Religioso Marista
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Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato.
di Maria Cristina Bartolomei
Gesù all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più». (Giovanni 8,2-11)
Come ogni racconto evangelico, l'episodio dell'adultera (Gv 8,1-11) ci porta dinanzi a una rivelazione di Dio in Gesù: non si può dunque attribuirgli una particolare intenzione di esplicitazione dell'atteggiamento di Gesù verso le donne, non più di quanto si possa attribuirgli l'adulterio come tema. Sarebbe un fraintendimento leggerlo in tali ottiche; sarebbe una piccineria ritagliare questi elementi come cascami, concentrandovi l'attenzione come su elementi laterali al tema o ai temi centrali. Questo criterio, valido in generale, è particolarmente efficace nel nostro caso.
Proprio e soltanto la sottolineatura del carattere di rivelazione teologica e cristologica di questa pericope consente di cogliere il significato salvifico e di rivelazione che è in esso sotteso.
Lettura teologica
Nell'intenzione del narratore o del redattore, dichiarata con la precisazione: «Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo» (8,6), l'episodio è uno dei casi in cui gli avversari di Gesù cercano di tendergli una trappola, ponendogli quesiti astrusi o concrete questioni, anche drammatiche, tesi a mettere Gesù di fronte all'alternativa di violare la Legge mosaica (o di proporne una interpretazione condannabile) oppure la legge dei romani e, più radicalmente, di tradire il proprio messaggio. Sono i casi, ad esempio, dei quesiti circa la destinazione coniugale ultraterrena della donna rimasta per sette volte vedova o il problema ricorrente della liceità di guarire in giorno di sabato, o quello del tributo a Cesare.
Anche nel caso della adultera, colta in flagrante e condotta da lui, Gesù viene chiamato ad esprimersi nel confronto con la Legge di Mosè che «ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (8,5): probabilmente i Romani avèvano infatti già tolto al Sinedrio il diritto di emettere sentenze capitali.
L'episodio può, e correttamente, venir letto su questa linea, cogliendo, come in altri casi, la sovversiva fedeltà della interpretazione della Legge praticata da Gesù; la autorevolezza da lui dimostrata nel proporsi come nuovo criterio del rapporto tra uomo e Dio. Si può sottolineare lo smascheramento della ipocrisia della condanna degli altri; il richiamo al peccato di ognuno, non meno grave anche se più occulto. Si può leggerlo come un'esemplare rivelazione della «filantropia e benignità di Dio» (Tt 3,4), della centralità e preminenza su ogni legge assegnata da Dio all'essere umano, al vivente; del suo essere il «Signore amante della vita» (Sap 11,26) e non della morte; del suo solidarizzare con le vittime.
Tuttavia limitandosi ad una simile lettura, si trascura di cogliere, un elemento di non piccola portata giacché tutto quanto evidenziato più sopra viene rivelato nell'incontro con una donna e una donna adultera, nell'Israele patriarcale del tempo, sotto una Legge che ne prevedeva la morte. Tale specificità non è casuale. L'incarnazione è la regola e il criterio della rivelazione di Dio. Ciò significa che solo mettendo a fuoco anche e centralmente la peculiarità legata a questa situazione precisa, di una donna colpevole di un particolare peccato, e seguendo a questa luce ciò che viene messo in scena nell'evento narrato, possiamo attingere meno lacunosamente il contenuto rivelatorio cristologico e teologico che qui ci viene offerto.
Lettura cristologica
Una donna viene condotta da Gesù. Questo è l'unico caso di qualcuno portato da Gesù non per essere salvato, bensì condannato. Con il proposito di far perire, possibilmente, anche Gesù e con la stessa forma di esecuzione. Il capitolo ottavo, che si apre col quesito circa la lapidazione dell'adultera, si chiude con la stessa minaccia per Gesù: «Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (8,59), tema che ritorna poco dopo quando di nuovo vengono portate delle pietre per lapidarlo come bestemmiatore: «Ma egli sfuggì alle loro mani» (10,31-39).
La donna è una adultera. Un peccato non esclusivamente ma del tutto peculiarmente femminile, legato alla condizione di «moglie-di », di «proprietà di un uomo». Peccato sociale innanzitutto, rottura dell'ordine patriarcale a garanzia del quale ci si appella all'ordine divino. Adultero è infatti anche l'uomo se e in quanto si unisce alla moglie di un altro . Non era considerato adulterio il caso di un marito che avesse relazioni con donne non sposate ne fidanzate (vi era colpa nel violare una vergine non fidanzata in quanto si disonorava il padre di lei, al quale essa apparteneva ancora «in proprietà» ). L'adulterio, commesso dalla donna o da un altro uomo, è socialmente un peccato unidirezionale, un peccato contro il diritto di proprietà dell'uomo sulla donna. Perciò stesso in quel contesto (e molto oltre e molto dopo di esso) esso è visto, per così dire «per direttissima», come peccato contro Dio. Chi viola il diritto unilaterale dell'uomo maschio sulla donna viola il diritto divino. La donna era allora in questa condizione; anche il suo rapporto con Dio e il suo stesso peccare contro Dio passavano per la sua subordinazione all'uomo. Per lei, concretamente, in quella situazione religiosa e sociale, la Legge di Dio e la «legge del maschio» erano conglomerate in un blocco unico, benché la prima in non pochi casi e sensi avesse certamente attenuato e limitato più che certificato la seconda, che restava peraltro dominante, avendo anche la esclusiva della interpretazione ed applicazione di quella divina.
Gesù a cui è posta davanti quella donna è perciò stesso posto di fronte alla coalescenza tra l'originario comandamento divino di serbarsi reciprocamente fedeli nell'amore coniugale e una inculturazione patriarcale che comanda la fedeltà ad una donna che non ha scelta alcuna, in particolare riguardo alle nozze (neppure la miseranda «scelta» del successivo ripudio); tra l' originaria finalizzazione della Legge all'uomo ed una attuazione tradottasi in violenta subordinazione dell'uomo «al sabato». È posto davanti ad un soggetto, la donna, che in quella situazione riassumeva in se ogni forma di estraneità all'area della giustizia, del diritto, della forza; tutta la assegnazione all'area della costrizione, della subordinazione, della identificazione nel mero ruolo sessuale e insieme della sessualizzazione colpevolizzata, della empietà e lontananza da Dio. La messa a fuoco della specificità femminile è resa nitida dalla assenza dell'altro colpevole, dell'adultero, che non è neppure menzionato.
I comportamenti di Gesù sono pienamente significativi e rivelatori in una simile situazione.
Lettura antropologica
Anche se tutto è macchinato per prendere in trappola anche Gesù, la donna gli è comunque condotta a forza perché trovi in lui la sua condanna in nome di Dio.
Essa viene «fatta stare in piedi, nel mezzo» (8,3). In realtà essa è più che mai in catene ed in ginocchio e più che stare nel mezzo è «presa in mezzo». Presa in mezzo da chi l'ha colta e trascinata lì, dagli uomini che la attorniano, dalle maglie della loro interpretazione della Legge, forse prima anche dai due uomini della sua vicenda, il marito e l'amante; tra poco lo sarà dalle pietre. Per lei , la sua soggettività, il suo libero muoversi, la sua parola, i suoi sentimenti, la sua coscienza, la sua colpevolezza, il suo pentimento eventuale, non c'è nessuno spazio. Persino il suo trovarsi n, drammatico ed aperto ad un esito tragico, è solo un pretesto, una occasione per un' altra questione: quella appunto nei riguardi di Gesù.
