Assisi, nel 1986, invitò i leader delle grandi religioni mondiali a pregare gli uni accanto agli altri per invocare dall'alto il "grande dono della pace". Era una intuizione che si era forgiata nel dolore della Seconda guerra mondiale, nell'orrore della Shoah, nella lotta non violenta, spirituale e morale al totalitarismo sovietico, nel Concilio Vaticano II. Una intuizione radicata nel profondo del XX secolo, che si è appena chiuso. Il tempo più secolarizzato della storia umana. Molti avevano anticipato la "fine del cristianesimo" e delle religioni. La fine del XX secolo, invece, si è chiusa sotto il segno della globalizzazione e delle religioni. E quello che Gilles Kepel ha chiamato "la rivincita di Dio".
Le grandi religioni mondiali sono tornate a essere un fattore rilevante sulla scena internazionale oltre che nella vita quotidiana. A volte sono state usate, come in passato, per sostenere conflitti. Ma sono anche diventate in maniera inedita un fattore di ricomposizione e di dialogo.
Con il Concilio Vaticano II si è infatti innescato un cambiamento radicale nel rapporto tra le grandi religioni monoteistiche, islam, ebraismo, cristianesimo, per iniziativa della Chiesa cattolica. Ne è seguita la stagione del disgelo e degli entusiasmi del dialogo, sia ecumenico che interreligioso, fino alla stagione del "disincanto".
La spinta dei meeting internazionali "Uomini e religioni" viene da lontano: l’ispirazione prossima è nella Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986; ma ben prima si era mostrato un movimento all'interno dei differenti mondi delle religioni per una più intensa comprensione reciproca. Quasi cento anni prima, nel 1893, si era tenuto a Chicago - su iniziativa stavolta di un pastore presbiteriano e con l'appoggio della Chiesa cattolica nordamericana - il Word Parliament of Religions, con la partecipazione di sedici tradizioni religiose. L'iniziativa avrebbe dovuto continuare a Parigi nel 1900, ma si trasformò in un congresso di studiosi di storia delle religioni.
La seconda fase è segnata dall'incontro mondiale di dialogo di Assisi: che non è rimasto un unicum. Per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e la risposta di leader religiosi (e laici) in molte parti del mondo, ne è nato un movimento mondiale che ha attraversato molte capitali europee e ha creato e crea una consuetudine all'incontro proprio mentre sono scoppiati nuovi conflitti, dai Balcani al Medio Oriente, ai Grandi Laghi in Africa. E mentre si è diffusa un’ondata fondamentalista nelle principali espressioni religiose del pianeta, dall'islam all'induismo, a settori protestanti americani. Il dialogo tra le grandi religioni della terra è stato messo al centro, con la preghiera, da Giovanni Paolo II, in tempi di grave turbamento mondiale per il ritorno della guerra: i due incontri di Assisi successivi al 1986 e la Preghiera interreligiosa in piazza San Pietro alla vigilia del Grande Giubileo.
La convinzione della Comunità di Sant'Egidio, quando avvia gli incontri internazionali "Uomini e religioni" è che le religioni possono e debbono dare un contributo importante alla pace. La pace, nel XX secolo, è entrata nel bene e nel male nelle agende delle diverse tradizioni religiose, tutte attraversate dal problema della legittimazione dei grandi conflitti mondiali. Ma desolidarizzare solennemente le religioni dalla guerra appare un compito possibile, anzi necessario. È così che da Roma il dialogo riparte ma riparte soprattutto dal basso, coinvolgendo leader religiosi e mondi di base di riferimento. Oggi questa onda di dialogo tra uomini di religione e esponenti della cultura laica per affrontare con onestà, assieme, le grandi domande del nostro tempo, torna a Milano.
L'appuntamento è stato per il 5-7 settembre 2004. E il titolo è già una sfida: "Religioni e culture si incontrano: il coraggio di un nuovo umanesimo". Più di trecento leader delle grandi tradizioni religiose mondiali, cardinali, mufti, teologi, rabbini, grandi anime della tradizione buddhista e induista, credenti e testimoni laici si sono dati appuntamento su invito della Comunità di Sant'Egidio e dell'arcivescovo di Milano per resistere alla tentazione della contrapposizione, dello "scontro tra le civiltà" e per costruire i passi necessari per entrare nella globalizzazione con un po’ più di anima, meno in ordine sparso, convinti della grande necessità di reinventare la pace e la coabitazione in un mondo che è più complicato di ieri.
