Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Salvezza e guarigione.
Una prospettiva teologica africana

di Mary Getui


Salvezza e guarigione sono in relazione l'una con l'altra, in quanto ciascuna di esse, ed entrambe, implicano una restaurazione laddove c'è stata rottura, un ritorno alla totalità, al benessere, alla salute e alla pienezza della vita.

Una prospettiva cristiana africana della salvezza e della guarigione deve prendere in considerazione la comprensione cristiana e il suo coinvolgimento in materia, così come la comprensione autoctona africana. I due sistemi dì credenze hanno molto in comune riguardo a ciò che la salvezza e la guarigione implicano, agli ostacoli sulla strada della loro realizzazione e del loro raggiungimento, ai passi necessari per affrontare tali ostacoli. Le differenze, se esistono, saranno più sulla diversità di accento. Questa discussione presenta un approccio collettivo, che puntualizza gli aspetti unici e appropriati.

Salvezza e guarigione sono centrate sull'apprezzamento e il rispetto per la vita come dono di Dio e per i beni e valori che contribuiscono alla pienezza della vita, come la buona relazione con Dio, la fertilità della terra, il cibo, la salute dei bambini e delle famiglie, il rispetto per la dignità umana, la sicurezza, la giustizia, la salute, la libertà dei prigionieri, il riso e la gioia, la speranza, l'unità, il lavoro, la vitalità e la spiritualità profonda.

Purtroppo, la situazione non può essere considerata ideale, dal momento che la pienezza della vita è assente o sperimentata parzialmente a causa della realtà dell'esistenza umana, caratterizzata dalla povertà, dalla fame, dalle malattie, dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla desolazione, da relazioni familiari spezzate o conflittuali, dai conflitti etnici, a livello nazionale e internazionale, dalla devastazione dell'ambiente, dalle inondazioni, dagli incidenti, dai rifugiati, dalla solitudine, dalla mancanza di abitazione, dalla corruzione di massa e cronica, dalla decadenza morale e da carenti politiche di assistenza sociale.

Mentre la comprensione cristiana della salvezza enfatizza la dimensione individuale, quella autoctona africana riconosce che la vita è un ciclo che incorpora esseri vivi, quelli che non sono nati e persino i morti. I vivi hanno la grande responsabilità, mediante uno stile di vita morale retto, di preparare il cammino per una vita sana a coloro che non sono ancora nati. I vivi devono anche mantenere una relazione cordiale con coloro che sono morti, compiendo certi doveri, come quello di mantenere il buon nome della famiglia, di nuovo attraverso una vita morale retta.

La comprensione cristiana della salvezza non si limita alla realizzazione escatologica futura, ma la enfatizza. Il sistema di credenze africano vede la vita nella sua totalità, guidato dall'importante considerazione - indicata nei vari miti dell'origine/creazione - che la vita ha un inizio, un proposito e un destino dati da Dio.

L'amalgama di questi due sistemi di credenze si può riassumere nell'idea che la salvezza non è limitata al piano spirituale ma abbraccia la vita intera: la dimensione psicologica, mentale, emotiva, sociale e anche cosmica. Ciò si applica anche alla guarigione, che si riferisce non solo al benessere fisico dell'individuo, ma alla guarigione interiore e alla ricostruzione delle relazioni spezzate, come a una sana relazione con la natura. Per esempio, esistono vari tabù relativi all'uso sano delle risorse come l'acqua e la terra e al rispetto della flora e della fauna.

Le ragioni del perché l'ideale non si realizza e, pertanto, della necessità di guarigione e salvezza sono varie. Si possono ordinare su una scala che va dalla deviazione dal piano divino fino al modo in cui gli individui si relazionano con se stessi, con gli altri e con il mondo intero, tanto visibile quanto invisibile.

Nello sforzo di cercare la guarigione, si sono adottate varie soluzioni. Ci si può rivolgere alla medicina tradizionale, visitando ospedali e altre postazioni mediche create e amministrare dai missionari. Molto spesso, tuttavia, la gente si avvicina all'eredità culturale africana attraverso un intermediario e, segretamente, consulta curanderos che variano dagli indovini che indicano la causa dell'infermità agli erboristi o a qualunque altro specialista che offra una cura. Il rimedio può essere preventivo o curativo. La consultazione attraverso un intermediario o in segreto avviene perché molte delle principali Chiese tendono a condannare le pratiche curative indigene africane. Le Chiese africane carismatiche ed evangeliche accettano maggiormente le pratiche africane autoctone.

I servizi di guarigione nelle Chiese cristiane variano dall'imposizione delle mani agli infermi alle visite a persone malate in casa e all'ospedale, all'unzione con olio consacrato e acqua benedetta e altri simboli speciali. Considerando che la guarigione include altri aspetti della vita, le preghiere per la buona salute si applicano anche ad altre necessità, come ad esempio quelle di coloro che sono stati danneggiati socialmente perché la loro famiglia è stata distrutta o di coloro che sono stati abbandonati. Le preghiere legate alla cura o alla prosperità si rivolgono nel momento in cui la gente intraprende qualcosa di nuovo, come un nuovo lavoro, una nuova casa, o quando si celebra un matrimonio, un compleanno o un anniversario, quando si costruisce un nuovo edificio o quando si ara il campo per la semina, o quando si utilizzano nuovi strumenti di lavoro. Il rito della riconciliazione invoca anch'esso la cura. Tali servizi sono condotti principalmente da sacerdoti, ma è comune che anche i laici “unti” partecipino ad essi. La partecipazione di piccole comunità cristiane, gruppi di preghiera e di studio biblico è anch'essa considerevole.

Un elemento significativo della guarigione è dato dalle testimonianze di quanti hanno sperimentato o assistito a casi particolarmente straordinari di cure ricevute. Tra questi casi straordinari vi sono quelli che riguardano l'infertilità, le malattie croniche, le benedizioni ricevute sotto forma di lavoro o di matrimonio. Si esprimono certe riserve sul carattere genuino o fraudolento di queste cure. E questo continua a destare sospetti, ma la tendenza continua ad essere viva e in crescita.

Anche la salvezza ha creato controversie in circoli cristiani, quando viene interpretata come destinata unicamente a coloro che sono “nati di nuovo", perché hanno vissuto un'esperienza o una rivelazione speciale. Essi sono stati accusati di adottare un atteggiamento "più papista del papa". Ciò provoca conflitto e malintesi.

Risulta chiaro come da un contesto teologico africano la salvezza e la guarigione siano intimamente legate. La conclusione per entrambe è che ogni individuo riconosce e promuove la volontà di Dio per l'esistenza umana, che si percepisce come pienezza di vita nel passato, nel presente e nel futuro. E chiaro anche che la pienezza di vita può essere ostacolata o può rimanere incompleta a causa delle azioni umane e delle loro idee su Dio, su se stessi e sugli altri, inclusa la natura. Mentre la salvezza può essere più orientata verso la pienezza ultima della vita alla fine dei tempi, la guarigione è vincolata all'esistenza quotidiana.

(da Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 14-15)
I martiri: interpellanza per la chiesa

di Jon Sobrino

1. Introduzione - il bisogno di interpellanza alla chiesa odierna

I martiri, presi nel loro insieme come martiri gesuanici, che vivono e muoiono come Gesù, e come popoli crocifissi, che vivono e muoiono come il servo di Jahweh (1), offrono alla chiesa luce e salvezza, come è stato già detto in precedenti articoli. In questo contributo vogliamo insistere sul fatto che essi sono pure interpellanza, cosa che è buona e necessaria.

Paragonata a quella che è sorta dal Vaticano Il, la chiesa universale vive un processo di involuzione. Certamente ci sono numerosi gruppi di cristiani solidali con il dolore del mondo, profetici e utopici, che cercano di rinnovare lo spirito e la fede. E anche oggi vi sono alcuni martiri gesuanici, soprattutto in Africa. Ma nel suo insieme la chiesa si sta configurando come istituzione alla ricerca di una “pastorale del successo" (Pedro Trigo) che mantenga o le restituisca presenza sociale e una dimensione di massa. Per paragonarla a quella di Medellin bastano queste parole di J. Comblin:

Oggigiorno l'impressione dominante è che la gran parte delle Chiese, nei pastori e nelle pecore, sta tornando al passato. Mantiene lo stesso linguaggio, ma la pratica è diversa. Torna alle sagrestie e alle case parrocchiali. Non ascolta più la voce delle maggioranze povere e ascolta di più il suo pubblico tradizionale, quello che partecipa al culto. La Chiesa torna a preoccuparsi di se stessa. Cerca di recuperare posizioni di potere culturale, politico e perfino economico. Torna ad alimentare i sentimenti religiosi, le emozioni. Non le manca la clientela, perché il modello neoliberale ha fatto crescere l'angoscia, la disperazione, l'insicurezza, lo sconcerto dei popoli” (2).

Per invertire questa involuzione non è sufficiente riconoscere che la chiesa è peccatrice, casta meretrix, e chiedere perdono nel modo in cui è stato fatto negli ultimi anni dal vertice ecclesiale; in quanto astratta e poco coinvolta, infatti, la confessione del proprio peccato è stata inefficace. La domanda è dunque cosa può interpellare la chiesa.

Indubbiamente può interpellarla Dio, ma, a causa della sua trascendenza, Dio può rimanere distante e la sua interpellanza rimanere inascoltata. E, come ogni creatura, la chiesa fa in modo che così sia. Anni addietro, in epoca di antimarxismo viscerale, ho scritto che “la chiesa non ha paura del marxismo, ma di Dio". Può pure interpellarla Gesù Cristo, presenza storica del Dio trascendente, ma anche Gesù Cristo può essere situato in una lontananza senza volto né vigore interpellante. E quando si presagisce che il suo avvicinarsi è reale, allora può succedere quanto è accaduto nella leggenda del grande Inquisitore: il cardinale arcivescovo di Siviglia dice a Cristo: “Signore, non tornare".

Ma la fede cristiana è ostinatamente incarnazionale. La chiesa deve confessare che Cristo è presente nell'eucaristia, nella celebrazione della parola, nella comunità, nei pastori. Ed essa può essere interpellata da tutto questo, anche se può disattendere queste interpellanze. Ma c'è un'ultima specificazione - che in realtà è la prima - della presenza di Dio e del suo Cristo: “Ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e poveri" (i Documenti della Terza conferenza genera/e dell'episcopato latinoamericano, Puebla 1979, n. 196). I poveri sono la massima presenza di Cristo nella storia: “vicari di Cristo" venivano chiamati nel Medioevo. Essi, pertanto, sono buona novella ed evangelizzano la chiesa. Ma essi sono pure lamento e chiamano alla conversione (Puebla 1979, n. 1147). Il motivo formale è stato già detto: sono presenza di Cristo. Il motivo materia/e è che i loro lamenti non possono essere zittiti (i Documenti della Seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, Medellin 1968; I: Giustizia, 1).

Facciamo ancora un passo. I poveri e i loro lamenti trovano la massima manifestazione nei martiri - in quelli gesuanici e, soprattutto, nei popoli crocifissi -, e per questo essi hanno la massima capacità di interpellare la chiesa. Dal punto di vista quantitativo essi sono tanto numerosi che solo con cecità e sordità colpevoli è possibile ignorarli. Dal punto di vista qualitativo è tale l'orrore che manifestano, che sono in grado di scuotere coscienze - e spingere pure alla conversione. E, inoltre, non permettono di utilizzare la fallace scusa cui la chiesa è incline - solo Dio può interpellarla -, perché Dio è in loro.

L'interpellanza dei martiri gesuanici si verifica più puntualmente in determinate epoche della storia (gli anni successivi a Medellin sono stati una di queste epoche in America Latina, e pure in Africa e in Asia), anche se, per interpellare, rimane sempre il loro ricordo. L'interpellanza dei popoli crocifissi e permanente, come lo è il mysterium inquitatis che permea la storia.

Abbiamo fatto un piccolo carosello teologico per mostrare quale sia la radice più profonda ed efficace dell'interpellanza alla chiesa, anche se questa radice - poveri, vittime e martiri - è palmare per qualunque cuore di carne. E tuttavia ci è sembrato importante farlo, tenendo conto che si tratta di interpellare la chiesa. Questa non può difendersi da una interpellanza che viene da loro, perché sono loro la massima presenza di Dio. E dato che l'interpellanza proviene da loro, e non da altro, l'interpellanza di fondo non verterà su alcunché di generico, ma sul nucleo stesso della fede cristiana: la misericordia, l'amore e la difesa del povero, l'identificazione con le vittime.

La conclusione è che la chiesa può essere interpellata e, come diceva mons. Romero, ne ha bisogno: “Abbiamo bisogno che qualcuno serva da profeta anche a noi, perché ci chiami alla conversione, perché ci impedisca di collocarci in una religione ormai del tutto intoccabile" (Omelia dell'8 luglio 1979) (3).

E, per finire questa introduzione, diciamo che, secondo quanto affermato, la prima e fondamentale interpellanza alla chiesa verte sul fatto stesso se essa sia o meno disposta a lasciarsi interpellare. Su cosa? Se somiglia o no a Gesù, se segue Gesù nella sua incarnazione, missione, croce e risurrezione. Vediamo.

2. Prima interpellanza: l'incarnazione, "superamento della irrealtà”

In questo terzo millennio la situazione delle masse del nostro mondo è miserabile. Vivere continua ad essere il loro impegno più difficile, e morire - nel proprio corpo, nella propria dignità, nella propria cultura, nel proprio spirito - la sorte più vicina. Orbene, la prima cosa che la chiesa deve fare per divenire "reale” e incarnarsi in questa realtà.

Una tale incarnazione non è facile per la chiesa anche se, partendo dalla sua fede, l'esigenza dovrebbe essere ovvia e fondamentale. Il Prologo di Giovanni esprime la volontà di Dio stesso di essere reale nel nostro mondo, volontà che consiste non solamente nel farsi storicamente carne, ma nel farsi carne debole. E, nel linguaggio della cristologia conciliare, la realtà assunta dal Figlio non è semplicemente l'humanitas, ma la sàrx, ciò che nella carne è debolezza. E nel cristianesimo trascendenza è in ultima analisi trans-discendenza (L. Boff). E questa discendenza non è solo diventare "l'altro", ma "il debole e piccolo".

Ciò a livello teorico è basilare, ma non suole esserlo nella vita della chiesa. Anche per essa - e non solo per la cristologia - il problema più grande è il docetismo (W. Kasper), ovvero crearsi un proprio ambito di realtà - dottrinale, liturgica, canonica - che la renda distante e così possa difenderla dal mondo reale, soprattutto dalle sue croci. Superare questo docetismo non è facile, ma almeno bisogna essere coscienti di quanto siamo inclini a cadervi e di quanto siamo assopiti dinanzi a questa realtà. E allora bisogna essere aperti all'interpellanza che Antonio Montesinos ha fatto cinque secoli fa: "Come è possibile che siano addormentati in un sonno letargico così profondo?".

Come aprire gli occhi alla realtà e superare questo docetismo che diventa quasi un esistenziale storico? Il miracolo può essere fatto dai popoli crocifissi che gridano con gemiti inenarrabili e invitano ad abbassare lo sguardo. E i martiri gesuanici ce ne danno un esempio. Perché non ci siano pretesti, questi mostrano le diverse maniere di farlo nel mondo attuale: Martin Luther King nel contesto di un movimento sociale, Silvia Arriola [religiosa salvadoregna, assassinata] nel contesto di una comunità popolare, Ignacio Ellacuria nel contesto universitario.

Per mons. Romero era evidente che la chiesa dovesse essere, innanzitutto, "reale". Con parole estreme, alcune davvero tremende, soleva dire: "Sono contento, fratelli, che la chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e per il suo tentativo di incarnarsi nell'interesse dei poveri" (15 settembre 1979). "Sarebbe triste che in una patria dove si sta assassinando in modo così orrendo non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo" (24giugno 1979).

Chi scorgesse in queste parole sacrificalismo o masochismo non ha compreso né come era la realtà salvadoregna di allora né la profondità della scelta di mons. Romero nei confronti di questa realtà. Ciò che mons. Romero veniva a dire è che una chiesa che non è povera in tempi di povertà, che non è perseguitata in tempi di persecuzione, che non è assassinata in tempi di assassinii, che non si coinvolge in tempi di impegno e non incoraggia ad esso in tempi di indifferenza, che non ha speranza in tempi di speranza e non incoraggia ad essa in tempi di disincanto, non è una chiesa reale, ma una chiesa docetista. Va bene formulare l'ideale della chiesa come quello di una chiesa santa, autentica... Ma innanzitutto, l'ideale è il minimo-massimo di essere una chiesa reale.