Il movimento che vediamo svilupparsi, rivelatorio e salvifico, compie proprio questo prodigio. Alla fine, prodottosi il vuoto intorno, la donna è sola con Gesù, messa ora davvero «al centro», non più «posta» ma da se «stante» in piedi. Nella buona solitudine di questo vuoto essa è ora al centro della attenzione di Gesù, ed è in questo stesso movimento posta nel suo proprio centro, rimessa a contatto con il suo vero essere, con la sua sorgente divina. È sola con l'altro; quell'Altro radicale e altrettanto radicalmente interno, che offre e svela la relazione in cui e da cui ogni «se» è costituito. La donna qui è promossa e chiamata a specchiarsi al pari dell'uomo, faccia a faccia, in Dio. Sola con Dio, nel profondo, sorgivo spazio della propria identità e libertà. Come una nuova creazione, come una risurrezione. Essere una donna è, non meno e non diversamente da quanto accade per l'uomo, evento di libertà, di relazione col divino, garantite da uno spazio di inviolabile solitudine, fasciate dal vuoto della «occupazione» da parte del soggetto-uomo.
Dio dà, ridà alla donna il suo spazio, uno spazio in cui viene ristabilita la peculiare relazione tra lei e il divino. Al principio c'è questa relazione fontale che costituisce e non insidia la propria identità e libertà. La Legge viene ricollocata a questa fonte, riacquista qui il suo senso. Il «va' e non peccare più» non è l'aggiunta di un gravame, ma la dichiarazione di una liberazione; non un comando ma una assicurazione e una promessa; non un dovere ma il dono di una possibilità. «lo non ti condanno»: proprio per questo puoi ora non peccare più. E all'iniziale forzoso esser portata, corrisponde specularmente il liberante «va'».
Sullo sfondo remoto si sente una eco di quell'«alzati, amica mia» del Cantico dei cantici (2,10) che si conclude con un verbo, abitualmente tradotto con «e vieni!» ma che più propriamente si dovrebbe tradurre con «e va'!»: «va' verso te stessa» , come propone la traduzione di Andre Chouraqui.
La scrittura di Gesù
Il passaggio a questo punto d'arrivo comporta il farsi di un denso vuoto, operato dalla perentorietà delle parole di Gesù «chi è senza peccato...», contrapposte come la vera pietra della vera Legge, enfatizzate da quell'unicum enigmatico rappresentato da Gesù che scrive coI dito per terra, nella sabbia e che è un caso emblematico della irresolubilità, della «opacità per sovrabbondanza» del simbolo che «ci dà da pensare», secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur.
Gesù scrive col dito nella sabbia: per mostrare la sua estraneità a tutto il groviglio di presupposti che stava dietro la domanda-trappola; per prendere distanza da tutta la istruzione del processo, prima ancora che dalla sanguinosa conclusione propostagli! Queste e altre plausibili ipotesi si possono fare. Ad esse non è illecito far seguire, secondo il modello di interpretazione rabbinica della Scrittura, la sempre possibile «altra spiegazione». Nel nostro caso, una spiegazione che tiene conto della peculiarità della situazione e della funzione in essa di tale gesto. «L'unica volta che Gesù ha scritto, ha scritto nella sabbia!», si sono rammaricati non pochi: «Che peccato che si sia trattato di una scrittura così labile, e che non si sia neppure serbata memoria dei segni tracciati».
Ma la labilità della scrittura nella sabbia non è qui un elemento accidentale. È essenziale, invece. Gesù infatti non sta scrivendo ma, più propriamente, cancellando . Sta cancellando una immagine di Dio, una immagine della Legge, una immagine della colpa, della punizione, della giustizia, dei rapporti tra essere umano e altro essere umano e anche dei rapporti specifici tra uomo e donna. Sta cancellando su quella sabbia che sembra rappresentare simbolicamente, insieme, la polverizzazione della pietra e delle pietre da lui operata nello stesso gesto e la inconsistenza agli occhi di Dio di quelli che per gli occhi umani appaiono criteri di giudizio indiscussi, indiscutibili e solidi come la roccia.
Da un lato abbiamo la Legge scolpita nella pietra, pietra che - interpretata e applicata dal cuore umano - sta per essere usata per schiacciare Gesù così come per lapidare la donna. Dall'altro lato abbiamo la vivente incarnazione della parola divina, che spirava nella Legge, nella persona di Gesù. La scrittura di essa nella pietra è ora superata dalla scrittura nella carne e nella vita. Essa entra in contatto con la terra e l'umanità con delicatezza, rispetto, tenerezza. Con non più violenza e perentorietà di un lieve scrivere nella sabbia; ma quel dito che scrive umilmente e lievemente per terra, al tempo stesso, con quel gesto leggero, cancella tutto ciò che sembrava così duro, così potente, così invincibile, così definitivo, agganciato per sicurezza ad un malcompreso divino. Lo cancella con la forza del «dito di Dio» tale da ridurre in polvere con un solo tocco quella che sembrava una schiacciante montagna.
Quando Gesù ha finito di scrivere nella sabbia ha finito di cancellare le sbarre socioreligiose che imprigionavano la donna e insieme imprigionavano Dio in una immagine di tradizione fatta da uomini (cf Mc 7,8-13).
Gesù è chino, non si presenta agli aspiranti lapidatori. Quando essi si allontanano, Gesù «si alza», entra in colloquio con la donna, le si manifesta. E con ciò decide di rivelarsi a tutti gli aspiranti lapidatori di tutti i tempi come «colui che si è rivelato nell'incontro con la donna adultera». La finale rivelazione che viene offerta da accogliere include questo rapporto di Dio con la donna; con la donna presa nella duplice tenaglia del peccato, di quel peccato in specie, e della condanna.
Epilogo
La conclusione assomiglia al risveglio da un incubo. «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?»: il forzato trovarsi posta dinanzi a Gesù come ad un ultimo, definitivo giustiziere, viene trasformato nella grazia dell' incontro col Dio vivente, che fa svanire tutti i fantasmi oppressivi della «religione del maschio». Fa svanire con ciò anche il rischio di restare imprigionata nella mera ribellione a tale «religione del maschio», nell' atteggiamento reattivo, del pan per focaccia, che può essere una potente spinta, tra l'altro, anche all'adulterio, in concomitanza col motivo, a quell' epoca addirittura tipico, dell'assenza dell' amore nel matrimonio.
Invece della reattività coatta, la rivoluzione della libertà: «Va', e non peccare più».
Lieto fine? Fino ad un certo punto. Certo buona notizia, ma non senza contraddizione. Dove sarà mai potuta andare quella donna sfuggita alla morte? Sarebbe aspettativa «miracolistica» pensare che essa abbia poi potuto essere riaccolta dal marito (o accolta nella casa dello sposo: se, come è verosimile, l'adulterio era avvenuto nel tempo tra la conclusione degli sponsali e l'inizio della coabitazione) che restava per allora la modalità d'essere accettata nella vita sociale e nella comunità religiosa.
No, la sua vita era segnata, cambiata per sempre. Quella non era stata una rianimazione, una rivivificazione, ma una vera risurrezione. Quella donna era stata restituita a se stessa oltre una morte. Non più alla stessa vita di prima, in nessun senso. E, come sempre, non solo per se stessa era stata salvata, non solo per se stessa viveva, non solo per lei era quella grazia. Dove sia andata coi suoi piedi di carne, come sia vissuta non ci è dato immaginare. Ma il «va' » rivoltole ha tutta la pregnanza di un ben diverso invito. Al di là dei successivi accadimenti della sua vita, da quel momento in poi la sua vicenda e figura stanno andando: a portare questo sconvolgente annuncio su Dio. Buon e salvifico annuncio destinato in primo luogo a quanti allora lasciarono cadere le pietre.
