Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di John Nellykullen
L’ortodossia arrivò in America quando un gruppo dei missionari ortodossi del monastero di Valaam giunse in Alaska nel 1794. In quel tempo l’Alaska era un territorio della Russia imperiale. La prima chiesa fu costruita nell’isola Kodiak, e un certo numero degli abitanti dell’Alaska fu battezzato. Neln 1840 una diocesi fu eretta per la Kamchatka, per le isole Kurili e per le Aleutine, con sede a Sitka. Il primo vescovo fu Innocent Veniaminov, che divenne in seguito il metropolita di Mosca. Verso 1867, quando l’Alaska fu venduta agli Stati Uniti, la missione russa stava crescendo tra gli abitanti locali e la bibbia e la liturgia ortodosse erano state tradotte nelle lingue locali dell’Alaska.
La sede centrale della diocesi fu trasferita da Sitka a San Francisco nel 1872. Quando il vescovo Tikhon fu nominato per il Nord America nel 1898, c’era una grande crescita della popolazione ortodossa nell’est a causa dell’arrivo di nuovi immigranti. Quindi la sede diocesana fu trasferita a New York nel 1905. Tikhon consacrò un vescovo ausiliare per l’Alaska nel 1903 ed un altro ausiliare per le parrochie Arabe nel 1904 con residenza in Brooklyn, a New York. Nel 1905 il vescovo Tikhon fu elevato al rango di arcivescovo e, dopo aver lasciato l’America nel 1907, ha servito varie altre diocesi e quindi è stato eletto Patriarca di Mosca e di tutta la Russia nel 1917. Morì agli arresti domiciliari nel 1925 e fu canonizzato nel 1989 come Confessore dalla Chiesa Ortodossa Russa.
Un numero significativo di cattolici di rito orientale si unì alla Chiesa ortodossa russa in America alla fine del diciannovesimo secolo. Parziale ma importante motivo di ciò fu il fatto che alcuni vescovi cattolici non accettavano nelle loro diocesi i sacerdoti cattolici sposati, di rito bizantino. L’arcivescovo John Irland di St. Paul , per esempio, rifiutò come parroco per la parrocchia cattolica rutena di Minneapolis il P. Alexis Toth perchè era un vedovo. Di consequenza Toth e suoi parrocchiani passarono alla Chiesa ortodossa russa nel 1891. Thot fondò 17 parrocchie ortodosse negli USA per i cattolici Ruteni che passavano alla chiesa ortodossa. Toth fu canonizzato nel 1994 come persona santa dalla Chiesa ortodossa in America.
Una arcidiocesi ortodossa greca dipendente dalla Chiesa di Grecia fu fondata nel Nord America nel 1921. Questa fu in seguito trasferita al patriarcato ecumenico, ma ciò segnò la fine dell’unità ortodossa nel continente e preparò la via per la fondazione di altre giurisdizioni ortodosse per i vari gruppi etnici dipendenti dalle loro chiese madri d'oltremare.
In seguito alla rivoluzione dei Bolscevichi in Russia nel 1917 ci fu una grande affluenza di immigrati russi in America. Costoro erano coscienti della persecuzione della loro Chiesa in Russia da parte dei comunisti perciò nell’aprile del 1924 la diocesi ortodossa del Nord America divenne autogovernata pur rimanendo in comunione con la Chiesa Madre Russa.
Nel 1935 si ebbe un accordo con la Chiesa Ortodossa Russa all'estero per cui furono rotti i rapporti con il Patriarcato di Mosca e nacque la Metropolia nord-americana, considerata una delle regioni della Chiesa all'estero, con esercizio di governo indipendente.
Però dal 1946 divenne chiaro che la Chiesa Ortodossa Russa all'estero mancava di legittimità canonica agli occhi di tante altre chiese ortodosse perciò la metropolia ristabilì i rapporti con Mosca in quanto Chiesa Capo Spirituale, ma a condizione di conservare l’autonomia amministrativa.
Nel 1970 il Patriarcato di Mosca concesse lo stato di autocefalia alla metropolia nord-americana che adottò il nome di Chiesa ortodossa in America (OCA). Le parrocchie russe in America che vollero rimanere direttamente sotto la giurisdizione di Mosca ebbero il permesso di farlo. Questo atto provocò uno scambio di lettere tra Mosca e Constantinopoli, in cui il Patriarcato ecumenico impugnava l’autorità di Mosca a concedere l’autocefalia alla propria Chiesa figlia. Questa situazione dell’OCA fu in seguito riconosciuta dalle chiese ortodosse di Bulgaria, Georgia, Polonia, Cecoslovacchia.
Ci sono contatti significativi tra l’OCA ed il Patriarcato ecumenico. Delegazioni dell’OCA hanno visitato Istanbul nel 1990 e nel1991. Un altro incontro è avvenuto durante la visita del Patriarca Dimitrios negli Stati Uniti nel luglio 1991. Il Metropolita Theodosius ha guidato una delegazione in visita al patriarcato nel dicembre del 1992. Ad Istanbul sono stati ricevuti dal patriarca Bartolomeo e hanno avuto incontri con la commissione sinodale per gli affari interortodossi. Entrambi hanno espresso una commissione per l’unità e l’ordine canonici ortodossi in America. Un altro passo in questa direzione vi è stato quando quasi tutti i vescovi ortodossi degli Stati uniti e del Canada si sono incontrati a Ligonier, in Pennsylvania, dal 30 Novembre al 2 dicembre del 1994. I vescovi riuniti hanno abolito l’uso della parola “in diaspora” per descrivere la secolare presenza ortodossa in America, e hanno deciso di prendere misure concrete per coordinare la loro attività ed il loro lavoro verso l’unità ortodossa nel continente. Susseguentemente, il Patriarcato Ecumenico ha rifiutato la dichiarazione di Ligonier.
In pratica l’OCA è in comunione con le altre chiese ortodosse, ed i suoi vescovi prendono parte alla Standing Conference of Canonical Orthodox Bishops in America. Però l’OCA non ha potuto partecipare all’attività pan-ortodossa e al dialogo teologico internazionale con le altre comunioni cristiane perchè manca del necessario riconoscimento unanime del suo stato di autocefalia. Tuttavia in questi ultimi anni 2000-2006 sono stati fatti ulteriori passi in avanti.
Il 17 maggio 2007 lo scisma si è formalmente ricomposto, con la firma di un atto di riunificazione da parte del patriarca russo Alessio II e del metropolita Lavr, capo della chiesa estera, nella cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. A seguito della firma, le due delegazioni hanno celebrato congiuntamente l'Eucaristia.
Tre altre giurisdizioni ortodosse di diversi situazioni etniche sono giunte alla piena comunione canonica con l’OCA, dandole un carattere multi-etnico. Esse sono: la diocesi Albanese con 13 parrochie, la diocesi bulgara con 16 parrochie, e la diocesi rumena con 56 parrochie.
Vi sono sei comunità monastiche sotto la giurisdizione diretta del primate. Le più grande di queste è il New Skete Monastery con l’affiliato monastero di Our Lady of the Sign in Cambridge, NewYork, ed il St. Tikhon’s Monastery in South Canaan, Pennsylvania. Tredici altre comunità monastiche OCA in Nord America sono sotto la giurisdizione delle diocesi locali.
Attualmente l’OCA dirige tre scuole teologiche: il St. Herman’s Orthodox Theological Seminary in Kodiak, Alaska, fondato nel 1973 per formare chierici e altri agenti pastorali originari dell’Alaska, il St.Tikhon’s Seminary in South Canaan, Pennsylvania, fondato nel 1937 e che è affiliato al monastero St. Tikhon. La più grande e più conosciuta scuola è il St. Vladimir’s Orthodox Theological Seminary in Crestwood, New york, fondato nel 1938. Nel dicembre del 1994 la Chiesa ortodossa in America ha avuto in uso la chiesa di santa Caterina in Mosca come sede della sua rappresentanza presso la Chiesa ortodossa Russa.
Negli Stati Uniti ci sono 12 diocesi e 623 parrochie, missioni, e istituzioni appartenenti all’OCA. Le diocesi etniche si estendono anche in Canada, dove è anche una diocesi non etnica presieduta dal vescovo Seraphim. Complessivamente ci sono 91 parrochie canadese. L’OCA ha un esarcato messicano con nove parrochie e missioni e ci sono cinque parrochie in America del sud. Inoltre ci sono tre parrocchie in Australia sotto la giurisdizione canonica della OCA, due in Sydney ed un’altra vicino a Brisbane.
