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Venerdì, 26 Novembre 2010 22:27

Il Buddha: via verso il risveglio e la liberazione (Massimo Raveri)

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Nell'arco di 2500 anni il buddhismo si è diffuso in tutte le culture dell'Asia e anche in Occidente. È stato lungo il cammino che ha portato dalla solitaria ricerca di perfezione dell'arhat al modello di salvezza universale del bodhisattva, illuminato dagli ideali della sapienza e della compassione, fino alle inquietanti verità iniziatiche dell'esoterismo tantrico e alla sofisticata, ironica sapienza dei paradossi Zen.

Il Buddha e la via
verso il risveglio e la liberazione

di Massimo Raveri  *

 

Il buddhismo ha origine in India nel VI secolo a. C., un'epoca di significativi mutamenti economici e sociali e d'intenso ripensamento della tradizione religiosa. Anche il buddhismo rifiutava i sacrifici e la logica sacrale che essi implicavano; negava l'esistenza sia di un principio assoluto, il Brahman, sia di dio, Asvara, e rifiutava la fede nella rivelazione contenuta nei Veda. Le comunità di rinuncianti che si erano formate seguendo l'insegnamento del Buddha, incuranti delle divisioni castali, rimettevano in discussione il rapporto fra sacerdote, conoscitore della segreta potenza sacra dei riti, e il laico, proponendo una diversa concezione dell'esperienza religiosa. Anche la scelta di predicare nel linguaggio quotidiano degli ascoltatori contribuiva ad incrinare tutto il sistema di potere religioso brahmanico. Quella che nacque come una corrente religiosa minoritaria e deviante riuscì a interpretare così a fondo il nuovo discorso culturale tanto da divenire, in pochi secoli, una tradizione spirituale dominante in India.

Nell'arco di 2500 anni il buddhismo si è diffuso in tutte le culture dell'Asia e anche in Occidente. È stato lungo il cammino che ha portato dalla solitaria ricerca di perfezione dell'arhat al modello di salvezza universale del bodhisattva, illuminato dagli ideali della sapienza e della compassione, fino alle inquietanti verità iniziatiche dell'esoterismo tantrico e alla sofisticata, ironica sapienza dei paradossi Zen. Ma le varie tradizioni in cui si è articolato il buddhismo, spesso caratterizzate da tendenze devozionali, e le diverse prassi di culto, influenzate da altre religioni, non hanno mai offuscato la figura paradigmatica del fondatore e quella primigenia visione di salvezza -la coscienza del dolore dell'esistere, il distacco dalle illusioni e l'illuminazione - che aveva insegnato.

1. Il Buddha

Buddha significa "risvegliato". È un titolo onorifico che nella tradizione religiosa indiana designa un individuo che ha perfezionato le sue virtù spirituali nel corso di numerose vite fino a raggiungere l'illuminazione. Divenne ben presto il principale epiteto del fondatore della comunità buddhista, di colui che aveva raggiunto la comprensione più alta della verità e l'aveva svelata agli uomini. Il suo nome era Siddhārtha e Gautama il suo patronimico. Assai scarsi sono i dati storici che conosciamo su di lui. La maggior parte degli studiosi contemporanei ritiene che sia nato intorno all'anno 566 a. C. e morto nel 486 a. C. Il padre, Juddhodana, capo del clan dei Iākya, governava su Kapilavastu, piccolo stato oligarchico, ai contrafforti del Himālaya nepalese.

La biografia del Buddha è frutto di una esuberante fantasia di leggende e di temi simbolici fiorita sulla struttura portante della narrazione storica. L'immaginario della fede e le esigenze della predicazione hanno idealizzato sempre più la vita del maestro, tanto da portarla a riprodurre quello che sembra essere uno schema astratto e rigoroso di perfezione religiosa. Voler separare la verità storica dal racconto immaginario è un'impresa quasi impossibile. E forse non sarebbe nemmeno giusto farlo: per secoli è stata proprio questa "vita ideale" a essere fonte di profonda ispirazione religiosa.