La comunità credente certamente l'ha accettata, anche se ha fatto fatica a lasciarla andare troppo liberamente in giro portando con se un simile evangelo, non sapeva bene dove collocarla, ha dovuto trovarle un posticino di risulta, come ci istruiscono le vicende testuali della pericope. E forse, pur consentendo a lei di circolare, non ha però fatto circolare dentro di sé tutta la portata di questa rivelazione di Dio. Ma essa non cessa di venirci incontro dal Vangelo secondo Giovanni , con la mitezza della potenza del «dito di Dio» leggero sulla sabbia, con la grazia spaurita dei sandali di quella donna, che su quella sabbia si muovono andando a portare tale annuncio di pace.
di Clementina Mazzucco
La donna ha tratto vantaggio o svantaggio dall'avvento del cristianesimo? La risposta non è affatto scontata e ancora oggi suscita discussioni.
Per tentare un approccio critico e storico alla questione dobbiamo innanzitutto tener conto del contesto sociale e culturale in cui il cristianesimo nasce e si diffonde. Il mondo greco e romano è dominato da una pesante struttura patriarcale che esclude la donna dagli affari pubblici e dall'istruzione, la rinchiude in casa, la tiene sotto tutela, non le concede parità nel diritto e neanche nel matrimonio (ad esempio, di fronte all'adulterio e al divorzio). Fenomeni di emancipazione che si verificano in età ellenistica (per il mondo greco) e sotto l'impero (nel mondo romano) restano limitati ad alcune sfere sociali e non incidono sostanzialmente sulle istituzioni e sulla mentalità: la misoginia non l'hanno certo inventata i Padri della Chiesa, ma ha alle spalle una tradizione molto antica e costante.
L’atteggiamento di Gesù, quale ci viene trasmesso dai Vangeli, spicca, su questo sfondo, perché risulta in forte contrasto col costume e con la cultura del tempo, anche con la tradizione religiosa ebraica, che, in più, faceva gravare sulla donna tutta una serie di pregiudizi derivanti dalle norme di purità. Gesù mostra di riconoscere l'uguaglianza dei sessi nel matrimonio, non considera l'adulterio colpa infamante solo per la parte femminile, non relega la donna al ruolo domestico (come si evince dall'episodio di Marta e Maria), non esalta la donna, neppure sua madre, esclusivamente in quanto madre, non rifiuta di avere donne come interlocutrici e discepole e affida ad alcune (la Samaritana, Maria, ecc.) messaggi fondamentali: addirittura a un gruppo di loro dà il compito di testimoniare, per prime, la sua risurrezione.
Rispetto alla posizione di Gesù la tradizione cristiana successiva (ma già i discepoli stessi) mostra qualche difficoltà di comprensione e accettazione, col risultato che si assiste ad orientamenti contraddittori. Già in Paolo riconosciamo questa duplicità: accanto ad affermazioni molto nette a favore dell'uguaglianza tra maschio e femmina e della parità tra marito e moglie, troviamo nelle sue lettere (sue o attribuite a lui) precetti che suonano discriminanti e mortificanti per la donna (l'imposizione del velo e del silenzio in chiesa, l'invito alla sottomissione della moglie al marito, ecc.). E nella prima lettera di Pietro si riaffaccia il vieto pregiudizio della naturale debolezza femminile.
È un fatto che soprattutto le affermazioni paoline negative (insieme ai princìpi diffusi nell'ambiente) eserciteranno influenza sugli intellettuali e pastori cristiani: sarà sempre più frequentemente ripetuta l'opinione che alle donne non spetta di insegnare, specialmente insegnare a uomini, che le donne non possono battezzare né svolgere ministeri ecclesiastici negli ordini sacri, che la moglie deve obbedienza al marito, e così via. D'altra parte, però, i Padri non potranno neppure dimenticare che, sul piano etico e spirituale, ma non solo, i due sessi erano stati riconosciuti perfettamente uguali, in Cristo, e non mancheranno di ricordarlo. Il tema della parità tra marito e moglie nei confronti dell'obbligo della fedeltà coniugale, dell'adulterio, del ripudio, tema che rappresenta un'assoluta novità rispetto alle consuetudini della società pagana, diventa un luogo comune nei loro scritti e un obiettivo vigorosamente difeso contro le sempre rinascenti tendenze maschiliste dei mariti, anche dei mariti cristiani.
Non di rado l'atteggiamento critico di molti Padri è intensificato dalla polemica contro alcuni movimenti ereticali, nei quali le donne avevano invece ruoli rilevanti, arrivando a ricoprire incarichi missionari e a celebrare i sacramenti. Tuttavia si può ammettere che in generale il fenomeno di una consistente e vivace presenza femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli è molto più ampio di quanto le fonti stesse, tutte o quasi tutte «di parte maschile», mostrino esplicitamente. E si può ipotizzare che le reazioni sempre più restrittive da parte della gerarchia ecclesiastica fossero provocate da quella che appariva una sorta di «invadenza» femminile. Del resto, non erano solo le autorità maschili cristiane a sentirsene preoccupate: anche gli avversari pagani ne avevano una forte impressione e, per denigrare la fede cristiana, ne parlavano sarcasticamente come di una religione «di donnette». Donnette che non dovevano svolgere solo compiti subordinati e passivi se Porfirio, un filosofo pagano della seconda metà del III secolo, ironizzava sul «dominio» che matrone e donne esercitavano di fatto nella Chiesa influendo perfino sulle nomine sacerdotali.
In effetti, gli indizi, spesso indiretti e secondari, che si possono raccogliere dalla documentazione pervenuta, mostrano che il cristianesimo, soprattutto quello dei primi tre secoli, ha offerto alle donne una grande occasione per prendere coscienza di se come persone pari in dignità agli uomini, per ricoprire ruoli nuovi e impegnativi e per modificare profondamente anche i ruoli tradizionali.
Già le comunità paoline conoscono donne profetesse, donne diacono, donne apostole, anche se per lo più non è facile capire quali fossero le funzioni attribuite alle varie cariche. E, se rimane sporadica la menzione di una donna «apostolo« (ma sono numerose le figure femminili che «collaborano» in modo significativo alla missione di apostoli, come chiaramente fa capire Paolo), di profetesse si ha notizia anche in seguito e diaconesse erano istituite sicuramente nel III e IV secolo, almeno in Oriente. Nelle lettere più tarde del Nuovo Testamento e in scritti patristici successivi si segnala la costituzione di un ordine di vedove con prerogative e mansioni di grande rilievo nella comunità, tanto da essere messe talora sullo stesso piano dei vescovi. Quasi subito anche la scelta della verginità divenne un elemento di distinzione e di prestigio, che poi crebbe sempre di più arrivando a prevalere sul ruolo delle vedove, a partire soprattutto dal IV secolo. E si vede bene che sono soprattutto le donne a fare questa scelta, una scelta che conferiva autorevolezza, libertà e spesso una vera e propria forma di emancipazione (autonomia decisionale, disponibilità finanziarie, possibilità di dedicarsi agli studi, ad attività sociali, ecc.). La stessa cosa avveniva per le vedove, talora oggetto di brusche reprimende e imposizioni per i presunti abusi della loro condizione. Sia nel caso della vedovanza sia della verginità, così come si configurano nel mondo cristiano, si tratta di istituzioni che erano sconosciute alle società pagana ed ebraica.
Ma è soprattutto la letteratura martirologica che mostra la grande rivoluzione in senso egualitario che doveva essersi realizzata nelle prime comunità cristiane: in questi documenti, che si presentano come prodotti delle comunità stesse, la presenza femminile tra i cristiani che vengono arrestati, confessano la loro fede, subiscono torture e vengono giustiziati, è un fenomeno comune che suscita stupore solo da parte degli spettatori e torturatori pagani. Talora, anzi, alcune figure di donne svolgono ruoli da protagoniste, ne si tratta solo di persone di condizione sociale elevata: a Cartagine, accanto a Perpetua, giovane madre di buona famiglia, c'è l'umile Felicita; a Lione, ad accentrare su di se tutti gli sguardi è la schiava Blandina. E non sembra possa essere un caso che, proprio nel contesto del cristianesimo primitivo e dell'esperienza del martirio sia nato uno dei carissimi documenti scritti da mano di donna che l'antichità ci abbia trasmesso: è il diario redatto da Perpetua in carcere poco dopo il 200 e poi fatto inserire dalla comunità all'interno del racconto del suo martirio, destinato ad essere diffuso in tutta la Chiesa. Ancora lei IV e nel V secolo, in Africa, veniva letto e commentato nelle assemblee liturgiche.
