Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il dualismo tra corpo e anima,
peccato del cristianesimo

di Wanda Deifelt

Il parlare di Dio, o teologia, avviene a partire dall'esperienza. La teologia femminista ha da molto tempo posto l'accento sul fatto che possiamo parlare della divinità solo a partire dall'esperienza, così come questa si relaziona alla condizione umana e alla sua finitezza, ai suoi aneliti e alle sue speranze (...).

Il XX secolo ha presentato nuove sfide e possibilità a questo parlare di Dio che, in gran misura, differisce dalla descrizione tradizionale di ciò che significa fare teologia. La sfida - venuta specialmente dalle teologie della liberazione, nera, femminista, womanist (la teologia femminista nera, ndt), mujerista (la teologia femminista delle ispaniche negli Stati Uniti, ndt), dalit, mimjung (teologia coreana, ndt) e indigena - può essere riassunta come una messa in discussione del modello universale di rivelazione implicito nel parlare di Dio a partire dal cristianesimo (...).

Il parlare di Dio

Poiché il nostro parlare di Dio può avvenire solo attraverso i limiti del nostro linguaggio, che è impregnato dalla nostra cultura, nessuna teologia riesce ad abbracciare la totalità della rivelazione divina. Teologi e teologhe hanno persino proposto di non parlare di teologia, ma di teo-antropologia, dal momento che il parlare di Dio può avvenire solo nel parlare umano.

La teologa Sallie McFague, nel suo lavoro pioniere, ha mostrato che Dio può essere descritto solo attraverso un linguaggio metaforico. Il linguaggio umano non riuscirà mai a descrivere la divinità nella sua totalità perché nessuna esperienza umana riesce a incapsularla. La nostra percezione è sempre parziale e così è anche il nostro linguaggio: parziale. (...)

I limiti del parlare umano

Per parlare della divinità, il parlare umano ha bisogno di riconoscere che vi sono limiti e possibilità. È impossibile ignorare i nostri limiti e fingere di riuscire a comprendere e a proclamare il messaggio riguardo al divino nella sua totalità. Questa arroganza umana, quando è associata a potere e ad autorità, può essere tradotta come peccato. Essa riduce il parlare di Dio a un'unica cosmovisione, escludendo tutte le altre in nome di un assoluto. È il peccato di universalizzare un'esperienza rendendola normativa. È ridurre l'infinito al finito. Teologhe womanist, mujeristas e femministe, così come i teologi della liberazione, denunciano da molto tempo i pericoli dell'universalizzazione perché questa rafforza un discorso normativo e limitato, perpetuando relazioni di potere asimmetriche. La riduzione del divino a una metafora, a un unico nome, è idolatria. Un linguaggio razzista, classista,sessista e omofobico ripete un ordine mondiale in cui ideologie razziste, sessiste, classiste e omofobiche sono divinamente sanzionate. Non solo la divinità è ridotta a una visione del mondo particolare. Ma, ancora più pericoloso, questo particolare è visto come l'unica manifestazione divina. Accentua una e nega le altre. È evidente il ruolo che contesto e cultura svolgono nella creazione e manutenzione delle metafore. Analizziamo la traiettoria di una metafora in particolare: Dio come padre. È una metafora biblica, legittima, impiegata da Gesù (...).

Il numero di volte in cui questa metafora appare in ogni vangelo mostra l'influenza del contesto sociale e come questa metafora si è andata assolutizzando. Dio è chiamato padre solamente 4 volte nel vangelo più antico, in Marco. In Luca appare 15 volte e 42 volte in Matteo. Nel vangelo più recente, quello di Giovanni, già appare 109 volte. Quello che è in gioco non è la legittimità di questa metafora come uno dei molteplici modi di parlare di Dio.. Quello che va messo in discussione è, in primo luogo, la sua assolutizzazione. In secondo luogo, l'uso della metafora per perpetuare il patriarcato. Siamo arrivati al punto che oggi causa furore l'impiego di qualunque metafora femminile per riferirci a Dio. Si può chiamare Dio roccia, ma è considerato offensivo chiamare Dio madre (...).

Le possibilità del parlare umano

(...) Il linguaggio di Dio è parlato in molti dialetti. Il cristianesimo, in particolare, non sempre ha festeggiato la ricchezza esistente in questi dialetti. Al contrario, li ha percepiti come minacce e tentativi di delegittimare la purezza della dottrina. Purtroppo, una pratica comune nel modello della Cristianità è stato di adattare la rivelazione divina dell"'Io sono Colui che è" al prototipo del "tu sei chi sono io". In questa pratica colonialista c'è una completa inversione del modello che celebra la diversità e abbraccia i dialetti. Questo modello ha accentuato l'omogeneità. L'identicità ha portato al conformismo e alla passività. Il modello dell'uniformità afferma che è necessario istituire gerarchie per supervisionare la purezza della dottrina. In nome della verità, la gerarchia cessa di vedere le molteplici manifestazioni del divino, i modi sorprendenti in cui Dio interviene nella storia e rivela il suo amore per l'umanità. Ironicamente, diventa idolatra.

Il gioco tra contesto sociale, linguaggio e immagine di Dio avviene in tensione creativa. Fa uso di un linguaggio metaforico che lotta con la necessità di parlare del divino e l'incapacità di farlo. Si vive un'esperienza di già e non ancora. Io posso parlare di Dio solo in un linguaggio che è familiare, relazionale e culturalmente localizzato. Ma tento di superare i limiti della mia propria esperienza e del mio proprio linguaggio proprio attraverso l'incontro con gli altri e le altre. Questa alterità è l'alterità divina, ma è anche l'alterità celebrata nell’incontro quotidiano con altri esseri umani e con il nostro ambiente. La Teologia della Liberazione ha insistito sul fatto che possiamo parlare di Dio solo a partire dall'esperienza della solidarietà divina con l'umanità, del Dio che si rivela nel linguaggio della gente semplice. La teologia femminista aggiunge che possiamo parlare di Dio solo come lo ha fatto Gesù, attraverso parabole (...).

Il linguaggio dei corpi

In America Latina, nella teologia femminista, il corpo umano è diventato un modo parabolico per parlare di Dio (...). Tre storie, presentate qui di seguito, ci aiutano a intendere la concretezza quotidiana dei corpi ed esemplificano la nozione di corporeità difesa dalla teologia femminista (...).

Leonildo, un agricoltore del Movimento dei Senza Terra in Viamao, Rs, si pone a fianco del suo campo di riso e dice: "tutto quello che c'è qui siamo stati noi a piantarlo". La sua voce denuncia l'emozione di produrre l'alimento con le sue stesse mani, usando le risorse di cui la comunità dispone, nella terra che ha conquistato. I giorni passati negli accampamenti lungo la strada, nelle baracche coperte di teli di plastica neri, fanno parte del passato. Ma c'è solidarietà con le migliaia di uomini, donne e bambini che ancora non hanno terra e soffrono la violenza della fame, dell'esclusione sociale e delle aggressioni armate. Una parte del riso prodotto va ad aiutate altre famiglie che sono ancora accampate.

La lotta per la terra in Brasile è un esempio storico della vulnerabilità delle persone semplici. I conflitti agrari hanno provocato migliaia di morti. Sono i corpi dell'agricoltura, dell'agricoltore e del bambino che vivono nei campi - soggetti a una violenza continua, al pericolo di essere assassinati da pistoleiros assoldati e alla mercé del lavoro infantile - che diventano parabola per la teologia femminista. Non è il corpo idealizzato, ma il corpo concreto: maltrattato dalla fame, dall'eccesso di lavoro, dalla lotta per la dignità. È anche il corpo che celebra le piccole conquiste. Questo corpo è parabola per parlare della rivelazione divina: Dio in mezzo a noi. (...) Affermare che Dio è in mezzo a noi è celebrare l'incarnazione. La divinità si fa umana, prende corpo, per annunciare speranza e resurrezione. La divinità opta per la vulnerabilità. Dio stesso si fa bambino vulnerabile per vivere tra di noi. I corpi vulnerabili diventano il verbo della manifestazione divina.

Quando Daniela parla del suo lavoro di educazione popolare presso la comunità quilombola le brillano gli occhi. È afrodiscendente e si è legata a questa comunità all'interno di Sào Lourenco do Sul, Rs. Quilombolas sono schiavi e schiave che sono fuggiti dai loro padroni (al tempo della schiavitù) e hanno dato vita a una comunità libera. La comunità vive quasi isolata e il riscatto di storie, musiche, danze e spiritualità è diventato una passione per Daniela. Insegnare a giovani e a bambini a danzare la capoeira è riscattare la loro cultura, la loro dignità e il loro valore. Rivendicare se stessa come donna nera e provare orgoglio per il colore della pelle significa delegittimare secoli di ideologia razzista. Per Daniela è una gioia che non può essere trattenuta dentro di sé, ma deve essere celebrata nella comunità. Il corpo come parabola non si restringe al corpo individuale. C'è una collettività, la comunità, il senso di appartenenza che permea le reazioni umane. La comunità quilombola è una parabola per questo corpo sociale. (...) Ma il caso di Daniela mostra anche il limite della parabola: anche il corpo sociale ha bisogno di critica, di decostruzione. Così come la comunità si trova geograficamente isolata, anche lei è isolata dall'immaginario socio-culturale e religioso del suo ambiente circostante. La sua esperienza di lotta non è valorizzata dalla comunità più ampia fino a quando lei stessa non la valorizzi. (...).

Nella fabbrica di riciclaggio di rifiuti, in Gravataì, Rs, Nilda racconta che, prima di avere un padiglione per separare i rifiuti, cercava materiale nella discarica. Il camion scaricava la spazzatura e lei, insieme ad altre persone, controllava quello che lì veniva gettato. La necessità di sopravvivere - di trovare carta, plastica, vetro e metallo da vendere - l'obbligava a contendere i rifiuti a topi e mosche. Il Movimento nazionale di raccoglitori di rifiuti l'ha aiutata ad assicurare la propria sopravvivenza, con dignità. "Prima vivevo in mezzo alla spazzatura e mi sentivo come la spazzatura della società. Ora lavoro qui, insieme ad altre donne. Questo ha dato coraggio a tutte noi".

La degradazione di corpi, ridotti ad oggetti, nega la sacralità della vita e della creazione. Che un essere umano possa sentirsi come rifiuto della società mostra l'urgenza di affermare la dignità dei corpi vulnerabili. E mette anche seriamente in discussione il modo in cui il cristianesimo ha trattato il corpo umano (...)

Il corpo come parabola della divinità

(...) Il lavoro di teologhe femministe come Rosemary Ruether ci aiuta a intendere che la creazione è una manifestazione della divinità. L'ecofemminismo enfatizza l'interconnessione della parte con il tutto e l'interdipendenza che questo comporta. Il divino ci è noto come creatore, un Dio il cui potere e la cui dinamicità si manifestano in una continua creazione e ricreazione.

(...) Il cristianesimo ha bisogno di riconoscere il ruolo catastrofico che gioca nella nostra cultura e società, alimentando un dualismo tra natura e cultura, mondo materiale e spirituale, individuo e comunità, corpo e anima. (...) Queste dicotomie non solo rafforzano le gerarchie ma impediscono un approccio integrale. La saggezza degli agricoltori - i quali sanno che, se non ci prendiamo cura della terra, la prossima generazione non sopravvivrà - non ha un posto in una economia globalizzata e neoliberista che ha occhi solo per l'individuo, i suoi interessi immediati e il profitto di un gruppo di persone facoltose. La coscienza ecologica dell'interdipendenza si estende anche ad altri esseri umani. Se la creazione è il corpo di Dio, il corpo sociale è quello in cui viviamo questo amore in atti concreti di giustizia e riconciliazione. Dio ha creato l'uomo e la donna a sua immagine. Questo ha stabilito un modello di relazione che non sempre viene considerato. Affermare che gli esseri umani sono creati a immagine di Dio è trattare un altro essere umano con la stessa riverenza che in un incontro con la divinità, i nostri incontri con gli altri esseri umani sono ben lontani da questo. Non solo non trattiamo l'altro e l'altra con lo stesso rispetto e la stessa dignità che riserviamo all'incontro con il divino, ma ci comportiamo con indifferenza, mancanza di rispetto e molte volte in maniera da umiliare l'altro. Trattiamo altri corpi come spazzatura. (...).

L'offerta divina della vita si estende alla totalità della creazione e non solo a un segmento, quello degli esseri umani. Il divino si rivela nella creazione e la creazione ha bisogno di attenzioni. Come esseri umani, siamo i custodì responsabili della nostra dimora, il nostro oikos (...).

Un linguaggio della corporeità ci porta al qui e ora ed esige una migliore attenzione al presente. Usare il corpo come metafora, come parabola per parlare della divinità, richiede che la teologia si preoccupi non solo della salvezza, ma anche del benessere dei corpi (...)