È un'onda lunga, quella che torna a Milano, l'unica città che ha ospitato più di un incontro interreligioso mondiale, oltre ad Assisi e a Roma, dove hanno preso inizio i meeting internazionali "Uomini e religioni". In mezzo è accaduto di tutto.
Era difficile immaginare il mondo in cui ci troviamo oggi quando questo pellegrinaggio di uomini e donne comuni e di grandi leader spirituali ha mosso i primi passi. Chi scrive ricorda la difficoltà, alla fine degli anni Ottanta, di avere nella stessa sala ebrei e musulmani, con i loro segni distintivi, all'inizio. La diffidenza poi superata - tra ebrei e cattolici nel 1989, cinquantesimo anniversario della Seconda guerra mondiale, quando il meeting si spostò a Varsavia, Cracovia e Auschwitz-Birkenau: per il contenzioso sull'apertura del Carmelo di Auschwitz nel recinto del luogo della memoria "sacro" agli ebrei.
Ricordo il cammino fatto: il primo pellegrinaggio, in quella occasione, di leader musulmani nel luogo dello sterminio di massa degli ebrei, un vero disgelo; l'invocazione perché i muri cadessero, prima della fine del Muro di Berlino, quando nessuno immaginava l'implosione dell'impero sovietico; i passi di dialogo per ricucire le ferite della Guerra dei Balcani tra la Chiesa ortodossa di Serbia e la Chiesa di Roma, allora sentita come avanguardia delle potenze occidentali in guerra per Bosnia e Sarajevo.
Molto è cambiato, in questi anni, da Milano (1993) a Milano (2004). Si è riaperto un dialogo profondo tra il patriarcato ortodosso di Romania e Giovanni Paolo II, dopo la grande Preghiera per la pace di Bucarest, che San'Egidio ha organizzato per la prima volta assieme a una Chiesa ortodossa. E oggi sono in via di soluzione i contenziosi legati alle grandi ferite lasciate dallo scontro tra ortodossi e uniati cattolici, acuiti da stalinismo e regime di Ceaucescu. Il canale di stima e di comunicazione con il grande mondo ortodosso russo, che non si è mai chiuso e che ha ripreso vigore nei meeting internazionali "Uomini e religioni" è un altro motivo di speranza, come pure gli esili, mai interrotti contatti con l'universo dei credenti cinesi. È stato commovente vedere davanti alla chiesa di San Domenico a Lisbona la richiesta di perdono del patriarca, il cardinale José da Cruz Policarpo, agli ebrei portoghesi proprio nel luogo che è stato il simbolo dell'inquisizione: curando una ferita durata quattro secoli. E è stato ed è decisivo vedere lo sforzo di incontro che dopo l'11 settembre 2001 è diventato ancora più necessario, per togliere aria, acqua e spazio agli estremisti che vorrebbero un mondo permanentemente in guerra e schiavo della paura e dell'odio, sotto la minaccia del terrorismo.
In questi anni molti i cambiamenti: all'interno del cammino di dialogo e nello scenario esterno. E le due cose si intrecciano. Non era facile, agli inizi, che ebrei e musulmani accettassero con facilità di essere nello stesso luogo, nello stesso paneli. All'inizio, discorsi paralleli. Poi, negli anni, un intero popolo di cercatori di pace dalle diverse tradizioni religiose è diventato protagonista del dialogo, di una ricerca comune, della necessità di tornare nel profondo delle proprie rispettive tradizioni religiose per trovare le ragioni del dialogo e della pace.
Difficile un bilancio. Paradossalmente, il successo maggiore è il fatto che il dialogo interreligioso è uscito dallo statuto dell'eccezionalità e, in certa misura, è diventato "ordinario". Che si è contagiato nelle chiese locali, tra le diverse comunità, anche quando ci sono, riemergenti, incomprensioni e paure. Difficile anche un bilancio dei momenti più importanti.
Le religioni - ha scritto Andrea Riccardi - possono essere benzina sui conflitti, ma possono essere anche acqua sui conflitti. Negli incontri "Uomini e religioni" le religioni hanno scelto in maniera impegnativa - in un tempo di rinascenti fondamentalismi - di non farsi utilizzare per fare meglio la guerra, e per costruire un'alternativa a un clash of civilization che sembra auspicato da più parti: dai maestri del terrore e da chi teme il dialogo.