Ma anche all'interno della famiglia l'adesione delle donne alla fede cristiana non è senza conseguenze rinnovatrici. Fin dagli inizi (già con Paolo) si ha il problema dei matrimoni misti perché sono specialmente, e in misura maggiore, le mogli a convertirsi; anche in seguito sono spesso le donne le più mature e impegnate sul piano morale e religioso e quelle che esercitano la più forte influenza sull'educazione religiosa dei figli. Questo fatto produce profonde incrinature nelle inveterate teorie di una obbligatoria e naturale sottomissione della moglie al marito, di un ruolo femminile concentrato nella generazione di figli e nell'amministrazione della casa. Pur restando prevalenti i compiti domestici e familiari, è altamente valutato il ruolo di educatrice, nei confronti dei figli, e di collaboratrice, nei confronti del marito, anche sul piano morale e spirituale, e in più le viene aperto tutto un ampio settore di attività caritativa ed assistenziale al di fuori della famiglia. Per la donna cristiana, anche per la donna sposata, non può più essere il massimo elogio quello che fu inciso su un epitafio per una matrona romana:
«Domi mansit, lanam fecit, rimase a casa, lavorò la lana ».
Quando usiamo il termine «Dio» bisogna sempre chiedersi a quali immagini facciamo riferimento. Ad una proiezione – che abbiamo interiorizzato – della figura paterna? All’Essere perfettissimo? Al motore immobile? All’essere parminedeo, uno, eterno, immutabile?
di Don Marino Qualizza
a) Immacolata concezione
b) Maternità divina
c) Verginità perpetua
d) Assunzione nella gloria
Forse coloro che scrivono poesie anonime sui muri delle nostre città sono accattoni con una vena poetica.
Il preconcetto sociale c'induce a non distinguere tra raccoglitori di rifiuti riciclabili, mendicanti e ladri. Tendiamo a guardare ai primi due come potenziali terzi. In verità, il ladro ruba, il mendicante chiede la carità, il raccoglitore di rifiuti lavora.
di Luciano Manicardi
Imitazione della misericordia divina.
Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò (Gb 1,21)
La vita umana si svolge tra due nudità: quella dell’inizio della vita e quella della fine della vita. Due nudità differenti perché nel mezzo avviene il processo di soggettivazione: se si nasce nudi, alla fine della vita ci si spoglia. Ovviamente si tratta di un processo fisico che ha a che fare con la nudità del neonato e la nudità del morto, ma ha anche una valenza psicologica e simbolica: alla fine della vita si abbandona ciò a cui ci si era attaccati, si smette ciò a cui si era abituati, si elabora un lutto. In questo processo la carne che il neonato è, diviene corpo, e il corpo, con la morte, diviene cadavere. E la nudità del neonato e del cadavere è sempre rivestita da altri, mentre nella fase della soggettività l’uomo veste se stesso, tranne nei casi di impossibilità dovuti a malattia o handicap.
Quali sono allora le cause principali della felicità e della sofferenza? Noi buddhisti crediamo nella legge di causa ed effetto, il karma. Qualsiasi esperienza abbiamo, esterna od interna, dipende dall'accumulazione di impronte di azioni fatte in vite precedenti.
di Raimundo Panikkar
L'incontro delle tradizioni religiose dell'umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante.
Ripeto, è inevitabile. Lo splendido isolamento dei vedantisti, dei cattolici, dei cristiani, di quelli che stanno dentro la muraglia cinese non è più possibile; l'incontro avviene già a casa nostra.
Alcuni paesi o civiltà come l'India sono sempre stati un mosaico di religioni, ma anche l'India ha creato le sue caste, caste religiose, per non contaminarsi gli uni con gli altri e da parecchi secoli spesso i cristiani hanno vissuto accanto agli indù senza avere nessun rapporto più profondo. L'Occidente ha vissuto con una certa ossessione dell'Islam durante alcuni secoli, ma poi si è accomodato in uno splendido isolamento, al punto che è stato necessario che venissero fuori i protestanti, perché altrimenti i cattolici da soli si sarebbero annoiati troppo.
L'incontro è inevitabile, ma ho detto che è importante, perché non è un incontro casuale; dal risultato di questo incontro dipende il futuro dell'umanità, che si verifichi una nuova guerra, una guerra religiosa; le guerre sono sempre più o meno religiose, perché si tratta di vita o di morte e non c'è altro modo di risolvere il problema; la definizione fenomenologica della religione: un problema ultimo.
L'incontro è così importante che il futuro dell'umanità dipende non dal capriccio di un politico o di un altro, ma dal clima che si è creato, che renda possibile che i politici in seguito ne siano influenzati.
Se le tradizioni religiose del mondo - e per tradizione religiosa intendo non soltanto quelle che hanno l'etichetta di religione, ma anche il marxismo, l'umanesimo, - non trovano in questo incontro un qualche cosa di positivo, l'umanità è condannata a sparire, i popoli a distruggersi a vicenda.
L'incontro è importante, non è un lusso, ma è anche urgente. Il culmine della saggezza in certo senso, anche in quello più volgare. consiste nel sa-per combinare l'urgenza della cosa con la sua importanza. Ci sono cose molto urgenti, ma non importanti, mentre al contrario, ci sono cose molto importanti, ma non tanto urgenti. A volte dimentichiamo le cose importanti e facciamo soltanto quelle urgenti, rovinando così la nostra vita; altre volte cerchiamo soltanto l'importante, senza accorgerci che questa cosa importante è rovinata perché quella urgente è già avvenuta e tutto è finito. La saggezza personale di ogni individuo consiste precisamente nel combinare l’urgente con l'importante. E urgente perché non c'è molto tempo. Non siamo preparati, dunque dobbiamo prepararci. L'incontro fra le religioni è confusionale. Io prima sapevo dove sono stato e adesso... sono confuso; chi non si sente confuso vuol dire che non ha capito, vuol dire che è superficiale, vuol dire che non gli importa niente di niente. Dunque anche la confusione fa parte del cammino, perché poi questa confusione è tanto più profonda in quanto tocca i pilastri stessi della nostra sicurezza. Abbiamo sentito una delle frasi più belle di Sartori, che se uno non muore alla sua fede non è degno della sua fede. E tutte le nostre sicurezze? Questa grande ossessione post-cartesiana dell'umanità, che fa sì che si cominci con la certezza e si finisca con la sicurezza, che si cominci con la certezza epistemologica e si finisca con la sicurezza politica delle armi?
È dunque confusionale questo incontro e lo deve essere; inoltre è rischioso. E rischioso perché quello che io metto in gioco è la mia fede, è la mia vita, è tutto quello che io penso sia la verità, è la cosa più importante e più centrale di tutta la mia esistenza, è quello che finora non si toccava. E rischioso, detto in linguaggio storico religioso, perché tocca il tabù. Come dice Avinava Gupta e dopo di lui Giovanni della Croce, (gli estremi si toccano) c'è un momento dove non c'è sentiero: anupaya, y en la fin no hay camino. Una in sanscrito, l'altra in spagnolo, ma vogliono dire la stessa cosa. E dunque rischioso. E rischioso, perché là dove non c'è un sentiero c'è pericolo.