Già il suo concepimento e la sua nascita sono eventi straordinari, annunciati da profezie. Nelle pagine del Lalitavistara e del Nidānakathā la narrazione è intessuta di un'atmosfera come di sogno, di stupore mistico, di fronte al miracolo: la luce si diffonde improvvisa nel mondo, la terra trema, musiche soavi pervadono l'aria. Il Buddha penetra nel seno di Maya sotto forma di un elefante bianco a sei zanne. Essere puro, circondato e assistito dagli dèi, appena nato già rivela i trentadue segni fisici della perfezione. Nelle parole del vecchio saggio Asita, Siddhārtha diventerà o un sovrano universale o un illuminato.

Poco dopo il parto la madre muore e il bambino è allevato dalla zia, Mahāprajāpati. Il padre lo ama teneramente e cerca in tutti i modi di proteggerlo da ogni causa di turbamento. La prima fase di questa "vita ideale" del fondatore è nel segno della perfezione mondana. I testi parlano di un giovane Siddhārtha bello, buono e sapiente che trascorre i suoi giorni nei giardini del palazzo, in un mondo a parte, meraviglioso. A 16 anni si sposa con Yasodhara.

Ma questo incanto ad un certo momento si rompe. La leggenda dice che un giorno Siddhārtha uscì dalla cinta di mura del palazzo e incontrò un vecchio, la volta seguente incontrò un malato, ancora una volta uscì e si fermò al passaggio di un corteo funebre: la "crisi iniziatica" si traduce nella progressiva rivelazione della sofferenza della vita, nella presa di coscienza della finitudine e illusorietà dell'esistenza. Avventuratosi fuori dal suo giardino per la quarta volta, incontra un asceta mendicante e vede, nella sua serena dignità, una prima via di liberazione. Rientrando nel palazzo, apprende che gli è nato un figlio, Rāhula. Il suo compito sociale si è esaurito. Quella stessa notte, dopo aver preso congedo in silenzio dalla sua sposa e dal bambino, Siddhārtha abbandona la sua casa, si spoglia dei vestiti da principe e entra nel bosco in solitudine. Per cercare - come è scritto nel Majjhima nikiiya - «ciò che non ha nascita, ciò che non invecchia e non decade, ciò che non muore, ciò che è senza dolore, ciò che è puro, totalmente libero da vincoli: il nirvāna».

Segue un lungo e sofferto periodo di travaglio interiore e di prove. Siddhārtha all'inizio segue gli insegnamenti di Arada Kalama, uno dei più importanti filosofi del suo tempo. Diventa quindi discepolo di un altro maestro, Udraka Ramaputra, ma alla fine, insoddisfatto, sceglie di intraprendere la sua ricerca spirituale in solitudine. Per sei anni, con intensità, con accanimento, si impone le più estreme forme di ascesi, fatte di estenuanti veglie in meditazione e di terribili digiuni. Ma arriva alla certezza che attraverso l'umiliazione del corpo non può ottenere una maggiore luce della mente. Gli ritorna chiaro il ricordo di uno stato meditativo in cui un tempo era entrato spontaneamente, uno stato conosciuto come primo jhāna al di là del coinvolgimento dei sensi, ma accompagnato da una calma profonda, da una serena gioia, da una distaccata consapevolezza. E intuisce che quella è la Via.

Riprende allora a nutrirsi e ritrova le proprie forze. I suoi primi discepoli, delusi da quello che pensano essere un cedimento, lo abbandonano. Come in tante narrazioni delle vite dei fondatori carismatici, anche Siddhārtha nel momento cruciale rimane solo, incompreso e deriso. Ma i testi ce lo descrivono ormai sicuro delle sue scelte e la narrazione si fa incalzante, creando il senso crescente di un'attesa cosmica.

