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Venerdì, 04 Novembre 2016 21:29

Le chiese e le liturgie di Gerusalemme. Gli etiopi (I. H. Dalmais)

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L'Etiopia ha saputo assimilare nel corso dei secoli l'eredità delle correnti più diverse del mondo cristiano per trasformarle secondo il genio suo proprio, quello dell'Africa dell'Alto Nilo e dei Grandi Laghi, proprio là dove per la prima volta sembra essersi destata l'umanità.

La Chiesa etiopica, pur essendo poco conosciuta, per il numero dei suoi fedeli e per i suoi tratti specifici, è tuttavia una delle più importanti tra le Chiese di tradizioni orientali. Essa è intensamente presente a Gerusalemme fin dal più remoto passato. Innanzitutto con il plurisecolare inserimento del monastero di Dabra Sultàn (in arabo Deir Sultan) proprio nel cuore del complesso del Santo Sepolcro. Annidato tra le rovine del chiostro e del refettorio medioevali dei canonici del Santo Sepolcro, occupa oggi la terrazza che domina la cappella armena di Sant’Elena.

Ma gli Etiopi sono presentati anche nella Città Nuova, nella quale si trova la loro imponente cattedrale. L'imperatore Giovanni IV ne aveva deciso la costruzione intorno al 1880, ma essa fu realizzata di fatto dal suo successore Menelik II. Infine, altri tre monasteri si trovano a Betlemme, a Gerico e sulle rive del Giordano, vicino alla localizzazione tradizionale del battesimo di Gesù.

Ma, per la tradizione etiopica, la presenza a Gerusalemme ha radici molto più antiche che risalgono addirittura ai tempi di Salomone. Dopo la «restaurazione della dinastia salomonica», nel 1270, antiche tradizioni vennero raccolte nella Kebra nagast (Gloria dei re): esse narrano, sotto forma di racconto posto sulle labbra di san Gregorio il Teologo, come la Regina di Saba avesse dato un  figlio a Salomone, Menelik I, che avrebbe riportato dalla Città Santa, l'arca dell'alleanza (Tabot), da allora conservata nella città imperiale di Aksum.

Le origini dell'Etiopia cristiana, come quelle della Georgia, ci sono note grazie allo storico Rufino (Hist. Eccl. I,9), il quale afferma di avere appreso il suo racconto dalla bocca stessa di uno del protagonisti, il siriano Edesio. Ed ecco la sua narrazione. Durante una navigazione sul Mar Rosso, egli fa naufragio con suo fratello Frumenzio. Raccolti dagli abitanti, gli scampati sono presentati al re di Aksum, 'Ezānā (tra il 330 e il 340), e convertono alla fede cristiana la famiglia reale. Frumenzio fu in seguito consacrato vescovo da sant'Atanasio di Alessandria, tra il 341 e il 346. Alcune iscrizioni e monete d'oro attestano questa conversione.

L'opera di evangelizzazione fu continuata in seguito particolarmente dai «nove santi romani», probabilmente all'epoca dl Giustiniano, nel VI secolo. Essi tradussero le scritture, posero le basi della liturgia e dell'organizzazione ecclesiastica e insegnarono le dottrine monofisite, derivate dal pensiero di San Cirillo d'Alessandria, al quale la Chiesa d'Etiopia è restata fedelmente attaccata fino ai nostri giorni.

La storia successiva è troppo spesso oscura. Il regno di Aksum scompare nel corso del X secolo; una dinastia di origine Agaw, gli Zāguē, tiene il potere per quasi tre secoli: uno dei suoi sovrani, il santo re Lalibelā, nel corso del XII secolo, farà costruire nel tufo di Lasta il magnifico complesso trogloditico conosciuto sotto il suo nome e considerato come una riproduzione simbolica dei Luoghi Santi.

Questo lungo periodo di oscurità termina nel 1270 con l'avvento di una dinastia originaria delle province meridionali dell'Amara, o Sawa, considerata di stirpe salomonica. L'influenza della Chiesa copta si fa sentire attraverso l'invio più o meno regolare di un unico vescovo candidato per tutta l'Etiopia, l'abuna, scelto tra i monaci di sant'Antonio. Ma il capo effettivo della Chiesa, posto sotto l'autorità suprema dell'imperatore, è l'ečagē, superiore del grande monastero di Dabra Libānos, riorganizzato da san Takla Hāymānot.