Ultimo, è purificante. Forse proprio oggigiorno che siamo così sofisticati con la psicologia e con tante altre cose, questo incontro è l'unica scuola di vera umiltà. L'umiltà specifica che da solo non ce la faccio, che non sono autosufficiente, che non so tutto, che quel poco che sapevo e ritenevo che fosse certo, nemmeno questo lo è. E purificante, perché ci fa vedere nello stesso tempo i nostri errori personali e quelli del passato. E purificante, perché non giustifica che io mi lavi le mani perché durante le crociate io non c'ero, e quindi la mia visione personale, fantastica, del Cristianesimo va molto bene, ma non vuol sapere niente di altre pagine nere. E l'Induismo, il Buddhismo, per limitarmi a queste tre religioni, hanno anche loro le pagine nere. Se io fossi unjaìna, e lo sono un po' quasi onorariamente vi potrei parlare delle persecuzioni indù ai jaina. Quindi nessuno ha il diritto di scagliare la pietra su nessuno. E una purificazione collettiva, che riguarda i buoni, i cattivi, i giusti, tutti quanti. Sostengo dunque, come introduzione, che l'incontro fra le religioni ha queste caratteristiche.
le catture
Ma veniamo al tema le catture. La mia riflessione è che noi ci dobbiamo liberare, e liberazione vuol dire nirvana, vuol dire moksha, vuol dire soteria, vuol dire anche teologia della liberazione, se volete. Ci dobbiamo liberare dalle possibili catture che ci tengono o ci possono tenere prigionieri durante questo pellegrinaggio verso il futuro, perché mi si chiede che parli del futuro senza catture. Io preferirei questa volta disubbidire, soltanto parzialmente, e sognare un momento con voi, un presente senza catture. Se riesco a spezzare alcune di queste catture per il presente, avrò fatto - penso - il migliore servizio per il futuro.
Io ne vedo troppe di catture, ma ne vorrei segnalare quattro.
La prima ci viene dal di dentro, dalle nostre reazioni viscerali, da ciò che non è stato mai sognato, mai pensato, che è stato giudicato impossibile e quindi costituisce una specie di resistenza passiva, incosciente la maggior parte delle volte. Esiste un'inerzia dello spirito, favorita da tutta la parte pesante del nostro essere, dal costume, dalle consuetudini. Si dovrebbe e si potrebbe fare una psicoanalisi di questa nostra inerzia, che non è formulata, perché non è nemmeno cosciente, ma che è normale; là si fa così, ma qui si fa in questo modo e basta. Dobbiamo superare questa reazione viscerale.
le idee comandano?
La seconda cattura è ancora più forte. Se fossi in sede accademica direi che ci tiene prigionieri da Parmenide in poi. Siamo prigionieri del pensiero. Le idee comandano e ci dominano. E la prova più straordinaria che il pensiero è così potente, è che io calcolando con numeri irrazionali e facendo pura matematica costruisco un ponte e il ponte sta in piedi. In Occidente - e questo è il grande miracolo, se diabolico o divino, lo lascio da parte adesso - il pensiero ha dominato l'essere. Forse, però, siamo diventati schiavi dei nostri pensieri, dei nostri schemi intellettuali. Detto in un'altra forma, il logos ci domina. Già da principio i Padri greci avevano capito che c'era pericolo in Occidente, del cosiddetto subordinazionismo, cioè di subordinare nel fare teologia lo Spirito al logos e che il logos fosse tutto; mentre lo Spirito soffia non soltanto dove vuole, ma anche come vuole.
L'esempio più chiaro è la prigione dell'ortodossia. Io non ho niente contro l'ortodossia, dico soltanto che è una prigione, anche se alcuni la trovano confortevole perché si trovano sicuri. E interessante vedere questa specie di degradazione dall' ebraico, al greco, alle lingue che già i latini chiamavano volgari, de] termine kabot, la gloria del Signore, doxa, la potenza della gloria e doxa, la ortodossia, che ha molte poco di questa rifulgenza, di queste lume, di questa luminosità interna che si è convertita in schemi chiari precisi, distinti, cartesiani, sicuri forse certi, dentro un certo limite. Ci si è dimenticati che anche grandi pensatori, come il divus Thomas, sostennero che l'atto di fede non consiste nei dogmi, negli enunziati, ma punta direttamente alla cosa e che i dogmi sono soltanto canali per arrivare a quella, come nella metafora orientale in cui è il dito che punta la luna; se tu non guardi il dito, non vedrai la direzione della luna, ma se pensi che la luna stia nel dito, allora ti sbagli. Quindi, una volta che hai visto il dito, lo devi dimenticare.
Tutte le spiritualità, quando arrivano alla ultima formulazione forte, hanno una omogeneità straordinaria. Dice il Mahayana: «Se vedi il Buddha, uccidilo», perché quello che era il tuo aiuto per arrivarci, può dIventare il tuo ostacolo. Dopo Emmaus, penso che i cristiani possano egualmente dire: «Se vedi il Cristo, mangialo, non chiuderlo sotto chiave in qualche parte; fallo tuo, mangialo».
Le dottrine sono necessarie. La dottrina è una cosa straordinaria. Viviamo tutti in una società di consumo sulle dottrine, ma la dottrina non è la vita, lo scheletro non è l'individuo. Io non ho niente contro le dottrine, critico soltanto l'assolutizzazione delle dottrine e la confusione tra dottrina e realtà.
la contingenza delle culture
C'è un'altra cattura più sottile ancora, perché meno cosciente. La parola che forse la può descrivere meglio sarebbe l'ambiente, mentre il termine più appropriato sarebbe la cultura. Tutti quanti noi ci muoviamo dentro un ambiente, dentro una cultura. Abbiamo delle limitatezze che sono necessarie, di cui non possiamo far a meno; tutti noi siamo radicati dentro una cultura.
Un esempio banale, ma almeno chiaro: quando io ho cominciato a parlare, sicuramente tutti quanti di voi avete percepito che io parlavo con un accento piuttosto strano. La mia cattura dell'ambiente, non può essere vinta dicendo: «Beh, io non mi lascio imprigionare!». Ma soltanto essendo consapevole che io sono dentro un ambiente, che sto dentro una cultura, che sono contingente, limitato, che la mia visione non esaurisce l'esperienza umana, che io non posso in nessuna maniera avere la pretesa che le mie parole, le mie verità, le mie idee, le mie rappresentazioni, siano la totalità, che il mio mondo sia il mondo, la verità, l'ambiente, la realtà. Esse sono tinte del mio accento, delle mie limitatezze, della mia contingenza, della mia cultura, della mia forma di vedere, di tutto. Dobbiamo precisamente dire: «Sì, sto dentro un ambiente e questa è la mia condizione, questa è la condizione umana». Questa stessa pretesa d'universalità, di neutralità è ovviamente un'allucinazione possibile soltanto a colui che non ha avuto il correttivo dell'altro.
Perciò la quarta cattura è quasi il rovescio. Volendo uscire dal mio ambiente, volendo uscire dalle mie limitazioni, finisco per lasciarmi condizionare dall'ambiente e dalle limitazioni degli altri. Quindi parlo per gli altri, mi lascio alienare, in certo qual modo, da quello che penso sia il mio ruolo, (c'è un ruolo che consiste nel fare un po' il teatro). Non dimentichiamolo: il giansenismo, il manicheismo ci sono dappertutto. E in questo campo possono chiamarsi xenofobia come xenofilia, possono voler dire che tutto quello che viene da fuori dell'Italia è migliore o che soltanto noi cattolici o noi italiani siamo i migliori del mondo. Quello che dobbiamo realizzare non è un esercizio di pensiero, non è un esercizio di filosofia, di teologia, di acutezza, non è un esercizio di carità, (la tentazione di fare del bene è molto sottile, ma già Cristo ci ha avvertito: «lascia che le pietre rimangono pietre e non volerle convertire in pane»). Dentro la tradizione cristiana, (non l'indiana, perché qui la parola sarebbe molto diversa) si potrebbe dire che è una questione di santità, di purezza di cuore, di audacia, di libertà di spirito, di docilità alla grazia. E una questione che abbiamo avuto l'audacia di toccare sia l'anno scorso che quest'anno, e richiesta in maniera esigente di una donazione totale, di una docilità assoluta, una purezza trasparente. Diceva la Ung Ciung... «soltanto la sincerità più pura, soltanto la purezza più trasparente può effettuare un cambiamento». Qualsiasi cosa che venga da un cuore totalmente trasparente, da una intenzione completamente irriflessa, senza che nessun'altra cosa l'accompagni, può effettuare un mutamento.
