Ecumene

Giovedì, 15 Luglio 2004 01:52

Verità della fede e dialogo delle culture

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Card. Christoph Schönborn

Il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, su invito della "Islamic Culture and Relations Organization" si è recato in Iran nel mese di febbraio 2001 (17-22).

Nel corso del viaggio Schönborn ha incontrato, tra l’altro, l’ayatollah Khamenei, leader religioso del paese, e il ministro iraniano della cultura, M. Jamei. Il 20 febbraio ha tenuto presso l’Università Iman-Sadr di Teheran una conferenza dal titolo "Dialogo fra le culture per una civiltà dell'amore e della pace", che ha visto un’ampia partecipazione di pubblico.

Il fuoco dell’intervento è stato quello del "dialogo fra le culture", cui l’ONU, su proposta del presidente iraniano Seyed Mohammad Khatami, ha dedicato l’anno 2001.

Sottolineando la necessità di una maggiore e più approfondita conoscenza reciproca, quale elemento essenziale per risolvere incomprensioni e timori, l’arcivescovo di Vienna si è fatto carico del peso conflittuale della storia del rapporto fra islam e Occidente toccando i temi che, a livello culturale e delle fedi religiose, più appesantiscono lo stato attuale delle relazioni: modernità e custodia del patrimonio tradizionale, religione rivelata e affermazione storica della verità.

Le religioni quali sentinelle del dovere etico che governa l’uso delle tecnologie, e il dialogo quale strumento di incontro e di affermazione delle diverse identità culturali e religiose: "Un elemento importante del "dialogo delle culture" è certamente la cura della memoria e la coscienza delle relazioni storiche, per comprendere meglio il presente... Nel dialogo fra le civiltà occorre anche assumere insieme la nostra responsabilità nei riguardi delle nostre attuali conoscenze e capacità".

Eccellenze, signore e signori,
I. Attualmente a Vienna, nel Kunsthistorischer Museum, c'è una grande esposizione di "capolavori del Museo nazionale iraniano di Teheran". È stata orgogliosamente intitolata "7.000 anni di arte persiana". Nella sua prefazione al catalogo dell'esposizione, Mohammad-Reza Kargar, direttore dei "Tesori nazionali dell'Iran", scrive: "La coincidenza di quest'esposizione con l'inizio dell'anno 2001, l'anno del dialogo fra le civiltà, è un'occasione favorevole per creare una piattaforma per la pace e l'amicizia, la convivenza fra i popoli e il dialogo fra le civiltà".

Lo scontro o il dialogo?

L'imponente esposizione di Vienna ci dà un'idea della grandezza e della vastità delle culture che erano, e sono, presenti in Iran, poiché l'Iran è effettivamente una delle maggiori culle della cultura e della civiltà umana, la terra natale di grandi creazioni artistiche, culturali, politiche e soprattutto religiose. È quindi per me un grande onore essere ricevuto nel vostro paese che visito per la prima volta. Considero questo invito un importante tassello di quel "dialogo delle culture" al quale le Nazioni Unite hanno dedicato, su proposta del vostro presidente, sua eccellenza Seyed Mohammad Khatami, l'anno 2001 (l'anno 1379 del vostro calendario).

"Chi vuole comprendere il poeta, deve recarsi nel paese del poeta", dice Johann Wolfgang Goethe, parlando di Hafez, ne Il Divano occidentale-orientale. Modificando queste parole di Goethe, direi: "Chi vuole comprendere le persone, deve recarsi nella loro terra". Il "dialogo delle culture" è anzitutto un dialogo fra persone di diverse culture e civiltà. Infatti non sono le culture a dialogare, bensì le persone. Naturalmente, esse entrano in dialogo come persone modellate dalle loro rispettive culture, influenzate, però, anche da altre culture; come persone che vedono nelle altre civiltà un arricchimento, ma anche una minaccia, che sono affascinate dalle altre culture, ma che hanno anche paura di esse. Perciò, le culture e le civiltà, nelle loro differenze, non sono solo occasione di un dialogo aperto, disposto ad apprendere, ma anche di scontro aggressivo o timoroso. C'è quindi sempre anche lo scontro delle civiltà ("clash of civilizations") e non solo il dialogo fra di loro.

