Gli armeni
Il popolo dell’Ararat
di Claudio Gugerotti
Dove si innesta la croce di pietra che costella tutto il paesaggio armeno: una lastra, a volte verticale, a volte orizzontale, che reca inciso l'albero della vita, allargato all'estremità dei quattro bracci e recante un germoglio alla base, segno di una risurrezione più forte di ogni morte? Si direbbe che quella croce sia piantata nel cuore della terra, di una delle terre più antiche del mondo.
L'immagine dell’Armenia è nella fantasia di molti una grande pietraia. Ed è vero che buona parte del suo territorio è fatta di pietre, anche se non vanno dimenticate lande verdeggianti, oasi di acque e di uccelli, gravide di frescura. La pietra è origine e fondamento. E dunque richiama la culla di una delle più antiche civiltà del mondo. La pietra è altresì resistenza, coraggio a oltranza, voglia di sopravvivere caparbiamente alle avversità infinite della vita, volontà di esserci comunque, impegno per i posteri e per tutta l'umanità. Anche le chiese armene sono pietre dalla pietra. Solo la luce che vi filtra, le accarezza e le ingentilisce. Grotte di preghiera, ma anche nascondiglio nella roccia, e voglia di penetrare nel mistero della vita, un po’ per passione, un po’ per disperazione, un po’ per nascondersi agli occhi di una storia poco generosa, un po’ per cercare nelle profondità il senso di una sofferenza infinita, una sofferenza che appartiene al sangue del Caucaso.
Immagino la storia armena segnata da alcuni dei suoi santi più emblematici. È un modo come un altro per ispirarsi. Comincerei con san Gregorio, detto "l'Illuminatore degli Armeni". Un uomo venuto dalla gente dei Parti, come canta un inno liturgico. Agli albori del IV secolo, egli risveglia l'antica presenza dei santi apostoli Bartolomeo e Taddeo, che la tradizione vuole i primi evangelizzatori dell'Armenia. Dopo terribili sofferenze inflittegli dal re Tiridate, caparbio avversario della fede prima di lasciarsi avvincere dai miracoli del santo, alla fine converte il re, la sua famiglia e l'intera nazione. Ancora oggi dà brividi di bellezza e di sconcerto scendere nel pozzo profondo (khor wirap), dove egli sarebbe stato recluso per anni, nutrito solo dalla bontà di una povera vedova. Sul luogo ora sorge un monastero, in una collocazione naturale tra le più suggestive al mondo: ai piedi dell'Ararat, la montagna biblica ove l'arca riposò dopo il diluvio, sempre innevata, sempre irraggiungibile, in una pianura vasta e brulla, segnata solo dalle torrette di confine con la Turchia. Nel pozzo si scende in silenzio, con una scaletta appesa al muro, come nelle vie ferrate. E si finisce anche lì nelle viscere della terra, in quel mondo ipogeo dove gli armeni cercano il senso del vivere e del morire.
Una conversione in realtà molto complessa, quella degli armeni: sugli antichi templi del fuoco sorgono le nuove chiese, e gli antichi sacerdoti del culto pagano vengono convertiti alla nuova fede e ne diventano i leviti. Una discontinuità tra nova e vetera che si volle, in alcune fonti, marcata e implacabile: in realtà molto più progressiva e velata, e soprattutto rispettosa di un sostrato culturale e identitario che trova nella nuova religione non una frattura ma una, sia pur ripensata, continuità. Da allora il cristianesimo segna le sorti dell'Armenia, al punto che, come dice un suo antichissimo storico, è più facile togliere alla pelle il suo colore, che all’armeno la sua fede in Cristo.
Poi le vergini martiri, con a capo santa Hripsimé, con la nutrice Gaianè, fuggite dalle brame dell'imperatore romano e cadute in quelle del locale sovrano, uccise per non aver ceduto. Sepolte in due chiese a loro dedicate che fanno da corona alla santa cattedrale di Etchmiatzin, luogo, come dice il termine, in cui "l'Unigenito discese", per indicare a san Gregorio Illuminatore dove sarebbe sorta la sua Chiesa. Ancora oggi ci si inginocchia con venerazione davanti all'altare di alabastro che segna il luogo della discesa, il luogo dell'incarnazione armena. Hripsimé e Gaiané sono il simbolo di una cristianità ancora aperta, ancora in cammino: pellegrine d'Occidente che cercano in Oriente comprensione e rifugio. Sangue non armeno che, per il fatto stesso di essere versato in Armenia, diventa appartenenza alla cristianità che lo ha raccolto e custodito. Segno di una identità ecclesiale non ancora identificata pienamente con l'etnia, ma accogliente nuovi santi, da ricevere, da fare propri, come massicciamente avvenne anche nella vicina Georgia.