Seduto in meditazione ai piedi di un albero - simbolo dell'Albero della Vita e axis mundi - affronta l'ultima delle prove iniziatiche. Māra, il tentatore, che regna sui sensi e sui desideri, con le sue visioni illusorie cerca di distoglierlo dalla concentrazione per impedirgli di raggiungere la conoscenza ultima. La vittoria sulle tentazioni è la premessa alla sua radicale trasformazione interiore. Siamo vicini al centro dello schema narrativo, al fulcro della ricerca spirituale. Siddhārtha percorre i quattro stadi della meditazione che lo portano per gradi al raggiungimento della «non triste, non lieta, equilibrata, saggia e perfetta purezza» della mente, liberando la coscienza dai legami col mondo sensibile. Rivede le infinite sue precedenti reincarnazioni. Intuendo la serie delle cause che provocano l'angoscia dell'esistere, comprende la via che conduce alla liberazione. All'alba, «distrutta l'ignoranza, dissipata la tenebra, risvegliata la conoscenza, guadagnata la luce», Siddhārtha raggiunge l'illuminazione: è diventato il Buddha.

Inizia allora la seconda parte della "vita esemplare" che è simmetrica e speculare alla prima. Di nuovo il Buddha attraversa un periodo di travaglio: è incerto se rivelare o no alla gente «quella verità difficile a scoprire, difficile a percepire, profonda, preziosa, tranquilla, accessibile ai saggi». È il dubbio più profondo di ogni santità; è l'ultima tentazione di Māra, che sollecita il Buddha a entrare nel nirvana senza curarsi degli altri uomini. Ma il Buddha torna nel mondo e la logica del discorso agiografico vuole che i primi ad ascoltare la nuova dottrina siano proprio i discepoli che lo avevano abbandonato. Ora si prostrano di fronte a lui: è il riconoscimento del suo carisma. Con la predicazione, si apre un periodo di vita tanto perfetta secondo i valori del sacro, quanto la giovinezza era stata perfetta secondo i valori del profano. Il Buddha sceglie la vita mendicante ed errabonda, accompagnato dai primi discepoli. Il suo insegnamento, che pure viene contrastato e osteggiato, si diffonde. Si forma il samgha, la comunità dei suoi seguaci che rinunciano al mondo.

È prossimo il tramonto della vita. Come avvenne per la sua nascita, il Buddha ha potere anche sulla sua morte: miracolosamente ne controlla il momento e il modo. Le visioni della fede conferiscono alla narrazione dell'evento un'aura, una musicalità di apoteosi divina: «Si sdraiò sul fianco destro, come un leone, coprendo piede con piede, riflessivo, consapevole. Ed ecco, in quel tempo, i due alberi di sāla divennero tutto un fiore, pur non essendo stagione di fioritura ed essi aspersero il corpo del Perfetto, lo riaspersero e lo ricopersero di fiori, in onore del Perfetto. E dal cielo caddero fiori divini che aspersero, tornarono ad aspergere e ricopersero il corpo del Perfetto, in onore del Perfetto. Divini strumenti musicali risuonarono nell'aria in onore del Perfetto» (Mahāparinibbānasutta V, 1-2). Ma in altri testi rimane come intatta, dolorosa e pacata, la voce di un antico racconto: avvertendo che la sua morte è imminente, il Buddha chiama a sé Ānanda, il discepolo più amato, che vinto dallo sconforto piange e lo fa sedere al suo fianco: «Basta, o Ananda, non addolorarti, non lamentarti. Non dunque, anche prima, io dissi: di tutte le cose care e gradite è mutevole l'esistenza, certa è la separazione? Ciò che è nato, cresciuto, è soggetto a distruzione: come potrebbe non perire? Non si conosce una cosa simile. Per lungo tempo, o Ananda, mi hai seguito, con amore nelle opere, tutto inteso al bene, senza restrizioni e senza limiti. Perciò, o Ānanda, assoggettati ancora a uno sforzo e presto diverrai anche tu libero da ogni legame» (Mahāparinibbānasutta V, 14). I testi tramandano che uscì dal mondo senza angoscia, calmo, in uno stato controllato di meditazione, per estinguersi nella liberazione definitiva del parinirvāna

2.L’insegnamento: le Quattro Nobili Verità

Il Discorso di Benares è anche definito «l'insegnamento che ha messo in moto la ruota del Dharma, della Legge», perché per i fedeli buddhisti da quel momento è iniziata una nuova èra e la verità è entrata nella storia. Esso si apre con l'idea che c'è una «Via mediana» per coloro che cercano la verità e la liberazione, una Via che rifugge i due estremi, dell'asservimento ai sensi come del rifiuto del corpo. Il Buddha stesso aveva provato entrambi questi vicoli ciechi. Il discorso espone quindi le Quattro Nobili Verità (catvāry āryasatyānī). Gli studiosi non sono sicuri che gli antichi testi in pali riportino fedelmente le parole del maestro. Le fonti scritte sono tarde, datano infatti circa 500 anni dopo la morte di Īākyamuni. Tuttavia le tradizioni di scuole e di epoche diverse riportano le Quattro Nobili Verità con strette corrispondenze di contenuto e di forma e si pensa che rappresentino il nucleo dottrinale del primo buddhismo.