Territorio: Nord America
Guida: Metropolita Theodosius
Titolo: Arcivescovo di Washington, Metropolita di tutta l’America e del Canada
Residenza: Syosset, New York, USA
Membri: 1.000.000
Sito internet: www.oca.org
di Adriano Dell'Asta
Nella storia del movimento ecumenico (1) è possibile enucleare il ricorrere monotono e dolente di due atteggiamenti, come una costante che si mantiene a prescindere dai successi o dagli insuccessi, dalla maturità o dall'immaturità dei tempi e dei loro protagonisti; questi due modi d'essere sono quelli che Vladimir Zelinskij cataloga sotto il titolo di «ecumenismo selvaggio» ed «ecumenismo erudito». (2) Il primo, nello slancio generoso di un cuore indocile e impaziente, anela sì sinceramente alla fonte dell'acqua viva ove placare la sete comune, ma nel suo superficiale altruismo è contraddistinto da un sostanziale misconoscimento della controparte, un misconoscimento che porta alla conclusione un po' troppo sbrigativa e andante secondo cui fra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente non vi sarebbero differenze. Il secondo, quasi sempre generato invece da un diverso - ma altrettanto sincero - desiderio di conoscere i fratelli dell'altra Chiesa, finisce spesso col rilevare solo le differenze, differenze così reali, studiate e discusse che la conclusione cui inevitabilmente approda è che delle due parti l'una ha ragione e l'altra ha torto. L'esito di questi due contrapposti atteggiamenti è identicamente sconsolante: nell'uno e nell'altro caso, infatti, si è ugualmente incapaci di riconoscere l'altro e di unirglisi, per il semplice fatto che nel primo caso l'altro non esiste neppure più in quanto altro (alterità impensata), mentre nel secondo l'alterità è divenuta così radicale che non può esistere più se non per essere negata (alterità impensabile). Esito sconsolante e paradossale insieme, in quanto questa incapacità di pensare o di accettare l'alterità si presenta in un tempo in cui le Chiese hanno ricominciato a chiamarsi e a concepirsi «sorelle» e sono state capaci di giungere sino alla cancellazione degli anatemi del 1054.
I vicoli ciechi in cui sembra chiuso l'ecumenismo, però, più che dipendere da un'incapacità di pensare l'alterità e le differenze esistenti in termini che rendano ragione dell'unità cui si anela e realizzino poi l'unione, dipendono piuttosto da una più radicale incapacità di pensare l'unità in termini che rendano ragione delle differenze esistenti anche in un'unione finalmente realizzata.
L'importanza di questo spostamento del cuore del problema ecumenico dal tema delle differenze a quello detl'unità, che è uno degli elementi caratterizzanti della proposta di Zelinskij e il fondamento di ogni autentico progresso ecumenico, potrà risultare ancor più comprensibile se consideriamo due questioni sulle quali si sofferma lo stesso Zelinskij: una è quella delle conversioni personali e dei cosiddetti «camuffamenti liturgici», l'altra è quella delle schematizzazioni cui spesso si ricorre per definire le due Chiese e le loro tradizioni. Quelli che in un contesto in cui il primato spetta ancora alla separazione e alle differenze non possono che apparire come ostacoli insormontabili e offese all'unità e alla verità, nel contesto di un primato dell'unità assumono un valore completamente diverso. Così, le conversioni personali, pur conservando tutti i loro limiti, cessano di essere la testimonianza di un proselitismo aggressivo (come troppo spesso rischiano ancora di essere) o di un'indifferenza nei confronti della verità (come potrebbe erroneamente sembrare quando si mettono sullo stesso piano due episodi diametralmente opposti quali, per esempio, quello di Vjaceslav Ivanov e quello di Placide Deseille) (3) e diventano piuttosto non certo un modello ma l'invito a respirare con due polmoni, concepito come «un'esigenza della nostra fede stessa» di fronte a «una mancanza d'aria» (4) che da una parte come dall'altra rischia di lasciar soffocare le ansie di milioni di uomini: da una parte perché per fedeltà al Vangelo si rischia di perderne il sale nel dolcissimo oceano del mondo, dall'altra perché nella preoccupazione che quel sale perda sapore si finisce amaramente col non essere più fedeli al Vangelo stesso. Ancora di più, in un contesto di unità, questi episodi diventano la testimonianza di una «segreta tensione» nella quale «si potrebbe percepire anche il doloroso maturarsi dell'unità» (5): una tensione, dunque, e dolorosa anche, ma che porta all'unità più che alla rottura. Allo stesso modo, la questione delle Chiese cattoliche di rito orientale, pur continuando a costituire un problema, cessa di essere un travestimento escogitato quasi solo per compiacere superficialmente dei fratelli minori, se non già per ingannarli, spogliarli e rubar loro qualcosa, e diventa, se non proprio una parziale anticipazione dell'unità ritrovata, almeno un problema come tanti altri che, appunto, non può più essere considerato un preliminare senza la cui soluzione sarebbe impossibile procedere oltre; come sottolineava recentemente un altro teologo ortodosso, Nikolaj Losskij, dopo aver accennato alla questione dei cattolici ucraini, in un contesto in cui prevale il pensiero e la preoccupazione dell'unità (nella forma, per esempio, dell'unità o dell'indivisibilità della libertà religiosa) «ciò che bisogna fare è esattamente il contrario! Se si ritrovano le vie teologiche dell'unità, allora gli ostacoli non teologici, tra i quali v'è l'uniatismo, si risolveranno da sé». (6)Nel quadro delle innumerevoli schematizzazioni con le quali si cerca di dare l'idea delle specificità delle due Chiese e delle loro tradizioni, una delle più ricorrenti è quella che sottolinea come la mentalità Orientale sia «molto più liturgica e iconografica che discorsiva, concettuale e dottrinale». (7) E’ una sottolineatura per molti versi corretta e utile, se viene letta nel senso di quella diversità di doni e carismi nella quale consiste appunto l'unità e che nell'unità viene fatta sorgere, se.viene letta, ancora, nel senso dei due polmoni coi quali dobbiamo ricominciare a respirare o in base a quell'atteggiamento di spirito per cui di fronte al problema della separazione ci si rende conto che «la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo ristabilire là piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di restare separati». (8) In un simile contesto le differenze possono essere pensate e diventare anzi una ricchezza, ma lo possono appunto in quanto sono lette all'interno della «profonda realtà della comunione esistente», (9) non come due frammenti. antitetici di una più autentica sintesi ecclesiale (rimandata al futuro o persa nel passato), ma precisamente come due carismi che realizzano concretamente l'unica Chiesa di Cristo, che si realizza appunto in maniera ogni volta irripetibile e piena, ma solo in quanto realizza ciò che la definisce come Chiesa di Cristo e cioè la fedeltà al (del) Cristo stesso prima ancora che una forma dottrinale o liturgica: è in questa comune fedeltà al Cristo che nascono i carismi e non è invece dalla sintesi dei carismi che viene generata quella fedeltà, è lo Spirito che dona i diversi carismi e non è invece l'accordo dei diversi doni che produce e crea lo Spirito. Quando questa coscienza si ottunde o diventa inefficace, è molto facile che i due modi di esprimere un identico contenuto di verità si trasformino nell'opposizione tra un occidente dogmatico e razionalista e un oriente adogmatico che, come ricorda Zelinskij, farebbe entrare in campo «una mistica vaga, pietista e soffocante», (10) un misticismo amorfo che «degenera in una pietà sentimentale». (11) Attraverso una serie di scivolamenti inizialmente quasi impercettibili, ricevono allora una significazione totalmente nuova le giuste osservazioni secondo cui, per esempio, per un verso l'oriente ha conservato intatta la tradizione del primo millennio che come tale è legittima e, per un altro verso, l'occidente con i suoi sviluppi successivi non contraddice quella tradizione ma dispiega «soltanto ciò che era già posto nel tempo della Chiesa indivisa». (12)
Nel caso dell'oriente, quando questo è ormai ridotto a un mondo adogmatico, astratto per essenza dal mondo e dagli interessi dell'umana ragionevolezza, e quando ancora si cerca di ricostruire con esso un'unità, quest'osservazione si trasforma nell'idea di una contrapposizione tra una Chiesa gerarchica chiusa nei riti del passato e nei suoi dogmi ormai vetusti e una Chiesa popolare più autenticamente ortodossa (non compromessa con i vari potenti di turno, ecc.) che sarebbe appunto adogmatica e con la quale allora si dovrebbe (e sarebbe facile) instaurare il dialogo ecumenico da parte dell'occidente dogmatico e razionale. Una simile visione ha più sostenitori di quanto si possa credere perché questa religiosità popolare, proprio per le sue caratteristiche, è indefinibile: in una versione neoslavofila avremo per esempio un popolo ortodosso di veri credenti in Cristo che si contrappongono ai seguaci dell'Anticristo, in una versione russofoba e razionalista avremo invece un popolo ortodosso che, appunto in quanto adogmatico, è tutto fuor che ortodosso: paganeggiante, gnostico, manicheo, moralista tolstojano e via dicendo. Su questa via, che si nutre di miti e di censure, (13) tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, in questa contrapposizione, inaccettabile per un cristiano, tra una Chiesa popolare e una Chiesa gerarchica, ciò che va perso è proprio l'idea di Chiesa, l'idea che Cristo sia presente nella Chiesa o, meglio, come Chiesa: nel caso della Chiesa popolare abbiamo infatti una religiosità così terrena e particolare nella sua concretezza che, come si è già detto, non si capisce più di chi sia presenza, se di Cristo o di qualche suo rivale, nell'altro caso abbiamo qualcosa di così celeste e astratto che non si capisce più a chi e come possa essere presenza.
