Ecumene

Venerdì, 04 Giugno 2010 21:13

Il buddismo tibetano. Tenzin Gyatso, il XIV (Claude B. Levenson)

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Vicina al Dalai Lama, di cui è stata una delle prime traduttrici in francese e di cui rimane uno dei  portavoce in Occidente, Claude B. Lavenson racconta l’uomo, al di là della leggenda.

Un vecchio adagio tibetano afferma che solo la fine dell’esperienza permette di giudicare la validità del cammino. Sei volte dodici anni, sei cicli di vita secondo la stessa tradizione, permette però di intravedere il filo rosso di una esistenza umana. Tenzin Gyatso, quattordicesimo del lignaggio dei dalai lama della scuola di Guelugpa, uscita dalla riforma di Tsong Khapa, è entrato nel suo 73° anno senza quasi fermarsi a constatarlo. Non dice forse ridendo “every day is my birthday”, come per ricordare che ogni giorno è una nuova avventura, ogni incontro uno scambio, ogni sguardo una apertura?

C’è molta distanza tra il povero villaggio di Taktser, perduto in una valle dalla somma bellezza dell’Amdo, dove, secondo la credenza tibetana, il dalai lama ha scelto di rivenire nel 1935, quinto figlio di una famiglia contadina, e gli scenari del mondo attuale dove il capo spirituale è diventato una sagoma familiare. Riconosciuto dalle sue qualità dopo le prove tradizionali condotte da gerarchi qualificati e da alti funzionari, il bambino è condotto a tre anni al grande monastero di Kumbum, dove viene iniziato la vita monastica. Alcuni mesi dopo, alla fine di un lungo viaggio in carovana fino alla capitale del Tibet, è intronizzato durante una cerimonia solenne come reincarnazione e successore del Grande XIII.  C’è molta distanza fra l’imponente palazzo fortezza rosso e bianco del Potala a Lhasa, dove ha passato i suoi giovani anni di reclusione e di studio, e la casa di esilio dove risiede dal 1959 a Dharamsala, sul versante verso l’Himalaya dell’Himachal Pradesh indiano, quando non è sulle strade del mondo , monaco ridiventato pellegrino per portare la speranza del suo popolo. L’anno prossimo sarà un mezzo secolo di esilio. “Essere un rifugiato mi ha insegnato molte cose, mi ha confidato un giorno, comprendo meglio ciò che vivono i miei simili

Questa incessante preoccupazione per l’altro, per i suoi e per gli altri, è insieme forza e dolcezza, intelligenza del cuore e chiarezza dello spirito, Luce dello sguardo e generosità del dono: hanno ragione i Tibetani che rischiano mille morti per avvicinarlo sia pure una sola volta nella vita, quelli che, nel loro paese occupato, sfidano tutte le proibizioni per reclamare il suo ritorno, quelli che, nei monasteri, sotto stretta sorveglianza, rifiutano di rinnegarlo o anche quelli che nell’esilio, sotto la sua guida, imparano le norme della democrazia. Fuori del continente indiano le sue conferenze e i suoi insegnamenti attirano le folle, al punto di meravigliarne o persino di indispettire alcuni.

Un capo di Stato in esilio

Prima di tutto monaco fino al più intimo di sé, da degno erede dei suoi predecessori, il dalai lama è anche un capo di Stato in esilio, un maestro esigente che insegna una sapienza. Il suo sguardo vivo, di volta in volta attento, inquisitore, arguto, interrogatore, ma sempre cordiale è di quelli che non si dimenticano. Celebre è divenuto il suo riso, nel quale risuona una eco di vertigine o di infinito; egli si appassiona per il confronto intellettuale, sempre pronto ad ascoltare per poter imparare lui stesso. Tanti aspetti in un solo uomo possono sembrare sconcertanti, ma danno semplicemente un rapida idea di una ricchezza assunta e volentieri condivisa. Una presenza all’altro resa palpabile da una attenzione calorosa, foggiata pazientemente nella concentrazione della riflessione e raffinata nella solitudine della meditazione quotidiana.