Quale è oggi la situazione dei nostri paesi, delle nostre culture, delle nostre religioni? Siamo impegnati nello scontro o percorriamo la strada del dialogo? Non voglio rispondere a questa domanda in modo superficiale e retorico, ma voglio cercare di penetrare in quella dimensione drammatica in cui essa effettivamente si pone, come domanda che ci viene posta davanti a Dio, come domanda sulla sua santa volontà, il cui riconoscimento e il cui compimento è il vero dovere della nostra vita. Noi viviamo questa ricerca della volontà di Dio, che è al tempo stesso ricerca della felicità della nostra vita, in un mondo che cambia talmente in fretta da diventare sempre più un "villaggio globale", che ci fa toccare ogni giorno con mano il fatto di vivere in una crescente interdipendenza, di essere veramente una comunità contrassegnata da un unico destino. Abbiamo bisogno gli uni degli altri; non esiste altra strada che la convivenza. E tuttavia siamo legati da una lunga storia che è stata segnata anche da contrapposizioni, lotte e conflitti. Non possiamo infatti dimenticare che molte cose ci dividono, o anche contrappongono. Io vengo da un paese nel quale non pochi cittadini hanno paura dell'islam, paura di un'eccessiva penetrazione di elementi stranieri, paura della perdita della propria identità. E voi vi trovate in una storia nella quale il colonialismo non appartiene ancora a un passato lontano, nella quale predomina la preoccupazione per la conservazione della vostra identità culturale e religiosa. Perciò, non sorprende vedere che l'appello al "dialogo delle culture" si scontra con un certo scetticismo da noi, e penso certamente anche da voi. Se, nonostante tutto, sono profondamente convinto che la via del dialogo è l'imperativo del momento, non lo sono a partire da un atteggiamento relativistico che scambia il dialogo con il qualunquismo e neppure minimizzando i timori e le preoccupazioni di molte persone da noi (e certamente anche da voi) che considerano la via del dialogo una china pericolosa.

Il dialogo non significa rinunciare alle proprie convinzioni, ma incamminarsi sulla strada della reciproca comprensione, il che comporta sempre anche lo sforzo di evitare i malintesi, che sono stati, e sono, così spesso la causa dei conflitti, se non addirittura delle guerre.

Vengo a voi come un cristiano, come un teologo che ha insegnato per molti anni teologia all'università, come un vescovo cattolico di una grande città europea (certamente molto piccola a confronto di Teheran), come un cardinale della Chiesa di Roma. Vengo a voi con la mia storia di cittadino austriaco (con tutto ciò che significano per il nostro paese le relazioni con l'islam), che ama la propria patria, ma che è al tempo stesso un convinto europeo. Vengo a voi come uno che ha un grande rispetto per tutte le persone credenti. E vengo a voi con grandi domande nel cuore: Come riuscite a conciliare religione e modernità? Come vivete la vostra fede in questo mondo che si va rapidamente globalizzando? Che cosa pensano e come vivono i vostri giovani? Come vivono il rapporto fra tradizione e tecnologia, fra concezione scientifica e concezione religiosa del mondo? Come preservate le famiglie dalle influenze distruttive, senza isolarle dal nostro tempo? Sono queste le domande che vorrei porvi, poiché esse preoccupano molte persone anche da noi.

So che per ottenere una risposta a queste domande dovrei avere tempo per il "dialogo della vita", che è possibile solo attraverso una lunga e paziente convivenza. Solo sulla base di questo "dialogo della vita" potrà essere veramente fruttuoso anche il dialogo delle idee, delle teorie, il dialogo filosofico, teologico, religioso. Ciò che oggi – perlomeno da noi – spinge soprattutto le persone a interessarsi alla religione sono le domande che riguardano la vita: Come affronti la vita? Come riesci in questo tempo così vorticoso a restare una persona interiore, gioiosa? Come affronti il dolore? Come affronti la morte? Come sperimenti Dio nella tua vita? Come sperimenti la sua misericordia e la sua provvidenza per te? Le domande che si agitano nei cuori sono queste, sono le domande che riguardano la vita. E più che ascoltare degli insegnamenti al riguardo si vogliono vedere delle persone che si comportano in modo credibile e convincente. Si chiedono testimoni e modelli, i quali, come ha dimostrato madre Teresa di Calcutta, operano e collegano le persone oltre i confini linguistici, culturali e anche religiosi. Essi sono "dialogo della vita" personificato. Perciò sono un grande segno di speranza per così tante persone.