Della chiesa di mons. Romero si potrebbe dire che era una chiesa con limiti, errori e peccati, ma ciò di cui non si potrebbe dubitare è che fosse una chiesa "salvadoregna", "reale". E perché partecipava non solo alla sofferenza della realtà salvadoregna, ma pure al suo spirito e alla sua creatività. "Voi, una chiesa così viva, così piena di Spirito!". Era una chiesa salvadoregna, segnata dalla generosità e dall'impegno della sua gente.

Superare il docetismo non è mai stato facile. La vera umanità di Cristo, pur essendo evidente nel Nuovo Testamento, è stata definita a Calcedonia (451) molti anni dopo che ne era stata definita la divinità a Nicea (325), che non era così evidente. C'è qualcosa di profondo che ci fa propendere verso il docetismo. Al suo superamento ci invitano e ci spingono i martiri: il popolo crocifisso in se stesso è un grido a volgere gli occhi su questa realtà, i martiri gesuanici insegnano ad abbassarsi a questa realtà.

3. Seconda interpellanza: la missione, "compassione verso la realtà

Medellin e Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 30) hanno fatto della liberazione integrale un elemento essenziale alla missione della chiesa. Vogliamo ora ricordare due caratteristiche di questa missione di liberazione, non per riprodurle oggi meccanicamente, quanto per raccogliere il pathos di quella missione che sta morendo la morte di mille scuse.

La prima caratteristica è la salvezza di un intero popolo. Mons. Romero è stato definito da Ignacio Ellacuria "un inviato di Dio per salvare il suo popolo" (4), e lo stesso arcivescovo ha visto se stesso come portavoce della parola di un intero popolo, un "essere voce per i senza voce" (29 luglio 1979). Ignacio Ellacuria insisteva sull’"invertire la storia, sovvertirla e lanciarla verso un'altra direzione" (5), e ha formulato l'utopia come una nuova "cultura della povertà" (6).

Il tentativo di lavorare per "un intero popolo" può - o ha potuto - essere più facile empiricamente in alcuni posti (America Latina) piuttosto che in altri, laddove i cristiani sono minoranza, e in alcune epoche, due decenni addietro, piuttosto che ora. Ma ciò che qui vogliamo sottolineare è l'orizzonte della missione, capace di coinvolgere e inglobare ciò che è vita e dignità delle maggioranze oppresse: il regno di Dio, la famiglia umana. Le chiese, grandi o piccole, devono tenerlo in considerazione e agire da lievito efficace. Questo è stato l'orizzonte di molte chiese, quella del Brasile per esempio; ma la tendenza odierna è quella di concentrarsi e di favorire la salvezza individuale, al massimo familiare -buona e necessaria -, più che quella di un popolo, ossia la salvezza interiore più che quella storica.

La seconda caratteristica è il pàthos dialettico, profetico. All' annuncio del regno era consustanziale la denuncia dell'antiregno, e così si originava il conflitto. Oggigiorno la missione non mette la chiesa, nel suo complesso, in seria opposizione al mondo oppressore, anche se vi sono alcune scaramucce. Su tutto ciò può essere che stiano esercitando il loro influsso la postmodernità, con la sua allergia verso i grandi racconti, e l'ideologia della globalizzazione, che ignora ciò che è dialettico per canonizzare - quasi sempre ipocritamente - il dialogo e la tolleranza, che quasi per necessità degenerano in indifferenza nei confronti dei poveri. Ma una chiesa che non è dedita alla difesa dei popoli, che non lotta né entra in conflitto per questo, diventa una setta chiusa o forse anche una istituzione di massa, ma certamente disinteressata alla realtà, un nuovo tentativo di cristianità socio-culturale.

E tuttavia, non può sparire la memoria sovversiva interpellante. Dove sono la profezia, le omelie e le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Dov'è l'abbassarsi verso i poveri, il condividere la loro impotenza e il loro destino? Insomma, dov'è quel primo amore della chiesa del Vaticano II, rispetto alla dignità del cristiano all'interno della chiesa, e soprattutto della chiesa di Medellin, rispetto all'essere chiesa dei poveri?

È evidente che le cose cambiano, ma né la realtà né il vangelo sono cambiati in tal guisa che il vecchio pathos sia ormai irrilevante. Questo pathos di liberazione, utopico e profetico, non è altro che la compassione che consegue allo stare di fronte ai popoli crocifissi. Non che la chiesa non abbia più nulla di tutto questo, ma essa rimane più a livello etico che profetico, cerca il dialogo con altri poteri e rifugge dal conflitto con essi, parla molto di nuova evangelizzazione ma poco della dimensione agonistica della missione, parla di comunità ecclesiale ma poco del regno di Dio come mensa di condivisione che mette al centro i poveri. Comblin lo ha affermato con forza - e ironia: "Si continua a ripetere il discorso dell'opzione preferenziale per i poveri, ma la pratica è altra cosa. Sono parole... Words, words, words... Una volta le parole esprimevano ciò che si diceva" (7).

Oggi, ovviamente, vi sono compiti nuovi nella missione: genere, indigeni, afroamericani, rifugiati, AJDS, ecologia, dialogo interculturale e interreligioso... E nello sguardo dall'oggi si scoprono i limiti della visione precedente. Comblin, per esempio, riconosce che la teologia della liberazione "non ha dedicato attenzione sufficiente al vero dramma delle persone umane, al loro destino, alla loro vocazione e, di conseguenza, al fondamento della loro libertà" (8). Ma una cosa è riconoscere le novità del presente e i limiti del passato, altra è ignorare il pàthos di cui prima era impregnata la missione: misericordia e verità, in opposizione all'assassinio e alla menzogna (Gv 8,44).

Recuperare questo pàthos non è facile. Vi possono pure essere - e vi sono - masse di poveri che non sono neppure interessate a ciò. Non va dimenticato che la chiesa ha fatto una opzione per i poveri, ed essi se ne sono andati, in buona parte, nelle chiese pentecostali. Ma ciò non deve servire da scusa per non riprendere il pàthos di Medellin. "La chiesa dei poveri è latente. Una nuova circostanza può portarla nuovamente alla superficie della storia. Medellin riapparirà nuovamente domani come nuovo avvenimento ecclesiale" (9). La questione è se nella chiesa ci sia questo convincimento.

Mantenere vivo il pathos del Vaticano Il e, dalla nostra prospettiva, il pathos di Medellin soprattutto, è un problema basilare per la chiesa odierna, e a questo spingono i martiri. I martiri gesuanici non hanno dato la loro vita solo per cose buone, ma per qualcosa di più profondo: la salvezza di un popolo. I popoli crocifissi continuano ad attendere dalla chiesa compassione, che lavori e lotti - insieme a molti altri - per farli scendere dalla croce. Di elemosine e piccoli aiuti, di parole compiute a metà o incompiute, di disinteresse o disprezzo, di illusori orizzonti della globalizzazione che li emargina hanno avuto già a sufficienza. E non va dimenticato che nel portare a compimento la missione in un modo o in un altro la chiesa si gioca la propria identità; infatti "non e la chiesa a creare la missione, ma la missione a creare la chiesa" (J. Moltmann).

4. Terza interpellanza: la croce, farsi carico del peso della realtà

La realtà è un carico pesante per i milioni di vittime e diventa carico oneroso per coloro che solidarizzano con esse. I popoli crocifissi sono espressione della prima e i martiri gesuanici della seconda. Su quest'ultimo concetto vogliamo insistere ora.

Per i martiri farsi carico della realtà non è stato masochismo né mero desiderio mistico di identificarsi con il Cristo crocifisso, ma la conseguenza derivante dal seguire quel Cristo, ovvero dal praticare la misericordia sino alla fine, e pertanto senza rifuggire da conflitti e rischi. In un certo senso la pretesa di Gesù ("Prendi la tua croce e seguimi") è tautologica: essere e fare come lui - seguirlo - porta a farsi carico di ciò di cui egli si è fatto carico - la croce.

In questo senso "croce" è la sofferenza e la morte che sopraggiungono per difendere l'oppresso e lottare contro l'ingiustizia, e proviene dalla volontà di incarnarsi nella conflittualità della realtà ingiusta. Analogamente, "croce" può esprimere altre sofferenze, angosce, malattie, insuccessi, disincanti, paure, che talora possono perfino essere più dolorose di quelle che provengono dalla lotta per la giustizia.

Ciò dovrebbe essere chiaro partendo dalla tradizione biblico-gesuanica. La storia è segnata da un conflitto teologale tra un Dio della vita e gli idoli di morte che esigono vittime per sopravvivere. Nella teologia di Giovanni il maligno non è solo "cattivo", ma pure "assassino". Per così dire il male è più che male, ha il potere di distruggere coloro che lottano contro di esso. La grande aporia della storia è che il peccato ha potere e, se la questione si pone così, la chiesa deve prendere posizione nei confronti di un male che è conflittuale.

Ciò avviene in alcune circostanze, e certamente è accaduto in America Latina in epoche passate: la missione della chiesa era essenzialmente conflittuale, al di là delle psicologie, per il fatto di essere incarnata nella realtà e per il fatto di difendere le vittime. Ma oggi c'è un deficit di tutto ciò. Ci possono essere scontri verbali tra gerarchia e poteri, ma le parole sono ordinariamente scelte in tal guisa che vi possono essere parole e testi conflittual4 ma non ci sono molti conflitti reali. Ci sono delle eccezioni come, solo per menzionare vescovi martiri, mons. Gerardi in Guatemala, mons. Isaías Duarte in Colombia, mons. Munzihirwa nella Repubblica democratica del Congo, ma nel suo complesso la chiesa non si fa carico oggi di croci notevoli per dire ciò che dice né fare ciò che fa, a differenza di quanto è accaduto anni addietro. E neppure canonizza questi e molti altri martiri dei nostri giorni - cosa che pure le causerebbe conflitti con i loro assassini ancora viventi. Di più, talora cerca il ritorno a una certa armonia con i poteri di questo mondo. In America Latina molte nomine di vescovi sono state guidate da questa logica.

Si ripete oggi che non bisogna essere anacronistici, ma noi aggiungiamo che non bisogna essere acritici e neppure autoingannarsi. Sia la fede cristiana che la realtà storica continuano ad essere onerose e conflittuali. Comunque qualcosa bisognerà mantenere della parresia paolina, coraggio, audacia e fiducia, e non cadere nella vigliaccheria. Non vi esibito un cristianesimo fanatizzato, ma ancor meno un cristianesimo annacquato, che in ultima analisi potrebbe parlare allo stesso modo con le vittime e con i loro carnefici Non bisogna fare del cristianesimo una "grazia a buon mercato" che, come diceva Bonhoeffer, è il suo più grande pericolo. Non bisogna introiettare subliminalmente che la croce (e, logicamente, anche la risurrezione) sono cose buone nella liturgia e nella devozione privata, ma che non dicono nulla di serio sulla realtà di cui la chiesa deve farsi carico. In questa situazione i martiri ci interpellano e ci incoraggiano a farci carico della croce della realtà, e con ciò fanno un gran bene.

In primo luogo bisogna ricordare che, seppure non si tratti di una verità filosofica universale (ma certamente di una verità biblica e cristiana), per redimere il male esso va combattuto non solo dall'esterno, con tutti i mezzi legittimi ed efficaci, ma pure dal di dentro, facendosi carico di esso. Se non si accetta questo, vana è la parola di Dio sul servo sofferente e su Cristo crocifisso.

In secondo luogo, farsi carico della croce procura alla chiesa credibilità, cosa che non si consegue in alcun altro modo, e invera che la chiesa sta agendo cristianamente; infatti se non le accade, in maniera notevole, quanto è accaduto a Gesù, non si vede per quale ragione essa debba essere compresa e accettata come chiesa di Gesù. Così pensava mons. Romero: "Una chiesa che non soffre persecuzione, ma che sta godendo dei privilegi e dell'appoggio della terra, questa chiesa abbia paura! Non è la vera chiesa di Gesù Cristo" (11 marzo 1979).

A volte abbiamo eccellenti esempi di assunzione della realtà, rimanendo immersi in essa pur, nella consapevolezza che essa scaricherà tutto il suo peso. E il caso dei sette monaci trappisti di Thibirine (Algeria) che, nonostante le minacce, sono rimasti nel loro monastero, trasformato dal priore Christian de Chergé in un centro per il dialogo cristiano-islamico. Sono stati sequestrati e poi, il 26 maggio 1996, assassinati. Pur conoscendo quale sarebbe stato il loro futuro essi sono rimasti là. Sono stati "reali" fino all'estremo. Questo esempio, come le citate parole di mons. Romero, costituiscono ovviamente un caso limite, ma sono un esempio di come i martiri incoraggino - ordinariamente in modo più modesto - a farsi carico della realtà.

L'invito a "farsi carico della croce" è tanto antico quanto il cristianesimo. Non è mai stato facile ieri, e non lo è oggi. Ma almeno questo invito dovrebbe rimanere chiaro nella teoria cristiana e non si dovrebbero cercare strade per eliminarlo. E questo, che non è mai stato un compito facile, è ciò che viene reso facile dai martiri; ad ogni modo, essi ci interpellano al riguardo. Se i popoli crocifissi non muovono la chiesa a farsi carico della loro sofferenza e a partecipare al loro destino, nessuno sarà in grado di farlo. Se i martiri gesuanici non persuadono del fatto che l'amore più grande è possibile e umanizzante, e che passa dal farsi carico della croce della realtà, nessuno sarà in grado di farlo.

5. Quarta interpellanza: la risurrezione, “lasciarsi portare dalla realtà"

Formuliamo questo concetto in simmetria con il linguaggio precedente. I martiri ci interpellano-invitano pure a partecipare della risurrezione di Gesù.

Nella realtà c'è peccato; per questo essa è onerosa e bisogna farsene carico. Ma nella realtà c'è pure grazia; per questo essa è forza e può farsi carico di noi. I martiri - e tutta la gente buona lungo la storia - impregnano la realtà di amore e verità, cosa che rende questa più leggera perché ce ne facciamo carico, e la rende potente perché essa si faccia carico di noi. Per questo motivo non parliamo ora solo di interpellanza - scossone, messa in discussione -, ma pure di invito - offerta di grazia. Anche se aggiungiamo che, sebbene lo sembri, neppure è facile lasciarsi prendere in carico dalla realtà, perché sempre appare con vigore la hybris, l'arroganza degli uomini, il loro non lasciarsi donare. E per questo bisogna continuare a parlare di interpellanza.

Mettiamo ciò in rapporto con la risurrezione. Questa realtà impregnata di amore e verità rende possibile che possiamo già vivere come risorti nelle condizioni della storia. Per non cadere in forme angelicali ricordiamo che dal Risorto non sono sparite le piaghe, e ancor meno spariscono quelle di coloro che vivono la risurrezione nella storia. Non si trasformano in sostanze celesti. Ma una realtà di dono rende possibile il vivere con amore la sequela di Gesù, con la sfumatura di "pienezza e vittoria" che la risurrezione aggiunge. In termini storici questo significa, per la chiesa e per la vita dei cristiani, vivere con liberta, come trionfo sull'egocentrismo e l'egoismo, in maniera tale che nulla sia di ostacolo per fare il bene. Vivere con gioia, come trionfo sulla tristezza, in maniera tale che la sofferenza non produca amarezza ma purificazione. Vivere con speranza contro la rassegnazione, in maniera tale che il mistero dell'iniquità, l'ancora-no, il certamente-no, il disincanto, non seppelliscano la promessa... In questa libertà, in questa gioia e in questa speranza c'è già come un riflesso della risurrezione.

Questo è l'invito che i martiri fanno alla chiesa. E per tutto ciò l'interpellanza ultima è a non dimenticare. Non per il loro interesse - perché essi non vivono più in una struttura di egoismo -, ma per bisogno della chiesa.

6. Conclusione

Su questo bisogno diciamo una parola finale. Il Vaticano II ci ammoniva a far attenzione che "in questa genesi dell'ateismo possono avere non piccola parte gli stessi credenti che […] hanno velato più che rivelato il genuino volto di Dio" (GS 19). E con parole più forti la Scrittura denuncia: "Per causa vostra il nome di Dio è bestemmiato fra le nazioni" (Rm 2,24).