Poi san Vartan Mamikonian: un feudatario, un uomo politico e, se si vuole, un calcolatore del vantaggio che si può ricevere affittando la propria fedeltà al miglior offerente; un uomo che, però, alla fine, comprende che c'è un'unica fedeltà, quella a Cristo, e che essa non tollera infingimenti: o con me o contro di me. E quando gli Zoroastriani vogliono imporre a lui e alla sua gente l’abiura, egli passa la notte in preghiera e riceve l'Eucaristia, vero viatico, prima della battaglia decisiva in cui perderà la vita. Una santità guerriera cui si rifaranno altri combattenti, come a un prototipo. In realtà il simbolo di un martirio di popolo, dove si soccombe col corpo, ma lo spirito invitto trionfa nella profezia di tempi diversi, quando non vi saranno più oppressori e Cristo sarà la fonte di amore che non conosce adultèri. Un uomo che mostra come la politica non abbia mai l’ultima parola, ma resti soggetta al dovere della verità, severo giudice di ogni compromesso, di ogni coscienza posta in vendita. San Vartan, così come Hripsirnè e Gaiané, divengono i capifila di una moltitudine di martiri, conosciuti e sconosciuti, caduti per non rinunciare alla verità della coscienza. Non sempre i riferimenti collettivi ad essi saranno storicamente pertinenti, talora forse potranno apparire precritici o approssimativi per eccesso di zelo nazionale, ma sempre costituiscono un monito al mercantilismo cui ogni ideologia umana finisce col soggiacere.
E così Cristo sarà per gli armeni la grande Vittima, il Sacrificato, l'Immolato, Colui nel quale si identificano i diseredati, gli spogliati, i violati della terra, come accade nella tradizione slava con i santi Borys e Glebs, uccisi perché innocenti, e per questo assimilati all'Agnello scannato senza colpa. Di qui anche l'elegia dello splendido lamento liturgico armeno, in fin dei conti, quello di ogni cuore armeno, che esprime anche nel suo folklore la nostalgia per il diletto allontanato a forza dalla guerra, dalla miseria, dall'oppressione. Ecco chiedere alla gru che vola da lontano se porti notizie del caro fuggitivo, anch'egli sentito come vittima sacrificale di un amore straziato da una diaspora senza fine.
Infine, san Nerses Shnorhali (ovvero «portatore di Grazia»). Abbiamo già scavalcato l’anno Mille e molti armeni sono fuggiti in Cilicia a causa delle continue invasioni dei propri territori. Lì il katholikos Nerses si erge come maestro di fede e vero capo di una disciplina morale di popolo. Capo di profughi, egli ridà loro la dignità di popolo, canta il mistero di Dio con inni liturgici impareggiabili, guida la Chiesa con fermezza, è spesso capace di coraggiose ammonizioni. Ma soprattutto dialoga con tutti, con i popoli che convivono in quella terra, in particolare con greci e siri, aprendo la strada ad un rapporto con i latini, stabilitisi anch'essi in quell'area per guerre o commerci. Amante appassionato dell'unità cristiana, Nerses cerca il confronto, perché tale unità sia restituita alla sua visibilità, ma senza perdere lo specifico di ogni identità. Un'unità pluriforme, considerata, proprio nella sua diversità, come ricchezza, non come frutto di peccato. Unico frutto del peccato è per lui la divisione, l'opposizione astiosa, l'orgoglio che si autoassolve e condanna l'altro. La denuncia contro tali atteggiamenti è adamantina e incessante. Anche se quel profeta di unità non sortirà, per varie vicende storiche oltre che per la durezza dei cuori, risultati duraturi, pure i principi da lui stabiliti rimarranno nei secoli, ancor oggi modernissimi: un dialogo frutto della fede comune e di un rispetto, nella coscienza che la verità non può essere "posseduta" e che la ricchezza e la potenza di un popolo non sono il segno di una maggiore fedeltà a Cristo. Cercare insieme di mostrare l'amore cristiano, senza vinti nè vincitori, senza risentimenti umani nè disumane vendette, senza sottintesi politici, ma nella pura fedeltà allo Spirito, costantemente invocato, e in una carità che sa rinunciare a ciò che non è essenziale, perché quanto veramente conta, la testimonianza dell'amore, nome stesso di Dio, possa risplendere. Ecco il sogno di Nerses. E contro chi lo rimprovera per il fatto che il popolo armeno non entra nell'edificio della chiesa per pregare, ma resta nella parte esterna, egli scaglia il suo monito a non considerare scelta religiosa quella che è solo necessità pratica; «Perché li critichi - chiede al suo interlocutore - quando tu stesso non consenti loro di costruirsi una chiesa sufficientemente grande? Dovevi guardarli come pregavano nella loro terra natia. Vedrai che ciò che credi frutto di una scelta liturgica è solo drammatica necessità».
Ecco alcuni santi che interpretano un’anima. Può essere un modo di ricostruire la storia di un popolo e della sua sensibilità religiosa e culturale. Piccolo passo, forse utile a far crescere la curiosità, sano atteggiamento che attingerà tesori preziosi nel contatto col mondo degli armeni, affinché impariamo ad apprezzare l'altro per guardare con più profondità il mondo di tutti.
(da Luoghi dell'infinito)