L'ecumenismo e la Chiesa ortodossa
di Vladimir Zelinskij
Il tema “l’ecumenismo e l’ortodossia” è troppo vasto per spiegare tutto nel poco tempo che mi è stato assegnato, per il semplice motivo che la posizione delle Chiese ortodosse nei confronti delle altre Chiese varia da paese a paese, da teologo a teologo. Per alcuni di questi teologi l’ecumenismo è una vocazione in senso proprio, una necessità che proviene dalla fede, per gli altri, e sono non pochi, tutta l’avventura dell’unione tra le Chiese è nient’altro che un trucco dell’Anticristo che vuole confondere le religioni per costruire una sorte di Super-Chiesa sotto il suo potere. Non esiste, dunque, un consensus generale simile al clima favorevole dei contatti interconfessionali nel mondo protestante o alla posizione ufficiale del Magistero cattolico. Un’altra difficoltà, poi, è di carattere culturale: il rapporto con le altre comunità cristiane in Occidente è come se fosse inevitabilmente iscritto in un quadro più ampio del rapporto, fin troppo drammatico, fra Oriente e Occidente, anche al di fuori del contesto cristiano. Questo vuol dire, che il lavoro ecumenico non è ancora liberato, almeno per l’Oriente, dal suo peso storico e politico, pieno di conflitti e di rivalità. Quando non c’è nessuna rivalità, come, per esempio, nel caso delle trattative teologiche con le chiese orientali pre-calcedoniane, i contatti non suscitano particolare interesse o agitazione all’interno dell’Ortodossia e non vengono neanche chiamati ecumenismo, cioè con il nome che provoca reazioni diverse e abbastanza aspre nel popolo.
La quarta difficoltà proviene da un fatto che tutti conoscono e sempre dimenticano: le Chiese ortodosse, con poche eccezioni, stanno praticamente vivendo i primi 15 anni della loro libertà in senso pieno, come la viviamo in Occidente e non hanno avuto ancora il tempo per abituarsi a tutte le sue sfide. Non sanno bene che cos’è la libertà della società civile con il suo inevitabile pluralismo religioso, come affrontarlo e viverlo pacificamente accanto alle altre forme della vita religiosa, a volte anche abbastanza intolleranti ed aggressive (se pensiamo alle sette, soprattutto straniere). Esse si sono abituate sia ad una situazione molto favorevole nei confronti dell’ortodossia come religione privilegiata, in regime di persecuzione crudele, ma non verso lo Stato indifferente e laico, che con la sua neutralità favorisce, in un certo senso, la vocazione ecumenica. Ma anche dall’altra parte, quella occidentale, democratica e dialogica, manca spesso l’immaginazione che possa esistere una mentalità diversa da quella occidentale, democratica, dialogica, ecc.
La più importante è anche la quinta difficoltà (lasciamo perdere le altre a cui non ho potuto accennare) che tutti conoscono, ma di cui non sempre si tiene conto. Si tratta del problema teologico nel senso essenziale e precisamente che la Chiesa ortodossa (in questo contesto possiamo parlare di Chiesa nel suo insieme) è la Chiesa tradizionale. Il suo carattere tradizionale significa che non solo la sua fede, ma anche la sua ragione, il suo pensiero, il suo atteggiamento nei confronti dei fenomeni della vita cristiana, delle fedi delle altre Chiese si appoggiano sulla Tradizione di duemila anni, soprattutto sull’eredità dogmatica dei sette Concili ecumenici, sul lavoro teologico dei Padri della Chiesa, sulla vita spirituale vissuta nell’esperienza dei santi.
Prima di cominciare il dialogo ecumenico con l’ortodossia, bisogna cercare di capire che cos’è la Tradizione e il suo ruolo nella Chiesa. Non siamo come la prima generazione dei cristiani che non avevano neanche la Scrittura, ma solo la testimonianza della parola orale, la speranza, l’attesa del Ritorno del Signore e il martirio (ma tutti questi momenti rappresentavano già una forma della Tradizione). Gli ortodossi non scoprono la fede come se fra di essi in ogni momento della storia e della rivelazione di Dio in Cristo non ci fosse niente. Perché secondo la loro fede, anche dopo l’Incarnazione, il Padre Celeste continua ad agire con le sue due mani, il Figlio e lo Spirito (secondo l’espressione di Sant’Ireneo di Lione), e gli ortodossi si sentono eredi di questo enorme lavoro nella storia umana, ne portano e ne custodiscono la memoria. La Tradizione è una memoria sacra e incarnata nella vita ecclesiale del passato, dei nostri giorni, ma anche del futuro e il dovere della fedeltà a questa memoria è più importante del nostro adattamento alle regole e alla morale del mondo in cui viviamo. Devo dire che questa fedeltà, che può essere autentica, ma a volte anche fanatica, ha provocato non poche lacerazioni e scismi all’interno dello stesso mondo ortodosso (soprattutto russo).
