Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La verità dell'Ortodossia

di Nikolaj A. Berdjaev


Tutto il mondo cristiano in Occidente non conosce bene l’Ortodossia. Ne conosce unicamente gli aspetti esteriori e, per di più, solo quelli negativi; non l’intimo tesoro spirituale della Chiesa. L’Ortodossia si è chiusa in se stessa e, non avendo alcuno spirito di proselitismo, non si è manifestata al mondo. Così per lungo tempo l’Ortodossia non ha avuto alcun significato per il mondo occidentale e non è stata oggetto d'attenzioni come il Cattolicesimo e il Protestantesimo. Per centinaia d'anni è rimasta estranea ad ogni appassionata battaglia religiosa. Per secoli ha vissuto protetta da grandi imperi (quello romano orientale, detto "bizantino", e quello russo) e ha preservato la sua eterna verità dagli eventi distruttivi che caratterizzano la storia del mondo. La tipica caratteristica della fede ortodossa è quella di non essere stata ampiamente spiegata ed esposta in trattati. L'Ortodossia non si è mai curata di conquistare alcuno e questo atteggiamento non l'ha adattata sacrificando la celeste Verità della Rivelazione cristiana alle mode correnti. L’Ortodossia è quella forma di Cristianesimo che ha sofferto le minori distorsioni nella sua sostanza a causa dei travagli storici. La Cristianità ortodossa ha avuto i suoi momenti difficili e criticabili quando il legame e la dipendenza esterna con lo Stato l'hanno segnata. Bisogna tuttavia dire che l’insegnamento ecclesiastico e l'intimo percorso spirituale indicato dalla Chiesa non sono stati distorti. La Chiesa Ortodossa è primariamente la Chiesa della tradizione, a differenza della Chiesa cattolica che è principalmente la Chiesa dell’autorità e delle Chiese protestanti che sono essenzialmente le Chiese della fede individuale. La Chiesa Ortodossa non è mai stata soggetta ad una singola autorità esterna. La forza che l'unisce non è data da un'autorità esterna ma dalla stabilità della sua intrinseca tradizione. Rispetto alle altre forme cristiane, l'Ortodossia è quella più vicina all'antichità cristiana. La forza della sua interiore tradizione deriva da quella dell'esperienza spirituale. Tale esperienza è possibile seguendo un percorso spirituale nel quale si afferma il potere della sovrapersonale vita spirituale grazie alla quale ogni generazione si distacca dai propri criteri di autosoddisfazione e di esclusivismo umano e aderisce alla vita spirituale di tutte le generazioni che l'hanno preceduta fino a risalire agli Apostoli.

In questa tradizione il credente ha la stessa esperienza e quindi la stessa autorità dell'Apostolo Paolo, dei martiri, dei santi dell'intero mondo cristiano. Nella tradizione la mia conoscenza non è personale ma sovrapersonale; non vivo isolato ma nel Corpo di Cristo. Ne sono parte poiché sono un singolo organismo spirituale con tutti i miei fratelli in Cristo.