(da Adista, n. 22, 19.03.2005, pp.10-12)

Anche Ninive è la città
in cui Dio prende dimora

di Pierangelo Sequeri

Per trovarsi nel punto d’incontro fra il cristianesimo e la città, bisogna anzitutto sentirsi concittadini, nella città dell’’uomo. Si tratta di sentire lo spazio e il tempo del mondo come spazio e tempo nostro, a pieno titolo. Un cristiano non è un sopravvissuto, nel mondo che cambia (sempre cambia il mondo), in transito da un mondo che era il suo e ora non lo è più. Al quale vorrebbe ritornare, ma non può. Sembra banale. Invece è uno dei nodi dell’inconscio ecclesiastico più difficili da elaborare.

Bisogna anzitutto credere che questo è il tempo favorevole, questo è il mondo che poggia sulla creazione di Dio, questa è la città nella quale il Figlio assimila gli amori e gli umori dell’uomo vivente per renderne eloquente la verità perfetta custodita dal Padre e le opere che attestano le passioni indomabili di Dio per la creatura. Nazareth è la nostra città, e poi Corinto, Efeso, Laodicea, l’Atene dei filosofi e la Roma dell’impero. La città in cui Dio prende dimora è la nostra città. Persino Ninive è città di Dio, alla cui sorte Dio si appassiona. Non lo saranno Milano e Napoli, Madrid e Parigi, New York e Los Angeles?

I nodi essenziali, sui quali registrare oggi il gesto cristiano della testimonianza ecclesiale, li indicherei così.

Il radicamento di Dio nell’assimilazione dell’umano.

Il mistero di Nazareth, anzitutto: il grande tema che l’ecclesiologia deve di nuovo incorporare fino al midollo. Nazareth è l’emblema della profonda immedesimazione del Figlio, che fa tutt’uno con l’incarnazione e la rivelazione del Padre. Un tempo lunghissimo. Tempo di seminagione del profumo di Dio e di assimilazione degli umori dell’uomo: come vive e come muore, come gioisce e come soffre, come si dispera per il pane e come si entusiasma per i figli, come piange di risentimento per le ferite di coloro che gli sono cari e come si scopre improvvisamente capace di compassione e di cura per l’estraneo che non ha mai conosciuto. Abbiamo cercato di abbreviare - abbiamo osato considerare superfluo - il mistero di Nazareth. Finiamo per parlare un gergo religioso, pur altissimo e devoto, in cui non si può più intendere la Parola di Dio che mira al cuore. Per poter annunciare l’eterna verità di Dio bisogna essere profondamente contemporanei alle avventure e alle fatiche del vivere che prende la sua forma qui e ora E’ l’evento discriminante della novità cristiana.

Le opere che sigillano la verità della rivelazione.

La scena originaria dell’annuncio porta indicatori la cui priorità non deve più essere revocata in dubbio. La parola dell’annuncio è resa univoca e trasparente dal ministero della liberazione dal male, accompagnato dalla rimozione dell’esclusione dalla cura di Dio. Le opere di Gesù sono i segni della rivelazione, non semplicemente lo spazio dell’applicazione morale della coerenza religiosa. Sono il codice dell’annuncio che rende precisa l’inaudita verità di Dio, che in Lui si rivela. Ciò che vale per la rivelazione vale per la fede, «I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono consolati, i demoni sono cacciati». La confessione della fede rimane vuota se l’evidenza della prossimità di Dio rimane cieca. «Non chi dice Signore, Signore». La franca confessione dell’Evangelo di Dio, che ha l’identità del Figlio Gesù come referente assoluto, patisce la rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo. La purificazione evangelica della religione -delle religioni - ha qui il banco di prova dell’annuncio della fede che salva. Come siamo toccati, tutti - e anche ora - dalla nascita e dalla risurrezione di Gesù? Come siamo riscattati dalle passioni di Dio e dall’avvilimento del Figlio?

La religione nel crogiolo dell’assoluto di Gesù.

Sempre, nella religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi, esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente incistate nell’invocazione del nome di Dio. La religione che si accontenta di provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se stessa, non a Dio.

Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia cristiana ha cercato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non religiosa del cristianesimo, contrapponendo la fede evangelica alla forma religiosa. La tesi, pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata indubbiamente oscurata. Rimane però il fatto che la pura alternativa della fede alla religione scrive la parola di Dio sulla sabbia di un’interiorità inafferrabile e taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione con Dio. Non c’è proprio nessun altro modo di andare a toccare le nervature della carne, e l’intimità dello spirito in cui l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità destinata. Per dodici apostoli che chiamò, il Figlio considerò come “suoi” cinquemila uomini alla volta. Per non contare le donne e i bambini. Li istruì sulla verità di Dio che riguardava la loro vita e la sua destinazione, facendo in modo che non mancassero del pane e non dovessero vergognarsi delle loro ferite. lndividuò fra essi, non solo fra i discepoli, figure straordinarie, la cui “fede” additò all’ammirazione dei suoi e di tutti. La Cananea, la Samaritana, il lebbroso riconoscente, Zaccheo il pubblicano. Qualcuno - come il ladro crocifisso o il centurione romano - scoprì di essere “dei suoi” senza averlo previsto. Non stiamo rimpicciolendo troppo, a motivo di uno sguardo ecclesiologico forse indebolito dall’età, la vasta comunità di coloro che «guardano con fede a Gesù» (Lumen gentium, 9) nelle città che abitiamo - del resto sempre provvisoriamente?

Il culto è una manifestazione sociale che si realizza attraverso un’azione rituale; se non è tutto questo, non è culto. Non è un atto privato di venerazione, e non è improvvisato. Una qualche forma di culto è presente in ogni religione; e il simbolismo rituale presenta certi tratti comuni che si possono riscontrare in molte religioni.

Maria nel disegno salvifico

di Francesco Pio Tamburrino *


Non conosco altro modo di parlare di Maria se non quello di cogliere, seguendo il cammino della fede, la realtà della sua persona e della sua vita. E’ l’unico mezzo che ci permetta veramente di entrare in contatto con essa, poiché per noi non si tratta di rapporto con un essere irreale, idealizzato, quanto con una persona pienamente viva che inoltre ha possibilità tutte particolari per conoscerci e per comunicare con noi.

La cosa più semplice è tracciare la storia di Maria, la storia della sua anima, dello sviluppo della sua fede e la storia della sua missione: missione durante la vita di Cristo e missione attuale. Noi siamo talvolta costretti a fare uno sforzo per distoglierci dall’immagine che ce ne facciamo: di colei che s’invoca in tutto il mondo con tanti nomi diversi, di colei rappresentata in forme artistiche così disparate e che ci figuriamo sempre circonfusa di gloria, per riportarci da tale immagine alla semplice fanciulla d’Israele, all’esordio della sua vita, prima che l’angelo le rivelasse quello, che Dio si aspettava.

E’ una fanciulla come le altre, di umile condizione sociale. In essa c’è stato certamente un lavoro divino, ma non come di solito immaginiamo. Poiché non dobbiamo credere, per il fatto che Maria è madre di Dio e immacolata nella sua concezione, ch’essa non abbia dovuto operare nella fede, che non sia vissuta in terra come noi, con gli stessi mezzi che noi abbiamo per prendere contatto con Dio. E’ molto importante rendersi conto di questo per comprendere quello che in essa è accaduto.

Maria nacque e visse nell’epoca della storia d’Israele, che costituiva l’ultimo periodo preparatorio alla venuta del messia. Vi era dunque un’attesa nel popolo; e questa attesa del messia nell’anima d’Israele era tanto più profonda, tanto più giusta, quanto più intimo era il contatto che le anime avevano con la Scrittura e quanto maggiore era la possibilità, in ragione della loro purezza e della loro disposizione alla luce divina, di comprenderla nel senso dovuto. Quello che Maria sapeva del messia, le era dunque venuto dalla tradizione d’Israele.

Maria radicata nell’umanità

Alcuni teologi, dopo aver catalogato la serie dei carismi che nel corso della storia Dio ha dato ai santi, hanno sostenuto che Maria, essendo la persona più santa, dovesse aver ricevuto tutto. Ora, questa affermazione non solo è falsa storicamente, ma altera proprio la sua bellezza. Essa è troppo pura, troppo santa, troppo unica, e troppo profondamente radicata nella nostra umanità per aver bisogno di tutti quei doni che non farebbero che nasconderla, se così si può dire, nella sua purezza.

Una vita disponibile intessuta di fede

Vi è poi l’annunciazione, e con essa ha inizio un nuovo stato: Maria diviene madre. E’ straordinario che in una fanciulla possa cominciare a fiorire la maternità mentre l’anima rimane quella di una vergine. E’ cosa unica e si svolgerà in un cuore umano, in una psicologia umana, nel carattere di questa donna, che non era creatura strana e anormale. Era figlia di Anna e di Gioacchino, aveva la sua famiglia e i suoi antenati; era proprio una fanciulla di nome Maria. Non è necessario che io insista; voi avrete spesso meditato sul suo atteggiamento di fronte al messaggio dell‘angelo, su questa semplicità totale, questa discrezione, questa fede immediata.

La prima domanda che dobbiamo porci è in quale misura Maria si sia fatta un’idea del proprio destino dopo il messaggio dell‘angelo.

Che cosa aveva compreso? Che cosa c’era nella sua fede? Essa conosceva troppo bene la Scrittura e le parole dell’angelo erano troppo direttamente significative perché potesse dubitare un solo istante che non si trattasse del messia. A partire da questo momento ella sapeva che ne sarebbe stata la madre. Ma qual era la vera natura del messia? Non credo che in quel momento fosse necessario alla sua fede conoscere interamente tale natura: le pagine seguenti della Scrittura e lo stupore di Maria di fronte ad alcuni episodi dell’infanzia di Gesù lo dimostrano chiaramente; ciò è molto più bello. Perché mai, infatti, il Signore avrebbe eliminato dalla sua vita l’oscurità della fede, la fiducia che deve derivarne e l’abbandono che può risultarne? Senza di questo essa non sarebbe stata completamente della nostra razza. Era abbastanza forte per vivere di fede. E il tratto predominante della sua vita, non è costituito dal fatto che il Signore ha voluto farne l’anima più forte? Dio le ha dato tutto quanto era necessario perché fosse la madre di Gesù in modo mirabile; se vogliamo definire una persona, dobbiamo pur definirla mediante ciò che le è più essenziale. Ora, Maria era la madre di Gesù nel più intimo e profondo della sua stessa natura fisica e psicologica, perché li consisterà il mistero della concezione verginale, dove si radicava la sua condizione umana di madre di Gesù. Era figlia di Dio ed era nella fede illuminata anzitutto dalle Scritture.

Neppure di ciò che seguì all’annunciazione noi ci rendiamo ormai sufficientemente conto. Ci sembra inconcepibile che essa nulla abbia detto al suo fidanzato. Nel matrimonio di Maria, poiché si trattò di vero matrimonio, vi è qualcosa di molto misterioso. Immaginate quel che dev’essere accaduto quando Giuseppe intuì qualcosa mentre essa nulla aveva detto, neppure una parola. Perché questa discrezione, quando sapeva che sarebbe stata fonte di tanto turbamento?... Un abbandono totale alla provvidenza? O forse un profondissimo pudore del mistero che le era stato rivelato? Dio ha diretto ogni cosa. Ma noi possiamo comprendere anche il dramma di Giuseppe. Credete che questo non abbia lasciato alcuna traccia dolorosa nella vita di Maria? Non v’è nulla di più sconcertante di tali incomprensioni tra persone di buona volontà. Dio non gliene ha risparmiate... Si direbbe che Dio abbia fatto soltanto quel che era necessario perchè l’incarnazione si attuasse, e poi abbia lasciato che le cose seguissero il loro corso con tutte le naturali conseguenze. E ciò non avvenne senza sofferenza. Giuseppe e Maria si amavano. Fu necessario che un angelo intervenisse e che Giuseppe fosse interiormente avvertito di non temere. E l’angelo non fu neppure molto esplicito: “Non temere, perché ciò è dallo Spirito Santo”. Parole che ci permettono di renderci conto della profondità del senso religioso di Giuseppe. Questo giovane, che aveva sposato Maria presta fede a un’affermazione così inverosimile, quando già aveva deciso di rimandarla, credendo fosse accaduto qualcosa che non osava ammettere esplicitamente. Che cosa è avvenuto nel profondo delle loro anime? Se vogliamo afferrare la realtà della loro vita di fede e comprendere l’anima di Maria, dobbiamo penetrare nella realtà della loro vita.