La Tradizione spesso prende su di sé il ruolo che svolge il Magistero nella Chiesa cattolica, ma non coincide con esso. Se il Magistero interpreta la Rivelazione rispetto ad ogni epoca della storia, spiegandola e a volte adattandola alla comunità dei credenti, la Tradizione ortodossa è, in un certo senso, la Rivelazione stessa come frutto dell’azione permanente dello Spirito Santo che agisce nella Chiesa. E può essere cambiata solo con un’altra azione dello Spirito, invocato o “voluto” unicamente dal Concilio ecumenico (secondo la formula: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...” – Atti, 15, 28), ma anche confermato dalla ricezione del “noi” nel senso più ampio, cioè dal Popolo di Dio. Si vede che questo concetto della Tradizione, formulato in modo diverso dai vari teologi, consegna all’ortodossia una grande stabilità e la protegga dalle molte crisi che subiscono le Chiese Occidentali, ma nello stesso tempo renda difficilissimo qualsiasi cambiamento all’interno, senza il quale non è possibile un vero riavvicinamento fra le Chiese. Non si può spiegare questa difficoltà solo con l’immobilismo orientale; il concetto nodale in questo caso è quello della comunione della Chiesa con il proprio passato, con il suo vissuto che è, infatti, un eterno presente nella sua realtà quotidiana.
La Tradizione è il canale e il «recipiente» della santità rivelata in passato e che continua nei riti e nei sacramenti, nei gradi di ministero e nei dogmi, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle immagini, nella vita dei santi e nell’architettura ecclesiale, ma anche nelle abitudini e nei ritmi dell’esistenza quotidiana. Non è la sovrana ragione umana e nemmeno il “senso religioso” il punto di partenza della riflessione teologica, ma l’ubbidienza a ciò che è stato tramandato dai nostri padri nella fede. E l’accoglienza spirituale di questa eredità è la base del dialogo con il mondo contemporaneo. Non è accettata la logica del: “adesso facciamo noi ciò che, a nostro avviso, è buono e giusto”, perché nella Chiesa niente è inventato da qualche illuminazione mistica o ragionevole, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operosa dello Spirito Santo che vive nel Corpo di Cristo nel suo insieme attraverso la storia. Questa esperienza non va persa o dimezzata in nome dell’aggiornamento alla modernità, come essa possa essere utile. Nell’ortodossia non c’è affatto il culto dell’“oggi” della storia e dell'uomo moderno come punto di partenza per la riflessione teologica, ma piuttosto la comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei Suoi servitori.
Ammettiamo che quest’argomento possa suonare anche bene alle orecchie dei non-ortodossi nel quadro della teologia dei manuali e delle conferenze, ma può offendere qualcuno quando si tratta di conclusioni pratiche e di comportamenti umani. L’incomprensione reciproca emerge prima di tutto nel rapporto con le Chiese e le comunità protestanti nella loro attuale evoluzione. Il sacerdozio femminile, la lingua inclusiva (Dio chiamato non solo come Egli, ma anche come Ella), i diritti delle minoranze sessuali e gli altri problemi di questo tipo per l’ortodossia non sono neanche discutibili. Perché? Prima di tutto, questo non ha nessun rapporto con la Tradizione, con ciò che la fede proclama, con il vissuto dei padri nella fede venerati nella Chiesa, con l’esperienza del credere e del servire Dio da ortodosso. Sono problemi importati dall’esterno. Naturalmente, delle minoranze sessuali esistono anche fra gli ortodossi, ma non c’è nessuna istanza autorevole, nessun patriarca, nessun sinodo, che avrebbe il pieno diritto di trovare un nome più attraente e diplomatico per ciò che dal I secolo fino al 2006 venne chiamato e percepito come peccato mortale. Esistono santi ed antichi canoni che puniscono severamente tali comportamenti e che nessuno può o vuole cambiare perché sono sempre in vigore.
