Ecumene

Giovedì, 18 Novembre 2004 00:07

Il pellegrinaggio alla “Casa di Dio”

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di Rosanna Budelli

 


“Rammenta quando facemmo abitare Abramo nel recinto della Casa dicendogli: Non associarmi oggetto alcuno, ma purifica la mia Casa per quei che l’aggirano pii, per i ritti in preghiera, per chi s’inchina e si prostra! Eleva fra gli uomini voce d’invito al pellegrinaggio sì che vengano a te a piedi e su cammelli slanciati che vengano a te da ogni valico fondo tra i monti...” Corano 22,26-27.

Al-Ghazali, un famoso mistico islamico, sosteneva che esiste una sorta di gerarchia spirituale dei luoghi geografici poiché niente è lasciato al caso nell'imperscrutabile disegno della volontà divina.
La Mecca occuperebbe naturalmente il vertice di questa piramide e l'edificio cubico (Ka'ba) che ne è al centro, la Casa Sacra (al-Bayt al-Harâm) del Corano, rappresenterebbe una sorta di polo cosmico: le deambulazioni dei fedeli attorno ad esso durante il pellegrinaggio non essendo altro che la raffigurazione sulla terra dell'incessante roteare degli astri.
Un rito obbligatorio per ogni credente musulmano. Al di là dei simboli, il pellegrinaggio alla Mecca (hajj) è fatto anche di grandi numeri. Con l'espansione della comunità islamica in tutti gli angoli della terra e un numero di fedeli che sfiora il miliardo, l'appuntamento annuale nel cuore della penisola arabica assume quasi proporzioni apocalittiche, nonostante le quote di pellegrini che le autorità saudite fissano per ogni paese. A differenza di altre forme di pellegrinaggio, islamiche e non, il hajj non costituisce, infatti, una scelta facoltativa per il credente ma un obbligo che egli deve soddisfare almeno una volta nella sua vita. Le cerimonie e i gesti che lo caratterizzano sono minuziosamente regolati dai prcetti che provengono dalla Tradizione scritta (Sunna). Dai preliminari della partenza fino alle modalità del sacrificio degli animali nella festa conclusiva, il segno esteriore, materiale e canonico insieme, accompagna, come sempre nell’Islam, il dato spirituale.

Significato spirituale del pellegrinaggio

Il hajj per i musulmani è, in primo luogo, un atto di rinuncia e di sacrificio. Prima di partire, il pellegrino fa testamento e si congeda dagli amici come se dovesse intraprendere un viaggio senza ritorno, mentre i due teli bianchi che per alcuni giorni costituiranno il suo unico abbigliamento vengono spesso paragonati al sudario.che avvolge il cadavere. Rinuncia al mondo dunque e a se stessi, alla propria individualità. Gli imâm amano ricordare nelle loro allocuzioni durante i giorni della festa come, in questa occasione, uomini di ogni ceto sociale, dal capo di stato al più umile artigiano, si trovano l'uno accanto all'altro, vestiti alla stessa maniera e immersi in un mare di umanità che esegue gli stessi gesti e ripete le stesse preghiere. Essi condividono anche il medesimo disagio. Per tutta la durata del rito, infatti, il pellegrino non potrà fare un bagno completo, né radersi o ripararsi il capo neppure sotto il sole cocente al momento della sosta (wuqûf) ad Arafât. Non potrà cioè abbandonare il cosiddetto "stato-di sacralità", quella particolare condizione che ogni fedele assume prima di entrare nel territorio della Mecca e che consiste nell'abluzione totale e nel rivestimento dell'abito di pellegrino Dopo aver passato in rassegna i segni esteriori e le disposizioni interiori che devono contraddistinguere colui che intraprende il viaggio verso la Ka'ba, il grande teologo e mistico Al-Ghazali si diffonde sul senso profondo del hajj da concepirsi, a suo avviso, come una prova di umiltà e un'esperienza ascetica ad imitazione dello stile di vita degli antichi profeti. Esso attesterebbe, inoltre, la totale sottomissione e obbedienza a Dio, in riconoscimento della propria qualità di servo e schiavo.


La Mecca pre-islamica

 

Sotto questo profilo, il pellegrinaggio si prospetta come un'occasione di purificazione, individuale e collettiva insieme, grazie alla quale la comunità islamica rinnova ogni volta il senso della propria unità e della propria identità. In questo, ritroviamo uno dei significati che-ha sempre accompagnato il hajj fin dall'epoca preislamica, quando le tribù arabe provenienti da diverse regioni della penisola si riunivano nel grande pantheon della Mecca per venerare le loro divinità e rendere omaggio al dio "più grande" (akbar), il cui santuario era proprio la Ka'ba, che tutti li sovrastava. Con Muhammad il tempio simbolo del politeismo viene in un primo tempo abbandonato per rivolgere la preghiera in direzione di Gerusalemme, la città santa dei monoteismi più antichi. È probabile che il profeta dell'islam pensasse ad una facile alleanza con i cristiani e gli ebrei contro i suoi contribuli pagani, se non addirittura ad una loro rapida adesione alla sua predicazione. Egli sosteneva infatti di essere il portavoce di una nuova rivelazione che, se da un lato conferiva anche agli Arabi la dignità di un Libro, dall'altro, non si poneva per nulla in contrasto con i monoteismi precedenti di cui anzi diceva di raccogliere l'eredità.
Muhammad decide allora di distinguere l'islam dalle altre fedi bibliche riappropriandosi di un forte simbolo della religiosità popolare araba quale la Mecca, non senza qualche perplessità da parte dei suoi seguaci, come si può dedurre dal Corano stesso.