“Maria conservava queste cose…"

e voi sapete. in quali circostanze ebbe luogo... Tutto ciò segue il corso ordinario delle cose. Un censimento, e si è obbligati a emigrare. Ed è anche la prima volta che Maria assiste a manifestazioni esteriori nei riguardi di suo figlio, assolutamente grande, eccezionale. Ricordate le parole del Vangelo: “Maria conservava queste cose e le meditava nel suo cuore”. Essa, che non sa ancora tutt0, riflette e cerca di leggere negli avvenimenti provvidenziali. C’è la visita dei pastori, poi quella dei magi che vengono alla culla del figlio. Ma un fatto la turba assai più profondamente: la strage degliinnocenti. La Scrittura ne riferisce in tre righe e noi la celebriamo nella liturgia. Ma mettetevi al posto di Maria; in tutta la sua brutale realtà si tratta di una operazione di polizia, contro dei bambini Dopo questo fatto, come poteva credere ancora che la Provvidenza governasse la sua vita? Come poteva Dio permettere una cosa simile? E non vi è nient’altro, nessuna spiegazione divina. La Provvidenza non è intervenuta a impedire la strage, quando per Dio sarebbe stato così facile.

Maria ha dovuto fuggire come una profuga, come una emigrante. E’ falso pensare che le sia stata concessa una specie di visione di ogni cosa. Al termine della sua vita, certamente ma non all’inizio, ed è questa la sua grandezza, questo che ce la rende così vicina. Ha veramente dovuto vivere di fede come noi. Giorno per giorno Dio le ha dato quel che le era necessario perché potesse comprendere ciò che doveva fare. Per il resto ha agito da madre.

E poi la presentazione al Tempio. Maria ignorava ancora il mistero di sofferenza e di contraddizione di suo figlio: glielo disse Simeone da parte del Signore. Dopo, di nuovo l’oscurità, e la vita quotidiana riprende i suoi diritti. So quanto è difficile cercare qui d’immaginare qualcosa. Ma proprio per questo, forse, non bisogna immaginare nulla.

Sofferenza d’essere la madre di Dio

E’ un periodo lungo, nella vita di una madre che si vede crescere accanto il figlio, dall’infanzia ai trent’anni. Suo figlio ha vissuto presso di lei per più di dieci anni di vita operaia, con tutto ciò che questo comporta.

Non dobbiamo cercare d’immaginare nulla. Tutto ciò che il Vangelo ci dice dei rapporti tra Maria e Gesù, ci mostra che Cristo s’è comportato con lei normalmente, come nell’ambiente che era il loro, si comportavano i figli con le madri. Tra la madre e Gesù fanciullo v’e stato un mistero di amore e di reciproci rapporti. Di questi trent’anni non conosciamo che un episodio. Il fanciullo ha dodici anni: è ormai un ragazzo. Sapete quel che ha fatto e sapete quanto sua madre ne è stata turbata. In quel momento Maria non ha compreso la psicologia di suo figlio. Dobbiamo leggere il vangelo così com’è scritto. Per la prima volta davanti al figlio dodicenne, ella sospetta qualcosa che la fa soffrire. Non so se riuscite a immaginare quali siano i sentimenti di una madre verso il proprio figlio. Questo figlio è suo, le appartiene, e tuttavia scopre in lui qualcosa che la trascende, che lo separerà da lei . E’ un mistero essere madre di Dio. Ed è pure difficile capire fino a che punto questa semplice condizione non potesse essere senza dolore. Quando suo figlio ha dodici anni ella scopre a un tratto, in un suo atteggiamento, che nella vita di questo figlio vi è un grande mistero. E il vangelo aggiunge: “E in seguito fu loro sottomesso” dopo d’allora cioè, egli non ha più manifestato nulla, non ha più agito se non come un uomo qualsiasi. Cosa certa, questa; perché sarebbe altrimenti incomprensibile che, in un ambiente orientale, di vita in comune, dove non esiste uno stile veramente intimo e familiare, e dove Maria ha vissuto come tutti gli altri, nessuno avesse mai sospettato nulla nei riguardi di suo figlio. Ricordate agli inizi della predicazione? “Non è questi il figlio del falegname che vive tra noi?”; perché non riuscivano a capacitarsi che potesse parlare come un rabbino. Il vangelo è chiaro. Nulla di più falso dell’ambiente effeminato e irreale delle immagini pie rappresentanti la ”sacra famiglia”. La verità è assai più grande e bella, appunto perché Maria e Gesù fanciullo sono esseri reali e forti. Vi è in Maria una grandissima forza, una sofferenza profondissima, la sofferenza d’essere madre di Dio: una sofferenza che penetra nella più profonda intimità della sua natura stessa di madre.

“Debbo interessarmi delle cose del Padre mio”

Dopo la normale vita di Nazaret,ha ha iniziato la missione pubblica. So che alcuni si scandalizzano nel constatare con quanta disinvoltura il vangelo passi ormai. sotto silenzio Maria.. Quando Gesù, s’è allontanato da casa, non si parla più di sua madre, se non proprio all’inizio, nel momento in cui Gesù sta per andarsene. Egli è ancora nella casa materna, ma per poco, come un figlio missionario che sta per partire. E’ chiamato altrove. Deve compiere la propria missione. Cosa può aver detto Gesù a sua madre in questo momento? Che cosa le ha rivelato della realtà della sua natura e della sua missione, e cosa sapeva essa di lui, quando egli raggiunge i trent’anni? Sappiamo che gli apostoli non hanno saputo subito: ricordate il giorno in cui Gesù ha chiesto loro chi pensassero ch’egli fosse? Credo si possa affermare che Maria è stata comunque la prima a scoprire e a credere chi fosse realmente suo figlio. E si è trattato per lei, come per tutti, di un atto di fede. Gesù lo dice: “Né la carne né il sangue ti hanno rivelato che sono figlio di Dio, il Padre mio”. Noi crediamo per fede, perché di Gesù non conosciamo che l’aspetto esteriore. Ma non ci rendiamo sufficientemente conto che anche Maria dovette compiere un atto di fede per credere alla divinità di suo figlio. E’ tanto maggiore doveva essere la sua fede, in quanto si trattava di suo figlio, carne della sua carne, e lei gli era legata unicamente nella sua natura di uomo. Credere che lui fosse Dio: quanta fede occorreva! Esteriormente Cristo non ha agito mai se non come uomo. La trasfigurazione costituisce l‘eccezione di qualche ora, un momento solo nella vita di Cristo quando, a chi l’avesse guardato, qualcosa di sensibile lasciava trapelare la sua divinità, la quale, senza distruggere la fede, s’imponeva all’uomo. Noi sappiamo che Cristo non era solo uomo, era figlio di Dio; ma nel corso solito della sua vita non appariva tale.

Il legame misterioso tra Figlio e madre

Lo sviluppo della fede e dell’amore nel cuore di Maria è precisamente ciò che costituisce sua grandezza. E se la constatazione che Gesù non fece eccezioni per sua madre, mai neppure nel momento nella passione, ci lascia perplessi, ciò accade appunto perché essa era troppo forte, e Gesù esigeva troppo da lei per cercare di alleviarne il cammino. E poi, che cosa doveva essere Maria? Un santo è perfetto nella misura in cui compie la sua missione e i doveri del suo stato. Ora, in quel momento, la sua missione non si limitava forse a una cosa sola, essere cioè – in modo perfetto – la madre del fanciullo, la madre di Gesù adolescente? Doveva essere madre nel senso pieno, completo della parola: e quindi anche nel momento in cui il fanciullo era diventato adulto, ella si è mostrata una madre perfetta, ha saputo cioè trarsi in disparte. La perfezione di una madre sta nel guidare il figlio al fine che gli è proprio. L’atteggiamento di una madre deve mutare secondo l’età del figlio, perché essa esiste in funzione del figlio; è questo il lato difficile della vocazione di una madre. Deve saper trattare suo figlio come un adulto, lasciarlo libero, non influenzarlo più, rinunciare a trattarlo come un bambino. Molte madri nuocciono ai loro figli proprio perché non si rassegnano alla necessità di mutare atteggiamento. Maria, che è così perfetta, ha saputo trarsi completamente in disparte. Ha permesso che suo figlio se ne andasse, e Gesù l’ha lasciata alla sua missione perfetta di madre. Ricordate le parole del Vangelo? Maria era costretta a seguire le donne, come una donna qualsiasi, mentre la folla dei discepoli aveva ormai la precedenza su di lei: “La madre e i fratelli di Gesù vennero a trovarlo, ma non potevano avvicinarsi a lui per la folla. E gli fu riferito: “Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti”. Ma egli rispose: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”” (Luca 8, 19-21).

Non dobbiamo scandalizzarci; dobbiamo invece cercare di comprendere un mistero, così intimo e profondo, tra Maria e suo figlio. Credo sia raro trovare un santo che nel corso della sua vita non abbia compiuto qualche miracolo; essa, invece, non ne ha mai compiuti. A Cana ha chiesto un miracolo a Cristo. Nient’altro. Che missione aveva da giustificare dinanzi agli uomini? Era la madre. Missione troppo naturale perché debba essere autenticata, un miracolo l’avrebbe anzi snaturata. Maria non doveva cercare di farsi avanti. Non c’era bisogno di rivolgersi a lei finché c’era Gesù. Per questo il vangelo non parla di lei fino al giorno della passione.

La madre “stava”

Al momento della croce il Vangelo accenna alla presenza di Maria. Con poche parole, ma nascondono un abisso. Era impossibile che in quel momento essa non sapesse tutto di suo figlio. Era il momento in cui la sua fede si compiva. Il mistero di questa madre durante la passione è che lei è più forte di tutti, più forte degli apostoli stessi che pure erano uomini. Non mi piacciono molto le rappresentazioni della passione che raffigurano Maria singhiozzante e prostrata, come una donna stravolta dal dolore. Nulla nel vangelo ci autorizza a raffigurarcela così: il vangelo ci dice anzi ch’era in piedi. In conseguenza della sua concezione immacolata ella aveva corrisposto, giorno dopo giorno e in maniera mirabile, all’azione di Dio nella sua anima, cosicché il Signore non aveva bisogno di fare cose eccezionali perché la fede e l’amore di sua madre toccassero una grandezza che a noi non è dato raggiungere.

La prova d’amore più grande

Maria giunse alla maturità della sua fede nel momento della passione di Cristo, ed ecco allora un altro mistero: la sua missione sopra la terra, in quanto madre di Gesù, finisce perché suo figlio sta per morire. Cosa può dargli ora? Non ha più nulla da dare a suo figlio. Ma in lei si è compiuto qualcosa di molto profondo, perché una madre non può non provare la sofferenza più grande a veder morire il figlio soprattutto quando non muore di morte naturale, ma giovane e crocifisso. Sappiamo che se la più grande prova d’amore sta nel dar la vita per coloro che amiamo, la più grande sofferenza è pure la prova d’amore più grande. E Dio ha condotto la sua madre fino a questo punto, affinché desse la più grande prova d’amore.

Essa era troppo intimamente legata a suo figlio perché non vi fosse anche un mistero di collaborazione, in quanto l’amore implica collaborazione. Il genere di “lavoro” che suo figlio compiva allora per la redenzione del mondo le permetteva per la prima volta una piena collaborazione. Maria ha provato quella sofferenza, che era la sofferenza redentrice, fin nel più profondo del suo essere. E poiché non v’è dubbio che in quel momento essa non conoscesse perfettamente la missione di suo figlio, voi capite quale parte unica abbia nella redenzione delle anime. Vi ha collaborato con una sofferenza che rappresenta il parossismo della sofferenza di una madre e nella piena lucidità della fede.

Donna, ecco tuo figlio

In quel momento accade pure qualcosa che la riguarda direttamente, perché suo figlio le parla - una delle rare parole che nel vangelo Gesù rivolge a sua madre. Tra lui e lei accade qualcosa di doloroso e nello stesso tempo di semplice. Si tratta, direi quasi, di due atti che s’intrecciano. Il primo atto, semplicissimo, è che Gesù sta per morire, e Gesù è figlio unico. Lascia sopra la terra la madre, che ha delle necessità e deve pur vivere in qualche modo. Chi si prenderà cura di lei? Non aveva rendite. Fin tanto che Gesù viveva la manteneva lui. In oriente i membri di una famiglia si mantengono l’un l’altro. Dopo aver lasciato il suo lavoro, Gesù era vissuto come un rabbino, gli si dava di che vivere, e si dava di che vivere a sua madre. Ora bisogna che Maria abbia il necessario. In oriente una donna non sta sola, deve tornare in famiglia; essa non aveva famiglia a Gerusalemme Le si presentavano dunque - poiché non sfuggiva a tutte queste esigenze concrete - dei problemi d’ordine pratico. Gesù le dice: “Andrai da Giovanni, nella casa di Giovanni”; e a Giovanni: “La tratterai come tua madre”, Questo, anzitutto, il fatto reale che costituisce per Maria la brutale presa di coscienza che suo figlio non è più, che tutto è finito, che egli la lascia e che un’altra casa le è ora necessaria, e che un uomo si prenda cura di lei. Tale il fatto doloroso: suo figlio non sarà più accanto a lei e le dice: “Giovanni sarà come tuo figlio”.