“Ma non si può prendere tutto alla lettera - sento l’obiezione energica, - soprattutto questi precetti paolini, condizionati dalla sua epoca, che la moglie sia sottomessa al marito, che la donna in chiesa debba avere il capo coperto...” Ma chi ha detto che non si può? Il nostro buon senso? Non è una cosa sempre apprezzata nella nostra Chiesa. Anche oggi una signora che entra in un tempio ortodosso senza fazzoletto sulla testa o in pantaloni rischia di non avere una buona accoglienza. E, tra l’altro, non da parte del clero, ma da altre signore, che si sentono custodi dell’ordine del luogo e del suo spirito. Non credo che una donna vestita in modo maschile sia ammessa alla confessione e alla comunione in nessun monastero ortodosso, almeno in Russia, ma suppongo che sia lo stesso anche in Grecia, in Bulgaria, in Georgia, ecc.
Questo non è fondamentalismo, come noi lo intendiamo, ma semplicemente gelosia per la casa del Signore, come la gente percepisce, nel grande e nel piccolo. Questi dettagli che, certo, non hanno molta importanza per il nostro discorso possono servire da introduzione se non alla spiritualità, ma in senso ortodosso, della Chiesa. La Chiesa non è il Regno di Dio, ma, diciamo, la sua anticamera. La Chiesa è la terra santa su cui ci si deve togliere i sandali o il banchetto di nozze dove non si deve entrare senza abito nuziale. La sacralità della casa della preghiera e della comunione chiede non solo un semplice rispetto, ma quasi una venerazione (che naturalmente può essere anche eccessiva, a volte ridicola). La stessa cosa, però, vale anche per l’ecumenismo. Il senso della sacralità del tesoro intoccabile della fede, con tutte le sue espressioni, spesso prevale sul desiderio del dialogo e di conoscere gli altri. C’è un errore tipico dell’Occidente: apprezzare la bellezza della Chiesa Orientale e aspettare nello stesso tempo che la portatrice di questa bellezza pensi e si comporti in modo moderno, aggiornato, aperto al mondo, ecc. Ma tutta la ricchezza orientale fu creata in epoche lontanissime dalla nostra e porta anche una forte impronta della sua visione del mondo, dello spirito di tempi passati che preferivano isolare gli eretici con anatemi piuttosto che dialogare con loro. Ammirare le icone, i canti, la teologia palamita, la “preghiera di Gesù”, il commovente “pellegrino russo” e nello stesso tempo sinceramente stupirsi perché questi “pellegrini”, che oggi si possono incontrare dappertutto in Occidente, spesso non siano così ecumenici..., significa non capire che la cultura dell’Oriente cristiano è omogenea, non è cambiata nei secoli. E per ora non ha manifestato una grande voglia di cambiare.
Certo, non tutto nelle nostre tradizioni, che provengono dalla mentalità orientale e dalle abitudini popolari, appartiene alla Tradizione come forma della Rivelazione e questo lavoro di separazione della “carne e del sangue” dall’azione dello Spirito Santo nella storia richiederà un enorme sforzo teologico e che potrà essere difficilissimo per gli ortodossi. Ma dobbiamo e possiamo farlo solo noi mentre gli altri cristiani hanno un certo diritto ad aspettare che lo facciamo. Abbiamo bisogno anche noi della purificazione della memoria. Una cosa deve essere, però, chiara: qualsiasi purificazione, se sarà chiamata “riforma”, rinnovamento”, “aggiornamento” o con un altro simile nome, può essere fatta nella Chiesa ortodossa solo nello spirito del ritorno alla Chiesa apostolica, alla sua santità iniziale. Non si tratta della copiatura dell’antichità, ma dell’ascolto dello Spirito pentecostale.