L'Ortodossia è prima di tutto ortodossia di vita e non ortodossia d'indottrinamento. E' perciò che i cosiddetti eretici non sono quelli che confessano una falsa dottrina ma coloro che hanno una falsa vita spirituale e seguono un falso percorso spirituale. L'Ortodossia, fin dal principio, non spicca come una dottrina o un'organizzazione esterna, non dà una norma esterna di comportamento ma indica una vita spirituale, un'esperienza spirituale e un percorso spirituale. La sostanza del Cristianesimo è vista in un'intima attività spirituale. L'Ortodossia non si identifica con una forma legale di cristianesimo (nel senso d'un insieme di norme razionali e di leggi morali) quanto, piuttosto, con la sua forma più spirituale. Questa spiritualità e misteriosità dell'Ortodossia ha spesso contribuito a determinare la sua esterna debolezza. La debolezza esterna e l'insufficiente sviluppo, l'insufficiente presenza di attività esterne e organizzative, colpisce chiunque li noti, ma la sua vita spirituale, il suo tesoro spirituale rimane invisibile e ignoto. Questa è la caratteristica della natura spirituale dell'Oriente, in contrasto con il mondo occidentale che è sempre attivo e visibile ma è frequentemente esausto nel suo spirito a causa di tutte le sue attività. Nel mondo non cristiano dell'Oriente, la vita spirituale dell'India è praticamente ignota agli osservatori esterni e non è riportata nelle descrizioni storiche. Questo può essere detto anche per l'Ortodossia benché la natura spirituale cristiano-orientale è lontana e diversa dalla natura spirituale dell'India. I santi del mondo ortodosso, contrariamente a quelli del mondo cattolico, non hanno lasciato delle opere scritte alla loro morte. Essi sono rimasti ignoti. Anche per questo motivo è difficile giudicare la vita spirituale ortodossa osservandola dall'esterno. L'Ortodossia non ha avuto l'era scolastica, ha sperimentato solo l'età patristica. La Chiesa ortodossa fino ad oggi si appoggia sugli insegnamenti ecclesiastici orientali. L'Occidente considera ciò una prova di arretratezza, come se questo fosse il segno d'una realtà morente, di qualcosa al di fuori della vita creativa. Ma a questo fatto può essere data un'altra interpretazione: nell'Ortodossia il Cristianesimo non è stato razionalizzato nella misura dell'Occidente, com'è avvenuto nel Cattolicesimo con l'aiuto di Aristotele che leggeva tutto attraverso la visione intellettuale greca. Nell'Ortodossia la dottrina non ha mai raggiunto un simile significato e i dogmi non sono stati mai strettamente vincolati a insegnamenti obbligatori di tipo intellettuale e teologico essendo stati capiti principalmente come verità mistiche. Per questo i credenti hanno avuto un atteggiamento diverso nei riguardi delle interpretazioni teologiche e filosofiche che riguardavano i dogmi. Questo ha permesso, nella Russia del diciannovesimo secolo, una genesi d'idee ortodosse creative che esprimevano più libertà e talento spirituale rispetto a quelle cattoliche e protestanti.

Alla natura spirituale dell'Ortodossia appartiene un'originale e inviolabile ontologia che si presenta principalmente come la manifestazione della vita ortodossa e solo in seguito, del suo pensiero. L'Occidente cristiano ha percorso le strade del pensiero critico caratterizzate dall'opposizione tra soggetto e oggetto. In tal modo, l'insieme organico del pensiero e la sua organica connessione con la vita è stata violata. L'Occidente è capace d'una complessa spiegazione del suo pensiero, della sua riflessione, del suo criticismo e del suo preciso intellettualismo. Ma in questo processo esiste una violazione nella connessione tra colui che conosce e pensa e l'esistenza primordiale ed originale. La percezione esce dalla vita e dal pensiero, esce dall'esistenza. La percezione e il pensiero non passano attraverso l'integralità spirituale della persona nell'organica unità di tutte le sue forze. L'Occidente ha compiuto grandi gesta su questa base ma da questo è derivato il decadimento dell'originale ontologismo del pensiero impedendogli di entrare nella profondità della realtà. Questo ha comportato l'intellettualismo scolastico, il razionalismo, l'empirismo e l'estremo idealismo del pensiero occidentale. In campo ortodosso il pensiero è rimasto ontologico, unito all'esistenza, e questo è evidente attraverso l'intero pensiero russo religioso filosofico e teologico del XIX e XX secolo. Il razionalismo, il legalismo e ogni genere di normativizzazione è alieno all'Ortodossia. La Chiesa ortodossa non è definita da concetti razionali, viene espressa in concetti solo per coloro che vivono in essa, per coloro che sono uniti alla sua esperienza spirituale. Le forme mistiche del Cristianesimo non sono soggette ad alcun genere di definizioni intellettuali, non posseggono alcuna firma giuridica o razionale. Fare teologia in maniera genuinamente ortodossa significa fare teologia sulla base dell'esperienza spirituale. L'Ortodossia è quasi totalmente mancante di manuali scolastici. L'Ortodossia comprende se stessa attraverso la religione trinitaria; non con un astratto monoteismo ma in un concreto trinitarismo. La vita della Santa Trinità è riflessa nella sua vita spirituale, nella sua spirituale esperienza e nel suo percorso spirituale. La Liturgia Ortodossa inizia con le parole: "Benedetto è il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Ogni cosa inizia dall'alto, dalla Triade divina, dall'altezza della sua Essenza, non dalla persona e dalla sua anima. Nella comprensione ortodossa è la Divina Triade che discende non la persona che ascende. Nel Cristianesimo occidentale ci sono meno espressioni trinitarie di questo genere. E' più cristocentrico e antropocentrico. Questa differenza è già riscontrabile in nuce tra gli autori patristici orientali e quelli occidentali: i primi si soffermano di più sulla Trinità divina, i secondi sull'animo umano. Così l'Oriente proclama prima di tutto i misteri dei dogmi trinitari e cristologici. L'Occidente insegna prima di tutto la Grazia, la libertà e l'organizzazione ecclesiastica. Comunque l'Occidente ha avuto una grande richezza e una grande varietà d'idee.