Nel caso dell'occidente, invece, quando questo è ormai ridotto per essenza a una realtà totalmente confusa col mondo e col suo razionalismo, e quando si cerca ancora una via di unità col mondo orientale, la giusta osservazione di partenza si trasforma nell'idea che per instaurare un dialogo ecumenico con questo mondo (adogmatico o fermo ai vecchi dogmi) si dovranno considerare gli sviluppi dogmatici del secondo millennio come meri sviluppi particolari della Chiesa latina. (14) Anche qui tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, ancora una volta, ciò che va innanzitutto perso è la Chiesa stessa: in questa visione infatti la continuità della Chiesa scompare e si arriva, più o meno coscientemente, al paradosso di un cristianesimo senza Chiesa, di un cristianesimo che ha perso la Chiesa a un certo punto della sua storia, in un passato ormai perduto, e la ritroverà in un'opera di conciliazione tutta storica e umana solo nel futuro.
Ci pare così di aver messo sufficientemente in luce il vero punto carente dei due ecumenismi con cui polemizza Zelinskij (l'erudito e il selvaggio) e comunque di ogni discorso sull'unità che parta dalla questione delle differenze, impensate o impensabili: in queste visioni ciò che è innanzitutto deficitario è la concezione dell'unità, che finisce sempre con l'essere ridotta a un mero esito da raggiungere o con la negazione dell'alterità dell'altro o con un compromesso. Ma cercare l'unità partendo dal presupposto che essa non esiste significa condannare in partenza all'insuccesso l'ecumenismo cristiano in quanto, se si sopprime una delle caratteristiche definitorie della Chiesa che i cristiani confessano appunto «una, santa, cattolica e apostolica» - l'unità non riguarderà più propriamente la Chiesa, ormai inesistente, e potrà essere ritagliata solo su criteri extraecclesiali e puramente mondani.
La proposta di Vladimir Zelinskij parte appunto dalla negazione di questo presupposto, secondo cui la verità e l'unità non esistono, distinguendolo decisamente dalla «coscienza veramente ecumenica», quella che ha il coraggio di «testimoniare l'arduo mistero dell'unità invisibile ma esistente, che per la grazia di Dio sarà un giorno luminosa ed evidente». (15) La proposta di Zelinskij vive di una sensazione ormai coessenziale - «familiare» - al suo essere stesso: «che la Chiesa d'occidente [...] sia intimamente e misteriosamente legata alla Chiesa d'oriente»; (16) ma, ancora una volta, questa sensazione è possibile solo all'interno di una coscienza netta dell'unità come dono misteriosamente offerto, perché «se la pienezza delle vocazioni continua a mantenersi in un modo o nell'altro, in tutte le Chiese che si proclamano tali, è sempre e solo perché tutte queste vocazioni hanno un unico fondamento iniziale comune: la confessione di Pietro»; (17) per Zelinskij l'unità non è qualcosa che deve essere ancora creato ma è innanzitutto un fatto che va riscoperto «in ciò che, alla radice, non era mai andato perduto ed era sempre rimasto misteriosamente uno: in Cristo». (18) Alla luce di questa «pienezza della Chiesa indivisa, coronata della diversità delle vocazioni», (19) le stesse crisi vissute dalle due Chiese cessano di essere un argomento polemico, delle colpe o dei segni di debolezza da rinfacciarsi gli uni con gli altri e diventano piuttosto l'occasione per riconoscere insieme le ricchezze altrui e i limiti propri.Ciò è evidente per esempio nel modo in cui viene ripercorsa la tematica delle crisi a partire dal Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger: «Se nel libro aperto delle "crisi" che sto leggendo una pagina è sempre occidentale, l'altra, scritta in greco o in slavo antico, sarà evidentemente orientale. E se la prima mi è nota soltanto attraverso l'industria della stampa, la seconda è come stampata nella mia esperienza e nella mia anima». (20) In questo discorso, che come tutto il libro del resto è la continua ripresa di un unico tema in volute sempre più ampie e prossime al cuore del problema, la rilevazione delle crisi si specifica sempre e soltanto come un invito all'unità: così, se l'occidente è colto in crisi, si sottolinea che questa dipende dalla presenza in esso di quella compassione per la cui assenza è in crisi invece l'oriente, e viceversa la crisi dell'oriente dipende da quella distanza dal mondo per la cui assenza è in crisi invece l'occidente. Con la precisazione, ancora una volta, che ciò che si richiede qui non è allora una sintesi ma la condivisione, quella condivisione che ci mette «in comunione col mistero che ci unisce» (21)precedendo e rendendo possibili le differenze, secondo un procedimento sul quale torneremo ancora e che non è dialettico ma antinomico: non si tratta di sintetizzare due verità parziali ma di cogliere la verità dell'una nella verità dell'altra quando e in quanto entrambe vivono della stessa fedeltà all'unico Cristo.