Parecchie volte mi è capitato di sentire la domanda: perché “La dottrina sociale della Chiesa Ortodossa Russa” adottata nel 2000 afferma che la Chiesa Ortodossa sia unica Chiesa di Cristo? Come si possono affermare delle cose simili alle soglie del XXI secolo? La risposta corretta sarebbe troppo lunga e dettagliata, ma per far fronte alla domanda, rispondo così: il pensiero della Chiesa cattolica su se stessa 50 anni fa, prima del Vaticano II, era davvero diverso? Per dire la verità, anche oggi non è molto diverso, ma semplicemente si usa un linguaggio un po’ più sottile. Anche oggi nei mezzi di comunicazione, nei colloqui quotidiani sotto la parola “Chiesa” s’intende sempre quella cattolica. Più volte ho sentito l’espressione “la Chiesa in Russia” proprio con questo senso univoco. Si può constatare l’esistenza di due linguaggi, uno teologico, riflettuto, bilanciato, l’altro radicato nella mentalità diffusa e non solo popolare, quasi nel subconscio con le sue reazioni spontanee. Ma la Chiesa ortodossa per ora ha solo un linguaggio, meno moderno, forse, ma più sincero, in cui la teologia non si è staccata dalla spontaneità, dal senso di essere nella verità. Perciò non proclama che la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit in) nella Chiesa ortodossa, come dice la Chiesa romana, ma continua ad usare il vecchio verbo “essere”, “è” al presente, che non lascia molto spazio ai compromessi e alle sottigliezze.
Perché l’unica, autentica Chiesa di Cristo è proprio la Chiesa Ortodossa? Il nostro modo di pensare, che ragiona nei termini della “legittima pluralità di tutte tradizioni più o meno uguali”, non può prendere sul serio questo verbo “essere” che si fa segno di uguaglianza fra l’ortodossia e la Chiesa di Dio sulla terra. Ma ascoltiamo la sua risposta, abbastanza conosciuta, ma messa sempre tra parentesi. La Chiesa Ortodossa, che nella sua dottrina non ha cambiato niente nella fede degli Apostoli e non ha aggiunto niente che non sarebbe implicitamente contenuto in questa fede, deve essere considerata come una, santa, cattolica e apostolica Chiesa, fondata da Cristo stesso. La sua cattolicità si esprime non nei termini dell’universalismo geografico, ma nei concetti dell’unità e della coerenza organica della fede.
All’interno di questa visione, condivisa praticamente da tutti teologi ortodossi (almeno a livello ufficiale) esistono due scelte, quella della cosiddetta acribia e quella dell’economia. La prima scelta, assai diffusa ai nostri giorni, soprattutto nell’ambiente monastico ortodosso, corrisponde a ciò che si chiama l’integrismo nel linguaggio cattolico postconciliare, ma io preferisco usare il concetto ecclesiale. L’acribia afferma, secondo lo spirito intransigente di san Cipriano di Cartagine (III sec.), che le tutte comunità che a causa dei loro errori si sono staccate dall'unica Chiesa di Cristo - che oggi è la Chiesa Ortodossa - hanno perso tutto e che fuori di essa non c'è proprio nulla: né sacramenti, né grazia, né salvezza. Dunque, unica forma del dialogo è il ritorno alla Chiesa o nella versione più mite, alla eredità intatta del primo millennio cristiano. In questa ottica l’ecumenismo stesso che presuppone che oltre la Chiesa di Cristo ci siano altre Chiese, è già tradimento, un'eresia ingannevole e pericolosa che raccoglie in sé tutte le eresie antiche (come, per esempio, l'arianesimo, l'incredulità nella vera e visibile Chiesa, una, santa…, ecc.). Che dialogo può esistere con la gente che ha scelto di andare alla propria rovina? Ma chi vuole essere salvato deve prima chiedere il battesimo nella Chiesa ortodossa e poi vivere secondo i suoi statuti.
Ma c’è un altra strada, quella dell’economia che parte anche dalla stessa premessa: che la pienezza della Chiesa di Cristo si possa trovare solo nella Chiesa Ortodossa (“la teoria dei rami” non è accettatta in nessun modo), ma che fuori dall’ortodossia esista anche una grande comunità di battezzati. La Chiesa agisce con la sua grazia anche fuori dei suoi confini visibili. L’unità della Chiesa che già esiste non può essere messa in discussione perché l’unità è il dono dato fin dall’inizio dal Signore. La Chiesa non si è mai divisa, nonostante le divisioni e le crisi che hanno attraversato tutta la sua storia, ma le parti della Chiesa che si sono staccate dal suo corpo visibile non hanno perso tutti i doni del Signore. Questo concetto intuito o elaborato dai più importanti pensatori ortodossi (devo dire che la piattaforma integrista non ha dato per ora nessun teologo di un certo rilievo), nonostante la premessa dogmatica che per ora è fuori discussione (cioè che l’unica Chiesa di Cristo è la Chiesa ortodossa, anche se ha tantissime debolezze storiche), apre una vasta strada a un vero e profondo discorso ecumenico. Possiamo e dobbiamo discutere sui doni di noi stessi e degli altri. Da qui rimane un passo dall’idea dello “scambio dei doni”, così cara a Giovanni Paolo II.