Sappiamo che la Chiesa ha sempre considerato questo episodio di passaggio tra le due successive missioni di Maria. Il suo primo compito, fin tanto che Gesù era rimasto sopra la terra, era stato quello d’essere sua madre: ora questo compito è terminato. Che può essa fare ora? Una nuova missione ha inizio: sarà la madre di Giovanni. Credo che di ciò essa ignori ancora il significato. Era naturale che gli apostoli, che si sentivano responsabili di lei, la considerassero come una madre. Gli apostoli, a quell’epoca, erano appena dirozzati: voi sapete che il giorno della croce erano fuggiti. Giovanni solo era rimasto fedele o quasi, per questo si trovava lì, per vedersi affidare la madre del Maestro. Maria, certo, attendeva la risurrezione di suo figlio; la sua fede era troppo profonda e Gesù l’aveva predetta. E’ ovvio che, se v’era persona capace di comprendere il senso della predizione di Cristo, era appunto lei, sua madre. Forse, se non si trovava tra la folla proprio quando Gesù aveva fatto questa predizione, non le era giunta direttamente dalla sua bocca,certo le era stata riferita. Maria credeva, ma nella oscurità della fede. Sapete anche voi che, quando qualcuno muore, il fatto di credere che un giorno risusciterà, non cambia nulla quando vediamo morire una persona cara,crediamo alla resurrezione dei corpi. Vi crediamo per fede. Maria ha avuto questa fede. Nessuna creatura umana era mai risorta. Essa mai aveva visto nulla di simile. La sua fede nella resurrezione era una certezza interiore che non toglieva nulla al dolore. Il pensiero che il vostro amico morto un giorno risusciterà, allevia forse il dolore che voi provate per la sua morte? In quel momento l’unica cosa reale per Maria era la morte, perché la morte era sensibile, rientrava nella realtà, mentre il resto rientrava nella fede. E nulla di sensibile leniva la sua pena. Essa ha vissuto la realtà concreta.

Successivamente, per Maria, ha inizio un periodo che va dalla risurrezione all’ascensione: un periodo tutto particolare. Cercate di mettervi ancora al posto di questa madre, d’immaginare che suo figlio ormai non è più come lei. Come Dio le è sempre sfuggito, ma ora le sfugge anche come uomo; ciò traspare nel suo modo di essere. Egli c’è e non c’è. Torna, ma non si è più con lui come prima. Qualcosa è mutato: sua madre sa tuttavia di essere la madre sua, la madre di quest’uomo glorioso che di quando in quando rimane con essa.

Madre della Chiesa

Un’altra missione si prepara per Maria, un’altra missione che dovrà vivere: essere la “madre della Chiesa nascente”. Le è stato affidato Giovanni e con lui gli apostoli, tutta la Chiesa di allora. Essa ne prenderà coscienza progressivamente. Solo lei poteva narrare agli apostoli il vangelo dell‘infanzia di Gesù, e sappiamo pure che quando si riunivano a pregare era con loro. Degli stretti vincoli la legavano dunque agli apostoli che erano vissuti col Maestro e ne avevano visto la figura e i gesti. Maria era sua madre e gli rassomigliava fisicamente. Tutto in lei ricordava loro Gesù, Potete quindi immaginare i sentimenti che gli apostoli dovevano provare quando era lì tra loro. Tuttavia essa non ha alcuna funzione ufficiale. La Chiesa non ama che gli si parli di Maria-sacerdote; a me questa denominazione sembra alterare la purezza del suo volto. Essa è assai di più. Appartiene un altro ordine, che è soltanto suo: è la madre del Sommo sacerdote. Non è sacerdote: è la madre del Sommo Sacerdote. E’ unica, e questa è la sua particolarità. Non dobbiamo farla uscire da questo posto unico per cercare di classificarla. E’ senza dubbio legata agli altri ordini, e in particolar modo al sacerdozio, perché è la madre del Sommo Sacerdote; ma non è essa stessa sacerdote. Ha assistito alla messa degli apostoli e ricevuto la comunione dalle loro mani. Nella sua anima non vi era alcun carattere sacerdotale: non aveva il potere di perdonare i peccati, non poteva assolvere, consacrare,rendere presente il corpo di suo figlio nell’eucaristia, mentre tale potere avevano gli apostoli infedeli, molto meno perfetti di lei. Maria è al di sopra di tutto questo perché è unicamente la madre di Gesù. Se volete comprenderla bene, dovete centrare tutto su questa realtà unica che è in lei. Si penetrerà allora assai più profondamente nella sua intimità, nella sua missione, e si comprenderà il vangelo, poiché tutta la condotta di Dio nei riguardi di Maria è stata dettata dall‘idea di farne una madre perfetta, senza alcun privilegio. Essa ha dovuto soffrire come una madre, dopo aver provato tutte le sofferenze che prova una madre accanto al figlio che si fa adulto.

Nella sua maternità universale si perpetua la maternità di Gesù

Poi c’è l’ascensione e la pentecoste - avvenimenti molto importanti perché segnano la fine di un’epoca della redenzione e l’inizio di un’altra. Fin tanto che Gesù era in terra, la Chiesa non poteva ancora esistere nella forma che le è propria, non aveva ragion d’essere. La Chiesa ha inizio con l‘ascensione, con l’assenza corporale definitiva di Gesù. Tutte le future apparizioni di Cristo sulla terra non sono che figure, salvo forse, si dice, l’apparizione di Cristo a Paolo sulla via di Damasco: Paolo è apostolo e deve aver visto Gesù uomo. Cristo dunque, nella sua condizione di uomo è definitivamente assente dalla terra. Qualcosa quindi finisce anche per Maria. A partire da quel momento, essa è più strettamente legata agli apostoli perché è con loro nella Chiesa.

Notiamo che se Maria fosse stata realmente privilegiata dal punto di vista della visione delle cose, non avrebbe avuto bisogno della pentecoste. In tale circostanza essa ha ricevuto lo Spirito Santo come gli apostoli, e il Signore aveva detto: “Vi sono cose che comprenderete (soltanto) allora”. Perché mai Maria avrebbe avuto bisogno d’essere tanto sapiente e di comprendere più di quanto riguardava i rapporti con suo figlio? Non aveva il compito d’insegnare. Non ha predicato. Ciò sarebbe esulato dalla sua missione di madre. Ha continuato, accanto agli apostoli, la sua missione di madre di Gesù: è stata per loro come un prolungamento della presenza di Gesù. Ha narrato ciò che sapeva. Ha ricevuto lo Spirito Santo. Essa era necessaria, agli inizi, perché la Chiesa potesse sussistere senza la presenza di Gesù. Ma io credo che il capovolgimento più grande nella vita di Maria cominci con la sua assunzione.

Il mistero dell’assunzione è stato definito di recente e io non so se ne comprendiamo pienamente il significato. E’ naturale, data la santità eccezionale di Maria e dato che essa era la madre di Gesù, che per lei la risurrezione sia stata anticipata; poiché in fondo, l’assunzione non è che una risurrezione, l’unione del corpo con l’anima in uno stato glorioso. Maria è risorta. Si dice che il suo corpo è stato assunto in cielo, poiché si tratta di una risurrezione non visibile sulla terra. Nessuno l’ha vista risorta, come è stato visto Cristo risorto, ma a partire da quel momento io dico che v’è qualcosa di nuovo, qualcosa d’immenso e, se ben riflettiamo, d’incomprensibile. Innanzi tutto perché Maria risorge? Era la madre di Gesù e, per essere madre, aveva bisogno del corpo. Aveva generato col suo corpo: l’anima separata madre di Maria non poteva più essere veramente la madre di Gesù. In un certo senso si può dire che la madre fosse realmente morta, anche se l’anima era viva; ma sarebbe concepibile che la realtà della madre di Gesù non fosse più? L’assunzione rivela la volontà di Dio che sua madre sussista fin da ora, in uno stato glorioso. E il fatto che Gesù abbia voluto accanto a se sua madre in quanto madre, costituisce la prova che ella ha una missione da assolvere. Poiché anche per noi Maria non avrebbe potuto essere madre in tutta l’estensione del termine se non avesse avuto più il suo corpo. E’ un mistero che ci aiuta a penetrare con maggior profondità la sua missione che è missione di maternità: la maternità per suo figlio, prima; poi quella iniziata il giorno dell’assunzione, la maternità dei cristiani.

Anche ora all’ombra del Figlio

Com’è possibile? Che cosa le chiederà Dio d’ora innanzi? Direi che nella vita di Maria vi sono due condizioni diametralmente opposte: fino all’assunzione un genere di vita, soprattutto esteriormente, del tutto comune, talmente comune che nessuno l’ha notata, salvo coloro che, amando Cristo, amavano pure la madre di Cristo. Essa scompariva all’ombra del Figlio. Ma ora, dopo l’assunzione, tutto cambia e la sua condizione attuale è strettamente legata alla natura stessa della Chiesa: il corpo mistico di Cristo non è soltanto una struttura invisibile e puramente spirituale, bensì qualcosa di misteriosamente umano. La stessa cosa vale per l’eucaristia: nell‘eucaristia è presente il corpo di Gesù, e Maria, col suo corpo glorioso, è in relazione materna con questa realtà. Così, dal momento in cui suo figlio vivrà sulla terra sotto quel nuovo aspetto che è il corpo mistico, la maternità di Maria nei confronti di Cristo continuerà in questa nuova forma, in senso direi quasi fisico. La grazia stessa è una realtà fisica che deriva da Cristo, e Maria è la madre di Cristo.

Ma sappiamo forse tutto ciò con esattezza? E come osiamo affermare una cosa simile?

Come pensare che una donna, che ha cervello e cuore umani e che per la sua umanità stessa è limitata come qualsiasi altra creatura, possa conoscere ogni uomo che vive sopra la terra e occuparsi di lui? E’ possibile? Sì, e possiamo affermarlo con certezza, perché così afferma la Chiesa, da parte di Dio. Ci rendiamo conto perché la Chiesa è per noi così grande e importante? Chi oserebbe fare tale affermazione? Ma la Chiesa l’ha veramente fatta in termini tali da impegnare la nostra vita? Per credere a un’asserzione come questa bisogna anzitutto comprendere che cosa significhi. E’ bello abbandonarsi all’immaginazione, ma dobbiamo porci di fronte alla realtà: può dunque una donna, creatura umana, conoscere ogni uomo e conoscerlo con sufficiente libertà da potersene pure occupare? Può esser vera una cosa simile? Tra tutte le denominazioni riferite a Maria, una mi sembra tanto essenziale: quella di madre di Gesù perché determina esplicitamente la maternità di Maria nella sua condizione attuale. L’estensione della maternità di Maria, fa si che essa sia necessariamente presente, in quanto madre, ovunque si determini uno sviluppo o una nuova nascita di suo figlio: ogni volta cioè che la grazia agisce nelle nostre anime. Maria non può esserne assente, perché vi è qui qualcosa di suo figlio, di cui lei è la madre.

La posizione di Maria dopo l’assunzione è quindi antitetica alla posizione che essa occupava in terra. In quel tempo, la semplicità della fanciulla, dell’umile giovinetta d’Israele, della madre di famiglia, modesta come qualsiasi altra madre, più modesta di tutti gli altri santi perché la maggior parte degli altri santi ha fatto qualcosa: hanno fondato ordini, hanno creato delle scuole di spiritualità; mentre essa non è stata altro che “madre” e nella sua missione non troverete altro. Quanto a noi, siamo personalmente impegnati in questo nuovo ordine di realtà, e questo ordine dobbiamo vivere in un senso che forse non comprendiamo ancora abbastanza: lo si voglia o no, Maria è nostra madre, e in modo tale che la vita cristiana non può svilupparsi in noi senza il suo intervento.

La vera devozione a Maria consiste nello sviluppo della nostra spiritualità cristologica e trinitaria

Vorrei che, dopo quanto abbiamo detto, voi conservaste un’idea esatta di Maria e della posizione che deve occupare. Non potete porla in primo piano, e non potete neppure considerarla la prima dei santi, sul loro stesso piano. Dovete considerarla a sé. Ho sempre notato con meraviglia quanto sia confusa la nozione che si ha in occidente di tutte queste cose; quando si entra in una chiesa ci si sente sconcertati dalla proliferazione di statue, tra le quali un santo patrono qualsiasi occupa di solito, per le proporzioni e l’ubicazione della sua effige, la posizione preminente. Come comprendere qualcosa della gerarchia della fede e delle vere realtà del mondo invisibile? Che la chiesa sia dedicata a un determinato santo, non è una ragione perché questi sia continuamente il personaggio in primo piano. Mettetevi al posto di coloro che non sono in grado di fare il necessario ridimensionamento, degli estranei, dei neofiti. Una delle grandi doti della Chiesa orientale è certamente costituita dal fatto che l’iconostasi rappresenta una meravigliosa sintesi della teologia, dove non vi è nessun errore di prospettiva: il Salvatore è sempre a destra, e a sinistra sua madre!, poi, su un altro piano, i santi.