Una rilettura della storia in senso islamico



La scelta fu, in verità, di grande rilevanza per l'elaborazione del credo islamico nonché per la nuova strategia politica del profeta. Pur continuando a presentare l'islam come un messaggio universale, egli ne riconfermava l'identità nazionale nell'intento di coagulare attorno a sé le disperse tribù beduine e trasformare la nuova comunità in una potente entità regionale. Tutto l'Antico Testamento viene ripensato e reinterpretato alla luce di questo progetto. A cominciare da Abramo. Questi non è più il patriarca degli Ebrei, ma un hanîf, uno di quegli asceti arabi che, già prima dell'avvento di Muhammad, ricercavano un'esperienza religiosa più profonda rispetto al puro paganesimo dei padri, verosimilmente suggestionati dai numerosi gruppi e sette di matrice monoteista che dal Vicino Oriente e dall'Iraq affluivano ai mercati della Mecca. "O gente del Libro! Perché discutete su Abramo, mentre la Torah e il Vangelo sono stati ambedue rivelati dopo di lui? Non capite dunque? Abramo non era né ebreo, né cristiano: era un hanîf dedito interamente a Dio e non era idolatra" (Corano 3, 65-67).
In questa prospettiva, la Ka'ba stessa diventa il primo tempio del Dio Unico dal momento che Abramo, l'avrebbe edificata insieme al figlio Ismaele. Solo l'azione sacrilega delle generazioni successive avrebbe trasformato il Santo Recinto in un ricetto di falsi idoli fino alla venuta di Muhammad, la cui missione principale consiste nel ripristinarne il vero culto. Anche i riti preislamici del pellegrinaggio acquisteranno nuovi significati, alla luce di quanto attestato nel Corano e poi dettagliatamente commentato nella Sunna. La corsa tra le colline tra Safwa e Marwa, sulla cui cima un tempo campeggiavano gli altari di due divinità pagane, si trasforma nella commemorazione della disperata ricerca di acqua da parte di Agar, la schiava di Abramo e madre di Ismaele, abbandonata nel deserto insieme al figlio Ismaele e pervenuta, nel suo peregrinare, proprio alla Mecca. Mosso dalla fede
della donna che aveva accettato senza discutere il proprio destino, Allah farà scaturire per i due l'acqua dalla sorgente di Zemzem sita nei pressi della Ka'ba. Dal canto suo, il vecchio patriarca Abramo deciderà infine di riunirsi ad Agar e a Ismaele, quest'ultimo ormai identificato con il capostipite degli Arabi e con la vittima sacrificale e prescelta da Dio in luogo di Isacco (è questa almeno l'interpretazione che verrà data, più tardi, di Corano 37, 101-106).
Se è vero che in ogni relazione c'è una parte di mitologia che i credenti sono disposti ad accettare per fede, nell'islam il mito trova conferma sempre nella realtà-storica dal momento che tutti gli episodi narrati nel Libro Sacro sono considerati come realmente autentici. I due momenti culminanti del racconto: l'angoscia di Agar preoccupata per la sorte del figlioletto e la prova di Abramo da parte di Dio, sono al centro della riflessione e della meditazione della pietà popolare nei giorni del pellegrinaggio come simboli supremi dell'amore materno, da un lato, e della fede incrollabile e dell'accettazione incondizionata della volontà di Dio, dall'altro.
Un'ulteriore immagine che i musulmani associano al pellegrinaggio è l'idea del "ritorno a Casa" ovvero alla Casa di Dio, ultima méta, che tutti ci accoglierà alla fine dei tempi. Il raduno ad Arafât prefigurerebbe, in questo caso, la riunione per la ricompensa o il castigo eterno.


Qual’è il vero pellegrinaggio?


Nonostante le allegorie spirituali che, nel corso dei secoli, si sono moltiplicate attorno al culto della Mecca, la venerazione della pietra nera incastonata nel muro della Ka'ba o il lancio dei sassi contro le steli poste lungo il percorso, non hanno mancato di suscitare qualche velata critica da parte di alcuni pensatori moderni che, in nome di un monoteismo più puro (ma anche più rigido!), non stentano a riconoscere in questi gesti un residuo del paganesimo atavico. D'altro canto, molte grandi personalità del misticismo del passato non si sono fatte scrupolo di giudicare come fin troppo concreto o puramente esteriore il rito del pellegrinaggio, adatto solo per coloro che si fermano alla superficie delle cose. La famosa Râbi'a, una delle poche donne sufi nell'islam, interruppe il suo viaggio verso la Mecca dicendo di preferire il Signore della Casa alla Casa stessa, mentre l'appassionato Hallâj, nonostante il suo lungo soggiorno meccano, invitava i suoi discepoli a compiere i giri rituali nella propria stanza attorno al tabernacolo del proprio cuore perché è lì che risiede indubitatamente Allâh.

(da Nigrizia, 2, 2003)

Letto 2434 volte Ultima modifica il Sabato, 11 Febbraio 2012 17:35
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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