Orbene, i martiri gesuanici non hanno velato il volto di Dio: con la loro vita e la loro morte lo hanno rivelato. In chiese di martiri non si bestemmia il nome di Dio, ma lo si benedice o, almeno, lo si rispetta. A partire da loro si può dire con gratitudine: "A causa vostra il nome di Dio viene benedetto tra i poveri". Questo per quanto concerne il mondo che guarda alla chiesa.

Per ciò che riguarda i popoli crocifissi, che pure hanno lo sguardo rivolto alla chiesa, solo una chiesa di martiri gesuanici che si lasci coinvolgere da loro e ne raccolga l'eredità avrà credibilità dinanzi ai popoli crocifissi e manterrà viva la loro speranza nel tentativo di deporli dalla croce.

(traduzione dallo spagnolo di Mauro Nicolosi)

Note

1) Su questa distinzione, cf. il nostro articolo in Concilium 1, 2003: Il nostro mondo. Crudeltà e compassione, pp. 21-32.

2) J. COMBLJN, Medellin ayer, hoy y mañana, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79s.

3) [Cf O. ROMERO, Il mio sangue per la libertà di El Salvador. Le omelie dell'arcivescovo di San Salvador ucciso nella cattedra/e, Eurostudio, Milano 1980].

4) Cf I. ELLACURÌA, Monseñor Romero, un enviado de Dios para salvar a su pueblo, in Revista Latinoamericana de Teologia 19 (1990) 5-1 0.

5) ID., El desafio de las mayorias pobres, in Estudios Centroamericanos 493-494 (1989)1079.

6) ID., Utopia y profetismo desde América Latina, in Rivista Latinoamericana de Teologia 17 (1989)164-184.

7) J. COMBLIN, Medellin, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79.

8) ID., Called For Freedom, Orbis Books, Maryknoll/N.Y. 1998, 197.

9) ID., Medellin, cit., 81.

(da Adista, n. 30, 12.04.2003, pp. 9-13)

Il dono di Dio,
mistero di inesauribile gratuità

di Sr. Germana Strola o.c.s.o.

"...Tutto mi sa di miracolo..."'

Sono piuttosto rari, anche nella vita contemplativa i momenti in cui emerge chiaramente alla coscienza la gratuità e la sovrabbondanza con cui il Signore ricolma il mondo, la storia, la vita di qualsiasi uomo. Nella società di oggi, la cultura dominante fortemente determinata dai media, rende maggiormente difficile a tutti i cristiani guardare alla propria esperienza con un profondo sguardo di fede: le difficoltà quotidiane, le notizie prevalentemente angustianti dei molti conflitti che imperversano nei paesi più poveri del pianeta - da quelli più noti in Medio Oriente o in Iraq, a quelli più ignorati nell'Africa subsahariana - oltre agli interessi economici di una globalizzazione che ritorna sempre a scapito delle fasce più deboli, si aggiungono ai travagli personali o familiari che non risparmiano nessuno (infortuni, malattie, incomprensioni di coppia o generazionali, ecc.) : tutto questo costituisce un peso greve, spesso non facile da portare o da attraversare con la forza della speranza.

Lo stesso clima oscuro, tuttavia, e lo stesso cupo orizzonte può infiltrarsi talora anche nelle mura del monastero e minacciare l'atmosfera luminosa del cosiddetto «paradiso claustrale». Conservare alto lo sguardo, rivolgendolo là dove le nostre vite sono nascoste con Cristo in Dio (Col 3, 1-3), esige - nell'esperienza quotidiana di tutti - una paziente e amorosa ascesi rispetto alla tendenza che porta a ripiegarsi su di sé e sui propri moti istintivi: quante volte la sensibilità o l'emotività è tentata di lasciarsi imprigionare dalle mille invisibili reti dei conflitti interni ed esterni, delle difficoltà o dei contrattempi che intrecciano il tessuto esistenziale e relazionale di ogni uomo.

Non è quindi scontato sapersi fermare, e guardare; e nemmeno fare realmente silenzio, per sentire il palpito della vita, oppure affinare lo sguardo e vedere realmente l'alterità di quanto esiste fuori di se: cioè accorgersi, per grazia, come risplende la luce e la bellezza del dono di Dio in ciò che l'opacità quotidiana tenta di mascherare con il suo grigiore. A volte, tuttavia, alla povertà interiore, al cuore contrito o umiliato si aprono degli orizzonti inattesi, percepiti come attraverso sensi spirituali donati dall'alto e affinati dalla prova: la creazione in quanto tale (iniziale e continua), le persone, e gli eventi vissuti appaiono allora nel loro aspetto di gratuità, nel loro carattere di miracolo, di eccedenza.

Sono pochi coloro che, senza essere passati per una lunga educazione o per il crogiolo della prova, hanno il dono di percepire immediatamente l'ampiezza, l'altezza, la profondità del mistero di grazia in cui siamo immersi (cf. Ef 3,18): il dono della Vita - verità lapalissiana, ma che non si può mai dare per scontato - non è un prodotto delle mani dell'uomo, nonostante tutte le provette dei suoi laboratori (dove egli usa comunque cellule non create dal nulla) o le sue tecniche eugenetiche. Nulla si crea e nulla si distrugge, dice la fisica: la trasformazione dell'energia, non il suo annientamento, è uno dei principi fondamentali della scienza sperimentale. La creazione dal nulla invece, in quanto tale, è uno degli argomenti dell'esistenza di Dio (cf. Ef 3,9; Col 1,16; Ap 4,11: Perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esse sussistono): non abbiamo nulla che non sia stato gratuitamente ricevuto (1Cor 4,7). E nessuno di noi ha mai pensato, desiderato, chiesto o voluto venire al mondo, né aveva diritto a nulla: anche colui che si ritiene il più sventurato e il più infelice tra gli esseri umani, è stato ed è oggetto di un gesto - di un amore - totalmente gratuito.

Assorbiti dalle urgenze, dalle esigenze e dalle sollecitazioni del sussistere quotidiano, rischiamo, come dei robots, di vivere (o di correre) un po' sempre alla superficie, e di perdere la qualità squisitamente umana della consapevolezza, dell'interiorità, delle dimensioni dello Spirito. Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, non aveva nessuna necessità di condividere con noi il dono di se stesso e del proprio Figlio, nello Spirito dell'Amore: ogni necessità è preclusa in Dio, in quanto Dio. Ma per potersene accorgere, bisogna innalzare lo sguardo oltre se stessi e il condizionamento immediato, al di là delle proprie limitazioni, insoddisfazioni o sconfitte, profonde o superficiali che siano, finché si aprano e divengano - quali ferite gloriose - orizzonti aperti sul mistero che ci è dato di vivere.

La creazione

La bellezza dell'infinito cosmico-stellare e la perfezione insondabile delle leggi della natura sono così superiori alla mente umana e alle sue pur alte capacità sia conoscitive, sia creative. Solo la terra, in tutto l'universo in espansione, mirabilmente retto da leggi che ancora non si conoscono pienamente - affermano gli studiosi di astronomia - offre le condizioni per l'esistenza: frutto di una attività cosmica di miliardi di anni luce. Miriadi e miriadi di grandezze spaziali e temporali si concentrano nell'attimo presente in cui è dato a noi di respirare, di guardare, di vivere, ora.

Colmano di stupore non solo gli orizzonti maestosi, gli spettacoli crepuscolari che illuminano al sorgere e al calare del sole le distese boreali e non, ma la sovrabbondanza d perfezione, di fascino trasparente e verginale bellezza delle creature più piccole, apparentemente - o realmente - del tutto inutili: chi di noi ha mai potuto contemplare (e contare...) tutti i ciclamini che in primavera e in autunno fioriscono fin sotto gli sterpi dei nostri boschi - oppure i fiorellini minuscoli e multicolori che ammantano senza numero le superfici dei campi... Ma chi si ferma a contemplare la bellezza degli alberi, grandi e piccoli, sempreverdi e no (non solo i cedri... né i colori delle foglie d'autunno, le viti vergini, ma anche il ciclo stagionale dei tigli, dei pioppi, dei faggi, per menzionarne solo alcuni). Francesco, forse, con il suo spirito poetico, lo stupore e il senso del miracolo scavato nel suo cuore, nel suo corpo crocifisso dalla sequela di Cristo, in compagnia di Madonna Povertà (cf Gb 36,15: «Egli libera il povero con l'afflizione, gli apre l'udito con la sventura»).

Chi ha mai perlustrato il fondo degli oceani, o le segrete profondità dei recessi più remoti che l'occhio umano probabilmente non visiterà mai? Chi si ferma a contemplare la perfezione dei piccoli licheni, dei muschi, della minuta e variegata flora abbarbicata alla roccia, dalla più piccola alla più maestosa? Per non parlare dei fenomeni atmosferici che, pur nell'aspetto terrificante che assumono talora, fecondano la terra... Tutto questo, insieme alla descrizione della creazione del cosmo e della bellezza, della forza degli animali diventa nel libro di Giobbe (36,27-37,16; 38-41; cf. Sal 104)) argomento di consolazione, risposta di Dio che nella teofania addita all'incalzare del questionamento umano un'altra sapienza, un altro livello di coscienza.

Rare volte, probabilmente, qualcuno si è fermato a guardare lo svolazzare delle farfalle nel mese di settembre, o il gioco in cui si librano gli uccelli, quasi sempre in coppia. Ma anche la tenerezza dei mammiferi (soltanto?) per i loro piccoli... Perché una tale sovrabbondanza di fecondità, in tutte le specie vegetali e animali, conosciuta o no dall'occhio umano? E per quale mai motivo proliferano le infinite specie di insetti, ecc.? La mente piccola, calcolatrice, egocentrica dell'uomo si sarebbe abbandonata a questo grande spreco di vitalità? Una potenza vitale diffusiva, prorompente, anima la creazione, senza altro fine, si direbbe, che il suo moltiplicarsi, sempre nuovo, inatteso, semplicemente bello.

L'essere umano

Noi non ne abbiamo coscienza, ma la contemplazione del formarsi del piccolo uomo, il suo crescere in corpo e in persona adulta. permette di ammirare tutto un dispiegarsi di eccedenza e di miracolo, non solo in dimensione fisica, ma anche e soprattutto psichica, fino alla completa costituzione della sua mente, del suo spirito. Le capacità intellettuali, artistiche, morali dell'uomo hanno lasciato una traccia mirabile nei fastigi di civiltà millenarie, mentre non cessano di progredire le realizzazioni tecnico-scientifiche contemporanee... Nessuno si è fatto da sé, né da sé solo trae la possibilità di perseguire obiettivi tanto alti. Gli esseri viventi che conta attualmente il nostro «villaggio globale» sono circa 6,7 miliardi: e tutti sono per Dio come il Figlio unico, amati, chiamati alla conoscenza della verità, alla perfezione dell’amore trinitario.

L'universo intero è ben lungi dall'essere stato esplorato, e nessuna mente umana può abbracciare in sé la conoscenza, la visione, la contemplazione di tutte le sue bellezze. Allo stesso modo, Dio eccede l'uomo da tutti i punti di vista. Di tutto, Egli è più grande. Bellezza e finalità costruttiva, positiva, nella creazione e nella storia, nonostante tutte le apparenze contrarie, si coniugano: il tutto è per un bene, perseguito da una insondabile sapienza. Movimento ciclico (stagionale, epocale) e lineare (teleologico) si coniugano, al di là della presa dell'uomo. Il fine eccede l'uomo, che non ne penetra pienamente il senso, se non contemplando l'Altro attraverso il tutto, in ogni suo frammento.

La Parola della Scrittura

Ma soffermiamoci solo un istante sulla Parola di Dio, che più direttamente ci introduce nel Suo mistero. La redenzione dell' uomo e segnata da una dinamica di sovrabbondanza: lo ripete l'apostolo Paolo, che non si stanca di moltiplicare nelle sue lettere i termini composti con hyper. Con alcuni esempi, tratti dai testi più noti, si potrebbe perfino tracciare una linea di continuità tra la sovrabbondanza di Dio («laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia», Rm 5,20) e la sovrabbondanza del cristiano («in tutte queste cose - anche nelle prove più, dure, interne ed esterne - noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati», Rm 8,37). È questo il sigillo di Dio nella storia: «Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, ne mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2.9).

Ogni dono di grazia (a partire dalle prime pagine dell'Antico Testamento: creazione, elezione, alleanza, attraverso tutto lo svolgersi della storia sacra) se «già era glorioso, non lo è più a confronto della sovraeminente gloria della Nuova Alleanza» (2Cor 3,10). È Cristo Gesù, Uomo-Dio, la manifestazione somma della gratuità e sovrabbondanza del Padre, donato a noi perché in Lui possiamo realmente vivere, come dice Gesù stesso nel Vangelo di Giovanni: «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Egli è il principio dell'umanità nuova, ricostituita nella sua autentica dimensione filiale, nella sua vocazione e immagine divina: «Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Rm 5,17).

La moltiplicazione sovrabbondante dei pani e dei pesci - simbolo del Pane Vivo, del cibo eucaristico - esemplificava già nei Vangeli Sinottici l'inesauribile gratuità del dono che Dio, nel Cristo Gesù, fa di se stesso: «Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14,20-21; cf 15,37; Lc 9,17; 12,15; Gv 6,12).

Il mistero di Cristo, l'Eterno Vivente, continua misteriosamente nelle sua Chiesa, cioè in noi, membra del Suo Corpo vivo: «con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (Ef 2,7). La sua presenza in noi, è il perno centrale su cui poggia, per la fede, il nostro esistere nel tempo, come esortava Paolo: «il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,19).

La vitalità divina che la Sua umanità gloriosa infonde nel nostro essere mortale è tale che l'Apostolo delle genti non trova parole e quasi forza i limiti del linguaggio umano per poter comunicare l'inesprimibile: «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza» (Fi1,19).

Se da un lato Paolo insiste sulla debolezza creaturale del nostro essere umano - «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7) - proprio per questo essa diviene l'ambito privilegiato in cui si dispiega la partecipazione già attuale alla vittoria di Cristo: «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17). Calcando anche le tinte della sua confessione personale, egli si pone come esempio per il cammino dei cristiani, perché la fiducia e la speranza non vengano mai meno: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al mistero: io che per l'innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fide; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fide e alla carità che è in Cristo Gesù» (1Tm 1,13-14).

Nel travaglio di una esistenza apostolica interamente segnata dalla contraddizione, dalla persecuzione e dalla minaccia dei falsi fratelli (2Cor 11,23-33), egli quindi può dire, in tutta verità: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2Cor 7,4). È sempre lo stesso vocabolario che sottolinea l'eccedenza di Dio nella esistenza umana: «Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,5). Per questo l'azione di grazie accompagna ogni supplica, anche nella prova: «A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,20).

L'intensità della sua paternità spirituale gli ispira formule sempre nuove di esortazione e ammonimento, perché le comunità da lui fondate possano crescere nelle vie dello Spirito: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l'avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell'azione di grazie» (Col 2,7). E ancora: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Fil 4.7). E di nuovo: «Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1Cor 15,58). Le attestazioni della forza di Dio che agisce in Lui, ispirando ogni sua parola e muovendo ogni sua scelta pastorale si potrebbero moltiplicare:

«Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13).

La parenesi dell'Apostolo Paolo non si stanca inoltre di richiamare i fratelli al comandamento dell'amore, perché sia vissuto, con uguale e sovrabbondante gratuità, ad immagine di Colui che ci ha chiamati, nell'umile e gioiosa fedeltà i discepoli di Cristo: «Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1T 3,12). Esso è la pietra di paragone di una novità di vita tutta segnata dal dono che Dio non cessa di riversare nell'uomo:

«Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio» (2Cor 4,15).

(da Vita nostra, n.3, 2004, pp. 5-10)

Lunedì, 05 Maggio 2008 23:00

Il risveglio identitario (Serge Lafitte)

di Serge Lafitte



Oggi non si nasconde più la propria appartenenza a una comunità religiosa, ma la si afferma e la si ostenta.

Ugo Janni (1865-1938), pastore valdese, è una delle figure più significative della cultura evangelica italiana, i cui meriti furono ampiamente riconosciuti anche all'estero con il conferimento di un dottorato honoris causa.