Le crisi che ci invitano all'unità attraverso la condivisione si specificano dunque come un invito alla conversione. Nella condivisione infatti, le differenze, che cessano di essere un ostacolo, diventano il paradosso dello starec Tavrion secondo il quale la separazione «era stata provvidenziale, affinché entrambe le grandi famiglie cristiane sviluppatesi in occidente e in oriente da un' unica radice difendessero insieme l'unica e indivisibile verità proprio combattendosi e rivaleggiando l'una con l'altra». (22) In questa gara per l'incremento della verità il problema ecumenico diventa allora quello della fedeltà alla verità stessa; non attraverso il confronto meccanico delle due tradizioni o la loro relativizzazione ma attraverso la comprensione, quella comprensione in cui non si tratta di «rompere i vecchi vasi nei quali le Chiese conservano la propria fede» (23) (cioè, appunto, di relativizzare le tradizioni dopo averle confrontate), ma piuttosto di aprire questi vasi gli uni sugli altri. Per un verso ciò che conta qui è la capacità di cogliere «l'orientamento o meglio, il movente segreto» (24)della fede dell'altra Chiesa, cioè la «capacità delle varie Chiese di porsi un giorno una domanda, di chiedere cioè alla propria coscienza ecclesiale se essa è pronta o meno a riconoscere questo volto [di Cristo] in un altro riflesso, nell'immagine dell'altro»; (25) ma per un altro verso ciò che conta ancora di più è proprio ciò che rende possibile questa apertura, a prescindere dalla quale «la verità senza amore o anche senza una sorta di "curiosità", ripiegata su se stessa, non perde nulla della propria sostanza e del proprio vigore, ma viene come oscurata»: (26) ora, ciò che rende possibile questa apertura è appunto la conversione, il tornare a porre «costantemente il proprio centro di gravità nel Cristo», (27) il «fissare io sguardo nel mistero del proprio Cristo», senza conversioni o sintesi compromissorie, perché è solo «partendo da ciò, nella recuperata prossimità con la fonte», che si può diventare capaci di «condividere la Sua presenza con le altre Chiese». (28)
L'ecumenismo si trasforma qui, ed è un altro dei pregi della proposta di Zelinskij,in una questione squisitamente personale perché esso non sarà più caratterizzato soprattutto dalla ricerca dei «mezzi per la riunificazione delle Chiese» (29) ma piuttosto dalla disponibilità ad «abolire se stesso per cedere il posto alla presenza indivisa del Cristo»; (30) e questa disponibilità è quella che caratterizza appunto la vocazione eminentemente personale dei santi, di coloro che annullano le volontà proprie per lasciare spazio alla volontà di Dio e divenire somigliantissimi al Cristo, trasparenti alla sua presenza. Non è un caso allora che in questo ecumenismo trasformato in una questione della persona Zelinskij affidi un ruolo decisivo appunto a coloro che meglio di ogni altro realizzano la propria somiglianza con la Persona (31) e non è un caso che l'ecumenismo diventi non solo la scoperta del volto di Cristo «nell'immagine dell'altro» ma anche la «scoperta della santità di una Chiesa in seno alla santità dell'altra». (32)Può essere interessante a questo punto, per apprezzare e comprendere meglio questa proposta, ricollocarla all'interno di una possibile genealogia ideale che se per un verso non toglie nulla alla sua originalità per un altro verso la esalta. Come si è già visto e come vedremo ancora, infatti, Zelinskij medita la questione dell'ecumenismo a partire da una serie di esperienze decisamente eccezionali: quella della crisi della cristianità contemporanea, quella del martirio della Chiesa russa e quella del grande slancio ecumenico prima e delle sue secche poi. Ma se tutto ciò rende di per sé evidenti l'originalità e la maturità della proposta di Zelinskij, queste risalteranno ancor più clamorosamente se si considera che al momento della stesura del suo lavoro Zelinskij non conosceva affatto alcuni dei testi che citeremo fra poco; (33) ed è appunto per questo che abbiamo chiamato la nostra genealogia «possibile e ideale»: perché essa delinea più un'atmosfera che non delle influenze dirette e vuole enucleare più una radice comune dalla quale si dipartono mille frutti diversi che non un unico frutto nei vari stadi del suo sviluppo. I nomi che vengono dunque quasi spontaneamente alla penna sono quelli del triangolo d'oro della teologia russa della fine del XIX secolo e degli inizi del XX: Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov.
Molti degli elementi qualificanti della proposta di Zelinskij sono già presenti in Solov'ëv, almeno in nuce, e anche se talvolta poterono sembrare non chiaramente esplicitati e sufficientemente sviluppati. (34) L'atteggiamento ecumenico di Solov'ëv è caratterizzato in effetti dal fatto che egli accolse come vere le posizioni di Roma sui principali punti controversi, pur restando ortodosso e scoraggiando ogni forma di conversione individuale, e respingendo inoltre ogni tentazione di indifferentismo dogmatico e ogni variante di quell'irenismo per cui la verità e l'unità della Chiesa sarebbero ancora tutte da costruire; si tratta dunque di un atteggiamento che non si spiegherebbe se non si fondasse sul presupposto secondo cui l'unità è un dono originario che va approfondito mediante la tensione alla fonte dell'unità, cioè la conversione a Cristo riconosciuto nella pienezza e nella verità della propria Chiesa, che proprio in quanto vera Chiesa - una, santa, cattolica e apostolica - sa accogliere in sé la verità e la pienezza dell'altra. Solov'ëv concepiva l'unità della Chiesa non come un'«unità negativa, solitaria e sterile, che si limita a escludere ogni pluralità», ma secondo le caratteristiche dell'unità vera «che non si oppone alla pluralità, che non l'esclude, bensì nel calmo godimento della propria superiorità, domina il suo contrario e lo sottopone alle sue leggi». «Questa unità positiva e feconda», continuava Solov'ëv, «rimanendo sempre ciò che è, al di sopra di ogni realtà limitata e multipla, contiene in sé, determina e manifesta le forze viventi, le ragioni uniformi e le varie qualità di quanto esiste». (35) Il modello visibile e sperimentale sul quale Solov'ëv tratteggiava questa unità era evidentemente la persona del Cristo nel quale la natura umana e la natura divina si erano unite senza confusione e senza separazione e nel quale in maniera esemplare si era reso possibile concepire un rapporto tra gli uomini e Dio che non implicasse né sintesi fusioniste ne separazioni definitive ma anzi, proprio grazie a questa originaria unità, potesse permettere di affermare, per esempio con san Gregorio Palamas, che così formulava la legge dell'antinomia: «Noi arriviamo ad essere partecipi della natura divina e tuttavia essa resta totalmente inaccessibile. È necessario affermare entrambe le cose contemporaneamente e conservare la loro antinomia come criterio della pietà». (36) Le posizioni ecumeniche di Solov'ëv sono comprensibili appunto solo all'interno di questa concezione antinomica dell'unità per cui l'unità non esige irenismi o negazioni, ma vive e si manifesta nella diversità che essa stessa rende possibile, essendo un dono originario di quell'altra «unità perfetta che genera e comprende tutto» e che è professata proprio all'inizio del «credo dei cristiani», quando essi dicono di credere «in unum Deum Patrem Omnipotentem...». (37) Proprio alla luce di questa unità Solov'ëv aveva potuto concludere che «noi, tanto orientali che occidentali, pur con tutte le divergenze delle nostre comunità ecclesiali, continuiamo incrollabilmente a essere membri della Chiesa unica e indivisibile del Cristo [...]. Ciascuna delle due Chiese è già la Chiesa universale nella misura in cui essa tende non alla separazione ma all'unità». (38)Tutto ciò ai tempi di Solov'ëv non poté dare frutto: il condizionamento dei retaggi negativi era ancora troppo grande; e spesso anche nei loro rappresentanti più lucidi e luminosi le Chiese erano incapaci di rendersi conto della portata di atteggiamenti come quello di Solov'ëv, che non potevano certo essere ridotti ai ripensamenti di una pecorella smarrita che ritornava all'ovile. (39) Nonostante i fraintendimenti, però, alcune intuizioni profetiche erano parte di un patrimonio comune, e una volta enunciate continuarono a fecondare le elaborazioni successive. È così possibile ritrovare alcuni di questi temi in Florenskij, quando egli indica per esempio nel ritrovamento del comune orientamento a Cristo la via che, senza far scomparire le differenze, potrebbe portare però al superamento delle divisioni. (40) Per un verso, infatti, questa rinnovata conversione porterebbe a «riconoscere che l'autentica causa della divisione che affligge il mondo cristiano», (41) come di tutte le sue crisi, consiste nel fatto che «la fede si è effettivamente svigorita in quelli che sono i suoi fondamenti spirituali più decisivi», e in questo senso porterebbe anche alla rinascita di quel sincero orientamento della coscienza verso il Cristo dal quale fiorisce «tutta la vita concreta» e nel quale si rende così «possibile e anzi necessario il riconoscimento reciproco e l'unità». (42) Ma per un altro verso, ancora, questa rinnovata conversione alla fonte dell'unità, essendo tale fonte il Cristo, porterebbe anche al superamento di ogni forma di confusione e di separazione e in questo senso, per quel che concerne la questione ecumenica, porterebbe a capire più profondamente quella verità secondo cui l'unità è un dono più originario e più ricco di tutto quello che potrebbe essere prodotto da sintesi o da compromessi umani e successivi: quella verità, per esprimerci con le parole di Florenskij, secondo cui «la vita sobornica della Chiesa universale non è la somma delle vite dei singoli uomini e neppure di quella delle singole Chiese: l'intero è maggiore della somma delle parti». (43)