La Prima Nobile Verità così recita: «Questa, o monaci, è la Nobile Verità circa il dolore (dukkha): la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò che piace è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore, dolore in una parola sono i cinque elementi dell'esistenza». Il buddhismo pone in primo piano il problema cruciale della sofferenza dell'uomo, di tutti gli esseri senzienti. E lo pone con urgenza, in modo categorico. In certi periodo storici i discorsi religiosi tradizionali non riescono più a cogliere, a interpretare le nuove forme della percezione del male, non riescono più a "sentirne" il senso e le forme con cui si va ridefinendo. E non percepiscono neppure le nuove forme della felicità. Significa che anche le loro risposte di salvezza si sono impoverite, non fanno più presa. Così avvenne nel VI secolo a. C. all'epoca della crisi del mondo religioso vedico tradizionale, una crisi che generò il buddhismo. Ma il Buddha parlando di dolore non intende semplicemente le pene del corpo o il dispiacere delle passioni frustrate. La proposizione che apre l'insegnamento di Iākyamuni è la presa di coscienza di un disagio esistenziale profondo. I componenti della realtà sono privi di un sé e questa condizione di transitorietà, che rende necessariamente ogni cosa soggetta a dissolversi, è la fonte del dolore, perché gli uomini sono portati ad illudersi della permanenza, a sognare un assoluto, ad aggrapparsi all'idea di un io che perduri nell'ossessivo ciclo delle reincarnazioni. Ma tutto è transitorio, quindi tutto è dolore. Anche le gioie che la vita offre contengono già, impressa nella loro origine, il seme dell'angoscia, perché contribuiscono solo ad alimentare una più forte, e più tragica, illusione. Dolore ha un senso astratto, universale. «Impermanenza» non significa semplicemente il perpetuo mutamento della realtà esterna. Per la dottrina buddhista è necessaria una presa di coscienza profonda della non-sostanzialità del mio stesso essere.

Fin dalle sue origini il buddhismo ha negato l'esistenza di un realtà individuale, l'ātman, di natura metafisica. Ha negato al contempo sia l'esistenza di un dio unico supremo, eterno, onnipotente, propugnata dalla devozione hinduista, sia l'esistenza del brahman, il principio assoluto. La dottrina buddhista parla del soggetto e della sua attività psicofisica come di un precario agglomerato di «aggregati» in perenne associarsi e dissociarsi, mutevoli e caduchi «privi di essere in sé», che inevitabilmente originano dei composti «vuoti di essenza» perché intimamente privi di un elemento assoluto, stabile. L'io quindi è illusorio, è solo un nome, un'etichetta convenzionale. Quando Ananda, il discepolo più amato, chiede al Buddha: «Ma se la realtà è sogno, io cosa sono?», il Buddha gli risponde: «Siamo il sogno di un sogno». Tutta la meditazione buddhista è volta a comprendere l'illusione dell'io e insegna un cammino di vita, incentrato sull'idea che solo attraverso l'annullamento di sé si possa raggiungere la vera conoscenza, e la liberazione. Penso che Thomas Merton sia stato affascinato dal silenzio, dalla meditazione, dal cammino di serenità interiore del buddhismo, e che, come tutti i ricercatori dello spirito, abbia condiviso intensamente l'idea che solo lo svuotamento di sé significasse scoprire la verità più profonda.