Il secondo discorso di Pietro (At 3,1-26)

di Santi Grosso



Il secondo discorso tenuto da Pietro negli Atti degli Apostoli (At 3,11-26) è occasionato dalla reazione del popolo di fronte alla guarigione dello storpio. I due apostoli, Pietro e Giovanni, che lo hanno incontrato mentre chiedeva l'elemosina alla porta Bella del tempio, devono giustificare la guarigione miracolosa di fronte a un popolo stupito e meravigliato.
L'azione taumaturgica è così stupefacente che si presta a più di una interpretazione. C'è il rischio che la gente, presa dall'entusiasmo e dal fanatismo, cominci a fraintendere il ruolo che i due apostoli hanno avuto nella guarigione.
Il motivo per cui Pietro rivolge il suo discorso ai presenti è proprio per spiegare il gesto da lui compiuto. In questo senso, la seconda allocuzione tenuta dal capo degli apostoli ha la stessa funzione della prima, diretta agli abitanti di Gerusalemme dopo l'evento straordinario ed eclatante della Pentecoste: egli, rivolgendosi ai presenti, deve dare la corretta spiegazione di ciò che è accaduto.

Presentazione letteraria

A grandi linee il discorso è suddiviso in due parti, secondo la ripartizione che il narratore stesso dà a questo testo nel quale per due volte Pietro si rivolge direttamente al suo uditorio: "Uomini di Israele" (v. 12) e "Ora, fratelli" (v. 17). Questa duplice menzione dei destinatari divide l'allocuzione in due parti: nella prima Pietro si concentra sull'annuncio di Dio che si rivela in Gesù, il quale è stato il vero autore dell'azione guaritrice (vv. 12-16); nella seconda l'apostolo invita alla conversione nella prospettiva della venuta ultima e definitiva del messia (vv. 17-26).
Se confrontato con gli altri discorsi degli Atti, si scopre che anche questo è costruito con lo stesso canovaccio. L'introduzione è sempre data dall'aggancio con la situazione immediata (cf v. 12), centrale risulta la proclamazione kerygmatica di Gesù il crocifisso, morto e risorto (cf vv. 13b-15). Per dimostrare che Gesù è il compimento della rivelazione di Dio, gli autori dei discorsi degli Atti inseriscono delle citazioni scritturistiche (cf vv. 13.22-23.25). L'allocuzione si rivolge ai destinatari con l'appello alla conversione (vv. 19.26).
Mentre nel primo discorso petrino (At 2,14-41) il centro verte fortemente sul kerygma cristiano e soltanto alla fine il capo degli apostoli invita l'uditorio al la conversione, nel secondo l'annuncio di Gesù il Signore crocifisso risorto costituisce soltanto la fase preliminare dell'appello alla conversione che in questo testo appare abbastanza articolato e illuminato da elementi nuovi: la prospettiva minacciosa del giudizio futuro (v. 20); l'avvertimento dell'importanza del presente come tempo di decisione (vv. 22-24); l'indicazione del ruolo d'Israele nella storia della salvezza (vv. 25-26).
La scenografia creata dal narratore per il discorso è data dal portico di Salomone, che si estendeva lungo la parte orientale del cortile dei pagani al di fuori della porta di Nicanore. In questo luogo dove si raccoglieva la gente a discutere e i maestri giudaici tenevano il loro insegnamento, anche la comunità cristiana si ritrovava. (1)
Non è né casuale, né fortuito, che nel primo e nel secondo discorso sia proprio Pietro a prendere la parola. Egli è il capo degli apostoli, il leader autorevole, responsabile e allo stesso tempo portavoce di tutto il gruppo dei credenti.

Il vero autore del miracolo

Come abbiamo detto, è lo stupore del popolo che induce Pietro a prendere la parola e a dare una spiegazione di ciò che è accaduto. Egli si rivolge al suo uditorio con l'appellativo "Uomini di Israele",(2) mettendo immediatamente in guardia i suoi destinatari che il miracolo operato non è il risultato delle loro capacità terapeutiche e magiche, nemmeno delle loro particolari attitudini o predisposizioni spirituali. (3)
Per scoprire il vero autore del miracolo, Pietro fa compiere ai suoi ascoltatori un percorso che parte dalla comune esperienza che sia essi che lui hanno in Dio, riconosciuto appunto attraverso la formula di fede ripresa dall' Antico Testamento: Egli è "il Dio di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri" (cf Es 3,6.15).
Questo Dio, che nell'esperienza biblica si rivela personale e vicino alla storia del popolo d'Israele di generazione in generazione, si è manifestato nella missione di Gesù, il "servo". (4) Tale appellativo, di marca anticotestamentaria, rimanda alla presentazione isaiana dell'inviato che esercita una solidarietà con il popolo e una fedeltà a Dio fino alla morte (Is 52,13; 53,10-12). Il titolo non descrive soltanto la relazione di dipendenza di Dio, ma anche il suo rapporto profondo e privilegiato con lui. (5) E in virtù di questa relazione particolare che Gesù è stato glorificato dal Padre attraverso la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo.
Per mostrare come Gesù sia stato scelto da Dio per esercitare la sua missione messianica, Pietro mette in rilievo il contrasto tra l'azione dei Giudei, che hanno cercato di sopprimere il messia, e il piano stesso di Dio, il quale invece ha voluto per lui un destino di risurrezione.
I giudei per uccidere Gesù lo hanno dovuto consegnare a Ponzio Pilato, il governatore romano che aveva la responsabilità su tutte le esecuzioni capitali eseguite in Palestina, territorio occupato dai Romani, dimostrando così di rinnegare il "santo" e il "giusto". (6) Troviamo di nuovo dei titoli che, assieme a quello di "servo", mettono in rilievo come il discorso di Pietro sia impregnato di una cristologia che affonda fortemente le sue radici nella tradizione biblica.
L'assurdità del rinnegamento di Gesù si dimostra dal fatto che tra i due condannati a morte, il popolo ha scelto di salvare l'assassino Barabba, mentre ha richiesto l'esecuzione capitale per l'"autore della vita". (7) È il quarto titolo cristologico di questo discorso e crea un contrasto tra il destino di crocifisso e la vera identità di Gesù, datore della vita. Egli è la guida che inaugura una nuova via verso la vita, perché, con la sua vittoria sulla morte, diventa il capo di una umanità definitivamente rinnovata.

Ora Pietro si fa portavoce dell'annuncio specificatamente cristiano: quel Gesù giudicato colpevole e reo di morte, in realtà viene chiamato da Dio ad un destino di gloria che, secondo l'interpretazione lucana, corrisponde alla sua vicenda di risurrezione e di ascensione al cielo (cf Lc 24; At 1).
I garanti di questo evento sono gli stessi apostoli che sono stati i primi destinatari delle apparizioni di Gesù dopo la sua risurrezione. La loro autorevole testimonianza nasce soltanto dall'esperienza diretta e personale dell' incontro con il Risorto, così come Luca nella sua opera ha cercato di descrivere (Lc 24,36-49; cf At 1,8).
Il discorso, avviato come giustificazione del miracolo compiuto da Pietro, è poi passato alla proclamazione di fede nel Dio di Israele che si conosce nella storia e che si incontra personalmente, alla fine, è approdato all'affermazione che questo Dio si è pienamente manifestato nella missione di Gesù.
Il percorso che l'oratore sta facendo fare al suo uditorio, serve a dimostrare come il miracolo operato al tempio in favore dello storpio non sia altro che il risultato dell'azione di Dio attraverso la persona di Gesù. Questi non è uno dei tanti presunti messia che fanno leva sulle proprie capacità carismatiche o terapeutiche, ma l'Atteso dal popolo d'Israele.
La salvezza portata da Gesù corrisponde alla reintegrazione fisica e sociale dell'uomo. Il Dio di Israele si rivela nel messia in modo sempre più preciso come un Dio che salva l'uomo dai suoi drammi e dalle sue disavventure storiche. Non è stratosferico e disincarnato, ritirato nel suo mondo celeste e quindi assente, ma entra nella storia degli uomini e li salva dalle loro sconfitte umane.
Pertanto il vero autore di questo miracolo sconvolgente non è altro che Gesù, il Signore che il popolo di Israele ha rifiutato. Tuttavia il motivo che ha reso possibile il suo intervento efficace e salvifico ancora oggi, mentre egli si trova glorioso in cielo, è la "fede" in lui professata dalla comunità cristiana. (8) Ma non si può fare della fede "nel nome di Gesù" una formula magica. Essa presuppone la conoscenza della persona e dell'opera di Gesù. Solo la fede rende possibile e comprensibile il miracolo, che può essere invece oggetto di strumentalizzazioni fanatiche e integriste o fideistiche.

Le conseguenze "sociali" del miracolo: una nuova comunità

Nella seconda parte del discorso Pietro, facendo leva sull'evidenza del miracolo accaduto davanti a tutti, mette in rilievo come il rifiuto che ha condotto Gesù alla morte da parte del popolo e dei capi è però causato dall' "ignoranza", ovvero dall'incapacità dei Giudei di riconoscere in quel falegname di Nazaret l'inviato di Dio. (9)
Tuttavia l'uccisione di Gesù da parte dei giudei non significa lo scacco del piano di Dio, ma il suo compimento. Il progetto che fa di Gesù il Signore glorioso non dipende dalle scelte umane, ma le supera, trascendendole. Infatti proprio da una lettura approfondita della volontà di Dio, codificata nella tradizione biblica, si capisce che il messia avrebbe dovuto essere sottoposto ad un destino di sofferenza e di morte (Lc 9,22; 17,25; 22,15; 24,26.46; At 1,3; 17,3). L'opera lucana infatti mette in rilievo come la sorte inspiegabile di Gesù, anche se è stata in realtà causata dal rifiuto del popolo giudaico, sia geneticamente in scritta nel piano di Dio, di cui costituisce l'adempimento.
A causa di questo rifiuto Israele ha perso per sempre l'occasione della salvezza? Certamente no, se rispondono all'invito di Pietro che sollecita il popolo al pentimento e alla conversione. Attraverso due imperativi, "pentitevi [ ... ] convertitevi", (10) l'apostolo segna il percorso che i giudei devono intraprendere per non perdere definitivamente l'occasione di essere salvati. Infatti la croce non inaugura il tempo della vendetta di Dio, ma quello del perdono e della riconciliazione. È questo l'itinerario che gli Atti degli Apostoli stabiliscono sia per i Giudei che per i pagani, i quali sono chiamati ad aderire all'esperienza ecclesiale che ha come contenuto il kerygma cristologico.

Il perdono, o cancellazione del peccato, non avviene più attraverso lavacri e riti di purificazione, ma proprio attraverso la presa di coscienza del proprio peccato (in questo caso è il rifiuto del messia) e nell'adesione ad uno stile di vita nuova che significa partecipazione all'evangelo proclamato.
Soltanto dopo il riconoscimento da parte di Israele che Gesù di Nazaret è il messia promesso, giungeranno i "tempi della consolazione", espressione di marca apocalittica che descrive il momento dell'inizio del tempo escatologico, inaugurato dal ritorno dell'inviato messianico. Gesù infatti resterà nel mondo celeste fino al momento della "restaurazione di tutte le cose", quando egli porterà a termine la storia mediante il suo giudizio.
Per fondare questo annuncio che vede come protagonista del tempo finale Gesù, il Signore crocifisso e risorto, Pietro ora ricorre ad un collage di testi biblici anticotestamentari che venivano usati nel mondo giudaico per annunciare la venuta del messia.
Il testo, composto da Dt 18,15 (11) e Lv 23,29, presenta l'arrivo di un messia, identificato con caratteristiche sia mosaiche sia profetiche. (12) Di fronte al "profeta" atteso, due sono le possibili reazioni del popolo: una di accoglienza, l'altra di rifiuto. Chi respingerà la parola da lui portata verrà estromesso dal popolo.
Attraverso questa composizione biblica il narratore degli Atti degli Apostoli intende presentare la sua prospettiva della storia della salvezza che sfocia nella costituzione della comunità cristiana.
La chiesa non è una cellula impazzita del popolo d'Israele, ma ne è l'evoluzione più matura e autentica. In altre parole chi non ascolta la parola del "profeta escatologico" non può entrare a far parte del nuovo popolo. Al contrario, chi accoglie quella parola di salvezza è chiamato ad aderire finalmente in modo profondo alle esigenze di Dio che si rivelano nella storia.
Che il nuovo popolo di Dio non coincida più con un'etnia, una razza o una cultura, secondo la concezione ebraica, lo si capisce dal riferimento fatto da Pietro all'alleanza con Abramo di cui gli ascoltatori giudei sono figli. Il richiamo a questo personaggio è intenzionale (Gn 12,3). (13) Infatti Abramo, il primo credente della storia della salvezza, sancisce con Dio un patto nel quale egli ha una responsabilità non soltanto nei confronti del popolo di Israele, ma in rapporto a tutti i popoli della terra. Infatti egli, secondo la pagina biblica di Genesi, è chiamato a diventare una "benedizione" per tutte le famiglie della terra. Se con Mosè l'alleanza ha come contraente il popolo d'Israele, con Abramo entrano in causa tutte le genti della terra. La comunità dei discepoli si inserisce in questo grande piano di Dio che non prospetta la salvezza in modo elitario soltanto per Israele, ma che inscrive tutte le genti all'interno del suo intendimento salvifico.
La "benedizione" attesa attraverso la personalità del primo patriarca si realizza mediante Gesù, il servo. Tale benedizione consiste nell'entrare a far parte della comunità dei credenti fondata e radicata in Gesù, il Signore. Partecipando a questa potenza di risurrezione, la chiesa è effettivamente una comunità di benedetti e quindi salvati già da ora. La comunità dei credenti è l'ambito nel quale Dio vuole aprire le porte della salvezza non solo a qualcuno, ma a tutti.
Il discorso di Pietro riportato dal Libro degli Atti non è sicuramente un resoconto stenografico, né tanto meno un testo scritto a tavolino. Esso conserva dell'antica tradizione e catechesi cristiana quanto basta per illustrare la crisi dei rapporti tra la prima comunità credente e il popolo giudaico. Tuttavia ha acquistato nella riflessione cristiana una tale attualità, da incentivare i credenti a interrogarsi sul ruolo di Gesù Signore nella propria esistenza, sulla loro speranza di salvezza, sulla loro fedeltà al piano di Dio, sulla loro capacità di lettura e interpretazione di quegli eventi che continuano la potenza salvatrice di Gesù.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Note

1) Cf At 5,12; anche Ant XX,221.
2) Lo stesso appellativo viene usato nel discorso di Pentecoste (2,2) e nell'intervento di Gamaliele (5,35).
3) La domanda circa la responsabilità del miracolo verrà posta in seguito dal collegio sinedrita (4,7).
4) In questo discorso il kerygma non fa riferimento alla missione pubblica di Gesù, ma direttamente si concentra sul suo destino di glorificazione che ha avuto luogo attraverso la passione, morte e risurrezione.
5) Il titolo di "servo" rivolto a Gesù si incontra negli Atti quattro volte (3,13.26; 4,27.30).
6) Il titolo di "giusto" è riservato al messia anche in 1 En 38,2; 53,6. Si tratta tuttavia ancora di una velata allusione alla figura del servo "giusto e santo" di Is 53,11.
7) L'appellativo "l'autore della vita" è una espressione rara che ricorre solo negli Atti e nella Lettera agli Ebrei (At 5,31; 26,23; Eb 2,10; 12,2).
8) Abbiamo qui la prima comparsa negli Atti degli Apostoli del termine "fede" che risuona due volte nella dichiarazione di Pietro.
9) Il motivo dell'ignoranza si ritrova anche in l Cor 2,8. L'ignoranza che mette i giudei al pari dei pagani, è la radice del peccato (cf Rm 1,18-3,20).
10) Il verbo greco epistrephô ritorna per undici volte negli Atti; significa "volgersi verso" e sottintende il ritorno a Dio.
11) È questo un passo che nel giudaismo post-biblico ha mantenuto viva la speranza messianica, anche quando la monarchia davidica è andata in crisi.
12) I due testi dell'Antico Testamento sono citati e interpretati come a Qumran (4QTest 5-8; 1QS IX 11; 4Q 175).
13) La citazione di Abramo (Gn 12,3) è secondo la formulazione di Gn 22,18 (LXX).
Gesù interprete delle Scritture
negli Atti degli Apostoli

di Pier Luigi Ferrari



La prima comunità cristiana ha vissuto, fin dagli inizi, la consapevolezza che Gesù aveva realizzato la secolare attesa d'Israele. Le Sacre Scritture dell'Antico Testamento convergevano verso di lui e gli rendevano una straordinaria testimonianza rivelando tutto d'un tratto la loro «vera portata».