Per concludere ora brevemente con il terzo autore della nostra genealogia, basti ricordare che questo tema viene chiaramente e nettamente sottolineato da Bulgakov quando egli dice esplicitamente che il movimento ecumenico «nasce dal presupposto secondo cui esiste una Chiesa una e santa, Una Sancta, ed esiste inoltre non come una cosa che è soltanto cercata, ma come la suprema e preminente realtà: non è soltanto un'idea, ma anche un fatto». (44) «La realizzazione di un'unione visibile», precisa ancora Bulgakov, «deve già ammettere l'esistenza di un'unità, anche se non ancora manifesta e riconosciuta. Non si può tendere a un'unità inesistente, non ci si può assumere un compito che non abbia già il proprio fondamento in ciò che è dato». (45)
Se possiamo interrompere qui la nostra genealogia ideale va però riprecisato ora che questi elementi e queste intuizioni sono arricchiti in Zelinskij da tutto il patrimonio che gli viene dall'esperienza storica maturatasi in questo secolo: innanzitutto v'è la riscoperta della santità, intesa qui in particolare come conferma della santità della propria Chiesa perché, come si è già detto, il discorso ecumenico parte dalla concretezza della propria esperienza di fede vissuta nella pienezza della propria Chiesa. In questo senso, se per Zelinskij è chiaro che bisogna ritornare alla comune «lingua madre» della Chiesa indivisa per «sapervi decifrare il mistero del Cristo altrui», è altrettanto chiaro che ciò sarà possibile solo «a partire da un altro mistero che ci è più familiare», (46) quello della propria Chiesa, appunto, nella quale si è colto «il mistero della presenza di Dio in mezzo agli uomini». (47) Questa presenza è stata testimoniata dalla Chiesa ortodossa russa in maniera esemplare anche là dove tutto sembrava doverla ridurre al silenzio, anzi forse soprattutto là dove questa testimonianza è tornata allora ad assumere il nome originario della testimonianza cristiana: martyria.In questa testimonianza resa all'essenziale, la Chiesa ha reimparato che per lei tutto si gioca a una profondità infinitamente superiore rispetto a quella dei suoi rapporti col mondo, siano essi rapporti di compromesso e di asservimento o di opposizione e di lotta. Quando si resta infatti su questo piano superficiale la comprensione dell'essenza della Chiesa rischia sempre di venir offuscata, ora attraverso l'adeguamento alla «Chiesa così com'è», «quando l'immagine umiliata della Chiesa terrena viene riconosciuta, con lacerazione interiore o con spocchia, come l'unica e trionfante ortodossia possibile», ora attraverso il distacco da essa, «quando cioè chi ha appena fatto ingresso nella Chiesa la rinnega subito interiormente, lasciando che essa sia per lui una semplice fonte di sensazioni estetiche e di riti consolatori». (48) La dolorosa esperienza della Chiesa russa di questo secolo ha invece mostrato che al di là di questa sterile contrapposizione v'è qualcosa d'altro che è percepibile solo «nella calma della preghiera», «nella pace di un ininterrotto rapporto con Dio», qualcosa che «ha bisogno di precisazioni rigorose, è ovvio, e si incarna nei giudizi della ragione umana, ma nello stesso tempo si distingue da tutte le sue espressioni, anche quelle più profonde e preziose». (49)
«Come avremmo potuto diventare credenti noi ortodossi», si chiede infatti con accenti accorati Zelinskij, «[...] se tenessimo alla nostra fede solo in funzione di ciò che tacciono o piuttosto di ciò che proclamano a gran voce le autorità della nostra Chiesa?». (50) Ora, questo nucleo profondo che si può cogliere solo nella preghiera è appunto «il mistero della presenza di Dio» che si offre agli uomini prima di ogni loro iniziativa, per poter essere accolto.
È dall'incontro di questo dono con la libertà degli uomini che nascono poi tutti i problemi e tutte le crisi eventuali, che possono anche essere, indubbiamente, crisi di fedeltà, ma che andranno giudicate ben diversamente da come troppo spesso si è fatto quando, per esempio, accade che «una Chiesa per un motivo o per l'altro aveva perduto il sembiante storico della sua ortodossia (pur conservandolo, però, nella sua sostanza) cominciò ad apparire agli zelatori di questo medesimo sembiante come Babilonia la meretrice». (51) Se ciò, come ricorda Zelinskij, poté avvenire in passato, e minare l'immagine di Roma, al tempo dello scisma, e dell'ortodossia russa al tempo dei vecchio-credenti e poi ancora nel nostro secolo con i suoi compromessi e le sue sottomissioni al potere ateo, ciò non può più avvenire oggi, per chi è passato attraverso le esperienze di questo secolo e dovrebbe aver capito ormai che non è alla luce dei cedimenti o delle resistenze della Chiesa di fronte al mondo che si giudica l'essenza della Chiesa stessa, ma è piuttosto alla luce di questa essenza che si giudicano sia i cedimenti sia le resistenze. Giudizio, questo, che tra l'altro è ben più esigente perché, come ricordava spesso un altro teologo russo, (52) al peccato non contrappone la virtù ma la fede dei santi che cercano il volto di Dio e giudicano non in base a una ( sua qualche immagine umana, sempre relativa, ma in base alla sua radicalità, una radicalità che bisogna saper cogliere sia nel volto kenotico di Cristo, sia in quello trasfigurato. (53)
Questa capacità di cogliere il volto di Cristo è l'altra grande esperienza storica di questo secolo, che nella questione ecumenica ha prodotto l'incontro delle due linee profetiche che spesso Zelinskij ricorda: quelle che culminarono in passato in Paolo VI e Atenagora I. È appunto nell'atmosfera di nuova apertura attestata da queste figure che si situa, per finire, la proposta di Zelinskij, in particolare quando egli ricorda che l'unità che viene qui riscoperta «non può non diventare la sorgente di un'immensa energia effusa dallo Spirito del Cristo. Là dove le parole diventano aride moltiplicandosi senza calma interiore, questa energia liberata comunicherà il segreto del silenzio. E là dove regna il silenzio, solo questa energia darà il vigore della parola, predicata "a tempo e fuori tempo". Questo Spirito riporterà a se stesse le diverse tradizioni, le riporterà alla loro autenticità. Ci riporterà la spiritualità della penitenza, perché ci si possa pentire della tentazione nascosta dell'evasione. Ci riporterà la spiritualità della pienezza (di cui parla Jean Guitton) perché ci si possa riempire ancora una volta di quell'eredità antica e ricchissima che nessuno ha abolito ma che sta per essere sperperata». (54)
È con queste parole che vorremmo concludere la nostra analisi della proposta ecumenica di Vladimir Zelinskij perché con esse, tra l'altro, viene riportata in primo piano, e con una chiarezza nuova rispetto al passato, quella che è secondo noi l'idea cardine di ogni autentico ecumenismo, quell'idea di unità antinomica che era già presente in Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov e che Zelinskij ha appunto il merito di rinnovare e approfondire nel momento in cui ricorda che silenzio e parola, parola e mistero diventano l'uno la verità dell'altro non quando si sintetizzano e si controbilanciano ma quando ritrovano la loro identità nella «"sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi" (Col 1, 25-26). L'identità della "sua parola" e del mistero, nella Chiesa, si afferma qui con una chiarezza clamorosa; la parola non solo parla del mistero, ma lo dice, lo porta, lo è, e il mistero si apre nella parola della Chiesa, si manifesta ai suoi santi.... Ed entrambi, parola-mistero, coincidono in Cristo. O meglio, sono "il Cristo in mezzo a voi", o "in voi"». (55)
In questa coincidenza riscoperta, l'ecumenismo diventa una provvidenziale occasione di conversione personale alla serietà del Cristo: opera innanzitutto di Dio, come ogni conversione, ma come tale anche opera seria di ogni singolo, senza gli eccessi degli ecumenismi troppo personali e selvaggi e senza le lentezze e l'astrazione di troppi ecumenismi eruditi; un miracolo di Dio, ma un miracolo nella storia, come diceva il patriarca Atenagora: volontà di Dio che entrerà nel tempo quando il tempo, negli uomini, si offrirà.
V'è da augurarsi che questa provvidenzialità venga assunta, perché ciò che si rischia nel caso contrario non sono nuovi ritardi o nuove false risposte ma i reali inganni (56) di un'unità per nulla cristiana. E qui il giudizio che ciascuno di noi rischia non è quello compiacente del mondo ma quello esigente dei santi, perché se la Chiesa è di Cristo, essa «non vive altro che in noi».
Note1) Ci limiteremo qui esclusivamente ai rapporti tra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente, intendendo con ciò tralasciare completamente la questione delle Chiese della riforma.
2) Vl. K. Zelinskij, Perché il mondo creda, (da qui citato come PMC), La Casa di Matriona, Milano 1988, pp. 96ss.
3) Ibid., pp. 117-130.