Ma il dolore esistenziale non è assoluto. Questo è il messaggio di speranza. Il dolore ha una causa, ha un'origine, quindi è relativo: ha avuto un inizio, può avere una fine, può essere vinto. Con la Seconda Nobile Verità Iākyamuni mette in luce l'origine del dolore e l'identifica in un'eterna «sete di esistenza» (trisna) che affonda le sue radici nei desideri dei sensi e nell'illusione della mente: «Questa, o monaci, è la Nobile Verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e con il desiderio, che trova godimento ora qua ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione».

La sete di esistenza significa un attaccamento alla realtà, un pensare che l'essere sia ontologicamente consistente, e invece è relativo, effimero, transeunte, inconsistente: sono forme che appaiono e passano via, nascono e muoiono. Sono un sogno, un'illusione. Alla radice di questa profonda illusione c'è kāma, il desiderio, in tutte le sue espressioni. Sono le tentazioni con cui Mara, personificazione del male, assale il Buddha e che il Buddha domina e vince. Il pensiero buddhista le interpreta come «distrazioni della mente», come «inganni della mente» a se stessa. E sono le tentazioni di sempre. Il desiderio del cibo, il desiderio erotico, il desiderio di ricchezza, il desiderio di potere. Significano le sfaccettature di una pulsione più profonda di dominio del mio ego sul mondo e sugli altri. E svelano anche un desiderio di distruzione, di annientamento.

La Via che libera è il distacco, il controllare, dominare, vincere i sensi e i sentimenti, fino a reprimere la sete di esistenza. «Questa, o monaci, è la Nobile Verità circa la soppressione del dolore: è il sopprimere questa sete, è il bandirla, reprimerla, il liberarsi da essa. Significa l'annientamento completo del desiderio, il distacco». Il pensiero buddhista non risolve la disperazione di fronte al problema della morte, con la visione escatologica "oggettiva", la promessa di un'altra vita, in una dimensione altra, paradiso o inferno. Opera sulla mente di chi soffre, con un percorso di meditazione che è una vera e propria terapia interiore per raggiungere la calma, la serenità, la equanimità, e perciò la cessazione della sofferenza.

Ma come è difficile raggiungere il perfetto distacco!

La figura del Buddha rivela la sua mente serena, calma, in pace.

Ma anche lontana, lucidamente consapevole, imperturbabile. La formulazione, così concisa, della Seconda e della Terza Nobile Verità apparve, fin dalla più antica tradizione, oscura e poco esauriente. Già nei primi testi del Canone si sentì la necessità di completarla con la dottrina della «origine dipendente» (pratītyasamutpāda).

La «legge delle dodici cause» rappresenta il punto centrale e più ostico di tutta la dogmatica buddhista. La dottrina della «dipendenza», espressa con chiarezza nel Discorso a Kātyāyana del Samyutta nikāya, implica una riflessione nuova sulla teoria della causalità del karman, sul senso della responsabilità morale e della libertà. Il problema filosofico in gioco è come considerare la legge sottintesa all'esperienza del samsāra pur criticando i due tradizionali postulati metafisici, l'uno che proponeva l'essere come realtà assoluta e permanente, e il suo opposto che, ispirandosi ad un radicale nichilismo, negava ogni forma di continuità delle vite. La personalità umana è una via di mezzo: né totalmente libera né così vincolata alle leggi della causalità da non potersene liberare.

Secondo il Buddha, la natura psicofisica dell'uomo è condizionata dalla coscienza (vijñāna), che, a sua volta, è determinata dalla comprensione o dall'ignoranza e dalle disposizioni che da essa derivano. L'uomo arriva a sperimentare il mondo intorno a sé attraverso le sei facoltà sensoriali e risponde a questi stimoli, essendone attratto. Se il suo agire è dominato dal mondo dell'esperienza, non potrà che subire la legge del karman, che lo tiene prigioniero del divenire attraverso le vite. L'ignoranza dunque e la sete di esistenza, in quanto condizioni dell'incessante trasformarsi dell'uomo, sono le cause ultime del dolore esistenziale. Procedendo all'inverso lungo la stessa scala di cause, la piena comprensione dell'impermanenza del reale e della non-sostanzialità dell'io fa si che la persona possa pacificare le sue predisposizioni. La pace porta allora ad una migliore conoscenza della natura vera della propria personalità cosi come del mondo dell’esperienza. Cogliendo la caducità dei fenomeni, la risposta non sarà rigidamente predeterminata e, nell'abbandono delle passioni e nella soppressione della sete di vivere, le azioni saranno caratterizzate dal completo distacco e dalla compassione per la sofferenza umana. Ogni residuo karmico è progressivamente annullato, non c'è più divenire: libero dal ciclo delle rinascite, l'uomo è libero dal dolore.