Oceano di sapienza”, “il Prezioso Vittorioso”, “Gioiello che esaudisce ogni desiderio”, “Incomparabile Maestro”, “il Signore del Loto bianco” – adorno così di titoli prestigiosi, un tantino pomposi, dalla devozione dei fedeli -, o più semplicemente “Kundun”, “la Presenza”, che lo caratterizza tanto bene, il dalai lama si autodefinisce come un “semplice monaco budhista” fra gli altri: la stessa stretta disciplina, gli stessi desideri di imparare senza venir meno, lo stesso impegno per il benessere di tutti. Con in più, sulle sue spalle larghe, la responsabilità di proteggere una terra, un popolo e la sua civiltà: il paese dei Monti nevosi così a lungo avvolto nel suo isolamento al di sopra dei suoi vicini, sui suoi altopiani al di là dell’Himalaya, al punto che alcuni lo credevano off-limits. Da qui quel mito di inaccessibilità e i suoi misteri che tanto hanno fatto sognare. Compito rude questo, nel mondo di oggi governato da norme in assoluta contraddizione con l’aspirazione alla calma e alla serenità attribuita così generosamente agli abitanti del paese.

Venendo a conoscere l’arrivo, se non sano almeno salvo, del giovane dalai lama in India, dopo la fuga pericolosa del marzo 1959 nella scia del sollevamento popolare anticinese, forse Mao non aveva tutti i torti nel constatare in tono deluso davanti ai suoi luogotenenti: “Abbiamo perso la battaglia del Tibet”. In occasione di una discussione con il dalai lama appena ventenne in un viaggio organizzato  nel 1954-55 nella Cina popolare, il Grande Timoniere lo aveva pur avvertito che a suo parere “la religione è l’oppio del popolo”, cosa che aveva fatto a lungo riflettere il suo visitatore. L’esilio per Tenzin Gyatso è anche la conoscenza del mondo: a 24 anni, è l’assunzione della responsabilità di preservare la perennità di una eredità spirituale multisecolare assicurando  insieme la sopravvivenza di un popolo ormai diviso in due – in patria, di fronte a un vicino che si impone con la forza, al di là delle frontiere su una terra straniera dove l’ospitalità accordata non è sinonimo di facilità.

La sfida non è vinta in anticipo, occorrerà molta buona volontà e perseveranza, una solidarietà tessuta anno per anno e indubbiamente una fede radicata nel cuore per non sbagliare la strada. Senza mai smettere di istruirsi lui stesso, il dalai lama ha insegnato prima ai suoi e poi ad altri, a guardare lontano, al di là dell’immediato, inserendosi nella durata e fondando le sue scelte sulla non violenza. Occorreva molta intuizione e coraggio per tenere la direzione. Dopo le proteste anticinesi ricorrenti a Lhasa nel 1987, 1988 e 1989 represse brutalmente, e quelle di Tienammen nel giugno 1989 per chiedere la democrazia in Cina, la giuria di Oslo riconosce inaspettatamente la statura raggiunta del gerarca tibetano  e gli decreta il Nobel per la pace. Il riconoscimento suscita l’ira del regime cinese, ma ricorda che il neo laureato è anche il rappresentante di un popolo imbavagliato, al quale la notorietà ormai consacrata dà una visibilità maggiore.

Il leader di un popolo minacciato

Da allora la fama del XIV dalai lama si è allargata notevolmente a tutte le latitudini, anche se, vittime delle loro contraddizioni, i capi del mondo tendono a privilegiare, quando si azzardano ad accoglierlo, il maestro spirituale a scapito del leader di un popolo minacciato. Nel marzo e aprile 2008 i Tibetani hanno manifestato chiaramente la loro fedeltà persistente malgrado un così lungo esilio. Le autorità cinesi hanno avuto un bel bandirlo e cercare di farne uno spauracchio, lui non si ferma davanti agli ostacoli, li passa e cammina verso il fine che si è dato – una pace interiore a prova dei rovesci come delle vittorie. Perché sa che la ruota gira e si limita talora a constatare con un sorriso che risplende come il sole: ”I Cinesi hanno fatto di me il più popolare dei Dalai Lama...”.

Claude B. Levenson *

(da Le monde des religions, n. 30, pp. 38-39)

* Giornalista e scrittrice, ha pubblicato nel 1987 la prima biografia in francese del Dalai Lama, Le Seigneur du Lotus blanc (riedito mel 2001 nelle edizioni Lieu Commun).

 

 

Letto 2578 volte Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 15:45
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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