Il dialogo delle culture e il dovere missionario

II. Ciò che riesce a grandi figure singole, potrà riuscire alle nostre culture, alle nostre religioni, alle nostre regioni? Oriente e Occidente, Europa e Asia, civiltà moderne e grandi tradizioni, islam e cristianesimo (solo per citare alcuni poli di tensione) riusciranno a vivere senza giungere al "clash of civilizations", a reciproche discriminazioni o addirittura persecuzioni, come è accaduto ripetutamente nel corso della nostra storia e come accade ancora ai nostri giorni?

Vorrei indicare brevemente ciò che me lo lascia sperare.

Permettetemi di cominciare dal punto più difficile. Le nostre due religioni, cristianesimo e islam, si considerano religioni universali e missionarie; esistono non solo per un popolo e per un paese, ma per tutti i popoli. Esse hanno ricevuto dai loro fondatori, più precisamente dalla rivelazione che è stata loro affidata, la missione di portare la luce di questa rivelazione divina a tutti gli uomini, come messaggio e via di salvezza e di vita. Perciò le nostre religioni sono state fin dal primo momento missionarie e tali sono realmente fino ai nostri giorni. Ciò è parte irrinunciabile dell'identità della nostra fede.

Ecco come suona nella nostra fede cristiana il mandato ultimo affidato da Gesù Cristo, dopo la sua risurrezione dai morti, ai suoi apostoli per tutti i tempi, fino al suo ritorno: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,18-20).

Obbedendo a questo comando, i cristiani si sforzano di portare il Vangelo a tutti gli uomini. Ma anche l'islam si considera la rivelazione finale, definitiva, di Dio, rivolta a tutti gli uomini per indicare loro la via della vera e originaria adorazione di Dio.

Una tale pretesa di verità è compatibile con l'atteggiamento del dialogo? Non genera piuttosto molti confitti, fino alle guerre di religione? D'altronde, oggi in Occidente è molto diffusa la convinzione che un "dialogo delle culture" sia possibile solo se le religioni ritirano la loro pretesa di verità e rinunciano alla missione. Sul piano filosofico lo si motiva spesso con il postulato secondo cui non si può conoscere la verità e si può tutt'al più avvicinarsi a essa, ma senza la definitiva certezza. Solo una cosa sarebbe veramente certa, il fatto che non esiste alcuna verità oggettiva. Perciò ha suscitato un grande interesse il papa Giovanni Paolo II quando nella sua enciclica Fides et ratio (fede e ragione) ha espresso la convinzione che fede e ragione sono conciliabili, anzi che la fede nella rivelazione di Dio non costringe la ragione al silenzio, ma la aiuta e la sostiene.

E ha suscitato un grande interesse anche il presidente Khatami quando, in occasione del dialogo sulla religione tenuto nella città di Goethe, Weimar, nel luglio del 2000, ha espresso chiaramente la convinzione che il "dialogo delle culture" è compatibile con l'accettazione di una verità oggettiva e della sua conoscibilità. Affermò che il dialogo è una via per avvicinarsi alla verità: "Il dialogo delle civiltà e delle culture è un concetto derivato dal continuo sforzo di avvicinarsi alla verità e giungere all'intesa" (S.M. Khatami, Religiosität und Modernität, Heidelberg 2001, 12s).

Ma che cosa accade – è questo il sospetto che si avanza continuamente nei riguardi delle religioni rivelate – quando la verità viene presentata come rivelata, come già definita? In questo caso il "dialogo delle culture" non deve mirare, in ultima analisi, a convincere gli altri della verità della rivelazione, a volere che si convertano a essa e la accettino? Questo sospetto affiora continuamente anche nel dialogo fra i gruppi e le Chiese cristiane; esso adombra anche il progetto del dialogo interreligioso. Dovere missionario e disponibilità al dialogo sono compatibili? Come si presenta il progetto del "dialogo delle culture" nel contesto delle religioni rivelate e della loro pretesa di verità?