La Quarta Nobile Verità insegna che l'esperienza di salvezza non è un insieme di pratiche rituali e non è nemmeno un insieme di proposizioni teoretiche di carattere dogmatico, ma è essenzialmente una Via, un percorso tutto interiore, tutta personale, di autoconoscenza e di liberazione: «Questa, o monaci, è la Nobile Verità circa il Sentiero (mārga) che conduce alla soppressione del dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione». Il cammino che conduce alla liberazione è qualcosa di più di un codice morale e assume il carattere di una terapia spirituale, condizionata dalla rigorosa osservanza di ben definite regole e tecniche di controllo della mente. Esso si sviluppa in tre direttrici: la pratica delle virtù morali (sīla), la pratica della concentrazione e della meditazione (samādhi) e la pratica della sapienza (prajñå)

Il nirvana è il fine di questo percorso di risveglio e di liberazione. Per il buddhismo antico il nirvana la più alta esperienza spirituale, raggiungibile attraverso un lungo processo di conoscenza e di meditazione. È la liberazione dal ciclo delle rinascite, è la «estinzione» definitiva di quel flusso di aggregati detto «io». È, finalmente, la «pace»: «Caduchi sono i fenomeni, soggetti alle leggi del nascere e del perire ... Per essi l'estinguersi è gioia» (Mahāparinibbānasutta VI, 10).

Espresso soprattutto apofaticamente, increato, inalterabile, eterno, senza principio e senza fine, incondizionato, questo stato puro al di là del bene e del male e di ogni fattore che vincoli l'essere all'inarrestabile corrente delle trasmigrazioni, questo assoluto nulla che trascende le più alte tappe dell'esperienza mistica, rappresenta l'ideale a cui tendere. L'uomo, «ombra sospinta da un vento impetuoso che instancabilmente ne riunisce e dissocia le diverse componenti, potrà, disperdendo il desiderio, interrompere il corso del fiume dell'esistenza. Comprendendo la fine di tutto ciò che è destinato a perire, potrà riconoscere ciò che non è stato mai creato» (Dhammapada, 383).

Nei testi del Canone sono rari i passaggi sulla natura del nirvāna: i primi sūtra ammoniscono che le speculazioni metafisiche sono solo un ostacolo alla liberazione ultima. Permane quindi una profonda ambiguità nell'intrecciarsi di due prospettive epistemologiche e soteriologiche riguardanti il nirvāna e il samsāra. Se il samsāra è inteso in termini oggettivi come questo nostro mondo transeunte che dà solo dolore, allora il nirvāna deve essere qualcosa di diverso. Qui l'antica metafora dell' «altra sponda» diventa comprensibile, perché coglie una condizione oggettivamente "altra", raggiunta solo al momento della morte e dell'uscita definitiva dal ciclo delle rinascite: è il «nirvāna completo» (pari nirvāna). Il concetto di estinzione è approfondito fino a cogliervi una realtà di gioia "al di là" della vita e della morte. Ma se il samsāra è interpretato come la condizione soggettiva di sofferenza della mente ignorante, prigioniera nel buio delle proprie illusioni, allora il passaggio dal samsāra al nirvāna viene ad assumere il senso di un radicale cambiamento interiore. In quanto condizione più alta, più rarefatta di sapienza, il nirvāna non è altro che la condizione della mente illuminata. La distinzione diventa esile: il nirvāna è nel samsāra, la salvezza non è la fuga da un mondo di sofferenza, ma è la meta di una ricerca tutta interiore verso l'illuminazione in questa vita.