Ma di quali doni parliamo? Tutti i doni che abbiamo ricevuto appartengono a Cristo, erano nascosti e rivelati in Cristo, ma rivelati in modo diverso. Questa diversità nella rivelazione, anche se come concetto è abbastanza nuovo per l’ortodossia, in nessun modo contraddice i suoi orientamenti fondamentali. Anzi, esiste già una base teologica per tale discussione, più precisamente per una libertà più grande anche nel campo dogmatico. Ancora alla fine del XIX secolo un grande storico della Chiesa antica e teologo Vassily Bolotov ha proposto questa classifica per ogni affermazione ecclesiale. La prima è il dogma, cioè la verità della fede adottata dai Concili Ecumenici (come, per esempio, che Cristo è vero Dio e vero Uomo, che Maria è la Madre del Signore e Sempre Vergine, ecc.) che non può essere cambiata e su cui la Chiesa ortodossa non accetta discussioni. La seconda è la cosiddetta teologumenon, cioè la fede teologica valida per una Chiesa, ma non obbligatoria per un’altra (per esempio, il famoso filioque, pomo della discordia, Bolotov lo considerava come teologumenon - con cui noi ortodossi non siamo d’accordo -, ma che non dovrebbe essere la causa della divisione fra l’Oriente e l’Occidente). La terza è l’opinione teologica, che non ha validità dogmatica e che è ammissibile nel campo della libera ricerca individuale e delle tradizioni nazionali di ogni Chiesa.
E’ evidente che questa classifica offre un largo spazio per il dialogo fra le Chiese storiche. Tenendo conto delle difficoltà, di cui abbiamo parlato all’inizio, non si può chiedere tutto e subito. Non si può neanche aspettare che la Chiesa Ortodossa da domani inserisca nel suo linguaggio teologico questo famoso verbo: “subsistit in”. Per ora l’unica strada per l’ecumenismo, a mio avviso, è il dialogo sui doni, sulla scoperta dei doni di un’altra Chiesa nella nostra Chiesa. Ma il dono principale è proprio quello dell’unità. La Chiesa Ortodossa insiste - e questo è il punto cruciale - che l’unità non è il premio da conquistare con i nostri sforzi, che l’unità c’è e sempre c’era dal giorno della nascita della Chiesa, anche se non è sempre visibile. Sembra che questa affermazione sottintendente un’unità già realizzata sia un impasse per l’ecumenismo. Invece no, è solo un’esigenza più alta della fede che crede all’unità già realizzata e questa esigenza può servire come premessa per un dialogo più profondo e più onesto.
Faccio un esempio scomodo: l’enciclica "Dominus Iesus", firmata qualche anno fa dal Cardinal Ratzinger, che ha provocato tanto disagio nel campo ecumenico cattolico, un’amarezza fra i protestanti e quasi un’ironia fredda fra gli ortodossi, al di là di queste reazioni immediate, a lungo andare, potrebbe avere un ruolo positivo, proprio per la sua chiarezza ed onestà. Perché la mancanza della chiarezza, il linguaggio troppo accarezzante e troppo evasivo fanno solo danno al vero dialogo teologico. Con le buone maniere possiamo arrivare all’amicizia e alla simpatia reciproca che, certo, è una conquista importante, ma l’amicizia non deve essere una sosta permanente nel nostro cammino verso l’unità. Questo è il pericolo nascosto dell’ecumenismo dei nostri giorni: sostituire il mistero della riconciliazione e dell’unione in Cristo con il sorriso diplomatico, ma anche con una preghierina recitata per qualche attimo (per essere sinceri: gli ortodossi non hanno nessun gusto per le preghiere improvvisate, a volte sentimentali ed esaltate; spesso chi vi partecipa le sopporta).