So di sollevare un problema difficile e complesso, ma mi sembrerebbe una grave omissione il non sollevarlo, anche se in questa sede non è certamente possibile trattarlo in modo soddisfacente. Vorrei evidenziare perlomeno il nocciolo del problema. Se non erro, ciò che unisce (e divide al tempo stesso) cristianesimo e islam è la certezza che Dio ci ha donato la sua rivelazione definitiva. E tuttavia, pur restando fedeli a questa certezza, sappiamo anche che, come dice l'apostolo Paolo, "la nostra conoscenza è imperfetta", che noi ora, nella nostra vita terrena "vediamo come in uno specchio, in maniera confusa" (1Cor 13,9.12). Noi riceviamo la rivelazione di Dio nei nostri limiti storici, nelle nostre condizioni temporali e spaziali, di cui spesso non siamo coscienti, che causano anche reciproci malintesi e spesso conflitti. Ma queste condizioni storiche sono anche grandi opportunità che ci aiutano a tradurre la rivelazione che ci è stata donata e i suoi insegnamenti nella vita concreta, in forme culturali, in istituzioni politiche. La storia dei nostri paesi è testimone della forza creatrice e culturalmente plasmatrice delle religioni.

Senza questa "inculturazione", la religione resta astratta, avulsa dalla vita. Ma l'"inculturazione" della religione è sempre anche una nuova sfida a non nascondere, o addirittura falsificare, il nocciolo religioso, il cuore vivo della religione mediante le condizioni culturali, politiche, economiche in cui la religione viene vissuta. Perciò, la riforma deve accompagnare sempre la storia concreta delle nostre comunità religiose.

Il grande papa Giovanni XXIII, che è stato sorprendentemente eletto capo supremo della Chiesa cattolica alla veneranda età di 78 anni, ha convocato, con grande sorpresa di molti, un "concilio ecumenico" a Roma, il concilio Vaticano II, che può essere definito da molti punti di vista quasi una rivoluzione nella Chiesa cattolica. Il pensiero centrale del papa era quello di esprimere in modo nuovo, e rendere più comprensibile agli uomini d'oggi, l'immutabile verità della fede nelle mutate condizioni sociali; "poiché" – così disse nel discorso di apertura del concilio – "altra cosa è il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono annunciate" (EV 1/55*). Il papa non approvava i "profeti di sventura", che vogliono vedere solo i lati oscuri del nostro tempo, e incoraggiava, nella piena fedeltà alla fede rivelata, ad approfondire e interpretare la fede e le sue fonti scritte alla luce dei metodi di ricerca e del linguaggio del pensiero moderno.

Naturalmente non è facile distinguere fra la verità immutabile e le sue formulazioni storiche e mutevoli. Questa distinzione richiede lo sforzo della ricerca, la disponibilità all'ascolto, al dialogo e al cambiamento. Essa richiede, al tempo stesso, la fermezza e la fedeltà alle verità essenziali sempre valide, oltre alla saggezza per saper distinguere fra l'essenziale e il mutevole. Proprio in questo processo della distinzione il "dialogo delle culture" è di grande aiuto; possiamo quindi imparare gli uni dagli altri come affrontare correttamente tali questioni che riguardano tutti gli uomini.

Memoria, coscienza, responsabilità

III. Passando alla mia terza e ultima parte, vorrei citare due campi nei quali il "dialogo delle culture" può, e dovrebbe, dare buoni risultati.

1. Le nostre comunità religiose hanno una determinata origine storica, anche se la loro vera origine è nell'eternità di Dio. Uno dei compiti più affascinanti del dialogo è quello di interrogarsi sulle vie della concreta "inculturazione" della religione: come si è diffuso il cristianesimo e come l'islam? Come si sono "realizzati" sul piano sociale, politico? Come si è sviluppata la relazione fra autorità religiosa e autorità politica? Quali influenze di altre culture vi sono state al riguardo? Mi limito a citare alcuni esempi. Attualmente gli armeni celebrano i 1.700 anni della conversione dell'Armenia al cristianesimo. Nonostante tutte le tempeste della sua lunga storia, in questo piccolo ma meraviglioso popolo il legame fra identità armena e religione cristiana è rimasto incrollabile. Diverso è stato il destino della Chiesa apostolica d'Oriente (cf. W. Baum-D.W. Winkler, Die apostolische Kirche des Ostens. Geschichte der sogenannten Nestorianer, Klagenfurt 2000), che si può giustamente chiamare anche Chiesa persiana. Essa ha conosciuto "una grande espansione, nonostante le aspre persecuzioni da parte dei rappresentanti della religione di stato, il mazdaismo, e si è estesa nel corso dei secoli fino alla Cina, al Tibet e all'India" (G. Bunge, Einleitung zu Rabban Jansep Aazzaya, Briefe über das geistliche Leben und verwandte Schriften, Ostsyrische Mystik des 8. Jh, Trier 1982, 1s).