Era stato Gesù stesso, durante la sua vita terrena, a inaugurare questa utilizza zione delle Scritture. Nella finale del suo Vangelo, Luca mette sulla bocca del Risorto, che affianca i due discepoli sulla strada di Emmaus nel giorno di Pa squa, una lezione di interpretazione «cristologica» dell'Antico Testamento: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, interpretò loro in tutte le scritture ciò che lo riguardava» (Lc 24,27). La sera stessa, apparendo agli Undici conti nua questa singolare istruzione: «Era necessario che si adempisse tutto ciò che è scritto di me nella Legge, nei Profeti e nei Salmi», indicando in tre punti il contenuto di tale compimento: 1) Il Messia doveva patire; 2) doveva risuscita re dai morti il terzo giorno; 3) nel suo nome il messaggio di salvezza doveva essere portato al mondo intero, comprese le nazioni pagane (cf Lc 24,44-47).

Sarà nel Libro degli Atti che Luca affronterà in maniera più organica questa dimostrazione. Egli dà sviluppo ad una operazione già avviata dalla prima comunità, la quale dopo avere semplicemente affermato che morte e risurre zione erano «secondo le Scritture», ha cercato precise citazioni della Bibbia disponendo tutta una serie di testimonia, che giustificassero il «bisognava» (in greco dei) dell'evento di Cristo.

Prima di presentare i testi sarà utile qualche nota sul metodo lucano. La sua lettura scritturistica suppone la Bibbia nella traduzione greca dei Settanta, tanto che per capire certe argomentazioni occorre partire da questa e talvolta dalle sue varianti. Quanto poi ai procedimenti esegetici degli Atti si scopre che essi hanno molto in comune con i midrashim giudaici: si nota la stessa adesione alla lettura del testo, vi si pratica una attualizzazione in rapporto al le circostanze del presente. Ma la vera novità distintiva di questa esegesi è che essa è sempre «messianica».

Attraverso le Scritture

Ripercorrendo 1'AT secondo il programma indicato dal Risorto - Mosè, i profeti e i Salmi - proponiamo qualche testo significativo sotto il profilo cristologico.

1. La legge di Mosè. Sono tre i personaggi della Torah (detto «pentateuco» o, semplicemente, «La legge»), la cui vicenda è letta in chiave cristologica. An zitutto nel compendio storico fatto da Stefano sono citati Giuseppe (7,9-16) e Mosè (7,17-42), mostrando come la loro vicenda è simile a quella di Gesù e ne è prefigurazione: rigettati ambedue dai fratelli o dagli Israeliti, rivestiti am bedue da Dio di una missione di salvezza a favore del loro popolo. Anche la promessa fatta ad Abramo, in base alla quale tutte le generazioni sarebbero state benedette nella sua «discendenza» (Gn 12,3; 22,18), viene letta in chia ve cristologica: questa «discendenza» è Cristo e nel suo nome si realizza la «benedizione» che comporta l'evangelizzazione dei pagani.

Altri due passi sono rilevanti per l'interpretazione cristologica. Grazie al l'ambivalenza del termine greco anistemi, che significa sia «suscitare» che «risuscitare», le parole dette da Dio a Mosè: «Io susciterò loro, in mezzo ai loro fratelli, un profeta simile a te» (Dt 18,15.18.19) sono interpretate da Pie tro (3,22) e da Stefano (7,37) come annuncio di un profeta che sarebbe stato risuscitato da Dio. At 5,30 e 10,39 vedono nella citazione della Legge che di chiara «maledetto chi pende dal legno» (Dt 21,23), dove si allude evidente mente alla pena capitale, una allusione alla crocifissione del Messia: è Gesù colui che, sospeso al legno della croce, è stato messo nella situazione di uno che la legge dichiara maledetto (cf 1 Pt 2,24 e Gal 3,13).

2. I profeti. È noto che il giudaismo con la parola «profeti», oltre agli scritti profetici propriamente detti, indica anche l'insieme dei libri storici. Mentre scarso è il rilievo dato dagli Atti a questi ultimi, diversi sono i passi di profe ti interpretati in chiave cristologica. Ne vediamo alcuni tra i più interessanti. La citazione di Gioele (3,1-5a), fatta da Pietro nel giorno di Pentecoste (2,17-21), concludeva che per essere salvati nell'ultimo giorno occorreva «in vocare il nome del Signore». Pietro spiega che questo Signore è Gesù, pro clamato tale mediante la sua risurrezione, il cui nome dev'essere invocato da quanti vorranno essere salvati nell'ultimo giorno. Anche il racconto di Giona (2,1) secondo il quale il profeta stette per tre giorni nel ventre del pesce, già letto tipologicamente da Gesù (cf Lc 11,29s), è alluso nell'insistito particola re della risurrezione di Gesù il «terzo giorno» (10,40; cf 1 Cor 15,4).

Un testo profetico ha colpito in modo particolare la prima generazione cri stiana: il grande Canto del Servo sofferente del secondo Isaia (Is 52,13 -53,12). Esso è citato esplicitamente una sola volta nel contesto dell'incontro di Filippo con l'etiope (8,32-33), ma si trovano in tutto il libro numerose allusioni che lasciano trasparire la profonda influenza di questa profezia. Si identifica Gesù, sofferente e risorto, con il servo che il profeta descrive come vittima innocente che soffre per riscattare i peccati di molti. Con lo stesso criterio è utilizzato da Paolo nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia (13,47) anche il passo di Is 49,6, dove il misterioso Servo è costituito da Dio «luce delle nazioni» con la missione di portare la salvezza di Dio «fino alle estre mità della terra», quindi ai pagani.

3. I Salmi. Ampia risulta anche l'attualizzazione cristologica del Salterio, considerato dai primi cristiani come una raccolta profetica, composta dal «profeta» Davide.

L'utilizzo che la comunità cristiana, raccolta in preghiera, fa del Sal 2 (At 4,25-27) è un limpido esempio di come si faceva una lettura messianica dei Salmi. In questo caso, con una dettagliata applicazione alla passione di Gesù, si parla di una congiura dei popoli e delle nazioni contro il Signore e contro il suo Unto; i popoli corrispondono a Israele, le nazioni ai Romani; tra i con giurati vi sono Erode e Ponzio Pilato: tutti si sono dati convegno a Gerusa lemme contro Gesù, che è l'Unto di Dio.

Nel Sal 16,10 il salmista esprimeva la fiducia che Dio sarebbe venuto in suo aiuto nei pericoli: «Tu non abbandonerai la mia anima allo Sheol, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa». Partendo dalla traduzione greca della LXX, che al posto di «fossa» usa «decomposizione», Pietro il giorno di Pentecoste (2,25-61) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,34-37) applicano l'oracolo alla vicenda di Gesù, che non ha conosciuto la corruzione del se polcro perché risuscitato da Dio.

In Sal 110,1 è, fra tutti, il più abbondantemente utilizzato nelle varie tradizioni neotestamentarie perché non v'erano dubbi sul suo significato messianico. Il primo versetto: «il Signore (JHWH) ha detto al mio signore (Davide): siedi al la mia destra» è letto da Pietro, nel discorso di Pentecoste (2,34-36) come l'invito rivolto da Dio a Gesù Messia di sedersi alla sua destra in seguito alla sua risurrezione e intronizzazione. A questo Salmo si deve accostare il Sal 118,16, che torna in due discorsi di Pietro (2,33; 5,31), dove il Messia è esal tato alla destra di Dio (solo nella versione greca).

Due titoli significativi: Gesù Messia e Signore

L'attualizzazione cristologica della Scrittura trova una delle sue massime espressioni in due titoli che si imporranno nella tradizione cristiana anche a motivo del loro denso significato. Si tratta dei titoli Cristo e Signore, solen nemente proclamati nel discorso di Pietro il mattino di Pentecoste: «Sappia con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Messia (= Cristo) questo Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Nel pensiero della chiesa primitiva questi due titoli rappresentano i due aspetti fondamentali del la regalità di Gesù risuscitato, quantunque a questo stadio della tradizione non devono essere letti con quella pienezza di significato che acquisteranno solo nella riflessione cristologica successiva. Altri titoli presenti nel Libro de gli Atti, quali Servo di Dio, Santo e Giusto, Capo, Salvatore, Figlio di Dio, te stimonianze di una cristologia arcaica, cadranno presto in disuso - eccetto Figlio di Dio - e non si trovano più negli strati posteriori del NT.

1. Gesù Messia. Con la morte e la risurrezione di Gesù, la prima comunità cristiana comprese che egli era davvero il Cristo, cioè il Messia atteso. Que sto messaggio trovava garanzia nelle Scritture. Così vediamo che fin dai pri mi giorni gli apostoli a Gerusalemme «non cessavano di insegnare e di an nunciare, nel tempio e nelle case, il Messia Gesù» (5,42) e l'apostolo Paolo è impegnato a dimostrare che «questo Gesù è il Messia» nelle sinagoghe giu daiche della diaspora: a Damasco (9,22), a Tessalonica (17,3), a Corinto (18,5) e davanti ad Agrippa (26,22-23).

Questa predicazione comporta un salto di qualità rispetto alle attese messia niche del giudaismo. Prima della passione l'idea di Messia era legata, nelle credenze popolari, al figlio di David restauratore del regno di Israele, con un carattere eminentemente politico che aveva indotto Gesù a mostrarsi riserva to riguardo al titolo di Messia e a imporre cautela. Egli soprattutto aveva in sistito sulla necessità della sua morte come parte essenziale della sua missio ne messianica e salvifica. Ma dopo la risurrezione c'è uno spostamento di accento: i primi cristiani cominciano a valorizzare le profezie riguardanti un Messia che doveva morire e risorgere e il titolo di Messia perde il suo carattere regale con le risonanze politiche che poteva evocare: Gesù non ha re staurato il trono di Davide e quindi il titolo richiama ora solo la missione sal vifica che egli ha realizzato.

Un'ultima osservazione va fatta. Il titolo Christos-Messia appartiene inizial mente solo alla predicazione di tendenza apologetica destinata ai giudei. Quando esso viene trasferito nel mondo greco-romano subirà un'ulteriore evoluzione: sganciato definitivamente dal contesto giudaico nel quale era sor to, perde il suo valore e si avvia ad essere usato come un nome proprio, di ventando cognomen di Gesù.

2. Gesù Signore. Durante la sua vita terrena Gesù veniva chiamato normal mente Rabbi, Maestro, ma sono interessanti alcuni casi nei quali i Sinottici usano per il Gesù storico il titolo Kyrios perché dipende da essi l'uso invalso nella chiesa primitiva. Si tratta dei testi nei quali Gesù designa se stesso come «Signore», quando descrive la sua funzione di giudice sovrano e di re alla fi ne dei tempi: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore!» (Mt 7,21. 22); e ancora: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato ... ?» (Mt 25) e in alcune parabole espressioni quali: «Signore, Signore, aprici» (Mt 25,12).

È proprio in questa aspettativa che Gesù viene chiamato Signore dalla chiesa primitiva, la quale ha coscienza che con la sua risurrezione i tempi ultimi si sono compiuti. Essa si rivolge a Gesù come al Signore, figurandoselo assiso alla destra di Dio e pronto a manifestarsi come sovrano e giudice. Così Pietro il giorno di Pentecoste interpreta l'effusione dello Spirito come l'inizio di quei tempi definitivi. La speranza d'Israele cede il posto alla speranza cristia na. All'attesa del messia subentra l'attesa del Signore, espressa nella grande supplica liturgica: Marana tha! Signore vieni!

È singolare, poi, come alla luce della risurrezione si applichino alla persona di Gesù formule e testi dell'AT che parlano del Kyrios JHWH. Attribuendo al Risorto il titolo di Kyrios, la cristianità primitiva riconosceva che egli era sta to investito, nella sua umanità, di una funzione regale escatologica che era prerogativa veramente divina. Per osare attribuire a Gesù la regalità che il Dio dell'AT si riservava di esercitare personalmente alla fine dei tempi, i primi cristiani hanno dovuto concepire un'idea altissima del Risorto. A questo non hanno potuto essere condotti se non dall'insegnamento di Gesù stesso.

Infine va ricordata l'importanza che assume nella chiesa primitiva l' «invoca re il nome del Signore», sia nella liturgia cristiana (cf 1 Cor 11,26: 16,22; Ap 22,20), sia nelle confessioni di fede (cf Rm 10,5ss; 1 Cor 12,3; Fil 2,8-11). Il giorno di Pentecoste Pietro, concludendo la lunga citazione di Gioele, affer ma: «Allora chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21; Gl 3,5), un'idea ripresa dallo stesso Pietro in un successivo discorso (At 4,12)e da Paolo in Rm 10,12-13. È interessante annotare come in Fil 2,8-11 dal l'ambito delle assemblee cristiane si passa audacemente ad una liturgia cosmica: è l'universo intero che «confessa» il nome di Gesù, proclamando Signore il Risuscitato. Nel linguaggio della chiesa primitiva, «invocare il no me del Signore» sarà anche sinonimo di «essere cristiani» (cf At 9,14.21;22,16; 1 Cor 1,2 e 2 Tm 2,22). Forse uno degli esempi più belli di tale invoca zione è la preghiera di Stefano durante il martirio: «Signore Gesù, accogli il mio Spirito» (At 7,59), rivolta a colui che si trova alla destra di Dio (7,55-56), come Gesù aveva dichiarato dinanzi ai suoi giudici (Lc 22,69).

Conclusione

La cristologia degli Atti è essenzialmente pasquale. Tutta l'attenzione della comunità delle origini è concentrata su questo evento decisivo: Gesù di Na zaret, il Crocifisso, è stato risuscitato e siede alla destra di Dio, divenuto sal vezza per noi. È la risurrezione ciò che gli apostoli propriamente proclamano come vangelo e lieto annuncio: così Pietro, riassumendo la missione dei Do dici, afferma che il loro compito precipuo è di essere «testimoni della risurre zione» (1,22) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia: «Noi vi portiamo questo messaggio di salvezza: Dio ha fatto risorgere Gesù» (13,32).

Questa affermazione della risurrezione di Cristo, per essere compresa, viene collocata sullo sfondo delle Scritture e attraverso di esse viene mostrato il ca rattere messianico. Per i primi cristiani si tratta di provare a se stessi e ai Giu dei il profondo collegamento tra questo singolare evento di Gesù e l'attesa di fede dell'antico popolo di Dio. Anzi, se la salvezza promessa da JHWH nel l'AT consisteva in una sua presenza, in un suo dono, ora agli occhi dei primi cristiani appariva del tutto logico, sia pure nella sua radicale imprevedibilità. che Gesù risorto, costituito Cristo e Signore, era questo «dono», il decisivo gesto salvifico di Dio, la sua comunicazione personale agli uomini.

La risurrezione però non cancella tutto quanto l'ha preceduta. Anzi, chi è ri sorto, è quel Gesù di Nazaret del quale sono menzionati la nascita storica, la discendenza davidica, il ministero pubblico preceduto dalla predicazione del Battista, i miracoli e, infine, la morte avvenuta per una condanna sulla croce. È nella duplice luce della risurrezione e delle Scritture che viene riletta e in terpretata la vita terrena di Gesù. Egli appare ora ai loro occhi come un esse re singolare, «unto di Spirito Santo e di potenza» (10,38), non racchiudibile entro schemi puramente umani. I discorsi missionari fondano l'annuncio del vangelo su questa identità costantemente affermata tra Gesù terreno e Risor to, tanto che per poter essere «testimoni della risurrezione» nel senso indica to da Pietro quando si trattò di sostituire Giuda, bisogna essere tra quelli che sono stati con Gesù «per tutto il tempo che ha vissuto con noi cominciando dal battesimo di Giovanni» (1,21-22).