Durante il XVI secolo il paese, sfuggito all'invasione devastatrice del mahdi musulmano Grāñ (in amarico significa il «Mancino»), grazie all'intervento dei portoghesi, intrattiene relazioni con l’Occidente cattolico per un secolo. L'inettitudine e l’arroganza del patriarca, designato dal re di Portogallo e approvato dal papa, faranno fallire questi tentativi di unione. Un nuovo periodo di disordini e di disgregazione durerà ancora due secoli, malgrado i primi sforzi di modernizzazione tentati dagli imperatori Teodoro e Giovanni IV, fino all'avvento di Menelik II (1889-1913). Poi, dopo un periodo di instabilità, gli succederà Ras Tafari (1928-1974) che diventerà nel 1930 l'ultimo imperatore, con il nome di Hailè Sellassiè («Forza della Trinità»). Dopo la sua forzata abdicazione nell'aprile del 1974, prese il potere un gruppo di ufficiali che fece dell'Etiopia una Repubblica popolare marxista-leninista, il cui avvenire appare sempre più incerto.

Sul piano ecclesiastico, solo nel 1929, dopo tre anni di negoziati, il nuovo patriarca copto accettò di ordinare cinque vescovi etiopi. Nel 1951, venne eletto un metropolita etiope e ad ognuna delle quindici province del paese venne assegnato un vescovo etiope di recente ordinazione. Alla fine, nel 1959, la Chiesa d'Etiopia divenne completamente indipendente.
La situazione della Chiesa, come quella del paese, è attualmente precaria e incerta. Il clero che da secoli costituisce una «tribù levitica» nella quale i figli succedono ai padri, è troppo numeroso, mal distribuito e insufficientemente istruito. Il monachesimo rappresenta fin dai tempi più antichi l'ossatura della Chiesa etiopica, di cui conserva la vitalità nella partecipazione assidua a una liturgia nutrita dalla meditazione poetica delle Scritture.

È in questo quadro che si colloca una istituzione propria della Chiesa d'Etiopia e che, come molte altre sue caratteristiche, porta il segno di radici giudaiche: i dabtara o scribi. Essi sono laici che si sono specializzati nello studio delle Scritture e delle tradizioni ecclesiastiche. È loro compito vigilare sull'esecuzione delle funzioni liturgiche, e arricchirne lo svolgimento con composizioni poetiche in parte improvvisate. È anche loro compito iniziare le giovani generazioni a una cultura essenzialmente biblica. Moltissimi sono i ragazzi che conoscono a memoria il Salterio, una gran parte del Nuovo Testamento e numerosi canti liturgici. In questo caso si fregiano del titolo di «diaconi», anche se non sempre appartengono a famiglie di sacerdoti o di dabtara.

La liturgia mantiene numerose tracce di un antichissimo patrimonio siriano; in realtà si tratta in gran parte di testi antichi tradotti in ge'ez partendo dalla versione araba della vasta raccolta canonica copta, il Sēnodos, tradizione che non sembra anteriore al XIV-XV secolo. Fu effettivamente in quest'epoca che l'Etiopia conobbe un vero rinascimento, grazie anche agli Abuna copti, il più importante dei quali sembra essere stato l'Abuna Salama (1350-1390); ma grazie anche alla maggiore frequenza di relazioni tra i monasteri etiopici e copti, in particolare quelli di Gerusalemme.

Provengono in ogni caso dalla Città Santa gli elementi bizantini o latini che sono stati inseriti nella liturgia etiopica. Il caso più notevole è forse la raccolta francese del Libro dei Miracoli della Vergine, arricchita in Siria da quelli della Madonna di Seidanaya, successivamente tradotti in ge'ez da un monaco etiopico di Gerusalemme. Essi sono letti oggi in Etiopia in occasione di numerose feste e celebrazioni di Maria, la Madre di Dio, per la quale i cristiani etiopici, come tutti quelli di tradizione «monofisita», hanno un'intensa devozione.