Il risveglio apre la mente alla realtà ultima, assoluta, non condizionata, non effimera, che è il vuoto (sunyatā). Non è una posizione filosofica nichilista. Il concetto di non-essere secondo la dottrina buddhista è ancora relativo, perché dipende dal concetto di essere. Il vuoto è intuito come una realtà più profonda, al di là della dicotomia «essere-non essere»: è un silenzio ultimo e puro. È forse la vertigine di tutte i cammini religiosi.

Il buddhismo l'ha accettata e ne ha fatto il perno della sua visione di salvezza.

3. La comunità dei monaci (samgha)

L'insegnamento del Buddha si propone soprattutto come un metodo per arrivare alla verità, da verificare con l'esperienza personale fondata sulla pratica. Per lungo tempo si pensò che solo la scelta della rinuncia al mondo rappresentasse quell'ideale «via di mezzo» tra le illusioni della vita mondana da una parte e le vertigini della vita ascetica dall'altra, che permettesse di realizzare il fine del Dharma, la liberazione, e di conservare e diffondere la dottrina.

Nel lungo periodo di predicazione del Buddha, i suoi discepoli formarono intorno a lui la prima comunità. La tradizione mantiene il ricordo di Kaudinya, il primo convertito, Mahāprajāpatī, la donna che diede vita all'ordine monastico femminile, Iāriputra, maestro di dottrina, Mahākāsyapa, che eccelleva nelle pratiche di meditazione, Maudgalyāyana, il grande taumaturgo, Upāli, il più esperto delle regole monastiche, Ananda, il discepolo più amato.

Gli antichi monaci (bhiksu) non avevano fissa dimora. Dormivano all'aperto, si spostavano di villaggio in villaggio, vivendo della carità dei laici. Solo durante la stagione delle piogge si riunivano nei boschi in precarie capanne per poi riprendere, per strade diverse, a predicare. Col tempo le comunità divennero sedentarie e iniziò la tradizione cenobitica. La loro vita era fatta di povertà, di silenzio, scandita dal tempo della questua e dal tempo della meditazione e dello studio delle scritture. L'ideale monastico ha sempre rappresentato una mediazione tra due opposte dinamiche del sacro: da una parte, il rifiuto del mondo e il silenzio della ricerca interiore attraverso la purezza dell'ascesi (è la luminosa tradizione mistica del buddhismo); dall'altra, l'andare nel mondo, il farsi carico delle angosce del quotidiano in nome dei valori etici della compassione e dell'altruismo (è l'antica prassi sacerdotale del monaco, che fonda anche la tradizione medica e pedagogica del buddhismo).

Acconsentendo alle suppliche di Mahāprajāpatī Gautamī, il Buddha diede vita anche ad una comunità monastica femminile, stabilendo tuttavia per le monache (bhiksuī) una regola più severa e imponendo loro l'obbligo di sottostare ad una guida spirituale maschile.

La struttura della comunità monastica si fonda su due tipi di ordinazioni. La prima segna l'atto di rinuncia del novizio ai vincoli del mondo: indossata la veste e fattisi radere i capelli, egli si impegna ad osservare scrupolosamente i dieci precetti fondamentali. Terminato il periodo di noviziato, alla presenza di un Capitolo di almeno dieci monaci, con una cerimonia semplice eppure solenne, viene ammesso nell'ordine. In seno alla antica comunità l'unica distinzione gerarchica accettata corrispondeva alla diversa anzianità dell'ordinazione.

Fra i doveri essenziali del monaco vi è innanzi tutto la non violenza, il divieto di uccidere o far del male agli altri esseri. Vi è poi la regola della povertà: il concetto del «possesso» era esplicitamente condannato nel Suttapitaka (IV, 3). La questua, composta e silenziosa, con gli occhi bassi, di casa in casa, doveva essere l'unico modo di trovare sostentamento e attraverso le inevitabili umiliazioni doveva portare il monaco a superare ogni sentimento di orgoglio. Il problema della proprietà si affacciò con l'affermarsi della vita cenobitica e fu risolto con l'assenso ad un patrimonio "collettivo" del monastero: fare donazioni al samgha fu giudicato un atto meritorio. Col tempo e in tutte le culture dell'Asia, templi particolarmente legati all'autorità di governo ottennero larghe donazioni, esenzioni da tasse, privilegi e diventarono centri di fiorente vita religiosa, di scienza, di arte, e anche, inevitabilmente, di potere sociale e politico, di intrigo e di corruzione.