In ultima analisi, di questo danno testimonianze le Scritture: in Gesù è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio dei nostri Padri» (3,13) che ri vela il suo volto; è lui che lo ha risuscitato mostrandosi in modo definitivo come il Dio fedele alla promessa, colui che anche dalla morte sa «suscitare-ri suscitare» la vita, colui che «non permette che il suo Santo veda la corruzio ne». Meditando la Scrittura, i primi cristiani maturano la convinzione che il Dio vivente è il Dio indefettibilmente fedele.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

La pace: riposo di Dio nell'uomo

di Andrea Sciffo *


Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.

È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).

Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.

Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.

Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.

Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace... non come la dà il mondo».

La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.

La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.

In pieno medioevo, il padre della chiesa san Bernardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.

Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio...).

Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).

Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi moderna, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».

Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima moderna: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.

La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.

Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».

(da MC, gennaio 2007)

* Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).


IL PAPA: RISORSA FORMIDABILE PER LA PACE

di Don Armando Cattaneo *

Domanda

Pace come riposo in Dio, bello... ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.

Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!

La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!

Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna...». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.

Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.

I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!

Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.

Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.

Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.

Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena... sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.

Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».

Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!

Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti... Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!

Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti...

(da MC, gennaio 2007)

* Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana

Dalla civiltà della paura alla civiltà della pace
Un guizzo di utopia

di Ernesto Balducci

Vorrei impegnarmi a una riflessione forse presuntuosa, comunque un po' complessa, articolata, capace di assumere il tema della pace come tema totalizzante, che riconduce in sé gli aspetti diversi dei processi innovativi del nostro tempo, e capace quindi di suggerire una strategia globale, dove le varie battaglie per il rinnovamento possono ritrovare unità e coordinamento reciproco.

Vorrei sostenere la tesi che il nostro impegno per la pace non può più essere inteso come volto semplicemente a deprecare la guerra e a invocare il disarmo. Se vuole rispondere alle provocazioni oggettive della situazione pericolosa in cui siamo, non può essere che una «mutazione culturale».

Io sono convinto, con molti grandi testimoni, artefici del nostro tempo - penso qui ad Einstein, per citare il più importante - che noi stiamo vivendo all'interno di una mutazione storica che coinvolge non soltanto gli assetti dei rapporti tra i popoli, ma il modo stesso di pensare, la forma mentis dell'uomo, la cultura dell'uomo. Il famoso scienziato aggiungeva che dopo Hiroshima «o l'umanità cambia modo di pensare, o il suo destino è la catastrofe». Questo è il dilemma posto da uno scienziato che per vari versi potrebbe essere chiamato padre o nemico della bomba atomica, visto che le ricerche atomiche devono qualcosa alle sue grandi teorie della relatività ed ancora che egli stesso, nell'estremo cimento della guerra, non fu alieno dal pensare che la bomba poteva essere usata per porre fine alla guerra, soprattutto alla minaccia nazista. Ma con prontezza di coscienza, subito dopo Hiroshima, Einstein e dopo di lui B. Russell e altri grandi scienziati dichiararono, con il prestigio che avevano, che occorreva modificare radicalmente il modo di pensare, il modo di far politica, se si voleva evitare la catastrofe.

Dobbiamo riconoscere dopo trent'anni che il modo di pensare, almeno a certi livelli, là dove la storia agisce con i suoi strumenti ufficiali, non si è modificato. Il modo di pensare è ancora quello anteriore alla soglia atomica. E sta di fatto che dinanzi a noi è aperto il baratro della catastrofe.

Ma negli ultimi anni si sono succedute in Italia e in Europa manifestazioni pacifiste di tale entità da dare subito l'impressione che qualcosa di nuovo pulsasse nella coscienza collettiva, che questa mutazione che negli strati di superficie non si avverte, nel fondo della coscienza dei popoli, fosse invece avanzata, confortando quella che poteva sembrare un'utopia da conservare nel cuore, stando in agguato nella storia se per caso venisse il momento giusto. Il momento giusto probabilmente è venuto, perché la situazione dell'umanità, dopo l'escalation atomica, che non ha mai cessato di avanzare, è tale da determinare ormai una larga presa di coscienza, una reazione collettiva della base, dei corpi sociali, o la catastrofe è inevitabile.

E con questo sentimento che i popoli stanno riprendendo in mano il proprio destino. Il genere umano è all'interno di una mutazione storica, quella che Teilhard de Chardin con il suo linguaggio chiama soglia evolutiva, la soglia dove è necessario un salto di qualità, una nuova concentrazione della coscienza umana, cioè un punto di riferimento delle coscienze a partire dal quale sia possibile prendere possesso dei dinamismi della società.

La paura e l'inventiva

Ogni qualvolta - la storia dell'evoluzione ce lo dimostra - si tocca la soglia dove è necessario un salto di qualità, dove cioè non è più saggezza la continuità col passato, dove è saggezza la rottura col passato, ogni qualvolta si entra nella soglia, abbiamo una duplice reazione: quella della paura ad attraversare la soglia - perché la paura è la percezione che si deve morire al nostro passato, all'insieme dei principi culturali su cui si è basata la nostra coscienza - e quella dell'utopia. La paura, perché le istituzioni, che sono nate per realizzare gli obiettivi che ci eravamo proposti, la nostra stessa identità civica e culturale, tutto è messo in discussione. E come una morte storica; per scomodare il linguaggio biblico, dobbiamo morire a noi stessi per nascere. L'altra reazione è quella della inventività, della improvvisa presa di contatto con ciò che ieri sembrava utopia. Oggi ciò che è utopistico diventa realistico e ciò che ieri era realistico diventa utopistico in senso catastrofico. Per esempio, quello che è stato detto dalle massime autorità americane, (che sarebbe anche possibile fare una guerra atomica controllata) dimostra come il realismo ha toccato la follia. Sembra davvero poco attendibile l'idea che una eventuale contesa sia da una parte controllata senza che l'altra parte non subisca la tentazione di rispondere in maniera smisuratamente più grande, senza che si entri nel rigurgito dell'escalation delle armi atomiche. Ne consegue che il momento in cui siamo è quello in cui l'utopia può pretendere di presentarsi con tutti i titoli di realismo storico. Questo è il punto essenziale per capire gli obiettori di coscienza che noi difendemmo nel '63. Oggi siamo in grado di dire che ciò che ci nascondono gli obiettori di coscienza è in nuce, come in un germe, una alternativa di scelta. La tesi che sto svolgendo è che quello della pace è un tema capace di riannodare le fila sparse di un ideale tessuto di società diversa.

La mutazione culturale

Noi sappiamo come procedono dal punto di vista culturale le società. C'è una cultura dominante, che è quella che fa tutto, che ha i giornali, le televisioni, le Case editrici, quella che dà l'immagine della società globale, senza che questa immagine vi risponda effettivamente. Noi potevamo dire vedendo i libri di testo, gli articoli di giornalisti di grido, che tutto procedeva come prima (e del resto le carte di identità dei partiti politici risalgono, nonostante la gloriosa frattura della resistenza, ad epoche anteriori alla soglia atomica). Dalle stesse ideologie - che sono anteriori alla soglia atomica - l'idea dell'uomo come violento è accettata come un dogma, non mutabile.

Noi oggi ci troviamo in una condizione in cui deve prendere voce quella cultura (la chiamo così in senso antropologico) che non ha avuto voce, che è sempre stata emarginata o connotata in qualche modo nel tratto del ridicolo, dell'estroso. Come del resto, ora che ci ripensiamo dall'altezza drammatica della storia attuale, capitò a Francesco d'Assisi, che disse di se stesso «Io penso che Dio volesse che io fossi nel mondo un novello matto». Uno strano matto: credo che tutti gli uomini della cultura dominante pensassero così, dal papa al cardinale Ugolino; gente furba, però, che sapeva usare anche i pazzi, li sapeva inserire nelle strategie di potere. Erano uomini di grande cultura, tanto che avevano strutture così elastiche da accogliere anche il nuovo, diversamente dai nostri tempi. Oppure possiamo pensare, per andare a esempi più grandi, a Gesù Cristo, che fu rivestito come un pazzo da Erode, simbolo del potere. Ogni volta che un'idea nuova, fresca, verginale viene alla luce del sole, la cultura dominante ha subito gli schemi di lettura per bloccarla, qualificandola come pazzia. Ma ora noi siamo in una condizione storica in cui i pazzi forse avevano ragione; la voce della coscienza disarmata, che si fa forte soltanto del consenso delle coscienze, è più potente di un esercito.

Il destino dell'umanità è unico

Sono maturate le grandi verità di Hiroshima, così vorrei chiamarle, che sono tre a mio giudizio, e fondamentali. Su queste verità, via via, attraverso quel lento spostamento sismico che è avvenuto alle fondamenta del corpo sociale, si sono preparati i cambiamenti.

Ila prima verità di Hiroshima è che il destino dell'umanità è unico e indivisibile, cioè per la prima volta la storia ha capito che il suo destino di morte è un destino indivisibile, poiché è possibile la morte simultanea. È un'idea che non era potuta mai balenare nella mente umana prima, salvo che in Caligola, il quale, come si racconta nella scuola, nei suoi sogni sadici, desiderava che il genere umano avesse una testa sola per tagliarla in un sol colpo. Ma i sogni di Caligola sono diventati possibilità oggettiva. Noi sappiamo che gli armamenti atomici sono tali da poter distruggere più volte il genere umano nella sua interezza. Anzi essi possono per sempre abolire dal pianeta Terra, unico nell'universo ad avere la biosfera, la stessa pellicola di biosfera che l'avvolge.

carattere ormai planetario. O il bene comune è planetario o non è bene comune. E ogni coscienza politica che assuma il bene comune del proprio paese, come sufficiente a fondare le virtù politiche, è una menzogna. L'unico bene comune, concreto, che si risolve nel bene comune anche del singolo paese, èil bene comune del genere umano. Questa intuizione ha acquistato una esplicazione di carattere scientifico, attraverso le analisi condotte da grandi competenti, uno dei quali è Brandt (o l'équipe che fa capo a lui) che ha steso un suo rapporto in cui si dimostra che le interdipendenze nel genere umano sonocosì strette che non è possibile ormai nessuna pianificazione economica, nessun risanamento del bilancio che non tenga conto di questa interdipendenza. Non si dovrebbe parlare di dipendenza del povero Sud dal Nord, ma del contrario, perché la grandezza del Nord, i suoi sperperi consumistici, la sua stessa posizione di privilegio del potere a livello degli armamenti, sono legate al fatto che sopravvive l'economia di rapina nei confronti del Sud. Ma il Sud, in questi ultimi anni, a partire dal 1955 ad oggi, ha compiuto una rivoluzione, simile a quella del rapporto servo-padrone. Il Sud, servo, ha preso coscienza che il padrone senza il servo non conta niente. E questa idea, come spiega Hegel, quando balenò nell'uomo, mutò la storia.

Noi siamo in un momento in cui il Sud del pianeta, il così detto Terzo mondo, ha preso coscienza che il mondo sviluppato senza di lui non è più niente. La storia muta. Probabilmente per questo gli armamenti sono un argomento estremamente provocatorio, poiché se io vi dico che nell'ultima guerra abbiamo avuto 50 milioni di morti, giustamente provoco sgomento. Ma forse pochissimi di voi sanno che due anni fa, nel '79, 50 milioni di morti li ha provocati la fame, e questa non è nata dalla malvagità della natura, ma dall'assetto economico del pianeta, perché nello stesso anno furono spesi 45 miliardi di dollari in armamenti, la decima parte dei quali bastava a eliminare i morti di fame. Il genere umano ha preso coscienza di questo e ormai nessuno si salva da un'inquietudine morale. Ogni tanto si sentono uomini politici che appartengono al vecchio ceppo, che parlano con molta sicurezza, con un linguaggio illuministico, con delle riflessioni paternalistiche nei confronti del terzo mondo; ma noi sentiamo che quella è una cultura morta. Quelli sono gli uomini politici pericolosi, perché non sono passati attraverso questa cruna d'ago, prima della quale c'è la stoltezza e oltre la quale c'è la consapevolezza che la salvezza del genere umano è unica e indissolubile, anche a livello delle pianificazioni economiche. Mentre parlo sento che questo tema dovrebbe diventare centrale nelle scuole, nei pulpiti, dovunque. Questa è l'educazione delle nuove generazioni, e non il ritorno a Garibaldi e la sua celebrazione.

L'istinto coincide con la morale di pace

In secondo luogo sentiamo che è maturata, non molto a livello della consapevolezza diffusa ma moltissimo in quello delle consapevolezze anticipatrici, la certezza di un'altra verità che i nostri padri non potevano percepire adeguatamente. Noi in passato abbiamo distinto la sfera della morale dalla sfera dell'istinto: due sfere tra loro inconciliabili, destinate al conflitto. L'istinto non è solo sede del male, ma anche principio di propulsione creativa, di arricchimento della vita morale dell'uomo, però la sua condizione normale è il conflitto con la ragione morale. La pace, per esempio, è un imperativo della morale. L'istinto nell'uomo, così ci è stato sempre insegnato, è aggressivo, e quindi la morale può contenere, regolare questa aggressività, ma sempre col presupposto che tra un principio e l'altro pace non ci può essere. E invece oggi noi siamo a un punto storico nuovo in cui quell'istinto di fondo della specie umana, della specie come tale, ci porta ad aver paura di morire. La volontà di sopravvivere arriva a coincidere con l'imperativo della coscienza morale, cioè tra biologia e coscienza c'è un punto d'incontro oggi, e questo poi si apre ad altre prospettive complesse anche su tutti gli altri settori.

Non è vero che si debba fare la morale dell'uomo a prescindere da quello che è il suo contenuto istintivo. L'istinto profondo dell'uomo, la vastità, la globalità della voce della specie arriva a coincidere con la legge morale; ora fare pace non è più un dovere a cui ci chiama la coscienza, è una necessità a cui ci chiama l'istinto di sopravvivenza. Questa è una soglia antropologica nuova, quella che le ricerche di morale di vario tipo dovranno approfondire e sviluppare. Conseguentemente non si può vivere sulla paura della guerra. Ricordo un episodio capitato ad Amburgo il giugno scorso, quando i vescovi luterani vollero celebrare il «giorno della chiesa» e diedero come motto a questo giorno una parola del Vangelo intesa spiritualisticamente, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo». Parole di Gesù Cristo; ma i giovani, che arrivarono più numerosi del previsto, inalberavano cartelli in cui dicevano «noi abbiamo paura». Paura della bomba atomica, paura del disastro ecologico, ed elencarono le ragioni della loro paura. E in questo capovolgimento dall'idealismo evangelico astratto al realismo si è visto un sintomo di ciò che maturava nelle coscienze.

Nelle coscienze matura una richiesta profonda, che se avesse a disposizione le mediazioni politico-culturali, determinerebbe il cambiamento storico del genere umano. Questa paura è degna dell'uomo. Non è una paura egoistica, gretta, di chi si rifiuta di sacrificarsi per un ideale superiore a lui, è una paura che ha la sanità della specie, è quindi una paura che porta i segni, la trasparenza della coscienza morale. Questo è un fatto nuovo ed importantissimo.

La guerra è uscita dalla sfera della ragione

La terza verità è che la guerra è uscita definitivamente dalla sfera della ragione. Non c’è mai stata, dirà qualcuno. Si, è vero. Ricordo quando imparavo il latino a scuola, in prima ginnasio, e studiavo Tibullo: «Chi fu il primo a produrre le spade?», con senso di deprecazione. Ma questa lagna, di deprecare le spade e di fabbricarle, è antica quanto l'uomo. La guerra è stata sempre considerata come un evento nefasto, ma necessario. Poi questa fatalità poteva essere connotata di provvidenzialità, di punizione di Dio per i peccati dell'uomo; ognuno aveva le sue categorie per renderla accettabile. Nelle litanie medievali si diceva «dai fulmini, dalla tempesta, dalla fame, dalla guerra liberaci o Signore», come se la guerra appartenesse alle calamità di natura. Il concetto della fatalità della guerra è stato sempre presente nel genere umano prima della soglia atomica. E la ragione si è limitata a disciplinare la guerra, a contenerla in certi limiti, quelli per esempio stabiliti dalla dottrina stoico-romana, ma diventata cattolica con S. Agostino, la dottrina della guerra giusta. Per non parlare poi di altre giustificazioni più nefaste, come quella hegeliana, in cui la guerra appariva uno strumento della ragione, dello Spirito assoluto, per celebrare nella storia le alterne investiture degli spiriti eletti.