Non so se vi siete mai recati in Sicilia, Se sostate a Palermo, entrate nella grande chiesa bizantina di Monreale, poco sopra la città. Questa cattedrale, innalzata nel medio evo, è stata interamente rivestita di mosaici a opera di artisti bizantini. Provatevi ad analizzare l’ordine delle immagini. E’ una cosa meravigliosa. Tutta la chiesa della terra e del cielo è presente in modo mirabile: Cristo re, in fondo all’abside centrale, domina tutto. Maria non occupa una posizione gerarchica nella Chiesa: non è una colonna della Chiesa terrestre. Per questo nelle absidi laterali, a fianco di Cristo, son rappresentati san Pietro e san Paolo che costituiscono le fondamenta della Chiesa. sulle pareti si svolge tutto il mistero della storia dal principio della creazione, e la storia della Chiesa: Adamo, Eva, i profeti, l’annunciazione, la vita di Cristo. E Maria dov’è? Al Centro, al di sotto di suo figlio, un po’ più piccola. Maria non rientra nella struttura della Chiesa, occupa una posizione unica, dopo suo figlio, una posizione che non appartiene che a lei:

Quando si contemplano simili capolavori, capolavori d’arte e di senso dei misteri divini, e si guarda poi alle nostre chiese, riesce difficile rassegnarsi a simile mediocrità d’espressione. Perché non tradurre in immagini la bellezza delle realtà invisibili? Perché rassegnarsi a questa negligenza che ha finito per contraddistinguere con un marchio di standardizzazione e di volgarità tutto quello che la Chiesa occidentale ha portato con sé attraverso il mondo, fin dalle lontane missioni? Quale la conseguenza e insieme la causa di tale stato di cose, se non che i nostri cristiani hanno sì delle devozioni, ma non il vero senso dei misteri della loro fede? La loro pietà è buttata via, le loro devozioni grette; non posseggono il senso della Chiesa di Cristo né di Maria sua madre. E’ forse inutile cercare altre cause sul rispetto umano che gli uomini spesso dimostrano riguardo alla devozione a Maria.

E’ probabile che, se si insegnasse loro a conoscere in modo più conforme alla realtà, essi avrebbero spontaneamente un’autentica disposizione verso di lei.

Cercate dunque di farvi un’idea esatta della parte che Maria occupa nella vostra vita; e se nella vostra vita non la trovate cercate di porvela, o, più esattamente, cercate di accorgervi che essa è nella vostra vita, prendendo coscienza di tale realtà. E’ del tutto differente rispetto a qualsiasi altro santo che, durante la vita si supplica pregandolo di interessarsi a voi: la Vergine, lo vogliate o no, è già nella vostra vita, e in modo indispensabile quanto Cristo: ma al suo proprio posto e in una maniera che ora dovete imparare a scoprire. Maria è legata al prodursi della grazia in maniera unica, come nessun altro santo. Se possiamo far si, mediante la luce della nostra fede, che Cristo sia presente nella nostra vita, abbiamo pure la possibilità che anche Maria, a suo modo, sia presente nella nostra anima. Ritengo che appunto questa presenza sia l’esatto termine della vera devozione a Maria.

* Arcivescovo di Foggia

Il macroecumenismo


Il volto diverso di Dio
nella comunione delle culture

di Marcelo Barros



Tra tutte le questioni democratiche nessuna è arrivata al XXI secolo in modo tanto mal risolto quanto il razzismo. Essa si manifesta in forme nuove di discriminazione sociale e di protezione delle società ricche contro l’onda dell’ "invasione dei barbari", che minaccia le isole di prosperità del primo mondo. Per lo stato americano non sembra aver importanza la quantità di poveri latino-americani assassinati dalla polizia, o uccisi dall’inclemente deserto quando tentano di attraversare la frontiera dal Messico agli Stati Uniti. Ogni giorno sorgono nel primo mondo nuove denunce di schiavitù mascherata ed esplodono ovunque conflitti etnici nei quali, oltre alle questioni economiche e sociali, è l’odio razziale a costituire un importante fattore di violenza.

I volti di Gesù
Prima parte

di Bruno Secondin

 

 

I - Chiarimenti

Dobbiamo chiarire fin dall’inizio che bisogna evitare di percorrere la storia allo scopo di individuare quali siano le spiritualità criostocentriche, per distinguerle da quelle che non lo sono.

Non c’è dubbio che non vi può essere una spiritualità cristiana allo stesso tempo anche «cristocentrica», se il Cristo non occupa cioè il centro. Per quanto teocentrica essa sia, per essere autenticamente cristiana, dovrà essere un’esperienza di discepolato (= sequela) dietro a lui in maniera radicale. Qualunque teocentrismo dovrà essere ancorato al Dio di Gesù Cristo.

Il nostro discorso sarà allora fatto a due livelli:

- Il piano dell’esperienza cristiana: il cristocentrismo è il costitutivo dell’esperienza stessa, senza di esso non esiste esperienza cristiana;

- Il piano delle sintesi vissute: dipende dalla cultura, dalla sensibilità, dal momento storico. Ma in tutto — in ogni specificità:

- Bisogna cogliere il cristico, come autenticità cristiana. Senza la via di Cristo non si può arrivare al Padre, e senza arrivare al Padre non si può neppure essere aperti all’autentica «verità» del Figlio.

Mettiamo anche in guardia da un pericolo notevole nel leggere i dati storici: cioè la tendenza ad usare degli schemi ideologici. Con tale atteggiamento si rifiuta, si accetta, si parzializza la testimonianza e il valore delle esperienze vissute.

Per esempio, lo schema contemplativo: quando si privilegia il trascendimento più o meno radicale del corporeo e si svaluta il fatto incarnatorio. E si parla di «nudità» in senso di immutabilità, destoricizzazione, «totale astrazione». Soprattutto negli spirituali occidentali si manifesta questa tendenza (la mistica astratta o delle essenze) e il loro libro preferito è il Vangelo di Giovanni (cf. la sua frase: «è bene che me ne vada..»). Teresa di Gesù e Giovanni della Croce hanno superato questo scoglio, affermando la presenza dell’umanità di Cristo anche nei momenti più «mistici».

Per esempio, lo schema della chiesa spirituale: caratteristica della chiesa medievale, e di Gioacchino da Fiore (+1203) in particolare (ma presente anche in altre epoche e movimenti: montanisti, donatisti, fratelli del libero spirito, illuminati di varie epoche, alcune tendenze della teologia liberale...). Si legge la storia per età: dopo il Vangelo del Regno predicato da Cristo, ci sarà il Vangelo dello Spirito: nel quale viene superata la tensione tra legge e spirito, gerarchia e libertà carismatica, corporeo e spirituale, ecc.

Per esempio, la tendenza alla cristologia etica: che vuoI dire risolvere la cristologia in «cristianesimo», cioè in programma di azione per il cristiano. Cristo diviene senso dell’esistenza e della storia, «progetto» di maniere di vivere dell’uomo (per-gli-altri, per esempio), senso dell’esistenza e della storia, cifra della profondità dell’esistenza. E come un Gesù ridotto a programma etico, non avvenimento vivo di grazia operante, storicamente fondata negli eventi salvifici (pasquali specialmente). Solo il rapporto con la persona storica di Gesù dà all’esistenza «normata» da quella Persona l’autenticità «cristiana» della sequela-imitazione.

Su questi problemi avremo comunque modo di ritornare alla fine della panoramica storica.

 

II - Il punto di vista biblico

Dal punto di vista teologico e biblico/esegetico, si possono trovare moltissime sintesi nelle opere di cristologia, là dove esaminano le categorie bibliche del mistero della salvezza realizzatasi in Cristo. Ad esse rimandiamo, senza ripetere qui più di quanto sia necessario, quello che in esse è ottimamente esposto1. Il nostro intento è quello specifico della spiritualità.

L’attuale feconda stagione di letture bibliche, non ignare delle esigenze .esistenziali della riflessione sulla Parola, ha alimentato un proliferare di testi, qualitativamente anche eccellenti, almeno in alcuni casi, sulla «spiritualità biblica». Di conseguenza disponiamo oggi di aiuti importanti per capire meglio in che cosa consista la «normatività» dell’esperienza spirituale primitiva rispetto a quella posteriore derivata. La migliore conoscenza del contesto culturale e della pietà delle tradizioni sapienziali e dei gruppi ascetici, ci consente di vedere l’intreccio fra tradizione e novità, fra correnti di pietà e simbologie religiose, fra immaginario apocalittico e figure messianiche.

La spiritualità perciò in questi vent’anni ha acquisito una matura base biblica, scientificamente corretta e vitalmente ispirativa. E’ questo un fatto di grande importanza, che i secoli passati non conoscevano assolutamente: non solo come letteratura dell’esperienza, ma anche come sapienza che dirige l’esperienza. I saggi di spiritualità biblica stanno pertanto diventando proposta di percorsi mistagogico all’appropriazione soggettiva del “mistero” di vita e di fedeltà di Dio. Ed è quello che più conta in questi nuovi studi.

1. PLURALISMO E UNITÀ ALL’INTERNO DELLA BIBBIA

Ci si accorge subito — anche ad un accostamento superficiale — che nel testo attuale dell’Antico Testamento e ancor più logicamente nel Nuovo Testamento, quando si parla del Cristo, si ha davanti una pluralità abbastanza ampia di asserti cristologici, di formule kerigmatiche, di titoli cristologici, di inni liturgici, di simboli e immagini. Che cosa si deve dire di questa diversità e pluralità che sembrano far consistere la dottrina cristologica biblica in un certo numero di frammenti disparati per contenuto e forma?

Bisogna tener presente che il movimento cristiano primitivo non era culturalmente omogeneo: v’erano ambienti particolarmente ostili alla cultura dominante (che era lo ellenismo) in nome della fedeltà alla tradizione questa tendenza va sotto il nome di giudeocristianesimo. Ma l’incontro con quello che fin dal secolo scorso si usa chiamare «ellenismo» (nome posto in uso da Droysen), avvenne presto, rimanendone il cristianesimo ampiamente segnato, anche se sotto certi aspetti non l’ha accettato del tutto. La tendenza più marcata è il superamento del particolarismo culturale, verso un cosmopolitismo geografico e culturale, accompagnato — per dialettica interna — dal recupero di un inedito atteggiamento individualistico, quale tamponamento dello smarrimento di fronte alle dimensioni macroscopiche della nuova situazione.

All’interno della visione universale propria all’ellenismo, v’è, contemporanea all’apparire del cristianesimo, anche l’insorgenza di un’altra corrente o movimento: la gnosis, cioè l’assolutizzazione della «conoscenza» come mezzo unico di salvezza. E’ una tendenza che di fatto si costituisce sulla visione pessimistica del cosmo e della storia umana: questo «mondo materiale» è regno della tenebra, e del male, «pienezza del male» (come dice il Corpus Hermeticum, 6,4). L’uomo deve, con il soccorso di un rivelatore divino, recuperare la propria identità superiore, ricordando la sua «origine», ricongiungendosi, mediante la gnosi, col mondo celeste.

La «configurazione» dell’identità cristiana della prima generazione subirà gli influssi sia dell’ellenismo che della gnosi; ma allo stesso tempo elaborerà una sua visione di universalità, con un processo di inculturazione, che non è stato del tutto pacifico.

Ciò pone il problema, cui molti hanno cercato di dare una qualche soluzione: se sia mai possibile trovare un’unità, «un’unica teologia biblica, cresciuta da unica radice e che si mantenga con ininterrotta continuità». Tutta la vicenda della Leben-.Jesu-Forschung ha qui la sua giustificazione, e in molti hanno cercato di dare soluzioni.

La soluzione non può essere separata dal coinvolgimento dell’esperienza ecclesiale, la quale trova il suo cardine nell’evento morte/risurrezione e lo sviluppa di lì. E’ in ultima analisi il rapporto tra il Gesù della storia e il Gesù della fede che viene qui in risalto e di cui è piena la discussione cristologica recente. Rimane da ricordare anche che secondo la Dei verbum resta centrale la testimonianza dei quattro evangeli nel corpo degli scritti neotestamentari (Evangelici merito excellere...: DV 18).

La cristologia dei manuali, fino ai tempi recenti, è stata una cristologia dell’ontologia calcedonense; la dimensione storica del mistero di Cristo è stata sentita per lo più come un’appendice meno rilevante dal punto di vista teologico. Ne derivava un discorso ontologico e assiologico sul Signore, ma non una sottolineatura adeguata della sua centralità sul piano della storia della salvezza.