Lasciate che vi racconti questa piccola storia di Bapuji Gandhi. Una buona donnetta del suo asram Damedavat che lo vedeva di tanto in tanto, un giorno va, tocca i piedi di Bapuji e gli dice: «Bapuji, dite alla mia ragazzina, (aveva una ragazzina di otto dieci anni) che non mangi tanti dolcini che le rovinano lo stomaco, che sia un po' più buona e che mi ascolti. Diteglielo per favore!». Gandhi non rispose niente, sorrise, lei capì e se ne andò senza dire altro. Settimane più tardi lo trovò un'altra volta e allora la donna, che non aveva più questo desiderio di far del bene a sua figlia, disse: «Bapuji per curiosità, perché non mi avete risposto quando vi ho fatto quella richiesta per mia figlia?» e Gandhi le rispose: «Sai, in quel tempo piacevano anche a me un po' troppo i dolci» e quindi le sue parole non avrebbero avuto nessun senso, nessun effetto. Soltanto la più pura sincerità, la più totale trasparenza può effettuare il minimo cambiamento, dice la saggezza cinese. Questo è il corollario: non si tratta di una buona teologia, si tratta di un'altra cosa; questo è il Kairòs, questa è la sfida.
l'avventura della fedeltà
Il primo problema è teologico. Intendo anzitutto teologico nel senso tradizionale della parola, cioè che implica santità, fedeltà E qui vorrei essere molto chiaro. Non si tratta in alcun modo di diluire, debilitare la propria convinzione, la propria fede, la propria religione; non si tratta di cercare un comune denominatore facendo concessioni qua e là, a motivo della pace, dell'ecumenismo, della convenienza, della tolleranza tra i popoli. Non si tratta dunque dì creare una specie di ecumenismo alla bière, come io lo chiamo parlando con gli ecumenisti francesi. Dinanzi a un bicchiere di birra tutti quanti siamo ecumenici. E il problema che mi sta a cuore non è domandare un'apostasia; non è che io diluisca le mie convinzioni e che a motivo degli altri sia traditore, cerchi un comune denominatore e voglia fare dei compromessi. Non si tratta, per ripetere le parole di Paolo, di svuotare lo scandalo della croce, di essere meno cristiani per essere più ecumenici; si tratterebbe, semmai, di essere migliori cristiani per essere migliori ecumenisti. Il dialogo non è un segno di insicurezza, ma è un segno di maturità e soprattutto di assenza di paura. Se vado al dialogo con paura, tutto quello che ho paura di perdere è bene che lo perda quanto prima, perché allora sarò liberato dalla paura. Tutto quello che può morire muoia quanto prima e più presto verrà la risurrezione. Quindi il problema teologico consiste nel non minimizzare le differenze, non evitare i problemi scottanti imbarazzanti, ma nel penetrarli più dal di dentro e dì compiere quello che io posso.
Lasciatemi qui stabilire tre punti fermi che prendo da: 1° Timoteo, 2° Timotero, e 3°, tutta l'epistola agli Ebrei e ai Romani, tre punti fermi garantiti dalla stessa Scrittura fondamentale del cristianesimo. «Deus vult omnes homines salvos fieri, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino»: questo dicono i cristiani ripetendo la loro Scrittura. Dunque, se Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e questa non è una velleità divina, questo stesso Dio, parlo il linguaggio cristiano tradizionale, deve concedere agli uomini dei mezzi di salvezza che siano alla loro portata di mano. E quello che sta a portata di mano di tutti gli uomini sono precisamente le tradizioni religiose. Quindi le religioni dell'umanità sono i mezzi ordinari voluti da Dio per la salvezza degli uomini; sto facendo teologia cristiana. Ogni autentica religione è cammino di salvezza, e prima già ho detto che io non limitavo il nome di religione a quelle che ne hanno l'etichetta, che in fondo sono soltanto le religioni abramiche, perché né il Buddhismo né l'Induismo sono contente se le chiamano religioni. Non possono «religare» niente, è tutto un altro universo di discorso; comunque possiamo utilizzare questa parola, se gli indù e i buddhisti l'ammettono, perché la utilizziamo tra virgolette. Questo è così pacifico - non voglio fare qui autobiografia – che anche il Concilio l'ha accettato.Seconda, e forse il più difficile di questi punti fermi. «Unus mediator, un unico mediatore» dice anche l'epistola a Tito. Sì, i cristiani non possono fare a meno di credere che c e un unico e solo mediatore. Se rinunciano a questa intuizione per motivi di ecumenismo tradiscono venti secoli di tradizione cristiana. Da parte mia credo che c'è soltanto un unico mediatore (con questo mi rendo più vulnerabile, se volete), che c'è Cristo e soltanto Cristo come simbolo per i cristiani, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che è l'alfa, l'omega, il ricapitolatore di tutto l'universo, il monoghenés, il protoghenés, il primogenito, l'unigenito, la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, colui per cui tutte le cose sono state create, in cui tutto risiede, consta e ha la sua forza, in modo tale che io filosoficamente direi che l'essere è una cristofania. Quindi, ci credo. Continuo però dicendo che: 1°) Il Cristo, (vi faccio questo riassunto neotestamentario assai rapido) non è identico a Gesù. Gesù è il Cristo e chi dice questo credendoci è un cristiano, ma Cristo, pur essendo Gesù, è molto di più, (il «più» qui non va) e non si può identificare con Gesù. L'eucarestia per il 90% dei cristiani è il Cristo, ma nella eucarestia non si mangiano le proteine di Gesù di Nazaret. «Lo avete fatto a me», ho commentato prima. Gesù è morto, quello che è risorto è il Cristo, che è un'altra cosa; che è la stessa da un certo punto di vista, ma che non si può identificare. 2°)1 cristiani non hanno il monopolio di Cristo. 3°) I cristiani non conoscono del mistero di Cristo che una piccolissima parte, non lo possono manipolare per i propri fini, questo Cristo li trascende totalmente; il Cristo ha altre dimensioni, aspetti, forme, di cui i cristiani non sanno assolutamente niente, non sono loro i padroni di Cristo, loro conoscono del Cristo qualcosa che per loro è essenziale, che per loro è centrale, ma questo Cristo-Mistero trascende da tutte le parti quello che i cristiani pensano, credono in Cristo. Perciò io mi per-metto di dire che il Cristo, in questo terzo senso, è nascosto, sconosciuto, presente e effettivo in ogni autentica religione.
Quindi il mistero di Cristo è mistero di Cristo e, se noi utilizziamo la parola nel suo senso reale, non possiamo in alcun modo pretendere di avere conoscenza, manipolazione di questo mistero.