Noi queste cose le abbiamo bevute nella nostra infanzia di bambini vestiti con la camicia nera di balilla. Il fascismo poi ci educava al senso di grandiosità della guerra, e senza contestazioni di fondo, perché non faceva altro che portare agli estremi una ideologia giacente alla base della civiltà occidentale. La guerra è sempre nefasta, ma inevitabile e anzi provvidenziale, come spiegava un mio maestro di università, Benedetto Croce, «la guerra come accadimento è nefasto, ma come avvenimento è fausto» (accadimento è il fatto singolo, l'avvenimento sono i risultati complessivi; è questa la strana eterogenesi dei fini: un accadimento nefasto produceva però avvenimenti grandiosi).

Questa teologia della guerra, anche laica (perché ognuno ha la sua teologia) si è inserita nella storia. Ma questa cultura è finita: la guerra è uscita per sempre da ogni possibile disciplina razionale. Questo è un fatto nuovo, che già papa Giovanni nella «Pacem in Terris» sottolineava. Ma direi che in qualche modo non faceva che notificare un'evidenza. Le evidenze è difficile che poi riescano a fermentare in tutte le implicazioni che contengono, o almeno, ancora non lo hanno fatto; però sono sempre più luminose agli occhi della coscienza comune, mentre sono un segno di frattura fra il passato e il nostro presente.

Sono obbligato a dire qual è la presente situazione a cui ho fatto allusione. Noi siamo vissuti in questi anni che ci separano dalla invenzione della bomba atomica, la storia di questa terribile bomba la conosciamo. Prima era nelle mani degli Stati Uniti d'America soltanto, che in qualche modo erano garanti della pace sul pianeta. Quando l'Unione Sovietica ha avuto la bomba atomica, si è creata una competizione tra le due massime potenze, si sono formati i blocchi e abbiamo avuto l'equilibrio del terrore. Perfino il Concilio brucia qualche grano d'incenso all'equilibrio del terrore. La parola equilibrio introduceva nella parola terrore, che fa paura alla ragione, uno spezzone di razionalità. La parità tra le due forze sembrava un trionfo della ragione.

resta che il disarmo perché la parità degli armamenti non è più una garanzia. Siamo in questa necessità contro la quale urtano molti altri condizionamenti.

La generalizzazione del terrore

Qui le cose si fanno delicate e sono quelle più direttamente sotto la nostra osservazione quotidiana, soprattutto di chi come me non ha responsabilità politiche o di altra natura, ma vive tutti i giorni sulla frontiera delle coscienze, dove avvengono cose che probabilmente osservatori distratti da altro non riescono a percepire e a catalogare. La guerra, come abbiamo visto, veniva in qualche modo inglobata in una visione razionale dello Stato, della società, del progetto politico collettivo. Lo Stato, questa grossa creazione dell'uomo, in fondo vive all'interno di una cornice, come è una Costituzione, espressa dalla volontà popolare.

Ora la cornice della nostra vita non è più la razionalità, ma l'irrazionalità, ed il terrore è la parola che meglio la definisce. Esso non ha più la possibilità di essere integrato in una visione razionale del futuro, il terrore è negazione delle ragioni razionali della vita, vi si oppone nettamente. Il fatto che il terrore presieda alla convivenza tra i popoli, ha sollecitato, per così dire, il terrore in tutto il corpo sociale. Quella fiducia nella democrazia, nella Costituzione, dell'uomo nell'uomo, senza di che la democrazia non vive, scompare sempre di più. Il terrorismo dal basso non è altro che l'immagine speculare del terrorismo dall'alto. L'assenza di ragione ai vertici dei rapporti tra i popoli trova una sua simmetria drammatica nell'assenza di ragione di chi ritiene che con il crimine si possa veramente cambiare la società. La mancanza di razionalità ai vertici della convivenza nazionale e internazionale, è anche alla base della nostra convivenza, contamina il corpo sociale.

Come i rapporti tra individuo e individuo sono segnati sempre più dalla sfiducia e dalla competizione, così la violenza è un tratto comune della nostra società. Quindi la riforma morale richiesta, alludendo a questo o quello scandalo (deprecabili certo) che si vuoI compiere, è senza esiti. L'irrazionalità ci attraversa. Le nostre difese culturali sono velleitarie, e il senso di impotenza, che avverto spesso negli insegnanti, nei genitori... mi conferma nell'idea che il nostro male è collettivo, che ci tocca come genere umano.

Inesorabile decadimento della democrazia

D'altronde la democrazia non sta decadendo solo per ragioni etiche, ma perché è colpita nel suo cuore anche dal punto di vista formale, istituzionale. E sempre stato riconosciuto da tutti che i diritti del soggetto sovrano nella democrazia del popolo trovano il loro momento culmine nella decisione se fare qualcosa è bene o male. Questo è il diritto supremo di un popolo. Però ora i popoli non hanno più questo diritto. All'interno dei patti militari è previsto che un singolo popolo non possa decidere niente. Anzi questo svuota-mento della sovranità è stato anche formalizzato per quanto riguarda la Nato. Nel '62, ad Atene, i vari paesi hanno riconosciuto al presidente degli Usa il diritto di toccare il bottone a suo arbitrio, perché, evidentemente per ragioni tecniche, una guerra atomica non può avere l'ultimatum. Solo chi anticipa l'avversario può vincere. Quindi il nostro destino è in mani lontane, uno stato non ha più capacità di decidere. Nel caso della guerra atomica le mosse non sono più partecipate democraticamente, perché l'elemento decisivo della vittoria è il segreto, e quindi la sorpresa. Se l'asse essenziale dei diritti democratici è colpito, non ci restano che spazi piuttosto ludici. E nella logica del sistema che la decisione ultima non sia nelle mani della base, ma in mani irraggiungibili. La democrazia deperisce perché i suoi elementi formali diventano sempre meno credibili.

Noi, per poter vivere la nostra vita secondo ragione, dovremmo prendere le decisioni sulla base della conoscenza delle cose. L'informazione è diventato un elemento decisivo come mai lo era stato. Attualmente siamo informati coattivamente da centrali di informazione che sfuggono al nostro controllo. E allora il male peggiore, a mio giudizio, contro cui siamo chiamati a combattere è l'occultamento ideologico della verità delle cose. Viviamo all'interno di un gioco di occultamento, non solo istituzionalizzato per quanto riguarda la dichiarazione della guerra e i segreti atomici, ma concernente l'occultamento sullo stato delle cose. E questo è ciò che suscita in me più indignazione. Se provate a fare il bilancio delle informazioni televisive, noterete disparità incredibili. Pensate a quante ore sono state dedicate dalla nostra televisione al caso polacco, e poi confrontatele con quelle dedicate al caso Nicaragua, Salvador ecc.; vedete subito la disparità. Ma questo è nulla. In realtà noi siamo tenuti all'oscuro della condizione di pericolo in cui versiamo. Perciò dobbiamo veramente mobilitarci per smascherare questo meccanismo che è così potente ora con i mass media - dove le informazioni private, o controinformazioni sono cose visibili - che veramente si è portati a disperare. Il potere che decide le guerre è anche il potere che decide come informarci.

Esiste un'alternativa?

Potrei continuare nella mia analisi, ma questi tre aspetti mi sembrano sufficienti per farvi comprendere che non è più possibile continuare. Qual è l'alternativa? Noi dobbiamo passare a una cultura della pace.

Nel dire queste parole sento che rischio di divenire utopista. In fondo, chi come me è vissuto sempre predicando il Vangelo, contrae a livello umano un vizio inguaribile, quello di prendere per veri gli ideali; questo è il lato savonaroliano della mia anima e non me ne vergogno. Con i tempi che corrono, fra l'altro, avere questi spazi di respiro sul piano personale è una garanzia di salute. Ma non sono così ingenuo da credere che il discorso evangelico sia destinato a restare un discorso sulle ultime cose. Sono convinto che sia venuto il tempo, il Kairòs, il tempo opportuno, per scoprire un'antropologia profetica del Vangelo. E una risposta straordinaria alla congiuntura in cui siamo; ma il Vangelo lo pongo al termine della mia riflessione per rimanere in uno sviluppo laico dell'argomento, cioè affidato alla ragione. Parlo della ragione critica, che tende verso le ultime cose, che cerca le radici dell'esistenza, il suo significato ultimo, già di per sé profondamente evangelico. Siamo giunti al tempo in cui è possibile riscoprire questa simmetria tra l'uomo inerme e l'unico uomo possibile nel futuro.

Intanto per questa cultura della pace dobbiamo vincere uno dei dogmi che ci siamo portati dietro e che ritorna continuamente nella cultura che si amministra nei giornali, nelle scuole ecc., e cioè l'idea che l'uomo sia per sua natura aggressivo, un lupo per l'uomo. Questa idea ha fatto sempre il gioco dei fautori della guerra, che l'hanno definita inevitabile. Oggi non si può più parlare dell'uomo e della sua natura secondo una visione medioevale, che lo vedeva astrattamente, l'uomo è dentro la cultura in cui vive.

Ogni dogma sulla immutabilità dell'uomo va eliminato come residuo della cultura preistorica che ancora ci opprime. Ci sono virtualità che la storia vissuta fino ad oggi non ha espresso: la stessa concezione dello stato come un monopolio pubblico della violenza privata (quando si sostiene che lo stato può essere legittimamente violento quando vuole). Questa concezione è finita storicamente; noi entriamo in una età in cui dobbiamo sviluppare l'altro aspetto dell'uomo, profondamente radicato nella sua virtualità, cioè quello dell'uomo amico dell'uomo. Non è vero che san Francesco fosse una eccezione meravigliosa. Francesco d'Assisi viveva con la convinzione di essere una alternativa praticabile, e infatti lo era. Il Francesco che è in noi è l'altra faccia dell'uomo, è l'altra possibilità in cui siamo invitati a credere. Noi invece, finora, di gente seria in gente seria, siamo arrivati a estinguere in noi ciò che attendeva il sole della fiducia per fiorire. Noi vogliamo questa dignità evangelica e umana dell'uomo, che non fa suo vanto la «serietà» che comporta la sfiducia nel prossimo, ma fa suo principio la fiducia nell'uomo; questo è fondamentale. Io qui ricordo due maestri, Teilhard de Chardin e Jaspers, un credente e un laico, e ambedue han detto: non c'è possibilità per il futuro se non nasce una grande fiducia nell'uomo, la fiducia sia come individuo, sia come collettività o umanità in genere. L'umanità ha risorse straordinarie, è in grado di dare risposte impensate a congiunture impreviste. La storia del passato ce lo dimostra anche.

La fiducia di partenza

Noi sappiamo che nell'umanità esistono risorse, inventive eccezionali che possono far fronte alla nuova congiuntura. Questa è la fiducia di partenza. Naturalmente essa non può essere documentata. Nella fiducia c'è sempre un di più, che sovrasta i quozienti dei dati accettati e fa credito alla inventività interna dell'uomo non ancora manifestatasi. C'è un elemento in questa fiducia che è provocatore di valori.

Lo so che il discorso non piacerebbe alla Nato o al Patto di Varsavia, dove hanno la sicurezza assoluta di sapere cosa è l'uomo e se si guardano allo specchio ritrovano la riprova, ché in realtà questa sfiducia, questa paura della democrazia, si ritrova in tutti e due i settori, la democrazia non esiste né nell'Est né nell'Ovest, se noi guardiamo il mondo con l'occhio dei generali. Ma noi dobbiamo veramente mutare il cuore nostro e del prossimo attraverso questo contare sulla fiducia nell'uomo.

I luoghi della mutazione

Alcune indicazioni.

La mutazione non va pensata soltanto in rapporto al tema specifico della guerra che ci minaccia, va pensata - se è vera la mia analisi - in rapporto a tutti i luoghi della società dove si rompe il vecchio schema di violenza; la pace è uno stile di vita, è una cultura. Si dice cultura della pace come si dice cultura neolitica, cultura dell'età del ferro. Si allude cioè a un insieme di valori che si unificano e si esprimono nel rifiuto della violenza come strumento adatto a regolare i rapporti tra gli uomini.

Quali sono i luoghi di rottura della vecchia cultura della violenza? Non mi dispiace ripetere un principio già detto all'inizio: il fatto della crescita della dimensione planetaria. I giovani pensano sempre di più a dimensioni planetarie. L'internazionalismo, che nella storia della classe operaia è stata una grande pagina, ma che oggi la classe operaia non riesce più a portare avanti perché anch'essa erede della cultura borghese, è assunta dalle nuove generazioni in maniera più spontanea, e con l'idea che l'umanità sia un individuo solo, al quale manchi, per esserlo sul serio, soltanto una specie di unificazione della sua coscienza. Perché la coscienza del genere umano tende ormai alla unificazione, ma è come una coscienza ancora viziata da schizofrenia, da frantumazioni interne.

Noi dobbiamo abbandonare l'Eurocentrismo, la più grossa minaccia a questa unificazione del genere umano (noi siamo parte e vogliamo esser tutto). Noi abbiamo inibito le altre culture, le quali oggi si ribellano; noi siamo in una fase di colluttazione di universi culturali, i quali alludono alla loro unificazione, che rispetti la diversità, ma che allo stesso tempo gestisca in maniera concorde il destino non più divisibile. Questo è un processo importante a tutti i livelli.

La scuola, la guerra e la cultura della pace

Noi notiamo come la nostra scuola, così come è (senza far torto ai fermenti di novità, anzi è proprio a quelli che alludo come alternativa), è una cultura che ha trasmesso la mentalità di guerra.

La memoria storica che si è data alla nostra generazione è una memoria in cui la storia dell'umanità è fatta di paci e di guerre, dove però le paci erano soltanto intermezzi labili tra paci combattute. Dove l'immagine che l'uomo ha di se stesso è rimasta per sempre quella dell'uomo con la dava, le frecce, poi coi cannone, poi con la bomba atomica. Dove la storia del passato è quella che i vincitori hanno raccontato, schiacciando i vinti, dove la nostra memoria è già contaminata dalla ideologia della potenza. La scuola ha immesso questa cultura. Non solo, ma ha trasmesso una cultura che è stata sempre quella delle classi dominanti, con il disprezzo dei dialetti dell'uomo, (uso la parola dialetto come simbolo) dell'uomo che vive nella sua immediatezza, che crea la sua coscienza dall'universo della sua esperienza immediata. Questa cultura l'abbiamo schiacciata, per creare classi dirigenti, non per creare comunità umane.

Noi sentiamo oggi una profonda reazione a questa cultura della scuola. Essa non può cambiare per assestamenti di strutture e di gestione. Deve cambiare perché un nuovo contenuto deve pregnarla. E io oso dire che questo contenuto deve essere la cultura della pace, perché si fa pace quando si comincia a riconciliare il ragazzo col proprio mondo, a renderlo cosciente del proprio mondo. Per farvi un esempio, personale ma eloquentissimo, io, che ero figlio di minatori, sono stato in una scuola in cui tutti erano figli di minatori. Tutti i nostri genitori erano silicotici, tossivano in continuazione e non facevano altro che bere per attutire la silicosi. Bestemmiavano naturalmente, perché la bestemmia è liturgia della bettola, con la maledizione del prete che diceva che era peccato mortale ubriacarsi. Poveri uomini, i nostri padri, che ci hanno abituato a disprezzare perché erano ubriachi, bestemmiavano ed erano silicotici! Le miniere erano a duecento metri, i nostri padri si rovinavano, e a scuola le maestrine ci parlavano di Attilio Regolo e di Cartagine e di Roma, e non delle miniere. Era cultura di guerra quella, perché separava la coscienza dal reale, perché non diventava presa di coscienza dell'esperienza vissuta, ma estraneazione.

La cultura della pace è una cultura in cui la coscienza deve crescere a partire dall'esperienza. Una dimensione planetaria, si è detto, ma calata nel particolare. Questo cambiamento è fondamentale per una cultura di pace. Ed allora il discorso della cultura dominante e della cultura oppressa scompare, perché certamente la cultura borghese, che è anch'essa cultura dominante, ha valori immensi che non vanno sperperati, vanno anzi ereditati. Sempre però col presupposto che la cultura di potere deve essere orientata ad una crescita comune dell'uomo nella pluralità delle sue esperienze.