In un tempo che, a causa della fretta e dell'agitazione, rischia di perdere la memoria, un elemento importante del "dialogo delle culture" è certamente la cura della memoria e la coscienza delle relazioni storiche, per comprendere meglio anche il presente. Io ho scritto la mia prima dissertazione sul patriarca di Gerusalemme Sofronio, che nell'anno 638 (anno 16 dell'Egira) dovette cedere la città di Gerusalemme al califfo Omar. Lo studio di quell'ora della storia mondiale che ha delle ripercussioni ancora ai nostri giorni continua a influenzarmi (cf. il mio Sophrone de Jerusalem. Vie monastique et confession dogmatique, Paris 1972). Più difficile dello studio della storia è distinguere fra gli sviluppi buoni e quelli meno buoni di quella storia, nella quale si è dimenticato o addirittura tradito ciò che è essenziale nella religione, nel mandato che Dio ci ha affidato. Anche se è difficile valutare equamente la storia, è indispensabile considerarla onestamente e apertamente nei suoi lati luminosi e nei suoi lati oscuri. L'anno scoro il papa Giovanni Paolo II ha osato gettare un tale sguardo sulla storia cristiana passata, ponendo la domanda: "Dove ci siamo allontanati dalla volontà di Dio, dove siamo stati infedeli a Dio?". E il papa ha invitato alla "purificazione della memoria", senza la quale non possiamo continuare bene il nostro cammino. Gesù Cristo ha detto: "La verità vi farà liberi" (Gv 8,32). Non dobbiamo temere la verità storica, poiché Dio è veritiero, ma anche misericordioso. Solo la menzogna dobbiamo temere.

2. Oggi, il "dialogo delle culture" riguarda sempre più le grandi questioni morali. Nel mondo globalizzato anche i problemi e le sfide sono globali: le conoscenze e capacità tecniche e scientifiche sono diffuse a livello mondiale. Oggi possiamo fare molto più di quanto ci è moralmente consentito fare. Le nostre capacità tecniche sono cresciute più in fretta della nostra capacità morale di servircene correttamente. L'energia atomica, la tecnologia genetica richiedono un'alta responsabilità morale. E tuttavia proprio in questo campo gli interessi economici giocano un grande ruolo. L'inquinamento ambientale minaccia tutti gli abitanti del pianeta. Oggi nessun uomo, e nessun paese, è più un'isola. Possiamo trovare la strada e avanzare solo insieme. Per questo occorrono, a mio avviso, soprattutto due cose: la formazione della coscienza personale e, a essa collegato, il principio della responsabilità.

Le nostre religioni affermano concordemente che la legge di Dio è scritta nel cuore dell'uomo. Dio insegna non solo "dall'esterno", ma anche "dall'interno". Il concilio Vaticano II lo ha espresso molto bene: "Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato" (Gaudium et spes, n. 16; EV 1/1369).