Qui c'è una cosa che io ho chiamato «pars pro toto effecto». Ciascuno di noi vede il mondo da una finestra e non può non vederlo che da una finestra e quanto più trasparente e bella è la finestra meno si vede, meno consapevoli siamo di vedere attraverso la nostra finestra. E noi vediamo tutto il mondo, tutto. Io non sarei cristiano se pensassi di appartenere ad una piccola setta che esiste soltanto da due millenni; io non voglio appartenere a nessuna setta, io non voglio consacrare la mia vita soltanto a una cosa che è avvenuta duemila anni fa, quando l'umanità esisteva per lo meno da mille anni prima e aveva fatto tante cose belle... No, la mia appartenenza al Cristianesimo non è l'appartenenza settaria a una forma; io riconosco le mie limitatezze e so che non posso fare a meno di dire che per me il Cristo è il simbolo di questo, che gli altri chiamano con altro nome, che vedono in modo diverso, che ha anche dimensioni per me completamente sconosciute e per me anche inaccettabili dal mio punto di vista. È il «pars pro toto effecto». Io vedo il totum in parte e ho bisogno dell'altro per dirmi che sto guardando attraverso l'apertura di una finestra, perché io non la vedo; quanto più la finestra è pura finestra tanto meno è visibile, ma qui», e io gli dirò: «Anche tu». Ebbene, noi due vediamo la stessa cosa, non vediamo due punti diversi. La mentalità scientifica ci ha contagiato in modo tale che tante volte l'ecumenismo consiste nel dire: Beh, qui c'è il grande dolce, facciamo una parte per te, una parte per me, la mia è un po' più grande della tua, è un po' superiore, ma tutti insieme facciamo la torta. Non è una torta. Io non mi accontento di avere una parte di torta, io la voglio tutta, ma la voglio tutta con la mia limitatezza. Quindi, vedete, non si tratta di un po' plus bon marché, di fare un cristianesimo più facile; al contrario, «unus mediator». Il cristiano cesserebbe di essere cristiano, se non pensasse che nel Cristo sta tutta la pienezza, la ricchezza della divinità, ma questo mi trascende; perciò qualsiasi discorso cristiano, ecumenista, che taccia sul Cristo evita il problema. Quello di cui c'è bisogno è una cristologia umile e perciò capace di non voler essere né universale né onnicomprensiva, ma non per questo cessa d'essere la mia visione. I cristiani non possono fare a meno di dire che questo Cristo loro lo hanno tutto, nella loro forma, nella loro limitatezza. Le mie premesse adesso si capiscono forse meglio.
Ho detto che non volevo parlare troppo di questo excursus teologico. La terza grande verità, che non sarebbe solo cristiana, ma anche di tante altre religioni: sola fides. La salvezza non è un atto automatico, un happy end e quindi è necessaria la fede. E questa la dottrina cristiana; senza fede uno non si può salvare, senza entrare ora nel merito di cosa sia la salvezza. Se noi manteniamo questi tre punti penso che anche il teologo più esigente non può dire che nell'incontro delle religioni si faccia un eclettismo più o meno superficiale. Devo subito aggiungere che quando dico fede, dico fede, non credenza, non l'articolazione della fede secondo un linguaggio, secondo una cultura, secondo una prospettiva, secondo «una finestra». Gli articoli di fede non sono la fede, sono quel bagaglio dì cui c'è bisogno perché io possa, come essere intelligente e intellettuale, più o meno formulare una cosa che mi permetterà poi dì saltare in una realtà che non ha formulazione possibile. Anzi, io direi - e qui non lo sviluppo da un punto di vista esclusivamente teologico, cattolico, apostolico, tridentino - che la fede non ha oggetto; sarebbe idolatria. La fede è una dimensione costitutiva dell'uomo, la fede è la capacità di essere aperto, di essere non-finito, infinito, di più, d'essere capace di trasformarmi, di crescere e, che io sappia, questa capacità dì «più» tutta la tradizione cristiana l'ha chiamata theosis, la divinizzazione dell'essere e dell'essere umano, io direi di tutte le cose. Quindi la fede è necessaria, ma la fede non sono le mie idee sulla fede o il mio articolo di fede o tutto il mio credo. Il mio credo è là dove io deposito il mio cuore, che è quello che la parola credo vuol dire: credo, cardia, in sanscrito stradda, la donazione del mio cuore. Ma devo esser breve, quindi passo al secondo punto dei tre problemi fondamentali. Il primo problema fondamentale, ripeto, è il problema teologico nel suo doppio versante di santità, di fedeltà e di elaborazione intellettuale, per poter esprimere il più correttamente possibile questo mistero. In questo caso di una religione che, essendo concreta, si apre a tutto il possibile.
Il secondo problema è il problema ermeneutico. Ermeneutico è una di queste parolacce che i teologi, i filosofi inventano e che vuol dire interpretazione. Io devo saper interpreta-re le altre tradizioni religiose, devo saper interpretare cosa è l’induismo, cosa è il Buddhismo o cosa sono gli altri. Il metodo ermeneutico non può essere mai a senso unico; cioè a me piacèrebbe sapere come se la cavano questi indù, buddhisti in queste cose, ma non sono disposto a che loro mi facciano la stessa domanda. Se l'incontro delle religioni non si fa sempre a doppio senso, non è un vero incontro. Seconda regola ermeneutica: non posso fare la caricatura d'una religione e confrontare l'inquisizione, le crociate, le guerre di religione con il dammapala, le Upanishad, la mia grande filosofia indiana; o non posso mettere a confronto le superstizioni e tutte quelle cose che capitano nel Gange e il sermone della montagna, la purezza del Vangelo... Non si può fare la caricatura dell'uno e confrontare aspetti eterogenei. Se vogliamo confrontare la superstizione confrontiamo la superstizione, se vogliamo confrontare una cosa buona, facciamolo con un'altra cosa buona.
C'è un malinteso direi quasi costitutivo nell'interpretazione vicendevole delle tradizioni religiose. I cattolici hanno interpretato i poveri indù, cominciando col dar loro un nome che non avevano; l’Induismo è stato un'etichetta che hanno dato loro, ma loro non si chiamavano indù, erano molto contenti senza questo nome. Io direi che più del 90% di tutti i libri scritti in Occidente sulle religioni dell'Asia fanno una descrizione inadeguata e, se ne volete la conferma, provate a leggere qualcosa che alcuni indù o alcuni buddhisti hanno scritto sul Cristianesimo: sì, dicono delle cose vere, ma non capiscono. È chiaro, perché qui sta il grande problema ermeneutico: non si può capire una religione soltanto dal di fuori, non si può capire una cosa, se allo stesso tempo uno non è convinto che quello che capisce è verità. Non posso capire qualsiasi cosa dell'ordine della fede, se io non credo in certo qual modo che quella è la verità; non posso capire l'Induismo, se io non sono convinto che l'Induismo è un veicolo di verità.
In sede accademica io ho sviluppato tutta una teoria sulla fenomenologia religiosa che dice che la fenomenologia religiosa è sui generis e così sui generis che non ha «noema», come ben sanno quelli che sono specializzati su Husserl. Non c'è noema, ma c'è una cosa che io ho battezzato col nome di pistema, cioè la fede del credente appartiene essenzialmente al fenomeno religioso. Perciò io debbo descrivere quello che il credente crede, non quello che io credo che lui creda, e io non posso descriverlo se non ci credo, perché allora non descrivo quello che lui crede, descrivo quello che io credo che lui dovrebbe credere o che lui non crede. Si capisce che le autorità, al plurale, siano così preoccupate, perché tu non lo puoi capire se non ci sei dentro, quindi se, in un certo modo, non ti puoi convertire, altrimenti fai una caricatura. La necessaria conversione. Io non posso dire: «questo è verità», se è sbagliato, perché, se lui non crede a quello che io credo che lui creda, è tutta un'altra cosa.
Ho passato 40 anni a fare questo lavoro, quindi vi potrei parlare del sistema, pistis-fede, pistema, corrispondente a noèma, da noùs. Se possa prendere il pistema del credente di un'altra tradizione religiosa per poterlo prima descrivere e poi valutarlo in certo qual modo, è un problema ermeneutico formidabile.