Non possiamo entrare in tutti gli aspetti vetero e neotestamentari della figura del Cristo, diciamo le figure, i simboli, i titoli,ecc.,con cui la comunità dei padri che attendevano (AT) e dei credenti che «hanno visto» (NT), ha cercato di ricordarsi e di esprimere la propria testimonianza su di lui. Tali figure non state inventate dalla primitiva comunità cristiana; ma si trovavano, già radicate nell’immaginario di Israele e pertanto possedevano un significato abbastanza delineato. Possiamo citare, ad esempio, figlio dell’uomo, servo, sommo sacerdote, logos, profeta, figlio Dio, messia, pastore, re, sapienza, Emmanuele, Salvatore e Redentore, ecc. Ciascuna figura riveste un significato proveniente da molteplici influssi esterni e da diverse tradizioni Il problema individuare quale figura o titolo può operare come «sintesi».

Sono molti i tentativi che cercano di individuare sostenibili interpretazioni in grado di armonizzare le differenze: sia attraverso la scelta di un titolo che possa fare da sintesi (per esempio, Regeard suggerisce Figlio di Dio); sia attraverso l’accentuazione:un titolo che meglio riesca ad esprimere un’interpretazione risposta delle attese degli uomini di oggi, senza scadere in riduzionismo antropologico (per esempio, L. Boff suggerisce il titolo liberatore 2. Ci pare che la nostra preoccupazione deve essere più attenta alle esigenze della «esperienza spirituale»; per cui noi ci limiteremo a riprendere il suggerimento di CM. Martini, che ci sembra suggestivo e utile alla Spiritualità.

Note

1) Ne raccomandiamo uno in particolare: quello che si trova in Mysterium Salutis, ai volumi V e VI in italiano (III in ted.). Ci riferiamo in particolare ai contributi di N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, pp. 139-287 e R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in ibid., pp. 289-491.

2) E’ la tesi di fondo del suo libro Gesù Cristo liberatore.

 

III – I Padri

Nella giornata alquanto movimentata della risurrezione, secondo la narrazione di Luca, le tre «apparizioni» — dei due «uomini» alle donne (24,4), di Gesù ai due di Emmaus (24,15), e poi agli undici e agli altri (24,36) — conducono a trovare la chiave di interpretazione dei fatti «nuovi» e «incomprensibili» in ciò che era già stato detto e scritto: «da Mosè e da tutti i profeti in tutte le Scritture» (24,27), «nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi» (24,44), L’interpretazione «in prospettiva di Gesù Cristo» di tutta la tradizione non se l’è inventata la comunità dei suoi seguaci, forzando la storia secondo le esigenze a questa estranee, ma è un metodo «interpretativo» che Gesù stesso ha praticato e suggerito, prima e dopo la risurrezione. Si tratta di attualizzazione del progetto interno, di «senso pieno» di intuizioni e fatti, di arricchimento di una tradizione di letture preziose e di cui oggi meglio conosciamo le movenze3.

Gesù Stesso si presenta come «ermeneuta» delle Scritture: «aprendo loro la mente perché comprendessero» (Lc 24,25); proclamando che il testo si realizza in quel momento («oggi per voi si compie»: Lc 4,21) manifestando di voler realizzare le anticipazioni («deve compiersi in me questa parola della Scrittura»: Lc 22,37),ecc. Ancor più, è Gesù stesso che «si riconosce» in alcuni typoi dell’Antico Testamento e attesta di essere in «continuità» con loro.

Si tratta di personaggi storici, come Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Isaia, Giona: cf. Mc 2,25-26; 4,12; 6,35ss; Mt 12,40-42; Lc 4, 25-27; o più recenti, come Giovanni il Battezzatore (Mc 9,13).

Si tratta di forme istituzionali e attività, come l’alleanza o il sacerdozio: Mt 12,6; Mc 14,24.

Si tratta di esperienze di Israele che ora si ripresentano in lui: Mt 4,1-11; Mc 12,10-11.

I disastri e le disgrazie, come anche l’incredulità e il rifiuto, si ripetono ora come in passato; Mc 13,14.24ss; Mt 11,23; 23, 28; Lc 21,24; 23,30.

Le speranze di un nuovo Israele a dimensioni universali stanno per compiersi nella sua chiesa: Mc 13,27; Mt 8,11; 24,31.

Ma la cosa più importante di tutte è tener conto preciso dell’ambiente storico-religioso in cui si è trovato Gesù, degli elementi vitali più influenti e delle forme principali di spiritualità in quell’ambiente.

1. Il contesto

Conoscere il contesto e vedere la sua osmosi con l’esperienza di Gesù, è la prima condizione per una ricerca autentica.

Il centro propulsore e unificante della spiritualità, vissuta in quel momento, ce Io indicano le fonti rabbiniche. Ricordiamo il detto attribuito dalle Pirqe Avot (Massime dei Padri) a Simone il Giusto, membro della grande Assemblea: «Il mondo poggia su tre cose; sulla Torah (cioè l’ammaestramento), sul servizio (il culto a Dio, ‘avodah) e sulle opere di misericordia (ghemilut chasadim4. Recentemente P. Grelot ha sostenuto — e sembra con buon fondamento — che l’attesa di un «mediatore di salvezza» non è centrale nella speranza giudaica, mentre il vero centro sarebbe costituito dal regno di Dio e dall’attaccamento alla Torah, intimamente tra loro connessi5.

La tradizionale concezione — teorica e pratica — del dato veterotestamentario come un complesso di «promesse» (o anche una serie di profezie) che a priori e con tutta lucidità, si riferiscono a Gesù di Nazaret e che in lui trovano un adempimento evidente e confermante per le aspettative dei discepoli, è oggi superata e insostenibile. L’abitudine a frammentare il testo biblico per trovarvi affermazioni anticipatrici (i «dicta probantia»), misconosce e anche forse tradisce il senso vero dei passi che utilizza, sradicandoli dal tessuto originario unitario nel quale solo possono essere perfettamente intesi.

Quello che va invece attestato e conservato è che l’evento di Cristo va interpretato «secondo» la Scrittura; la quale per noi è stata scritta. Bisogna allora individuare non tanto il puro dato letterario o terminologico, ma le categorie fondamentali, entro cui si può comprendere il Cristo redentore nel contesto di tutta la rivelazione. Ciò vale a dire che bisogna evidenziare le categorie «cristologiche» e le strutture «soteriologie» che si mostrano costitutive per un’elaborazione dell’idea di mediazione salvifica.

Più che la raccolta delle prefigurazioni, serve invece cogliere le intenzioni e le aspirazioni che conducono a certe categorie di «mediatore salvifico». E non dimenticare nemmeno gli archetipi mitici, prebiblici e extrabiblici, che possano aver dato il loro influsso.

2. Il fallimento

Un’altra importante osservazione da rilevare; che i tre maggiori tipi di mediatori di salvezza veterotestamentari: re, profeta, sacerdote (cui si dovrebbe aggiungere anche altri titoli o altre maniere di esprimere gli stessi titoli; angelo di JHWH, agnello, Figlio dell’uomo, sapienza, servo, unto, ecc.) non hanno una storia lineare e in espansione. Anzi conoscono divergenze all’interno secondo le varie situazioni storiche o le tragedie nazionali, conoscono discontinuità ed evoluzione, compreso l’inaridimento. Tanto che qualcuno ha detto che l’evoluzione della teologia di mediazione salvifica, sia nella forma della regalità, che in quella del sacerdozio, che in quella del profetismo, non raggiunge nei fatti nessun vertice: piuttosto; si rivela storia di un fallimento.

Ma questa storia di fallimento risulta definitivamente superata in Cristo Egli è compreso secondo il Nuovo Testamento come colui in cui si unificano tutti i tipi di mediatore antecedenti, sia celeste che regale, sacerdotale che profetico.

«Egli attua e unifica quei diversi aspetti escatologici che nell’Antico Testamento risultano ancora frammentati... Definitivamente superata risulta pure la storia del fallimento: in Cristo, in questo mediatore universale, che realizza e al contempo personifica il vero Israele, la teocrazia e la mediazione di salvezza JHWH ed Israele, Dio e l’uomo, si trovano così intimamente congiunti da escludere ormai per sempre ogni possibilità di dissociazione»6

In linea concreta fra gli elementi che strutturano la spiritualità ebraica bisogna anche ricordare; la preghiera, lo Shemah, e il digiuno, il culto e la prassi etica, i vari atteggiamenti verso la Torah, le forme di discepolato e di «compagnia» (i chaverim), le comunità, i poveri, il lavoro, la saggezza di vita.

Note

3) Cf. M. Cimosa, Lettura cristiana dell’Antico Testamento, in A. Bonora, La spiritualità dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1987, pp. 451.514.

4) Pirqe Avot, ed. Y. Colombo, Roma 1977.

5) Cf. il suo libro La speranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981.

6) N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium Salutis, V, p. 285.

 

IV - La fisionomia ed il vissuto, spirituali, di Gesù

La fisionomia spirituale che emerge dal Nuovo Testamento circa il volto di Cristo, le linee di forza del suo messaggio e della sua esperienza, gli influssi che ha saputo esercitare immediatamente sui discepoli e attraverso essi sul primo nucleo dei credenti, tutto è oggi già abbastanza studiato. Ultimamente sono state meglio anche sottolineate le attese messianiche del tempo in cui Gesù di Nazaret visse e le idee forza della spiritualità del momento. Gli ultimi 40 anni di studi biblici sono in ciò un periodo di enorme progresso.

La questione sulla quale ancora si discute, ma che trova sempre meno oppositori: è se sia possibile indagare su quale sia stata la vita spirituale di Gesù di Nazaret, cioè il suo vissuto esperienziale di fronte a Dio.

Bultmann è del parere che voler conoscere Gesù secondo la sua individualità naturale sia motivato da un bisogno «carnale», (2Cor 5,16) che non può condurre alla fede vera. Per lui l’indifferenza voluta verso la personalità di Gesù è essenziale alla fede.

Ma oggi la tendenza in uso è quella di tentare di esplorare il vissuto di Gesù, al di là e al di sotto dei messaggio «confezionato. e trasmesso» dalla comunità dei seguaci, la quale lo ha fatto in. categorie non «asettiche». Diversi scrittori attuali di spiritualità biblica, con tutte le cautele del caso, hanno tentato di «ricostruire» il vissuto spirituale di Gesù, e anche la sua «proposta di spiritualità». È quello che hanno cercato di fare per esempio Guillet, Goffi, Fabris, con una certa ampiezza e buon esito. Con meno ampiezza e completezza Barbaglio e Dupont in alcuni studi recenti.

Per cui possiamo ora disporre di vari contributi, anche se alcuni di genere parziale, tesi a ricostruire l’esperienza religiosa — o il vissuto spirituale — di Gesù di Nazaret, da cui derivano anche le proposte (sue) di una nuova etica per i suoi discepoli, perché la condividano.

«Si nota una stretta correlazione, scrive Barbaglio7,a livello di Gesù storico, tra simboli religiosi e codici etici di vita; i primi fondano i secondi e questi traggono la loro giustificazione da quel]i. Il disvelamento del volto di Dio che stava impresso nella sua anima non era fine a se stesso, ma mirava a suscitare comportamenti e atteggiamenti conseguenti nei destinatari della sua parola e azione. Egli stesso si comportava in maniera coerente con le immagini religiose vive nella sua persona,e ad esse si riferiva quando intendeva giustificarsi davanti a precise contestazioni dei suoi critici... Parlando e operando disvelava la complessa immagine di Dio da cui era “agito”, affinché anche gli altri, appropriandosene ne fossero coerentemente animati nella loro vita».

Ci proponiamo ora di tracciare alcuni linee delle principali caratteristiche del vissuto spirituale di Gesù di Nazaret, con riferimento peculiare alle testimonianze dei Vangeli sinottici, senza alcuna pretesa di essere completi.

1. Identità spirituale di Gesù

In base alle testimonianze evangeliche, Giovanni il Battezzatore, che si riconosce precursore del «Messia» era propugnatore di una tendenza riformatrice antistituzionale, moderatamente innovatrice. Egli ha per punto focale l’imminenza del giudizio di Dio, e quindi insiste su gesti dì purificazione (il bagno purificatore) e la conversione degli atteggiamenti (Lc 3,3-18). Egli non è il solo a proporre una religiosità più dinamica e autentica. Altri proponevano cammini simili: si pensi al maestro fondatore della comunità di Qumrân e alla scuola rabbinica di Hillel. Con loro Gesù ha dei rapporti nella visione generale delle cose (per esempio, interiorizzazione), ma anche se ne distacca in maniera inattesa, come manifesta la crisi di Giovanni e dei discepoli nei suoi confronti (Mt 10, 3; Gv 6,66s).

Centrale elemento discriminante è l’annuncio del Regno, come in atto qui e ora, e attivo nella sua persona. «Cristo si presenta come I’autobasileia”, dice Origene. Il tema del Regno era uno dei più tradizionali nella liturgia del tempio e nell’assemblea sinagogale. Ma Gesù non fa riferimento a questi contesti per proclamarsi «realizzatore». E per una investitura profetica, secondo Luca, che Gesù prende l’iniziativa della proclamazione, e ciò avviene nella scena programmatica di Nazaret (Lc 4,18; Is 61,1).