4) Ibid., p. 121.
5) Ibid., p. 119.
6) N. Losskij, De l'unitatisme à l'unité: le préalable ecclésiologique, in «Service Orthodoxe de Presse» (SOP), n. 125, febbraio 1988, p. 21.7) P. N. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, tr. it. Città Nuova, Roma 1972, p. 35.
8) Giovanni Paolo II,30 nov. 1978.
9) Giovanni Paolo II, 29 nov. 1978.
10) PMC, p. 141.
11) Ibid., p. 142.
12) Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, tr. it. Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 82.13) Per Fare un solo esempio: non ci pare possa essere definita diversamente una descrizione dell'«educazione religiosa della Russia» che, come fa A. Besancon (un autore ben altrimenti illuminante e geniale, ma qui forse troppo preoccupato di smontare dei miti contrari), liquida in poche righe tutto ciò che non è slavofilo (in particolare la rinascita filocalica, e monastica in genere, del XVIII-XIX secolo) e ciò che nello slavofilismo, non è riconducibile a una premessa dell'«ideologia». Cfr. A. Besancon, Les origines intellectuelles du léninisme, Calmann-Lévy, Paris 1977, p. 59-82.
14) Seguiamo qui le critiche opposte a questo atteggiamento dal card. Ratzinger, op. cit., pp. 82ss.
15) PMC, p. 131.
16) Ibid., p. 31, n. 1.
17) Ibid., p. 93.
18) Vl. K. Zelinskij, Convertiti alla Chiesa, (da qui citato come CC), tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 2 (182), 1982, p. 31.
19) PMC, p. 92.20) Ibid., p. 67.
21) Ibid., p. 140.
22) CC, 2 (182), 1982, p. 18. In questo articolo Zelinskij non precisava il nome dello starec, ma i dati biografici coi quali lo descriveva permettono di identificarlo appunto con Tavrion. Su questa stupenda figura di monaco si veda L'eremo dello starec Tavrion, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 6 (168), 1979, pp. 22-30.23) PMC, p. 101s.24) Ibid., p. 103.
25) Ibid., p.112.26) Ibid., p. 123.
27) CC, 2 (182), 1982, p. 35.28) PMC, p. 113.
29) Ibid., p. 146.30) Ibid., p. 145.
31) Cfr. ibid., pp. 126-130.32) Ibid., p. 127.33) In particolare quelli di Florenskij e di Bulgakov; e i dolorosi motivi di questa mancata conoscenza sono tristemente noti.
34) La presenza in Solov'ëv di questa chiarezza e di questo sviluppo è un fatto che abbiamo cercato di mostrare altrove, in particolare nell'introduzione a Vl. S. So1ov'ëv, Il significato dell'amore, tr. it.La Casa di Matriona, Milano 19882, pp. 16-20 e a queste pagine ci permettiamo di rimandare.
35) Vl. S. Solov'ëv, La Russie et l'Eglise universelle, in La Sophia et les autres écrits français, L'Age d'Homme, Lausanne 1978, p. 240.
36) Gregorio Palamas, PG 150, 932.37) Vl. S. Solov'ëv, La Russie..., cit., p. 240.
38) Vl. S. Solov'ëv, Velikij spor i christianskaja politika (La grande controversia e la politica cristiana), in Sobranie Sočinenij (Opere) Bruxelles 1966-1969, IV, pp. 107 e 109.39) Così si sarebbe espresso nei confronti di Solov'ëv Leone XIII.
40) Cfr. P. A. Florenskij, Cristianesimo e cultura, tr. it. in «L'Altra Europa», n. 5 (215), 1987, p. 54.41) Ibid., p. 55.42) Ibid., p. 56.
43) Ibid., p. 57.
44) S. N. Bulgakov, «Una Sancta». I fondamenti dell'ecumenismo, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 1(175), 1981, p. 61.
45) Ibid., p. 66.
46) PMC, p. 114.47) Ibid., p. 30.
48) CC, n. 5 (179) 1981, p. 27.49) PMC, p. 48.
50) Ibid., p. 50.
51) CC, n. 1 (181), 1982, p. 37.
52) Si tratta di Evdokimov, il cui nome avremmo dovuto fare, con alcuni altri (Afanas'ev, Clément, ecc.), se avessimo proseguito la nostra genealogia ideale oltre i primi anni del secolo.53) Cfr. PMC, pp. 110-111.54) Ibid., pp. 125-126.
55) Ibid., p. 143. Sulla ricorrenza del tema parola-silenzio e sul suo valore ci permettiamo di rimandare a un nostro saggio: Una parola all'estremità del silenzio, in «Strumento internazionale per un lavoro teologico: Communio», n. 55, 1981, pp. 71-90.
56) Sono i reali inganni di cui parla Solov’ëv nel suo Racconto dell'Anticristo.Il dialogo tra cattolici e protestanti in Italia ha dovuto imporsi, non senza fatiche, svincolandosi dalle polemiche pregiudiziali e dall'anticlericalismo. Ancora dieci anni or sono non sembrava esservi molto spazio teologico per la possibilità di un incontro positivo.
di Rinaldo Falsini
Chiariti i motivi di principio sull’uso dei due messali, passiamo ad analizzare i contenuti pastorali.
L’uso contemporaneo dei due messali, di Giovanni XXIII del 1952 e di Paolo VI del 1970, ci permette di cogliere senza difficoltà non solo la differenza, ma la caratteristica tipica, cioè il valore pastorale del Messale del Concilio. Una caratteristica che va ben oltre la lingua latina - evita cioè di fatto il problema del linguaggio della Chiesa cattolica -, ma coinvolge l’impianto strutturale e la finalità dello strumento di preghiera.
di Giannino Piana
Riscaldamento del pianeta, desertificazione, innalzamento dei mari e dei delta dei fiumi, riduzione dell’acqua, perdita sempre più consistente della biodiversità, sovrapopolazione e distruzione di risorse non rinnovabili sono alcuni dei fenomeni inquietanti che denunciano la grave situazione in cui versa oggi l’ambiente. La crisi ecologica ha raggiunto livelli drammatici e rapporti più recenti - da quello degli scienziati dell’Onu a quello dell’ultimo summit mondiale dei meteorologi tenutosi a Parigi la scorsa primavera - non mancano di avanzare previsioni fortemente allarmanti per un futuro ormai ravvicinato.
Alle colpe dell’Occidente, che continua a essere il maggiore responsabile dello sperpero di energie e dei processi di inquinamento, si assommano oggi quelle di alcuni Paesi in via di sviluppo - si pensi soltanto alla Cina e all’India- il cui modello di crescita economica tende a ricalcare le logiche occidentali. Lo stesso Protocollo di Kyoto - peraltro non sottoscritto dalla maggiore potenza mondiale, gli Usa, che è anche la prima responsabile dello spreco energetico attuale - presenta, a tale riguardo, alcuni lati deboli: mentre, infatti, chiede ai Paesi occidentali una riduzione del fabbisogno energetico secondo una percentuale proporzionale all’entità del loro consumo pro copite, non pone alcun limite ai Paesi in via di sviluppo, che rischiano, in tempi brevi anche a causa dell’enorme incremento della popolazione, di diventare i maggiori consumatori di risorse e i più grandi inquinatori. Al di là del dato oggettivo, sempre più allarmante per le enormi proporzioni assunte, a preoccupare è tuttavia soprattutto la scarsa reazione delle coscienze. La terra, che è la casa di tutti, è vissuta come la casa di nessuno. La crescita esponenziale dei consumi non è dettata soltanto dall’aumento della popolazione, ma dalla moltiplicazione dei bisogni, spesso semplicemente indotti dalla pressione sociale e destinati a incrementare la produzione di beni materiali, a scapito di quelli relazionali e spirituali che favoriscono il miglioramento qualitativo della vita; mentre, d’altro canto, si accentuano gli sprechi e le inutili dilapidazioni di energie vitali che rappresentano un prezioso patrimonio per il futuro.
