Le tenebre avvolgono il Nun, l’Oceano primordiale. Solo e inerte, il demiurgo solare Atum-Khapri fluttua fra le due acque, “senza trovare un luogo dove stare”. Ma ecco che all’alba de “la prima volta”, animato da un soffio di vita che “risveglia il suo spirito” e “fa vivere il suo cuore”, il Creatore “viene da sé all’esistenza” e si posa sulla Collina primordiale, a forma di piramide, emersa dalle profondità del Nun. La prima generazione di dei non è ancora nata, ma vive in seno a Atum-Khapri.
Masturbandosi, il demiurgo androgino fa nascere dalla propria sostanza la prima coppia di dei differenziata sessualmente: Shu, lo spazio aereo e la luce (maschile) e Tefnut, il calore del sole (femminile), gemelli che a loro volta genereranno gli elementi fisici del cosmo, Geb, la terra e Nut, la volta celeste. Da questa unione nascono i grandi eroi delle gesta egiziane: Osiride e il fratello Seth, Iside e la sua sorella Nefthi.
Questa enneade, - gruppo di nove divinità – archetipica è sgorgata dalla fantasia dei teologi di Heliopoli, uno dei grandi centri religiosi della civiltà faraonica, in cui domina il culto del sole. Come egli ha concepito tutto quello che esiste, Atum il demiurgo creerà anche gli uomini. Un passo dei testi delle Piramidi ci offre una visione di quel primo mattino del mondo: “Atum, che è nato nel Nun, quando il cielo non era ancora esistito, quando la terra non era ancora esistita... Prima che i netjer (gli dei) fossero nati, prima che la morte fosse avvenuta, prima che fosse avvenuta la lite, la voce, la collera e la maldicenza...”.
Gli altri grandi santuari egiziani non rimangono indietro e ognuno dà la sua propria versione della “prima volta”: Ptah, il demiurgo di Menfi, crea l’universo nel suo cuore e poi, con la sua parola divina (una immagine che prefigura quella della Bibbia), gli dei, gli uomini e gli animali. Il dio caprone Khnun di Elefantina, “signore vasaio”, foggia tutta la creazione sul suo tornio. Il mito di Hermopoli racconta a sua volta che otto divinità sorgono dalle acque primordiali e si accoppiano, facendo emergere la Collina primordiale, detta “l’Isola della fiamma”. E su questa terra il dio Thot, sotto la forma di ibis, colloca un uovo cosmico che genererà il sole. Un altro racconto - narrato nei Testi dei Sarcofagi – ci dice che gli uomini sono nati dalle lacrime di un demiurgo afflitto di cecità temporanea.
L’incarico del destino degli uomini
Il mondo anteriore alla creazione è dunque un mondo senza dei. Si sa che sono nati o che sono stati creati. Ma c’è un termine alla loro esistenza? Dei e dee egiziani sono forse immortali? L’assassinio di Osiride da parte del fratello Seth sembra provare il contrario. Tornato in vita grazie all’amore, alla magia e alla perseveranza della sposa Iside, Osiride diventa nondimeno il dio dei morti e troneggia per sempre nella Duat, il mondo dell’aldilà. Quanto a Thot, scriba degli dei, egli attribuisce una durata limitata di vita agli uomini, ma anche agli dei.
Però se questi ultimi muoiono, risuscitano anche senza posa, proprio come la natura con le sue alternanze di stagioni. Come giustamente fa notare l’egittologo Éric Hornung a proposito delle divinità: “La loro esistenza – e ogni esistenza – non è una infinità immutabile, ma piuttosto un continuo rinnovamento”. Alla fine dei tempi, dopo aver vissuto, evoluto, invecchiato e persino conosciuto la morte, come Osiride, questi dei, così potenti agli occhi degli uomini, ritornano anch’essi allo stato primordiale del mondo, quello del “non esistente”. Persino il demiurgo regna “fino alla fine”, cosa che include un’idea di limite al di là del quale non è autorizzato ad andare, cioè alla frontiera fra il mondo creato, ordinato, e il mondo tenebroso delle origini (1). Così il nome di Atun significa insieme “la totalità di ciò che è” e “ciò che non esiste più”: il dio porta dunque in sé la creazione e il nulla.