Un atteggiamento spirituale di rilievo di Gesù è la sua esperienza di orante. Luca soprattutto rileva questo pregare con frequenza e in situazioni di vita molto diverse. Oltre al clima generale della preghiera, alla sobrietà degli atteggiamenti è importante sottolineare il valore del titolo Abba, che va ritenuto originale e il «movimento nello Spirito» (Lc 10,21-22). Tuttavia la sobrietà estrema sul suo «intimo», nonché i probabili ritocchi operati dalla mentalità della comunità, non consentono di ricostruire con tutta esattezza il «vissuto» di Gesù, anche se appaiono evidenti sia la sua libertà e la fiducia, che la profondità del rapporto figlio-padre.

2. L’immagine di Dio

È molto importante sapere quale immagine Gesù si fa e annuncia di Dio, perché qui sta uno dei focus della sua stessa spiritualità. Le circa 40 parabole sono forse lo strumento simbolico e intenzionale più utile a scoprirlo.8 «Dio di Gesù» che emerge attraverso le parabole è un Dio che si fa vicino, e in particolare si fa attento a tutti gli «emarginati». Dalla parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) a quella del figlio prodigo (Lc 15, 11-32), da quella degli operai alla vigna (Mt 20, 1-15) a quelle del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10-14), degli invitati alle nozze (Lc 14,16-24; Mt 22,2-10) e fino all’inno di giubilo (Mt 11,25-26), i testi offrono un’immagine di Dio dai tratti fra loro omogenei. Non un Dio dalla parte degli osservanti e dei pii arroganti, garante dei privilegi e della sapienza insuperbita. Gesù propone piuttosto un Dio che prende la parte degli esclusi, degli ultimi, dei semplici, dei peccatori.

«Il Dio di Gesù è un Dio che non si lascia annettere da una casta o da un gruppo chiuso. La sua maniera di essere il Dio di tutti lo fa anzitutto il Dio degli esclusi e di coloro per i quali la società religiosa benpensante non ha che disprezzo. Il discorso che Gesù tiene su Dio lo condurrà ben lontano, poiché in fin dei conti il Dio di Gesù Cristo sarà il Dio di un Messia crocifisso».9

Ma c’è anche un’altra immagine di Dio: è quella di un Dio che non accetta mezze misure, che esige la risposta totale dell’uomo. Una risposta di imitazione della sua bontà (cf. il servo impietoso: Mt 18,23-34), la fiducia anche di fronte al fallimento (cf. grano che muore: Mc 4,3-8), la certezza di una storia feconda anche se misteriosa (crescita della spiga: Mc 6, 26-32; cf. anche Mt 13,31-33; Lc 13,18-21). Il vertice comunque e insieme la profondità del rapporto figlio-padre si incentra nella vicenda pasquale, dalla preghiera del Getsemani al grido sulla croce. Nell’esperienza di abbandono di Dio, apparentemente assente, si manifesta la confidenza estrema nel Padre, congiunta con la volontà di perdono e di misericordia per tutti.

Così Gesù, che ha fatto insieme esperienza di un Dio vicino e nello stesso tempo assente, impone globalmente una spiritualità di «animosa fides» e di speranza disarmante, alimentata più dal fallimento che dalla vittoria immediata.

3. L’amore come progetto dl vita

A somiglianza degli altri maestri, anche Gesù identifica la dottrina di «tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40 e parall.) nel precetto dell’amore, spinto però ad una radicalità estrema: fino al nemico, a colui che ci fa del male o ci odia. Un amore «smisurato» che è riconosciuto anzitutto in Dio misericordioso e che, per la relazione filiale — «perché siate figli del Padre vostro» (Mt 5,45; Lc 6,35) — si fa naturale atteggiamento dei discepoli.

«L’amore di Dio, vissuto nella relazione vitale di figlio-padre, non solo è un modello dell’amore tra gli uomini, ma è la fonte interiore delle nuove relazioni definite in termini di amore gratuito e universale».10

L’interiorizzazione di questo amore già era stata intuita da alcuni profeti, ma Gesù lo fonda sulla relazione profonda col Padre, dal quale si riceve come dono e dinamismo. E per questo può assumere dimensioni umanamente impossibili, come quella del perdono totale e gratuito, che a sua volta chiama ad entrare nella dinamica dell’amore anche il colpevole (Lc 7,47).

4. Rinnovamento dei rapporti nei gruppi sociali

Rientrano nella prospettiva religiosa di Gesù anche relazioni umane rinnovate: ma anche in questo caso si tratta di motivazione decisamente religiosa. I settori più evidenti sono i seguenti.

I rapporti coniugali, che si devono basare sulla fedeltà reciproca e indissolubile, come inscritta nel progetto creatore; ma la «chiamata» di Dio può giustificare e sostenere anche una situazione di solitudine affettiva, non priva di problemi anche se serena (Mc 10,28-30 e parall.).

I rapporti familiari, per un certo verso vengono ridimensionati nei confronti del primato della sequela di Cristo e della relazione di «famiglia» nata dalla fecondità della Parola (Mc 3,33-35). Ma anche si notano nella vita di Gesù degli elementi di affettuosità, i di attenzione al dolore e alle gioie delle famiglie amiche, come quelle di Lazzaro e di Pietro.

I rapporti sociali sembrano orientati in maniera contro-culturale, per la preminenza della cifra del «servo», che manifesta un rovesciamento dei ruoli e la preminenza degli emarginati nei confronti del Regno. I testi sulle beatitudini, sul rapporto con i peccatori, la rivalutazione dei bambini per entrare nel «Regno» ne sono una dimostrazione. Gesù stesso presenta la sua fisionomia come segnata dal modello del «servo» (cf. Mc 10,42-45).

«Gesù si è fatto “servo” all’interno del gruppo per libera scelta come prolungamento e attuazione dei suo essere “servo” davanti a Dio. La sua totale dedizione al regno di Dio si traduce nelle relazioni con i discepoli in uno stile di piena disponibilità. Di qui matura il modello alternativo dell’autorità fondata su “rapporti di amore”». 11

L’uso dei beni materiali occupa un evidente rilievo nella spiritualità di Gesù. Non si può certo affermare che Gesù ha provato la condizione di miseria o di schiavitù. Ha avuto, durante gli anni di attività pubblica, amici generosi e simpatizzanti che lo accoglievano; e nel suo gruppo c’erano disponibilità finanziarie (c’era una cassa comune: Gv 12,6) e gente facoltosa che lo sosteneva, come quel gruppo di donne che lo aiutavano «coi loro beni» (Lc 8, 1s). Ma è un fatto che il tema dei poveri e della vigilanza di fronte all’idolatria dei beni materiali, è frequente nei suoi sermoni e parabole. La ragione è certamente di origine religiosa: la preminen.za del regno di Dio su tutte le cose esige quindi una gerarchia di valori differente da quella della mentalità corrente.

5. Il vertice

Il vertice dell’esperienza spirituale e del modello di vita di Gesù si ha nella sua esperienza del limite e della morte violenta. Egli non era affatto indifferente per la vita: l’amava, la difendeva, strappava dal male i sofferenti, perfino strappava alla morte le sue prede. Godeva dell’amicizia sincera e anche della tavola ospitale: perché si trovava bene tra amici. Amante della vita e suo difensore, dovette, affrontare la violenza e perfino la morte, proprio come ultima tappa del suo scontro con tutto ciò che le produceva, magari ammantato di «pretesto» sacro. E si trattava di poteri economici, politici, religiosi, culturali .

Gesù «vive» la propria morte «consegnandosi» per restare fedele fino in fondo, come ultimo gesto di libertà nell’amore. E’ morto perché amava la vita: e l’amava tanto fino a metterla in gioco per recuperarla per tutti «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per essere servo e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45)

La sua fedeltà non sta solo nel morire per noi, ma anche nell’inventare altre modalità, oltre la morte, per essere per noi vita e speranza assolute: e la istituzione dell‘eucaristia memoriale {del suo amore e del suo sangue «per la nuova alleanza», sta a dimostrare la fantasia creativa di colui che ci amò in maniera «divina».

«Perché le parole profetiche della cena divengano realtà fino alla fine de secoli bisogna che egli spiri e rimetta a Dio il suo spirito (Lc 23,46). Allora, spogliato di tutti i limiti e accolto dal Padre nella sua gloria, tutto quello che egli è, il suo corpo, la sua vita, le sue parole e i suoi gesti si trovano a portare fino alle estremità dell’universo e fino alla fine della storia la potenza dello Spirito (At 2,33). Dal costato aperto per sempre, dal corpo liberato dalla morte, nascono la chiesa e i sacramenti (Gv 19,34; 20, 22)».

6. Il «vissuto spirituale» di Gesù Risorto

Non c’è dubbio che l’esperienza spirituale di Gesù risorto rimane un mondo misterioso in cui non si penetra, perché è il mondo del Dio invisibile. Non è in continuità semplice con la vita di: Gesù, è un evento che appartiene ad un altro ordine, e non si può «umanamente» verificare. Attraverso la risurrezione Gesù di Nazaret passa nella vita definitiva e piena, è strappato alla nostra finitudine, che era anche la sua (volontariamente assunta). Proprio perché è un «evento escatologico», che va collocato nel Regno della fine, nel futuro della storia, esso va interpretato attraverso i «segni».

meno uomo di Gesù sofferente: egli ha ormai compiuto definitivamente la vocazione di uomo, la rivelazione dell’uomo in Gesù «nei giorni della sua carne». E’ il crocifisso che diventa risorto e il risorto rimane il crocifisso: come ricorda Gesù stesso a Tommaso (Gv 20,27) e come mostra la visione apocalittica dell’agnello immolato che riceve potenza, onore e gloria (Ap 5,9-l2).12

La risurrezione offre l’indicazione del senso misterico della vita di Gesù e anche della nostra esistenza nello Spirito.

«Nel corso della vita di Gesù la manifestazione del suo essere era inseparabile dal suo agire salvifico. Nel sacrificio della sua morte egli si è compiuto definitivamente come Figlio con la sua obbedienza, ma nello stesso tempo portava a compimento anche il ritorno dell’uomo verso Dio, in un amore più forte dell’odio e in un’offerta assoluta di riconciliazione. Nella sua risurrezione rimane la stessa solidarietà tra la persona e la missione: vi scopriamo ad un tempo l’identità di Gesù definitivamente manifestata e il compimento della sua missione di salvezza. La risurrezione ha una dimensione propriamente salvifica; ci rivela anche la profondità e la fecondità per la nostra salvezza di ciò che Gesù ha compiuto sulla croce».

È un orizzonte che già Paolo amava illustrare a più riprese, chiamando a vivere «da risorti», «in novità di vita», quale «nuovo impasto», cui Dio stesso ha messo mano. Ma oggi in modo peculiare si fissa l’attenzione sulla risurrezione come il paradigma chiave di tutta la vita ecclesiale e della genuina spiritualità cristiana.

Dice Guillet:

«Le parole di Gesù risuscitato non hanno niente di confidenza, nemmeno di conversazione; esse non mostrano le sue reazioni. Quando parla della sua passione ai discepoli di Emmaus, Gesù non ritorna sul dramma che ha vissuto, riprende l’insegnamento che aveva dato. E appena i suoi hanno ritrovato la fede, li abbandona affidando loro la missione: “Andate” (Mt 28,19). Così l’esperienza della fede cristiana non è la scoperta di un personaggio nuovo, ma al contrario la scoperta dell’identità fra Crocifisso e Risorto. E se il Crocifisso è ora Risorto, questo fatto interessa tutta l’umanità e deve essere annunciato ad ogni creatura. 13

Note

7) Bargaglio, La spiritualità, p. 68

8) Cf. CM. Martini, Perché Gesù parlava in parabole?, EDB-EMI, Bologna 1995.

9) Dupont, Le Dieu de Jésus, p. 329.

10) Fabris, La spirirtualità, p. 102.

11) Fabris, La spirirtualità, p. 15.

12) Cf. X. Léon Dufour, Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline, Roma, 1973.

13) Jésus, in DS 8, 1092.

 

 

V – Unitarietà dei Vangeli

Ci sembra abbastanza suggestivo, anche se rimane nell’ambito dell’ipotesi di interpretazione quanto propone a questo riguardo C. M. Martini. Egli tenta di cogliere una concatenazione unitaria nei quattro Vangeli, in maniera da mostrare il carattere progressivo del loro discorso, e i riflessi «esistenziali» che sembrano venire esplicitati.

Martini parte da una constatazione facilmente verificabile: spesso si trova nei testi del NT il richiamo alla progressiva maturazione del battezzato nella sua esperienza di fede. Talora, come in Atti 2, si parla esplicitamente di alcuni momenti successivi dell’introduzione nel mistero cristiano. Anche dopo il catecumenato. vi è un periodo di istruzione, collegato con una più intensa partecipazione alla vita comunitaria; come Ebrei attesta: v’è «insegnamento iniziale su Cristo», cui deve seguire una istruzione più completa e approfondita (Eb 6,1-6).