Più il nostro mondo diventa complesso, più aumentano le esigenze etiche, più diventa importante affinare la coscienza, ascoltare la sua voce. Nella filosofia occidentale moderna, ma anche nella mentalità comune, la coscienza viene considerata spesso una questione soggettiva, puramente personale: così essa diventa facilmente un mantello con cui si copre l'individualismo, che erige a norma se stesso. In realtà, la coscienza è certamente, come dice ancora il concilio Vaticano II, "il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria" (ivi), ma è proprio questa voce nel più profondo del cuore a chiamare a ciò che è vero e valido per tutti. Quando la mia coscienza mi rimprovera di aver mentito al mio prossimo o di averlo ingannato, io so che anche l'altro, chiunque egli sia, sente, qualora la sua coscienza non sia diventata sorda, la stessa voce di Dio nel suo cuore: Non mentire! Guai al popolo, al paese, nel quale viene repressa la voce della coscienza! Abbiamo visto nel nazionalsocialismo e nel comunismo quale forza distruttiva per l'umanità hanno le ideologie senza Dio, che hanno cercato di sopprimere nel cuore dell'uomo la voce di Dio. E oggi vediamo il pericolo di una civiltà globale che crede, costruendo solo su beni materiali e tecnici, di "realizzare il bene dell'uomo facendo a meno di Dio, Bene sommo" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata della pace 2001, n. 9; Regno-doc. 1,2001,3).

Proprio il nostro tempo, che cambia così in fretta, ha bisogno soprattutto di persone "coscienziose", pronte ad assumere e a esercitare delle responsabilità. Il grande filosofo ebreo Hans Jonas ha posto la sua etica per il nostro tempo così decisamente tecnologico sotto il "principio responsabilità". Nel dialogo fra le civiltà occorre anche assumere insieme la nostra responsabilità nei riguardi delle nostre attuali conoscenze e capacità. Ciò richiede, oltre all'ascolto della voce della coscienza, anche la competenza. Fare le cose "in modo competente", in modo adatto al rispettivo campo d'azione. Il comunismo ha cercato di sostituire la competenza con l'ideologia e il risultato è stato ovviamente catastrofico. La medicina, l'economia, la politica hanno ciascuna le proprie leggi che bisogna rispettare, che valgono oltre i confini delle culture e delle religioni, ma che hanno un fondamento comune nell'ordinamento divino. Quando la medicina, l'economia, la politica dimenticano di avere il loro fondamento in questo ordinamento divino o addirittura lo rifiutano diventano immediatamente medicina, economia e politica distruttive e dannose per l'uomo.

È proprio riguardo a quest'ultimo punto che io vedo una particolare opportunità nel "dialogo delle culture". La medicina nei paesi occidentali non si spinge forse fino al limite delle sue possibilità tecnologiche, mentre in altre parti del mondo non vengono assicurate neppure le cure mediche di base? L'economia globalizzata non si spinge forse fino al limite delle sue possibilità, che richiedono sempre più una distribuzione più equa, una maggiore codecisione da parte di tutti piuttosto che la monopolizzazione in poche mani? Le sfide sono comuni e richiedono risposte comuni. Come disse il presidente Khatami nel 1999 davanti all'UNESCO, dobbiamo "passare dalla fase della tolleranza negativa alla fase dell'aiuto reciproco (...) Non bisogna solo tollerare gli altri, bisogna anche collaborare con loro".

Permettetemi, concludendo, di applicare tutto questo anche a quel gruppo particolare al quale appartiene il futuro: i giovani. Quale esempio daremo noi, adulti, capi religiosi, politici, educatori ai giovani? Se non affrontiamo le sfide del nostro tempo in un dialogo sincero e aperto corriamo il rischio che i giovani, scettici e delusi, si allontanino dalla religione, come è avvenuto in Europa dopo il dramma delle interminabili guerre di religione. L'ateismo europeo, che ha causato tanta sofferenza nel mondo, è stato anche una conseguenza delle lotte di potere fra le correnti religiose. Solo un rinnovamento religioso a partire dalle sorgenti della preghiera, della mistica, dell'amore del prossimo concretamente vissuto, solo testimoni e modelli credibili hanno riaperto ai giovani l'accesso alla religione. Dobbiamo credere insieme che un giorno dovremo rendere conto a Dio di ciò che abbiamo fatto o che abbiamo omesso di fare. Possa Dio onnipotente e misericordioso aiutarci a vivere, secondo i grandi modelli, la nostra religione come servizio e dedizione a Dio e al prossimo, come amore di Dio, che si estende a tutti gli uomini, come hanno fatto al-Hallag, Rumi e anche madre Teresa. Allora saremo anche fedeli alla missione che ci è stata affidata – sotto varie forme – da Dio per gli uomini.

Grazie.

 

Letto 4170 volte Ultima modifica il Venerdì, 06 Maggio 2011 23:02
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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