Affermare esplicitamente che solo Gesù Cristo è unico e universale mediatore della salvezza fa bene per il nostro dialogo perché la Chiesa ortodossa non ha mai detto diversamente. Proclamare che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo può anche servire a modo suo alla ricerca della comunione perché la Chiesa ortodossa di se stessa non ha mai detto diversamente. Non mettiamo in ombra queste cose. Il dialogo sulla verità, se siamo supportati dall’animo fraterno, può solo favorire la vera riconciliazione. Ciò che sembra un maggior ostacolo all'unità può diventare un giorno il suo inizio o, diciamo, il lievito della comunione. Perché dobbiamo essere schiavi della vecchia logica "orizzontale": la verità può essere racchiusa solo in questa o quella formula, mentre la terza soluzione è esclusa? Al suo posto, invece, si può mettere la logica della profondità, dell'incontro nella verità di ciascuno, quando noi andiamo proprio al cuore della fede del nostro fratello cristiano, quando all'origine della sua fede troviamo il mistero più profondo anche della nostra fede. Se siamo sicuri che la verità sia nella nostra Chiesa, perché non cercare l'immagine, il riflesso, la vita della stessa verità in un'altra Chiesa? Perché non ci si può riconoscere l'un l'altro presso la stessa sorgente della fede cristiana, nel volto di Cristo, nella nostra vita in Cristo che è "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Ebr. 13,8)? E ieri, oggi, sempre proprio Lui rimane l’unico principio fondamentale nella ricerca ortodossa dell’unità visibile.
Sì, ci troviamo davanti ad un paradosso che non può essere ridotto a una semplice pluralità di tradizioni diverse: siamo chiamati alla ricerca dell’unità che già esiste dall’inizio e che ogni giorno è proclamata nel nostro Credo. Non si può alleggerire questo paradosso, bisogna viverlo nella speranza, nella devozione, ma anche con dolore. Unità significa la piena comunione, l’Eucarestia comune, che secondo il concetto ortodosso, non può essere il mezzo della ricerca, ma il suo scopo. Mi rendo conto che questa posizione possa sembrare offensiva e poco ecumenica: un ospite, un fratello arriva alla soglia della nostra casa e trova la porta chiusa. Capisco l’amarezza di colui che rimane sempre fuori. Ma anche colui che resta dentro prova talvolta lo stesso disagio. L’ospitalità eucaristica senza il nostro impegno di vivere l’Eucarestia nello stesso modo porterebbe, infatti, all’inflazione di ciò che per gli ortodossi è più sacro e che si trova nel centro più profondo, più intimo della loro fede. Il prezzo della stessa unità in tal caso dovrebbe calare drasticamente. Se il Corpo e il Sangue di Cristo sono già condivisi da tutti, non importa se crediamo alla loro presenza reale o no, non importa con quale spirito li consumiamo, cosa facciamo con il pane e il vino consacrati dopo la comunione, ecc., che senso avrebbe il nostro cammino all’unità se l’unità è già raggiunta, scontata, e tutti noi ci sentissimo contenti nelle nostre case separate, ma senza porte?
Nella pedagogia dell'unità, che si costruisce nascostamente, deve arrivare, forse, anche il momento della sofferenza. La gioia deve andare insieme col dolore, che io chiamerei il farmaco ecumenico, con l'amarezza dell'ospitalità impossibile, perché prima che i figli possano unirsi, anche i padri devono essere riconciliati. Prima di arrivare alla tavola comune dobbiamo anche scoprire il Cristo comune, riconosciuto pienamente nella fede di un altro, ma anche vissuto con la stessa pienezza spirituale nell'Eucarestia di un altro. Per fare questo cammino più cristiano, più umano proviamo ad offrire il nostro dolore della separazione a Dio e il nostro cuore al prossimo “separato”.
In un certo senso il nostro dialogo deve ricominciare da capo. Ogni Chiesa proclama implicitamente o apertamente: siamo noi la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, fondata e voluta da Cristo. Per mille anni non c’era bisogna di provare questa fede: la fede provava se stessa con il fatto della sua semplice confessione. Ma quando cominciamo a confessare la propria fede con tutto il suo bagaglio dogmatico, istituzionale, sacramentale, spirituale non solo all’interno della nostra realtà ecclesiale, ma anche davanti agli altri, che credono e pensano in modo diverso, questi ultimi ci chiederanno delle prove. Non avremmo paura della polemica onesta e leale; nello spirito dell’amore fraterno anche la polemica che stima il credo degli altri non può ferire alcuno. Le prove che saremmo costretti a manifestare, ad affrontare con le nostre controparti, e che non possono essere sempre vecchie, ma vanno rinnovate, riapprofondite, ripensate, riformulate, anche se tratte dalla stessa Tradizione apostolica, porteranno alla riscoperta della nostra propria fede. E nella sorgente nella nostra fede in Cristo, nella Chiesa nostra, con la grazia dello Spirito Santo scopriremmo anche la fede d’un altro fratello e il suo essere la Chiesa con la quale siamo uniti.