Nonostante i giustificati allarmi degli scienziati, la crisi ambientale non sembra suscitare, nella stragrande maggioranza della popolazione, particolari sentimenti di paura: basti pensare che, mentre si accettano molti controlli alla libertà individuale, con una consistente riduzione della sfera della privacy - il terrorismo internazionale ha costretto, in questi anni, a moltiplicarli senza che questo abbia determinato forti reazioni nell’opinione pubblica - non sussiste di fatto alcun controllo sulla tecnica e sull’economia, che sono le principali responsabili degli attuali processi degenerativi in ambito ambientale. L’abitudine a vivere sempre più nell’artificiale non solo ci distanzia dalla natura, ma ci pone nell’impossibilità di percepirne il valore e pertanto di difenderla come un bene da proteggere con cura mediante l’utilizzo di tutti i mezzi disponibili.
In questo contesto diviene urgente l’elaborazione di una “nuova etica” - così la definisce E.O. Wilson, uno dei padri della sociobiologia, nel suo recente volume Il futuro della vita (Codice Edizioni, Milano 2006) - che adotti il paradigma della conservazione” come criterio di valutazione delle scelte, sia personali che sociali, fissando limiti precisi all’intervento dell’uomo sull’ambiente. Ciò comporta anzitutto che si cominci a calcolare la ricchezza di una nazione non basandosi esclusivamente sul Pil (prodotto interno lordo) ma considerando le condizioni della biosfera e dei costi che devono essere messi in conto se si intende preservarne l’identità anche per le generazioni future. A dover essere seriamente ripensato è qui il rapporto tra economia ed ecologia, collegando strettamente sviluppo produttivo e attenzione alle risorse disponibili e ai processi di inquinamento che mettono decisamente a repentaglio beni fondamentali per Io sviluppo della vita quali l’aria, l’acqua e la terra.
Ma questo non basta. È necessario soprattutto che cresca, nelle coscienze, la convinzione della necessità di dare vita a nuovi modelli comportamentali ispirati - come suggerisce o stesso Wilson - a una forma di biofilia, che si alimenti della percezione di essere parte della natura e sviluppi un’attitudine di rispetto e di cura nei suoi confronti. Solo a queste condizioni è infatti possibile vincere la pressione delle forze tecnoscientifiche, creando un argine consistente al loro dilagare e promuovendo, in positivo, un rapporto di comunione vitale con l’ambiente, tale da concorrere alla sua piena valorizzazione.
(da Jesus, gennaio 2008)
L’ufficiale uncinato m’insegue ogni notte fin dentro il baratro dell’angoscia. Ed anche se gli pongo incessantemente la medesima domanda – Com’è stato possibile? – sghignazzando mi risponde che basta eseguire gli ordini.
Burundese, di etnia tutsi, Marguerite Barankitse, detta Maggie, è una figura di primo piano nella difesa dei diritti dei bambini e ragazzi, emarginati per vari motivi dalla società, e per il suo indomabile e coraggioso impegno a favore della pace e riconciliazione.
L’inesauribile creatività dello Spirito
di Fabio Ciardi
Dall’inizio del secolo scorso, ma soprattutto dopo il Concilio, hanno cominciato a sorgere nuove fondazioni con caratteristiche spesso completamente diverse da quelle tradizionali. Esse nascono da un comune vasto movimento di ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche, patristiche, ecumeniche) e da esperienze di ecumenismo pratico.
«Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali» (VC 62).
Nelle molteplici forme di vita evangelica nate lungo la storia della Chiesa lo Spirito sembra sbizzarrire la sua inesauribile creatività. Anche per i nostri tempi egli ci ha riservato nuove sorprese.
Le realtà del XX secolo
All’inizio del ‘900, a Vallendar in Germania, nasce l’Opera di Schönstatt, fondata da padre Kentenich per far presente in una società scristianizzata la vita evangelica secondo l’esempio di Maria, la prima cristiana. Nel 1921, la Legio Mariae, ispirata da un laico, Frank Duff, prende forma in Irlanda dilagando rapidamente nel mondo.
Le ceneri causate dalla seconda guerra mondiale si rivelano il suolo adatto sul quale fioriscono nuove spiritualità, come quella del Movimento dei Focolari che nel 1943 trascende il conflitto mondiale e le sue conseguenze per puntare sull’unità di tutti gli uomini. In Francia, le Equipes Notre-Dame, fin dal ‘39 offrono una spiritualità coniugale, una grande novità a quel tempo.
In Spagna nel 1949 l’esperienza dei Cursillos de cristiandad risveglia l’impegno cristiano attraverso un cammino comunitario. Agli anni ‘50, in Polonia, risalgono le origini del movimento Luce-Vita che supera il divieto fatto alla Chiesa di promuovere organizzazioni per la gioventù. In Ungheria, Regnurn Marianum aiuta la gente a sopravvivere alla violenza del sistema politico. In Italia, padre Lombardi fonda il Movimento per un Mondo Migliore. Contemporaneamente prende vita, con padre Rotondi, il Movimento Oasi per la formazione spirituale e apostolica.
Nell’ambiente universitario di Milano, nel 1954, il carismatico don Giussani è ispirato a dar vita a una iniziativa che sarà la matrice della futura Comunione e Liberazione. Durante il Concilio i Padri riconoscono che è avviata «una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici». Col passare del tempo i protagonisti in prima linea per attuare la nuova visione della Chiesa conciliare sarebbero stati i nuovi movimenti, che negli anni post-conciliari prendono sempre più vigore.
Nel 1964, in Spagna, il giovane laico Kiko Argüello insieme a una giovane ragazza, Carmen Hernàndez, inizia un’esperienza di pastorale nuova per le parrocchie: è il Cammino neo-catecumenale. Nello stesso anno, a Trosly, nel nord della Francia, il canadese Jean Vanier realizza la prima comunità deIl’Arche dove le persone handicappate mentali e altri condividono la vita pienamente, vivendo e lavorando insieme.
Nel 1967, il Movimento carismatico, un fenomeno già presente da vari secoli nelle Chiese protestanti, espIode nella Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Oggi tocca la vita di oltre 80 milioni di cattolici in tutto il mondo. Nel contesto delle rivolte studentesche del ‘68, germogliano i primi semi della Comunità di Sant’Egidio: leggendo il Vangelo, Andrea Riccardi e i suoi amici si sentono chiamati a vivere la Chiesa là dove c’è la violenza, l’emarginazione e la povertà.
Con l’avvento del sinodo sui laici del 1987, la Chiesa prende atto delle dimensioni mondiali e interculturali dei movimenti. Giovanni Paolo Il porta oltre 60 movimenti a celebrare la Pentecoste del 1998 insieme a lui, in un fine secolo testimonianza dell’unità nella diversità e nella ricchezza di carismi che lo Spirito Santo elargisce nella Chiesa alle soglie del terzo millennio. «Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa effusione dello Spirito».
Le nuove forme
Assieme ai movimenti ecclesiali (quando non addirittura in seno agli stessi movimenti) fioriscono “nuove forme di vita consacrata” e “nuove comunità”. Possiamo ricordare la Tenda del Magnificat, la comunità Nôtre-Dame de l’Alliance, la Communauté de l’Emmanuel, la Fraternité de la Résurrection, la comunità Pain de Vie, la Comunità missionaria di Villaregia...
«L’originalità, delle nuove comunità», leggiamo in Vita consecrata 62, «consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi».
Le caratteristiche di queste nuove esperienze di vita evangelica sono: una forte insistenza sulla vita comunitaria; l’ospitalità e l’accoglienza di quanti vogliono condividere la gioia della vita comune, della preghiera, del servizio; l’ecumenismo inteso come apertura alla grande tradizione cristiana così come viene espressa dalle differenti Chiese; la composizione mista di uomini e donne, che spesso comprende anche gli sposati con l’intera famiglia; la riscoperta dei valori della gioia e dell’amicizia.
Un tipo particolare di “nuove comunità” è quello di indole monastica. Pur scegliendo di appartenere all’ordo monasticus tradizionale, esse intendono realizzare un monachesimo nella Chiesa locale, senza alcuna esenzione canonica dall’autorità episcopale. Basterà accennare alla Comunità di Bose, che è diventata luogo di ispirazione per altre analoghe comunità, alla Comunità di Monteveglio, alla Comunità monastica di Gerusalemme...
Tra le caratteristiche di questo “nuovo monachesimo”, il forte ancoraggio alla Scrittura, il riferimento alle molteplici tradizioni monastiche antiche, comprese quelle orientali, una liturgia comprensibile a tutti, la sobrietà e la semplicità dello stile di vita, l’affiato ecumenico, l’accoglienza e la condivisione della vita con gli ospiti, la riscoperta della laicità e del lavoro...