È la sfida che viene raccolta a Milano in questo 2004. È un dialogo a più dimensioni. Dialogo tra cristiani: viste da lontano, nella prospettiva della globalizzazione, dei bisogni del pianeta, delle domande mute delle popolazioni civili che soffrono e di quanti chiedono un senso per la propria vita, le divisioni tra cristiani appaiono poco comprensibili, nella loro catena di piccole o grandi diffidenze e incomprensioni. È da salutare come una buona notizia e da circondare con affetto, per esempio, la presenza di tante Chiese ortodosse al meeting per la pace di Milano. Dialogo tra credenti delle grandi religioni mondiali: le tre religioni del Libro, ebrei, cristiani e musulmani e le grandi religioni asiatiche. L'antidoto alla tentazione dello scontro tra le civiltà sta qui, in questa scelta del dialogo come forza e della preghiera come arma. La preghiera come "forza debole" che cambia il mondo, mentre ci si conosce di più, ci si capisce di più, si camminerà processionalmente assieme fino alla Piazza del Duomo, il 7 settembre, in un'immagine - vera e non pubblicitaria - che è il contrario dell'11 settembre o delle immagini che vogliono stravolti i volti dell'Altro in quello del nemico.
Dialogo tra le culture, per evitare che il pianeta imbarbarisca come la nostra vita quotidiana, che le nostre case e i nostri quartieri o il nostro mondo diventino zone franche" recintate da alti fili spinati per difendersi dal "nemico": poveri, immigrati, sconosciuti, Sud del mondo, credenti di altre religioni.
"A che serve il dialogo?". C'è chi sostiene che è impossibile il dialogo senza svendere i pezzi pregiati della propria identità. Al contrario, il dialogo nasce dalla scelta di andare più in profondità nella propria identità, anche di cristiani, senza lasciarsi sopraffare dalla paura dell'altro perché incerti di sé stessi. Non è l'incontro degli ingenui. Il dialogo, infatti, non è mai la scelta dei deboli o degli spaventati. È una grande occasione per andare in profondità nella propria comprensione religiosa e, da lì, trovare nuove ragioni per comprendere l'altro, riempire fossati, svuotare le ragioni della diffidenza e della guerra in un tempo in cui terrore e conflitto sono diventati di casa. È un modo per fare entrare frammenti di futuro mentre il cielo sembra plumbeo e senza spiragli.
È il tempo in cui non smettere di guardare al futuro e alla convivenza da ricostruire. Al fondo, c'è una consapevolezza antica. Era ed è una sensibilità in profonda sintonia con una domanda che Igino Giordani si faceva già nel 1953, all'indomani del secondo conflitto mondiale: "A che serve la guerra?". Si rispondeva: "La guerra è un omicidio in grande, rivestito di una specie di culto sacro, come lo era il sacrificio dei primogeniti al dio Baal: e ciò a motivo del terrore che incute, della retorica onde si veste e degli interessi che implica. Essa sta all'umanità come la malattia alla salute, come il peccato all'anima".
A Milano sono risuonate le parole di un grande arcivescovo e Papa, Paolo VI, e la sua sapienza entrerà nelle corde profonde dell'Incontro internazionale. Esprimeva già, celebrando le Giornate mondiali della Pace, ogni 1° gennaio, il "Vangelo della Pace", come nel 1970: "Quando parliamo di pace, non vi proponiamo, o amici, un immobilismo mortificante ed egoista. La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare. Non è un'ideologia soporifera... Non è nostro ufficio giudicare le vertenze tuttora in atto fra le nazioni, le razze, le tribù, le classi sociali. Ma è nostra missione lanciare la parola Pace in mezzo agli uomini in lotta fra loro. È nostra missione ricordare agli uomini che sono fratelli. È nostra missione insegnare agli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a educarsi alla pace".
Pochi anni dopo, nel 1979, il messaggio del 1° gennaio individuava ancora più precisamente la strada, la stessa di oggi: "Predicare il vangelo del perdono sembra assurdo alla politica umana, perché nell'economia naturale spesso la giustizia non lo consente... La pace che conclude un conflitto è di solito un'imposizione, una sopraffazione, un giogo... Manca a questa pace, troppo spesso finta e instabile, la completa soluzione del conflitto, cioè il perdono, il sacrificio del vincitore a quei vantaggi raggiunti, che umiliano e rendono il vinto inesorabilmente infelice; e manca al vinto la forza d'animo della riconciliazione... Da una parte e dall'altra occorre l'appello a quella superiore giustizia, che è il perdono, il quale cancella le insolubili questioni di prestigio, e rende ancora possibile l'amicizia. Lezione difficile: ma non è forse magnifica? Non è forse di attualità? Non è forse cristiana?".
(da Jesus, n. 9, settembre 2004)