Mortali, senza dubbio, ma gli dei sono onnipotenti? Neppure. La dea Iside per esempio, considerata come la più grande delle maghe, non conosce il nome segreto di Re e deve usare uno stratagemma per sottrarglielo. Essere una divinità egiziana presenta tuttavia qualche vantaggio, come quello di avere occhi e orecchi a profusione che decuplicano il sensi e consentono loro di superare i pericoli. Gli dei hanno però il destino degli uomini nelle loro mani: questo lo rivelano molte massime della Sapienza, letteratura didattica di insegnamento morale: “L’uomo è fango e paglia, il dio è il suo costruttore. Egli rende migliaia di uomini poveri quando lo desidera e fa di migliaia di uomini dei capi quando è nella sua ora di vita” (Insegnamento di Amenofi) o ancora: “I progetti degli uomini non si realizzano mai. Ciò che avviene è ciò che il dio ha ordinato”.
“Signori dai molti volti”
L’elemento più caratteristico della raffigurazione e della concezione egiziana degli dei è la loro forma composita: corpo umano e testa di animale, cosa che causa un rigetto e una incomprensione da parte dell’Antichità (fra l’altro dei Romani). La realtà invece è più sottile: la dea Hathot, per esempio, può presentarsi sotto i tratti di una elegante giovane donna la cui capigliatura è sormontata da un disco solare racchiuso da corni, ma anche sotto la forma di una vacca che allatta il re o ancora, secondo i capitelli detti “atorici”, con un volto femminile munito di orecchie di vacca. Senza dimenticare che la dea dell’amore e della gioia può prendere qualche volta l’aspetto di una feroce leonessa, o di un serpente (uraeus) imprevedibile o di un ippopotamo. Si ritrova questa varietà iconografica per gli dei Anubi (uomo e canide) e Thot (uomo, ibis, babbuino, luna).
Queste raffigurazioni non hanno lo scopo di darci un’immagine fedele del loro corpo, ma piuttosto di informarci sulla loro natura e sulle loro diverse funzioni. Altre religioni hanno trovato le loro soluzioni per raffigurare un dio e il suo attributo: in Egitto tale combinazione uomo-animale non ha nulla di dogmatico e si incontrano di frequente altre alternative. La dea Selqet, per esempio, non inalbera una testa di scorpione, ma porta l’animale in cima alla testa, come il dio solare Khepri porta uno scarabeo. Ma se questi simboli ci rivelano una parte della ricchezza della natura divina, non ci svelano però mai la sua essenza che è “nascosta”, “misteriosa”.
Il profumo “del paese di Punt”
Come classificano gli Egiziani i loro dei, così numerosi e vari nelle loro forme e nelle loro manifestazioni? Attaccati come sono alla nozione di famiglia, essi concepiscono con tutta naturalezza delle triadi divine: Amon, la sua sposa Mut e il figlio Konsu, Sobek, Hathor e Konsu, o anche Osiride, Iside e Horus. Ogni divinità o triade ha la sua residenza fissa dove le è reso un culto assiduo: Amon a Karnak, Sobek a Komb Ombo, Horus a Edfu, Hator a Dendera, ecc.
Per rendersi più accessibili si ritiene che esse discendano nelle immagini cultuali, in quelle statue ospitate nel santo dei santi dei templi, dove solo entrano il faraone e i suoi delegati, i preti. La folla dei fedeli, che non ha accesso nel recinto del santuario, elabora la sua pietà personale partecipando alle grandi feste annuali quando le statue divine sono portate in processione, e pregando davanti agli altari domestici.
Gli dei, insieme materiali e spirituali, possono talora manifestarsi agli uomini, specialmente in sogno, come racconta la celebre stele della sfinge di Guizeh, sulla quale il re Tutmosi IV evoca il suo incontro con Harmakhis (L’Horus dell’orizzonte).ma anche in occasione di teofanie – manifestazioni degli dei nel mondo sensibile – con eventi terrificanti, quando tremano la terra e le stelle. In presenza delle divinità tutte le emozioni degli uomini vengono esacerbate: paura. rispetto, amore. Avviene che gli uomini sentano in maniera più dolce l’arrivo della divinità che si manifesta a loro con la sua aura raggiante, ma anche con il suo profumo incomparabile che evoca quello del “paese di Punt” (la terra dell’incenso).