Nella stessa epoca la liturgia etiopica ha acquisito molto anche dall'Egitto, traducendo l’ufficio quotidiano delle Ore, le funzioni della Settimana Santa, il rituale monastico e quello delle esequie, al punto che troppo spesso in Occidente la Chiesa d'Etiopia finisce per essere chiamata «chiesa copta». La specificità della Chiesa etiopica, invece, ed anche la sua liturgia sono molto nettamente affermate, nonostante gli importanti echi delle strette relazioni che essa ebbe in ogni tempo con la Chiesa d'Egitto. Da questa Chiesa essa ha ricevuto, già dal V-VI secolo, l'opera basilare della sua dottrina teologica, il Qērillos (dal nome di san Cirillo d'Alessandria). Contrariamente a quanto avvenne in Egitto, essa sviluppò e interpretò questa dottrina in maniera originale, talvolta persino sorprendente, per esempio in tutto ciò che si riferisce alla teologia dell'incarnazione, sviluppata in opere importanti.

La stessa cosa è avvenuta in campo liturgico: la celebrazione eucaristica, oltre ad ampi sviluppi, utilizza quattordici anafore due delle quali sono tratte da raccolte siriane molto antiche: l'anafora degli apostoli, per l'uso quotidiano, ripresa dalla Tradizione Apostolica del III secolo (cf. la nostra seconda preghiera eucaristica), e l'anafora del Signore, per le feste di Cristo, ripresa dal Testamento del Signore del V secolo. Altre anafore provengono sempre dalla tradizione siriaca oppure sono composizioni originali. Anche l'ufficio «cattedrale» della sera e del mattino, che richiede la partecipazione dei dabtara, contiene alcune preghiere tratte dal Testamento del Signore. Anche i lezionari del ciclo annuale, quello della quaresima e quello del tempo pasquale, sono composizioni originali la cui origine viene fatta risalire dalla tradizione ai primi tempi dell'Etiopia cristiana. Il cantore Jared li avrebbe uditi cantare dagli angeli.

La stessa cosa si è verificata nell'architettura delle chiese. Se le vestigia più antiche, che risalgono all'epoca di Aksum - o anche oltre, fino ai tempi precristiani -, come il tempio sabeo di Jeha, trasformato in chiesa già nel IV secolo, o il santuario monastico di Dabra Daino, ricordano la struttura basilicale che si mantiene anche nei santuari rupestri di Lalibela, le forme che andranno affermandosi universalmente saranno completamente diverse: una pianta quadrata o, più spesso una pianta circolare che intende probabilmente rievocare, attraverso la rotonda costantiniana del Santo Sepolcro, l'immagine tradizionale del Tempio di Gerusalemme.

L’iconografia offre caratteri molto simili di originalità e di accoglienza di tradizioni sovente molto antiche. Dei tempi di Aksum o anche dell'epoca di Lalibela ci sono pervenute scarse testimonianze, anche se le chiese rupestri del Tigre o i monasteri ancora non sufficientemente esplorati conservano probabilmente tesori ancora sconosciuti. Si riconoscono le influenze di tradizioni bizantine e siriane ancora più che dell'Egitto copto. A  partire dai secoli XV e XVI, saranno numerose le influenze occidentali, in particolare attraverso le tavole incise della traduzione araba del salterio che si ispirano alle incisioni del Dürer e che si possono riconoscere, ma assai trasformate, nelle chiese di Gondar (XVI-XVII secolo) e in quelle che hanno continuato ad ispirarvisi fino ad oggi.

In realtà l'Etiopia ha saputo assimilare nel corso dei secoli l'eredità delle correnti più diverse del mondo cristiano per trasformarle secondo il genio suo proprio, quello dell'Africa dell'Alto Nilo e dei Grandi Laghi, proprio là dove per la prima volta sembra essersi destata l'umanità.

I.H. Dalmais

(tratto da Il mondo della Bibbia, 19)

 

Letto 2192 volte Ultima modifica il Venerdì, 04 Novembre 2016 21:54
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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