Il grande “movimento”
Per capire le nuove forme di vita carismatica, evangelica e di consacrazione presenti oggi nella Chiesa occorre tuttavia tenere presente il più ampio ambiente ecclesiale in cui esse sono maturate e la sensibilità nuova venutasi a creare. Esse nascono infatti da un comune vasto “movimento” di ritorno alle fonti (movimento biblico, liturgico, patristico, ecumenico...) e di apertura al mondo contemporaneo che lo Spirito Santo ha impresso a tutta la Chiesa del nostro tempo. Esse sono il frutto di una nuova spiritualità, non più di minoranze, quasi elitistica (legata a ordini e congregazioni religiose) ma aperta a tutti (vocazione universale alla santità); una spiritualità comunitaria ed ecclesiale, subentrata a una spiritualità coltivata in funzione della propria relazione personale con Dio; una spiritualità della vita e dell’impegno nel mondo e nella storia come luogo della presenza e dell’amore di Dio.
Da qui derivano gli aspetti che caratterizzano le nuove esperienze ecclesiali, i movimenti in modo particolare:
1 - La laicità. Anche se nel loro seno vi sono persone consacrate, la maggior parte dei membri dei movimenti sono laici. Viene messa in evidenza soprattutto la consacrazione battesimale e il sacerdozio comune. Si è parlato in proposito di una “Pentecoste laica”.
2 - Nello stesso tempo si presentano come luogo d’incontro e di comunione tra tutte le vocazioni della Chiesa, quasi a ricreare un bozzetto di Chiesa. In esso convergono, almeno potenzialmente quando non praticamente, tutte le vocazioni del popolo di Dio.
3 - La varietà di vocazioni implica - ed è un’altra caratteristica - l’elasticità e la varietà nelle forme di appartenenza e di impegno. Essa è richiesta anche dalla grande diversità di situazioni in cui vivono i fedeli laici e in cui continuano a vivere quando aderiscono al movimento.
4 - La partecipazione attiva alla missione della Chiesa, sgorgante dalla vocazione battesimale, è riscoperta nella sua specificità: portare lo Spirito di Cristo in tutte le realtà sociali, politiche, economiche, culturali, una missione aperta a innumerevoli iniziative personali e comunitarie.
5 - La novità portata dai movimenti è infine data da una profonda carica spirituale, evangelica, comunionale che fa rivivere gli elementi della vita cristiana con insolita genuinità, freschezza e semplicità.
Siamo nell’alveo della grande tradizione della Chiesa, che ha visto sorgere nel suo seno sempre nuovi “movimenti” di spiritualità, di pensiero, di azione («La Chiesa stessa è un movimento», ha detto Giovanni Paolo Il). Nel medesimo tempo siamo davanti a qualcosa di nuovo, della novità dello Spirito. Carismi antichi e carismi nuovi chiamati a una comunione sempre più profonda perché la Chiesa possa splendere in tutta la sua bellezza e compiere la sua missione sacramentale di unità degli uomini tra loro e con Dio.
(da Vita Pastorale, aprile 2006)
Bibliografia
AA. VV., Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico spirituali ed apostoliche, a cura di Favale A., LAS 1991, Roma; I movimenti nella Chiesa. Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali. Roma 27-29 maggio 1998, “Laici oggi” 1999; Castellano J., Carismi per il terzo millennio. I movimenti ecclesiali e le nuove comunità, Edizioni OCD 2001, Roma; Torcivia M., Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme 2001, Casale Monferrato; Favale A., Comunità nuove nella Chiesa, Messaggero 2003, Padova.
Dobbiamo renderci conto che nel cuore dell’uomo vive Dio. Non abbiamo dunque che da riconoscere e coltivare questa presenza, immanente e trascendente a un tempo.
Benedettine di S. Maria di Rosano
“È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo” (Mt 18,7).
Il prolungato discorso di Gesù riguardo all'accoglienza dei bambini, con l'esortazione ad acquistare il loro spirito di semplicità e d'innocenza per entrare nel regno dei cieli, prosegue severo sfociando su un tema particolarmente grave e purtroppo oggi più che mai attuale: lo scandalo.
La parola del Signore risuona con piena autorità, ma non nasconde l'accorata, profonda apprensione del Maestro, che sembra avvertire e prevedere il ripetersi senza fine, nella storia umana, di situazioni incresciose e spesso irreparabili, che, invece di favorire e sostenere la crescita della famiglia di Dio, creano difficoltà, fomentano angosce, dividono i cuori, disgregano le piccole e grandi comunità.
Scandalo equivale ad un pericolo, ad un ostacolo frapposto lungo il cammino dei fratelli e questo troppe volte per soddisfare il proprio piacere e soprattutto il proprio egoismo.
Il castigo stesso che Gesù propone per l'autore di uno scandalo – “Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare" (Mt 18,6) non lascia dubbi sull'immane colpevolezza di chi osasse essere di scandalo ed esserlo soprattutto nei confronti di chi non ha sufficiente luce per intuire il male e la forza per superarlo. Infatti, un ostacolo diviene tanto più pericoloso se chi lo incontra è in condizione di limitate possibilità fisiche o morali per affrontarlo.
San Beda, volendo restare aderente al contesto del discorso di Gesù, sottolinea proprio questo aspetto e, dopo aver notato che l'avvertimento del Signore può riguardare tutti coloro che scandalizzano qualcuno, non esita a ritenere che tali parole possano essere state dette contro gli stessi apostoli, i quali discutendo tra loro su chi fosse il più grande, sembravano litigare per una questione di primato. "Se avessero insistito in questo errore, dice il santo, avrebbero potuto dare scandalo e perdere coloro che essi conducevano alla fede, poiché questi avrebbero visto gli apostoli troppo spesso in litigio per questioni di primato".
Poi il grande monaco offre anche una splendida precisazione, affermando che giustamente viene chiamato “piccolo" chi non può e non sa rifiutare e affrontare lo scandalo: “Chi è grande non viene mai meno nella fede, qualunque cosa abbia visto e qualunque violenza abbia subito. Per questo dobbiamo soprattutto aiutare coloro che sono piccoli nella fede, affinché non rimangano offesi per colpa nostra, non si allontanino dalla fede e non smarriscano così la salvezza". San Beda avverte in modo acutissimo l'incidenza, positiva o negativa, dell'esempio che spesso si dà a chi vive accanto a noi. La vita comunitaria è una scuola specializzata per affinare gli animi alle delicatezze, alla sollecitudine della carità, fino a prevenire ogni motivo di disagio ed a gareggiare nel rendersi onore, realtà di cui il capitolo 72 della Regola di S. Benedetto può considerarsi lo specchio luminoso.
Il Crisostomo invece, più che sul male fatto, porta la riflessione sullo squilibrio interiore che si crea in chi dà scandalo e provoca turbamenti o disagi nelle comuni relazioni. Egli cerca di convincere questo malato che può guarire, anche se. come afferma il Signore stesso, è inevitabile che gli scandali avvengano. 'E come se un medico dicesse: È inevitabile che tu sia colpito da questa malattia,ma non è affatto inevitabile che tu muoia, se ti curi'. Gli scandali risvegliano gli uomini, li rendono più circospetti e vigilanti, e non solo servono a chi vegli diligentemente su se stesso, ma anche a colui che è già caduto, in quanto lo spingono a rialzarsi prontamente, lo rendono più cauto e più difficilmente attaccabile". Nello stesso commento insiste: "Non darti pena di sapere e discutere qual è l'origine del male, ma, riconoscendo che proviene solo dalla tua negligenza, evitalo e fuggilo".
Riflettendo sull'amarissima parola del Signore, che sembra agghiacciare i nostri cuori, poveri ma desiderosi di bontà, il grande vescovo aggiunge: "Il Maestro preannunzia che gli scandali purtroppo avverranno inevitabilmente, affinché non sorprendano nessun uomo tiepido e negligente. E accresce il nostro timore con l'aggiunta di paragoni e indica la via per cui possiamo fuggire gli scandali. Che via, che modo? Tronca ogni amicizia con i malvagi, anche se ti sono molto cari. Se noi spesso tagliamo le nostre membra quando sono ammalate incurabilmente e potrebbero recare danno anche alle altre, tanto più dovremmo fare ciò con gli amici, se essi ci corrompono".
(da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005, pp.98-99)