A questo punto si domanda se oltre alla coscienza evidente di un itinerario da percorrere, esisteva anche una qualche forma di«manuale» che introducesse alle varie tappe, che accompagnasse i particolari momenti della maturazione cristiana. Egli trova che i quattro Vangeli, diversi per motivi storici e redazionali che tutti conosciamo, possono essere letti — nella successione Marco-Matteo-Luca-Giovanni – come esempio di risposta a problemi o gradi diversi dell’esperienza del credente. Emerge così l’ipotesi di quattro momenti successivi della maturazione cristiana: iniziazione catecumenale, introduzione alla vita comunitaria, avviamento all’evangelizzazione e maturità contemplativa. Nel saggio citato Martini si limita a cogliere gli aspetti dell’appropriata «didascalia», mentre si potrebbero cercare anche altri suggerimenti: per esempio sulla preghiera, sui sacramenti, sui carismi, sulla diaconia.

1. Marco: il Vangelo del catecumeno. E’ la tappa della conversione: come cambiamento dell’orizzonte, capovolgimento di idee. Si tratta di far percorrere al catecumeno che conosce qualcosa dell’esperienza cristiana (ma con molto mistero), un itinerario che conduce ad un impatto diretto con il mistero di Cristo, alla scoperta in Gesù Cristo crocifisso del vero volto di Dio. Il pagano/ catecumeno che si avvicina al Vangelo può essere molto religioso, con mentalità, religiosa sovraccarica di «divinità»: deve scoprire Dio che non ci appartiene, che viene, che ci coinvolge, che dispone di noi, che non evita neppure la croce per nostro amore. Gesù col suo modo di vivere e morire ci mostra il vero volto del vero Dio. Di fronte a questa scena, come il centurione si deve prendere posizione: «Veramente costui era il Figlio di Dio!» (Mc 15,39).

La trasformazione interiore richiesta è espressa bene in Mc 7,21- 23: «Dal cuore nascono le intenzioni cattive». Soltanto col battesimo ci si libererà dalle complicità malvagie, riconoscendo di aver bisogno della salvezza autentica (cf. Mc 10,47).

2. Matteo: il manuale del catechista: perché contiene ben ordinato e suddiviso tutto il materiale con cui iniziare alla vita ecclesiale. Le grandi linee del mistero del Regno: il discorso della montagna (5-7); il discorso della missione (10); il discorso in parabole (13); il discorso ecclesiale (18); il discorso escatologico (24- 25). Il cristiano deve imparare cosa significa vivere da figlio di Dio nella chiesa visibile. Due chiavi di interpretazione possono essere Mt 28,20: «Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo» e i testi del giudizio e del perdono (25,31-46; 18). Significa che il neobattezzato deve imparare che si deve riconoscere il Signore in colui che Dio ha inviato, e anche in colui che egli incontra nella sua comunità, nel perdono comunitario, nell’attenzione ai piccoli, nella mutua accoglienza. E questa la maniera di stare nella chiesa del Signore.

3. Luca: Il Vangelo del teologo. Ha di fronte il cristiano che si rende conto di aver abbracciato Cristo, di essere non solo in comunità d’amore, ma anche cosciente di stare nel mondo con persecuzioni e ostilità, di doversi spiegare, collaborare con altri «credenti indifferenti», con doverosi tagli verso le proprie radici (le rinunce). Importante è anche la relazione con la radice giudaica, cui sono state fatte le promesse. Qual è il senso e il compito di una comunità cristiana nel mondo? Attraverso il richiamo alla fraternità, al perdono, alla misericordia, alla preghiera (primo momento; fino al c. 9); attraverso il diradarsi dei miracoli e l’emergere di parole dure e intransigenti, invitanti a rischi difficili (dal c. 9 alla croce); attraverso il mistero della croce, culmine sconcertante e difficile da accettare: Luca vuole educare alla vera maturità. Solo una maturazione profonda che sa anche entrare nel mistero della croce è in grado di dire parole «autentiche», cariche di senso anche pér gli altri, i pagani. Luca vuole provare che tutto quello che sotto l’impulso del Vangelo si realizza è parte del piano di Dio. E questo vale anche per la diffusione delle comunità paoline nel mondo greco e romano. Esse sono frutto della «solidità» del Vangelo (asfàleia: 1Ts 5,3), sviluppo legittimo delle premesse poste da Gesù e dai dodici. Come si vede si alimenta una mentalità più ampia e aperta al mondo intero (di fronte al quale ci si pone anche attraverso un linguaggio che tenga conto delle categorie culturali altrui e delle tradizioni religiose già ricche di impulsi positivi).

4. Giovanni: il Vangelo dell’anziano. Il cristiano che è passato per una serie di esperienze, che hanno creato in lui molto spazio a Cristo, ha raggiunto una maturità solida: essa diviene come una «parola evangelica». E allora si potrebbe domandare: cosa significa ora tutto questo? C’è un elemento unitario? Giovanni non parla molto di riti, precetti, ma moltiplica le confessioni: che si concentrano in un’unica affermazione: il Padre ci dona il Figlio e il Figlio ci dona lo Spirito e in questo noi abbiamo tutto il succo dell’esperienza vissuta. La risposta al dono del Padre è la pistis, l’atteggiamento di fede, che non è gnosi, ma conoscenza sapienziale. Il quarto Vangelo educa a sentire la presenza dell’unico dono divino nella molteplicità delle esperienze ecclesiali. Con una misura che si può dire giustamente contemplativa, unificante, mistica. Il culmine per Giovanni è l’esperienza della gloria risplendente nella croce: quando lo Spirito dona la forza di offrirsi perdonando il rifiuto senza rimpianti, senza recriminazioni né risentimenti.

Seguendo questa prospettiva, si vede chiaramente che l’annuncio del Vangelo e la realizzazione di quanto esso propone si presenta come un’esperienza aperta, disponibile, al confronto, capace di dare spiegazioni con serenità e rispetto. Ma anche in grado di condurre - attraverso gradualità e proporzioni - al mistero profondo e alla fedeltà alla storia.

E conclude Martini:

«A un cristianesimo profetico, liberante, buttato nell’azione redentiva del prossimo, si oppone quasi come relitto del passato un cristianesimo mistico, essenziale, posto nella contemplazione di Dio. E noi vediamo dalla considerazione dei Vangeli, come tutti questi aspetti, senza divisioni, senza ambiguità sono integrati. Certamente prevale in Luca l’esperienza profetica e in Giovanni l’esperienza mistica. Ma ambedue si integrano nell’unità della persona, in una sintesi operativa originale, libera da opposizioni schematiche che, mi pare, ha molto da insegnare anche alle troppo facili mode da cui ci lasciamo prendere anche nella chiesa del nostro tempo»14.

Note

14) Mistica,p. 201.

Il discorso biblico è sempre un discorso a monte e i discorsi a monte hanno una loro importanza; per il credente, poi, la Bibbia è anche un punto di riferimento, in un certo senso l'ultimo punto di riferimento.

Pare che per Pedro sia stato molto chiaro: il suo atteggiamento di fronte ai poveri definisce il suo atteggiamento di fronte a Dio. Ed è per questo che da giovane prese la decisione di andare in missione: per rendere effettiva l'opzione per i poveri.

Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa Ortodossa
nella Repubblica Ceca
e nella Slovacchia

di John Nellykullen

Nel tempo della fondazione di un stato indipendente dopo la prima guerra mondiale, la Cecoslovacchia era, a livello maggioritario, cattolica. Ma subito dopo l’indipendenza un certo numero di preti e di fedeli cattolici decisero di divenire ortodossi. Il capo di questo movimento, P. Matej Pavilk, fu ordinato vescovo nel 1921 da un vescovo ortodosso serbo a Belgrado, ed assunse il nome di Gorazd. Però la maggior parte di questo gruppo si separò molto presto e formò una chiesa protestante così che il gruppo ortodosso rimase con 40.000 fedeli. Ma questo numero crebbe quando alcuni cattolici di rito bizantino della Transcarpazia divennero ortodossi.

Successivi avvenimenti portarono poi ad ulteriori divisioni la comunità ortodossa cecoslovacca, tuttavia nel 1923 il Patriarcato di Costantinopoli concesse a questa chiesa lo stato di acefalia e mandò il metropolita Sabbazd a prendersi cura di quei fedeli. Nel 1930 il patriarcato di Serbia mandò un suo vescovo in Transcarpazia, ma la maggior parte degli ortodossi Cecoslovacchi rimasero sotto la giurisdizione del vescovo Gorazd.

Durante la seconda guerra mondiale questa chiesa fu praticamente annientata dai Nazisti, che uccisero il vescovo Gorazd e suoi stretti collaboratori nel 1942 mentre tutti i preti venivano mandati nei campi di lavoro.

Nel censimento del 1931 c’erano 145.583 ortodossi nel paese, di cui 117.897 erano della Transcarpazia. L’occupazione di questa regione da parte della Unione Sovietica nel 1945 ridusse il numero degli ortodossi in Cecoslovacchia a 40.000 persone. Poi nel 1946 gli stessi ortodossi cecoslovacchi si misero sotto la giurisdizione del patriarca russo Alessio I e chiesero che fosse mandato loro un vescovo. Così tutti gli ortodossi nel paese furono riuniti sotto una gerachia.

Nel 1950 i cattolici di rito bizantino della Slovacchia furono forzatamente uniti alla chiesa ortodossa cecoslovacca. Questo portò circa 200.000 nuovi membri alla chiesa ortodossa che allo stesso tempo fu riorganizzata in quattro diocesi. Però la maggior parte di questi “nuovi” membri andò perduta quando la Chiesa cattolica di rito bizantino si ricostituì al tempo della “Primavera di Praga nel 1968, tuttavia gli edifici ecclesiastici furono lasciati nelle mai degli ortodossi.

Il 9 dicembre 1951 il Patriarcato di Mosca concesse lo stato di autocefalia alla chiesa ortodossa di Cecoslovacchia ma il Patriarcato di Costantinopoli non riconobbe l’autorità di Mosca in questo campo, e pubblicò un suo tomos di autocefalia per questa chiesa il giorno 8 settembre del 1998.

La Chiesa di Cecoslovacchia ha canonizzato il vescovo Gorazd nel settembre 1987 a causa del suo ruolo centrale per la formazione della Chiesa ortodossa in quel paese ed a causa del suo martirio per la fede.

La caduta del governo comunista nel 1989, e la susseguente divisione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia il 1 gennaio 1993, ha richiesto una modificazione della struttura di questa chiesa ortodossa. Nel novembre 1992, il Santo Sinodo decise di dividere la chiesa in due metropolie, con due diocesi in ciascuno dei due paesi. Con questo accordo il metropolita Nicholas di Presov divenne il capo della Chiesa ortodossa in Slovacchia. Ma il Santo Sinodo unito continua a incontrarsi periodicamente, come prima, sotto la presidenza del metropolita Dorotheos di Praga.

In Slovacchia il governo ha restituito ai greco-cattolici la maggior parte delle chiese che erano state loro confiscate dai comunisti nel ’50 e date agli ortodossi. Nel marzo del 1993 135 delle 170 chiese erano tornate ai greco cattolici. Nello stesso periodo 50 nuove chiese ortodosse sono state costruite. Secondo il censimento del 1991 in Slovacchia, gli ortodossi formano lo 0.6% della popolazione, sono circa 34.000 e sono concentrati nella parte estrema Est del paese.

I candidati al sacerdozio sono educati nel seminario di Prešov sotto la sorveglianza del Santo Sinodo. Questo è stato integrato all’Università di Safarik, in Košice, nel 1990. Nel gennaio del 1997, l’Università è stata divisa in due parti, ed una nuova università è stata creata a Prešov. Oggi la Facoltà Teologica Ortodossa dell’Università di Prešov offre corsi di studio per i seminaristi, per gli insegnanti di religione e di etica, e per altri operai pastorali nella chiesa ortodossa della Republica Ceca e della Slovacchia e continua il lavoro di formazione per i preti. Si mantiene anche un dipartimento separato in Olomouc, republica Ceca, per dare formazione ad orario ridotto per i fedeli ortodossi di questo paese.


Territorio: la repubblica Ceca e la Slovacchia

Guida: Metropolita Dorotheos

Titolo: Metropolita di Praga e arcivescovo delle Repubbliche Ceca e Slovacca

Residenza: Praga, Repubblica Ceca

Membri: 55.000

Già per i Padri i cinquanta giorni che seguono la Pasqua hanno la caratteristica di essere come “un unico giorno”. In essi si pregusta sulla terra ciò che vivremo nel mondo futuro. Quando affermano che si tratta di “una grande domenica”, ciò significa che anche per essi questo tempo era come un unico “ottavo giorno”.

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