E terzo, sempre a proposito dell'ermeneutica: c'è un'altra cosa che appartiene a quello che io dicevo con il logos (almeno il mio sistema è coerente). Non è necessario di capire tutto. Perché vogliamo capire tutto! Io penso che questa è la sindrome maschile più perniciosa. Voi ricordate Luca, il maschio Luca evangelista, per tre volte con una condiscendenza maschile ci dice che Maria non aveva capito ma conservava le cose nel suo cuore. Meno male! Conservare le cose nel cuore senza capirle forse appartiene a una saggezza superiore.
La situazione attuale non ha modelli
Il problema filosofico è ugualmente serio. Sono convinto - e qui faccio un discorso eminentemente occidentale, - l'Occidente non deve dimenticare una delle sue forze più importanti, lo spirito critico, lo spirito d'analisi, il senso di dubbio, uno spirito critico che direi post-illuministico. Perciò prima ho detto, e non mi sono voluto correggere perché non ho visto nessuna mano che mi domandasse un chiarimento, che le religioni sono mezzi ordinari di salvezza. Il filosofo e lo spirito critico correggerà questa frase e dirà che le religioni sono progetti di salvezza, non mezzi. Hanno il progetto e tutte le religioni ce l'hanno, ma un progetto non è necessariamente un mezzo. Il discorso filosofico, che è quello dello spirito critico, vuoi dire, in altre parole, che la situazione di questa nuova costellazione umana delle diverse tradizioni religiose dell'umanità che cominciano a riconoscersi le une con le altre, non va risolta con l'esclusivismo: Io, e se non sono unico, sono almeno un po' superiore. La superiorità cristiana è un peccato contro lo Spirito Santo. Non va risolta nemmeno con l'inclusivismo: in fondo diciamo la stessa cosa, tu sei un cristiano anonimo, tu sei un credente che si ignora, nel fondo più profondo, nella mistica siamo tutti la stessa cosa, nella notte tutti i gatti sono neri… Siccome ebbi la fortuna di essere il primo ad ascoltare, il contributo a Salisburgo di Karl Rhaner (eravamo Alexander von Rondl, Vareno, io e un altro) io gli chiesi, quando lui sviluppò la teoria dei cristiani anonimi, se lui sarebbe stato contento che io lo chiamassi un buddhista anonimo. Quindi, né esclusivismo ne inclusivismo. L'unica parola che qui forse servirebbe è quella di pluralismo, e pluralismo non è pluralità, non e considerare ciascuno come il piccolo pezzo di tutto il grande meccanismo; no, pluralismo è quel pars toto che dicevo prima, pluralismo vuoi dire che nessuno può esaurire, tutto lo spettro dell'esperienza umana. Che non si può racchiudere la realtà in un solo schema, perché la realtà non è schematica, non è nemmeno trasparente a se stessa, cioè uno non ha bisogno di essere aristotelico, monoteista o hegheliano per credere nella noesis, nella riflessione totale o in un Dio trasparente a se stesso, onnisciente rispetto a tutto il reale. La verità stessa è pluralista che non vuoi dire plurale. E un altro spunto che non sviluppo di più. Passo subito al mio quarto e ultimo punto di questa quaternitàs perfetta. Questo è il mio ultimo e breve punto, quello che mi piacerebbe chiamare la fecondazione mutua. Non possiamo soltanto guardare indietro, non possiamo soltanto ritornare alle fonti, non possiamo credere che la storia sia finita, non possiamo accontentarci di rifare gli sbagli degli altri o correggerli. Siamo in una situazione nuova e non sarei originale se io citassi della Bibbia che lo Spirito fa nuove tutte le cose. La situazione attuale non ha modello, non si tratta soltanto di andare indietro odi predicare tolleranza, o di fare tutte queste piccole cose che ho cercato di fare. Siamo dinanzi a una situazione medita, perciò ho cominciato dicendo che tutto il mio discorso voleva essere una preghiera, perché è pieno di questo senso di precarietà, dato che non sappiamo dove andiamo, ma non c'è nemmeno bisogno di saperlo, purché si sappia quel è il prossimo passo.
senza preservativi spirituali
La conseguenza di tutto quello che ci è stato detto è che non dobbiamo aver paura, paura dell'ignoto, paura del nuovo, paura dell'insospettato, paura del pericoloso, paura del rischio, paura di perdere la fede o la vita, paura di non sapere qual è il prossimo passo. Il nuovo è nuovo perché è sconosciuto, perché rischioso e quando parlo della fecondazione mutua tra le diverse religioni penso che la maggioranza di voi ha capito che non c'è fecondazione senza amore, che non c'è fecondazione se mettiamo preservativi spirituali e preservativi religiosi. La fecondazione deve essere naturale e deve essere figlia dell'amore; e il figlio che nasce malgrado tutte le cautele è sempre un rischio, è sempre insospettato, è sempre più bello in ultima istanza, almeno per i genitori, di quello che si aspettavano. Se noi non siamo coscienti che facciamo qualcosa di storico, allora non vale la pena. Se tutta la nostra vita, la nostra fedeltà, tutta la nostra storia è soltanto per fare un piccolo scherzo per passare il tempo, allora non vale la pena.
Non sappiamo dove andiamo. Niente è più difficile che gestire la libertà vogliamo sempre le cipolle d'Egitto e quando ci dicono: questa sicurezza no, quell'altra no, allora cerchiamo di guardare indietro per tornare un'altra volta a qualcosa che ci dia almeno un appiglio. Se parlasse il buddhista direbbe che non si tratta nemmeno di prendere rifugio nel Buddha, che il Buddha è sparito. Racconta una bella leggenda mahayana, che un grande bodhisattva dopo la sua vita se ne andò nel settimo cielo per vedere dove abitava l'Adibuddha, Gautama, il Buddha primigenio; non stava nel primo cielo, nè nel secondo nemmeno, nel terzo. Percorre tutto il Paradiso di Dante e finalmente arriva nel settimo cielo, animato dalla sua curiosità di vedere dove si trovi questo grande, il primo dei bodhisattva, l'Adibuddha. Tutte le stanze sono vuote, non c'è niente da trovare, finalmente un angelo se volete gli dice «Che cerchi?» «Cerco il Buddha, Adibuddha». Lo guarda con questa faccia di angelo innocente. «Ma non sai che il Buddha è sceso sulla terra e starà là fino a che l'ultimo essere vivente sia riuscito ad avere la liberazione!».
La fecondazione mutua vuoi dire, conoscenza, che non è possibile senza simpatia e senza amore; dopo il rischio che nasca un figlio, il rischio che venga qualcosa di nuovo. L'atto della libertà: se la fede non ci fa liberi, non so cosa sia la fede.
Diceva Gregorio di Nissa, vecchio cappadociano, padre della chiesa, commentando l'atto fondamentale di tutte le religioni abramiche, quando Abramo con un atto di fede ubbidisce a Javeh che gli dice di andarsene, lui e tutta la sua tribù, fuori della città di Ur: «e allora Abramo sapeva che andava per un buon cammino, perché non sapeva dove andava». Soltanto se noi sappiamo dove andiamo, se non programmiamo dove andiamo, se non abbiamo bisogno di una intelligenza artificiale o di un computer che ci dica i passi da fare, faremo la continuazione dell'opera creatrice. Questo è il programma che io penso che abbiamo dinanzi di noi. Questo mi ha portato in altra sede a invocare la necessità non di un Vaticano III, né di una Chicago 1, ma di una Gerusalemme II°, cioè di adunare tutti gli uomini e io direi, dato che sono troppo buddhista, tutte le cose, gli animali, le piante e di fare un concilio questa volta veramente ecumenico, per vedere se l'umanità sa reggere la sua libertà, questo dono di cui finora abbiamo abusato. Io credo che il destino sta nelle nostre mani e questo, almeno per me, è una sorgente di gioia.
(da Rocca, 1 ottobre 1987, pp. 54-59)