Nuovi rapporti conoscitivi

Terzo elemento: noi ci siamo accorti appena, a livello generale, che il nostro ambiente di esperienza collettiva è stato rovinato dalla cultura della violenza. Lo spazio fisico della natura è stato considerato come uno spazio di illimitate conquiste, come se la nostra figura del progresso avesse a sua disposizione, senza discussione, riserve di energia inesauribili. Questa cultura della violenza, che ha colpito oltre agli uomini le piante, i fiumi ecc., si rivolta contro di noi: abbiamo una natura che ci deperisce attorno. La catastrofe ecologica non è che un capitolo della cultura della guerra. Il rapporto conoscitivo prepara solo il momento dello sfruttamento. Il rapporto conoscitivo deve invece essere simbiosi, partecipazione. Questa passione ecologica su cui è facile sorridere, perché spesso prende forme ludiche, favorisce la necessità di un nuovo rapporto con la natura, di un nuovo postulato che è quello di pace, perché un capitolo fondamentale della società del futuro sarà quello di vedere se siamo maturi.

Ecco un altro capitolo importante di questa silloge della cultura della pace che è già cominciata, che attende solo di collegare le sue strategie, di trovare un momento unitario per combattere il pericolo della guerra atomica: è quella che ha condotto le nuove generazioni a percepire che il vero luogo della violenza a livello antropologico è il rapporto maschio femmina, la sessualità come luogo di violenza in cui sono stabiliti i rapporti di dipendenza (anzi voluti dalla natura, si diceva): è così che la natura ha fatto la donna, il maschio è per natura superiore alla femmina. Sono luoghi comuni, che appartengono alla cultura laica e a quella cattolica. Oggi si riscopre che nella sessualità, e nella famiglia in cui questi modelli si sono codificati, si ha la perpetuazione del virus della violenza. Il femminismo, inteso come lotta di emancipazione della donna, per il quale non abbiamo documenti nel passato, per il perseguimento di un soggetto storico che sia insieme un uomo e una donna, che stabilisca una soggettività creativa in cui l'elemento femminile e l'elemento maschile giochino in parità è tutto da inventare. La donna non deve essere la crocerossina del maschio guerriero, non deve entrare nell'esercito per arricchirlo di una nuova fisionomia.

I partiti

Noi dobbiamo godere di una nuova politica in cui i partiti si trasformino sino a diventare una espressione costantemente collegata a ciò che ferve nella base, a questa nuova volontà, che non è la cultura che sto descrivendo. Se alla fine non fanno questo, si isolano dal corpo sociale, non sono un vantaggio collettivo, ma il marasma, il caos. Si parla di una contestazione delle istituzioni, che non sia un giudizio globale della loro inefficienza, ma una rimessa in campo del loro rapporto organico tra ciò che ferve creativamente nel corpo sociale e le funzioni di potere che esse rappresentano: questa è una battaglia che si combatte sul terreno della pace.

Le chiese

L'ultimo punto riguarda le chiese. Anche a questo proposito devo dire con gioia che le chiese hanno subito un cambiamento che era follia sperare ai tempi della obiezione di coscienza. Era follia sperano, perché la «Pacem in Terris» di Papa Giovanni fu come qualcosa di inatteso, e capisco perché Papa Giovanni, secondo cronisti attendibilissimi perché vicini fisicamente a lui, quando la firmò senza averla fatta passare per il Santo Uffizio, uscendo dalla regola, disse: «Finalmente è fatta». E aveva senza dubbio compiuto un gesto rivoluzionario nella nostra storia cattolica, perché ha introdotto un discorso profondamente nuovo, la cui fecondità è ancora al di là da venire.

Il Concilio ha portato avanti parzialmente quel discorso. Ma poi è avvenuto un cambiamento profondo, non soltanto nelle strutture della chiesa cattolica, direi più ancora nelle chiese evangeliche. Le chiese evangeliche tedesche, per esempio (mi riferisco a quelle perché il loro governo è più significativo) durante il nazismo erano state succubi del Führer molto più della Chiesa Cattolica, salvo eccezioni come Bonhoeffer e altri. Ebbene, in questo ultimo periodo le chiese evangeliche si sono coinvolte nell'impegno per la pace, nella animazione delle manifestazioni pacifiste, mostrando una vivacità e una creatività inaspettate. Ma non solo. Tutte le chiese evangeliche che hanno fatto capo al Consiglio Ecumenico delle chiese, a partire dagli anni 60, hanno compiuto un processo di revisione della propria realtà storica, non si chiedono più se l'uomo si salva solo con la fede o anche con le opere, se la sola scrittura è la sorgente della fede. Questi problemi, pur importanti, sono ai margini. I problemi centrali sono quelli relativi al futuro dell'uomo, alla pace dell'uomo. Da Upsala, a Nairobi, agli ultimi incontri delle Chiese evangeliche, che, queste ultime si sono schierate sul tema della pace come tema qualificante della loro presenza nel mondo. Ed è ormai certo, a mio giudizio, che il modo in cui le Chiese potranno confessare il Cristo in maniera credibile è obbligo, e il tema della pace è la lotta per la pace.

Le chiese hanno a loro disposizione quel patrimonio profetico che per le condizioni storiche non è ancora potuto fiorire. Noi che studiamo il futuro dell'uomo su una specie di schema normativo, che è la storia della salvezza, sappiamo che le parole di Dio non subito fruttificano, è necessario che venga il Kairòs, la stagione storica in cui le condizioni di struttura necessaria danno alla parola seminata secoli prima la possibilità di fruttificare. Questa è una simmetria asimmetrica tra storia e Parola. Ora trovo nel Vangelo una antropologia di pace. Quando Gesù parlava, nel discorso della Montagna, non faceva della poesia, bella, da celebrare come una impossibilità, che tuttavia onora l'uomo l'averla sognata. No, Gesù ha proposto una alternativa all'uomo, che è sempre lì alle porte come un imperativo da realizzare. Allora l'uomo evangelico è l'uomo inerme, l'uomo che non risponde con la violenza alla violenza, è l'uomo che vince con la sua mitezza, che disarma l'avversario non tenendosi al suo livello, ma eludendolo e svegliando nell'avversario il volto che in lui stesso è stato mascherato e oscurato. Questa dinamica di nonviolenza è la possibilità che ci resta. Francesco e il lupo, questa leggenda aurea, è l'emblema di ciò che sto dicendo. L'alternativa della storia è l'uomo mite, che non significa uomo inerme, ma uomo che pone alla base della convivenza la collaborazione e non la competizione.

Le chiese hanno, per così dire, una cultura che ha due strati diversi: lo strato profondo, è quello del filo aureo dell'Evangelo, che le chiese evidentemente non hanno mai disdetto, anche se spesso lo hanno soffocato e perfino proibito. Oggi ormai la parola di Dio è consegnata al popolo, e questo fermento profetico comincia a fermentare nelle comunità cristiane. Hanno poi un'altra cultura, quella delle teologie codificate, ben pensate, che si preoccupano di dire oggi ciò che hanno detto ieri, e di non dire cose in contrasto con ciò che un papa ha potuto dire un secolo fa. Questa preoccupazione della continuità archivistica, della cultura che allarga il proprio codice senza smentire quello precedente, è una ripetizione all'infinito del già detto, mentre è necessaria una invenzione creativa. Le chiese sono a un bivio: o vogliono rispondere alla congiuntura nuova con la cultura codificata dai loro teologi, di ieri, ed esse non fanno che balbettare e restano nella comune confusione, o esse attingono alla parola profetica che hanno nella loro memoria, nella pratica pastorale, facendo credito totale a quella Parola, ed esse saranno la guida della mutazione antropologica di cui si è parlato.

La volontà profetica della chiesa di farsi carico della pace nel mondo, della «Pacem in Terris», la registriamo con istituzionale gioia poiché anche la chiesa istituzionale ha un grande debito contratto nel passato di fronte alla pace del futuro. Infatti troppe cose sono state permesse e benedette, ma quando vediamo i mutamenti ci rallegriamo, perché non desideriamo che Dio punisca i peccatori, visto che noi saremmo - ahimè! - nel rogo insieme agli altri. Noi vogliamo che Dio converta i cuori e renda le sue chiese capaci di assolvere il ruolo a cui la storia le ha destinate senza alternative.

E allora i segni ci sono e sono omogenei a quelli della metamorfosi culturale che rapidamente ho descritto. Non spero che i generali della Nato o i nostri ministri degli esteri diventino profeti, chiedo solo che agiscano con la saggezza di cui farebbe obbligo la loro causa, una prudenza di cui abbiamo già qualche segno. Ma la profezia non è sul tavolo di Ginevra. La profezia passa attraverso la volontà dei popoli. Allora sono convinto che stiamo vivendo questa mutazione. Tutti i nostri discorsi, non solo quelli di questo convegno, sono delle verità epocali, che acquistano il diritto di essere onnipresenti, perché sono quelle in cui si decide il destino dell'uomo. E molto importante non dimenticare che a dare la spinta alla mutazione è anche la certezza che essa non ha alternativa; o la nostra cultura diventa una cultura per la pace, o la terra diventa un cimitero per sempre. L'appello alla nostra volontà è ormai decisivo, estremo.

Dialogo ecumenico

Il documento finale approvato a Sibiu

di Andrea Pacini

Su temi etici centrali è emersa la distanza rispetto a una posizione comune delle Chiese.

Soltanto sul finire del mese di settembre è stato reso pubblico il messaggio finale dell’Assemblea ecumenica europea di Sibiu. La pubblicazione è avvenuta dopo una lunga attesa, tenuto conto che l’Assemblea si è conclusa sabato 8 settembre, e che il documento era stato approvato la sera dell’ultimo giorno. Le ragioni di questo procrastinare e i suoi esiti meritano di essere conosciuti e sollevano alcune riflessioni. In primo luogo occorre osservare che, mentre lo sviluppo dell’insieme dei lavori dell’Assemblea di Sibiu ha offerto spazi minimi al coinvolgimento assembleare, non altrettanto è avvenuto per l’itinerario di estensione del documento finale. In questo caso si è in effetti partiti da uno schema molto sobrio, che è stato presentato all’Assemblea per riceverne pareri e integrazioni. Questa fase di ascolto assembleare è stata decisamente ampia e bisogna dare atto alla commissione di redazione di aver accolto ed elaborato in modo articolato le istanze presentate.

Questo processo ha portato alla redazione di una bozza di documento finale, che è stato ulteriormente discusso in Assemblea, per poi arrivare a una versione definitiva che è stata pubblicamente letta e approvata. È in quest’ultima fase delicata e conclusiva che si è verificato un reale inconveniente: al momento della lettura del testo proposto all’approvazione, l’Assemblea è stata esortata a porre attenzione al testo proclamato oralmente, che in un paio di punti non corrispondeva al testo scritto distribuito. La discrepanza tra testo scritto e testo orale è stata giustificata dai tempi ristretti di lavoro, che avevano richiesto la stampa del testo scritto, prima che la discussione sul testo stesso si fosse definitivamente conclusa in tutti i suoi dettagli. In effetti l’Assemblea ha approvato il documento proclamato oralmente, anche perché gli incisi "nuovi" – solo un paio – sono stati bene evidenziati dal lettore e non sono passati inosservati. A questo punto è interessante chiedersi quali fossero le "novità" intercorse nell’ultima stesura proclamata oralmente. In effetti la vera "novità" consisteva nell’accoglimento di una proposta presentata nella fase assembleare di consultazione, che suggeriva di inserire un inciso in cui si affermava l’urgenza di tutelare la dignità della vita umana dal concepimento alla sua fine naturale. Questo inciso, effettivamente letto nel documento finale e non pubblicamente rigettato da nessuna voce al momento finale dell’Assemblea, è comparso in alcune versioni scritte con alcune varianti. Evidentemente tale inciso è stato poi impugnato da alcuni delegati per vie esterne ai lavori assembleari. Questo "ricorso" ha provocato la ripresa del documento finale da parte della commissione di redazione e la sua pubblicazione solo dopo parecchi giorni. Nel documento finale, formalmente posto in circolazione, l’inciso in questione è scomparso. Al suo posto è stata inserita una nota in calce nel paragrafo relativo al rispetto della vita umana in cui si spiegano le difficoltà incontrate nella stesura del messaggio.

Il paragrafo suona così: «Riteniamo che ogni essere umano sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27) e meriti lo stesso grado di rispetto e amore nonostante le differenze di credenza, cultura, età, sesso, origine etnica». Nella nota in calce si aggiunge: «A questo punto, durante la lettura del messaggio all’Assemblea è stata presentata oralmente la frase "dal concepimento alla morte naturale" che è stata successivamente tradotta in – "dalla nascita alla morte naturale" – "dall’inizio della vita fino alla morte naturale". Nessuna di queste formulazioni è parte del testo ufficiale del messaggio». Che cosa dire di tutto questo? Certamente l’idea di far approvare un documento la cui versione orale – che si era invitati a considerare quella definitiva – differiva da quella scritta e distribuita non è stata una scelta felice. Ma ci si può chiedere se sia stata una scelta felice approvare in Assemblea un documento – senza che alcuna voce sollevasse eccezioni – per poi ritornare sulla sua redazione riguardo a un punto di valore non certo secondario.

È chiaro che l’inciso proposto mirava a promuovere una comune convergenza di tutte le Chiese su temi quali la lotta contro l’aborto, la tutela dell’embrione, fino alla condanna dell’eutanasia; tutti problemi aperti nell’Europa contemporanea. Ma proprio su questi temi è emersa la distanza rispetto a una posizione comune, con una sostanziale opposizione tra dottrina cattolica e ortodossa da un lato e visione di alcuni ambiti protestanti dall’altro. Senza volere assolutamente proporre istanze di rigorosa omogeneità in tutti gli ambiti, ci si può però ragionevolmente chiedere non solo se queste diversità profonde su nodi etici centrali non scavino nuovi solchi di divisione tra le Chiese, ma anche se questa incapacità di proporre una visione teologica comune dell’uomo con le sue conseguenze fondamentali di ordine morale non riduca alla radice la possibilità per le Chiese nel loro insieme «di immettere energie spirituali nel dialogo» con le istituzioni europee, secondo gli auspici del documento.

In altre parole si apre l’interrogativo su quali siano i contenuti prioritari rispetto ai quali si gioca l’apporto spirituale che le Chiese intendono dare all’Europa, perché quest’ultima non sia solo uno spazio politico ed economico, ma anche di valori condivisi cristianamente ispirati, anzi «direttamente ricavati dal Vangelo», come si dice nella nona raccomandazione del documento; quest’ultima fa a sua volta eco a un paragrafo iniziale in cui si afferma di essere convinti che «la famiglia cristiana debba anche cercare un consenso più ampio riguardo ai valori morali derivati dal Vangelo e uno stile di vita credibile che testimoni nella gioia la luce di Cristo nel nostro esigente mondo laico moderno, nella sfera privata così come in quella pubblica».

L’opposizione messa in atto contro l’inciso sulla tutela della dignità della vita umana nella sua integralità – al di là della modalità confusa con cui era stato introdotto – ci porta inevitabilmente a prendere atto che le considerazioni di ordine generale sul consenso riguardo ai valori evangelici da proporre in Europa stentano a trovare formulazioni specifiche su punti centrali del dibattito etico odierno.

Non può non essere fonte di tristezza notare che per le Chiese è stato più facile arrivare a posizioni comuni sulla salvaguardia del creato o sulla lotta a varie forme di ingiustizia – tutte cose assai buone – che dire una parola autorevole e illuminata su un punto essenziale che riguarda il significato trascendente della persona umana e della sua vita, nodo essenziale della fede cristiana e della visione di uomo a essa inerente. Di fronte a questo esito non certo entusiasmante, alcuni rappresentanti protestanti hanno invocato ancora una volta la ragione del pluralismo: le Chiese parlano all’Europa in modo plurale. Ci si può però chiedere quali siano i limiti di un legittimo pluralismo nell’ambito della fede comune; e se il pluralismo in ambito cristiano sia un valore fondato in se stesso, o se debba comunque esprimere l’obbedienza al Vangelo. Un’assoluta affermazione del pluralismo non può infatti che consolidare le divisioni confessionali. Si ripropone allora la grande sfida per tutte le Chiese, che è al centro dell’impegno ecumenico: solo una vera e profonda conversione a Cristo e al Vangelo, al cui giudizio sottoporre anche i soggettivismi individualistici e le logiche consolidate, può generare una comunione ecumenica profonda, chiamata a esprimersi sul piano della fede creduta e vissuta in una sinfonica obbedienza al Vangelo

(da Vita Pastorale, dicembre 2007)

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