Un dio “assoluto” ma molteplice
Una simile diversità degli dei egiziani e il loro numero fanno credere a un politeismo autentico: occorre abbandonare tale affermazione, che ancora è correntemente diffusa. Ricordiamoci che il demiurgo è uno, ma che con il suo atto di creazione diventa molteplice: “Colui che si trasforma in milioni” è un epiteto che si legge sovente a proposito del dio primordiale. Così anche l’invocazione “dio unico, senza eguale” non è rara nell’Egitto antico: ogni dio o dea può essere dunque “il più grande”, “l’unico” per colui che si consacra al suo culto. Il fedele gli attribuisce allora tutti i poteri, non si rivolge più che a lui (o a lei) a scapito delle altre divinità, che egli ignora o persino sminuisce. Questo procedimento religioso, che viene definito come “monolatria” o anche “enoteismo”, cioè venerazione di un dio per volta, ma non di un dio unico, non è specifico dell’Egitto, poiché lo si ritrova in India: ogni divinità è nello spirito del fedele valida come le altre, ma quella che egli ha scelto diventa ai suoi occhi assoluta e suprema. Essa svolge allora un ruolo dominante a confronto delle altre.
Difficile è per noi concepire un dio unico e assoluto, ma dotato di molteplici attribuzioni e sfaccettature. Per il pensiero egiziano, tuttavia, queste formulazioni in apparenza contraddittorie sono, di fatto, complementari. Ogni volta che le si rende un culto, la divinità diviene unica, perché unisce in sé l’insieme del divino, regna su tutto e non condivide il suo potere con nessun altro. La sola parentesi monoteista è quella del faraone Athenaton, che impone il culto del dio unico, il disco solare Aton. Dopo questo episodio, che segna per lungo tempo gli animi, i teologi egiziani adottano “l’idea di un dio nascosto che si manifesta nella pluralità degli dei immanenti al mondo, i quali sono i suoi nomi, simboli, immagini, membra, manifestazioni” (Jan Assmann).
Lo storico greco Erodoto dice degli Egiziani che essi sono “i più religiosi degli uomini”. Per essi, non c’è dubbio, gli dei esistono e sono al lavoro ogni giorno per mantenere il mondo fuori della portata del caos, che essi temono tanto. Unici e molteplici nell’intensità della loro presenza e della loro ricchezza espressiva.
Florence Quentin
Nota
1) Pregnante, la credenza egiziana in un Oceano primordiale e delle tenebre è adottata nel mondo antico, ma anche dagli gnostici cristiani che la combinano con quella del Caos greco.
(da Le monde des religions, mars-avril 2008, n. 28, pp. 30-33)
La tentazione monoteista
Nel secolo XIV a. C., il faraone Amenofi IV – Akhenaton tenta di scuotere l’edificio religioso millenario dell’Egitto. Egli comincia con l’accordare la sua preferenza ad Aton, il disco solare che dardeggia i suoi raggi, ed eleva templi al suo culto nello stesso recinto di Karnak, il regno del dio dinastico Amon. Ma verso il nono anno del suo regno, Akenathon, istallatosi in una nuova capitale nel medio Egitto (Amarna), radicalizza la sua riforma: per la prima volta il divino diventa unico e il re , il suo solo profeta. Le altre divinità sono oggetto di persecuzioni, il nome di Amon è eliminato da tutti i monumenti di Egitto, come il plurale della parola “dio”. Alla morte del re “ebbro di dio”, viene restaurata l’antica religione. Questa radicalizzazione del pensiero lascia per un millennio tracce profonde negli Egiziani, incapaci di abbandonare la ricchezza della natura molteplice del divino.
Osiride, una perennità eccezionale
Dio della vegetazione e dell’agricoltura, protettore e insieme giudice dei defunti, Osiride è per tremila anni uno dei più potenti attori del pantheon egiziano. Assassinato, poi fatto a pezzi dal fratello Seth, ricomposto dalla sua sposa Iside, vendicato infine dal figlio Horus, il “Padrone del Tutto” diviene il protagonista di un mito di una vitalità incredibile e di un culto misterico che dovrebbe accordare l’immortalità agli iniziati. Ma la venerazione che generazioni di Egiziani gli portano non si ferma con la fine della civiltà faraonica. Il dio dell’Occidente (il Regno dei morti) partecipa al primo sincretismo greco-egiziano: dalla mescolanza Osiride-Apis (il toro sacro) nasce Sarapis l’Alessandrino, un culto così popolare che si è diffuso in tutto il Mediterraneo. Questo incredibile destino conosce delle disavventure: si vede risorgere Osiride nell’alchimia medievale, nell’ermetismo fiorentino del Rinascimento dove è considerato come il “tipo ideale di umanità” e nelle tradizioni rosicruciane e massoniche. La sua morte sacrificale e poi la risurrezione ne fanno anche uno dei grandi archetipi del redentore, immagine potentissime piena di senso per i cristiani.
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