Altra regola monastica è la castità: i rapporti sessuali come i vincoli affettivi sono considerati fonte di illusione e ostacoli insormontabili sul cammino della liberazione. È inoltre rigoroso il divieto di attribuirsi, per cupidigia di potere, eventuali sovrumane perfezioni spirituali. Segue poi una serie numerosa e meticolosissima di proibizioni: non rubare, non mentire, non bere bevande inebrianti, non mangiare fuori dalle ore stabilite, non danzare o cantare, non curarsi di abbellire il proprio corpo, ecc. (Mahāvagga, I, 56). Alcuni peccati implicano l'espulsione dalla comunità, altri obbligano alla penitenza. La disciplina monastica è sempre stata interpretata non solo come una via morale, ma anche come un metodo di purificazione spirituale che aiuta il monaco a uscire dall'ignoranza e a resistere al potere offuscante dell'illusione dei sensi. La mente lucida, calma, distaccata, a sua volta allontana il monaco dalle azioni scorrette. Qui è il senso tutto buddhista della confessione (posadha) fatta agli altri monaci: è un atto che «libera la mente» dall'angoscia repressa e, ridonando serenità, ripristina le capacità meditative.

Il samgha ha le sue radici in un ideale di ordine e armonia e ha sempre tollerato un certo grado di disaccordo, purché pacifico. Il codice del primo monachesimo, che darà l'impronta decisiva, garantiva la solidarietà, ma non imponeva né un'unica organizzazione gerarchica su tutto il territorio, né un'autorità al vertice dotata di potere dottrinale e "politico". Il Buddha rifiutò di designare un suo successore, dicendo che solo la sua dottrina doveva essere di guida ai fedeli.

Di fronte alla precaria organizzazione della comunità buddhista, entrarono in azione una serie di forze centripete che premettero per recuperare un'ideale unità degli inizi (che forse non c'era mai stata). Ci fu un lavorio lento ma costante per fissare gli insegnamenti del fondatore. Quando i gruppi di monaci mendicanti diventarono numerosi e si fecero sedentari, si sentì urgente l'esigenza di determinare con chiarezza un codice di regole comuni, quale strumento indispensabile per preservare la coesione, la sopravvivenza stessa, della comunità. E si fece più chiara la consapevolezza della necessità di un approfondimento teoretico. La trasformazioni degli ideali ascetici in un sistema di dottrina e in un codice di regole monastiche rappresentarono il processo di astrattizzazione del carisma del fondatore e di istituzionalizzazione di un movimento di devianza.

Il più importante risultato fu la compilazione dei testi sacri. I Canoni che sono pervenuti fino a noi - e, fra questi, il più completo è il Canone in pāli della tradizione Theravāda - costituiscono corpi particolarmente complessi, frutto di una elaborazione collettiva, che vide lo sforzo, da parte di generazioni di monaci, di tramandare a memoria l'insegnamento del fondatore. L'opera di trasporre i testi dalla memoria orale allo scritto avvenne circa quattro secoli dopo la morte del fondatore. Tutte le scuole possedevano il loro corpus scritturale, detto Tripitaka (Tre Canestri), perché, in genere, era composto di tre sezioni: il Sūtrapitaka che tramandava l'insegnamento del Buddha, il Vinayapitaka che tramandava le regole della comunità monastica e l'Abhidharmapitaka che tramandava l'approfondimento teorico della dottrina.

Si andava fondando una nuova ermeneutica: differenze d'interpretazione e rivalità dottrinali costrinsero i monaci, generazione dopo generazione, ad approfondire le parole del Buddha, ad analizzarle più a fondo e a completarle alla luce di sempre più raffinate speculazioni.

 

* Docente di Storia della filosofia e delle religioni del Giappone all'Università Ca' Foscari di Venezia e di Storia delle religioni all'Università di Padova.

(da Vita Monastica, n. 244, gennaio-marzo 2010)

Letto 6174 volte Ultima modifica il Giovedì, 29 Marzo 2012 17:02
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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