L'Ortodossia è quel Cristianesimo in cui avviene la più grande manifestazione dello Spirito Santo. E' perciò che la Chiesa Ortodossa non accetta l'insegnamento del Filioque che viene visto come una subordinazione nell'insegnamento sullo Spirito Santo. La natura dello Spirito Santo non è rivelata tanto dai dogmi e dalla dottrina ma dalla sua azione. Infatti lo Spirito Santo è particolarmente vicino a noi ed è molto più immanente al mondo [di ciò che si creda]. Lo Spirito Santo agisce direttamente sul mondo creato e trasfigura la creazione. Questo insegnamento è stato rivelato dal più grande dei santi russi, Seraphim di Sarov. L'Ortodossia non solo è Trinitaria nella sua essenza ma vede come compito della sua vita terrena, la trasfigurazione del mondo nell'immagine Trinitaria facendolo diventare essenzialmente pneumatico (=spirituale).

In questo caso parlo delle profondità dei misteri dell'Ortodossia e non di opinioni superficiali su di essa. La teologia pneumatologica (=spirituale) , l'anticipazione di una nuova effusione dello Spirito Santo nel mondo, sono elementi molto più attinenti all'ambito ortodosso. L'Ortodossia da un lato è molto più conservativa e tradizionale rispetto al Cattolicesimo e al Protestantesimo ma, dall'altro, nel suo seno, c'è sempre stata una grande attesa di una nuova manifestazione religiosa nel mondo, di un'effusione dello Spirito Santo, della venuta della Nuova Gerusalemme. L'Ortodossia non si è sviluppata storicamente per quasi un millennio; il concetto di evoluzione le è estraneo ma la creatività religiosa vive nascosta ed è come conservata per una nuova, non ancora raggiunta, epoca storica. Questo è apparso evidente nei movimenti religiosi russi del XIX e XX secolo.

L'Ortodossia compie una divisione più profonda tra il mondo divino e quello naturale, tra il regno di Dio e quello di Cesare e non accetta delle possibili analogie che sono frequentemente evidenti nell'ambito della teologia cattolica. Essa concepisce in Dio una sostanza impartecipabile e delle energie che coinvolgono tutto l'universo. Le energie divine agiscono sia nell'uomo che nel mondo. Non si può dire, a proposito del mondo creato, che è dio o che è divino, ma non si può nemmeno dire che è un'espressione esterna alla divinità. Dio e la vita divina non assomigliano al mondo naturale o alla vita naturale; in questo campo non è assolutamente possibile fare delle analogie. Dio è eterno la vita naturale è finita ed è limitata. Ma l'energia divina si riversa da Dio sul mondo naturale, agisce su di lui e l'illumina. Questa è l'ortodossa comprensione dello Spirito Santo. L'insegnamento di Tommaso d'Aquino in base al quale il mondo naturale è in opposizione al mondo soprannaturale è, nell'ottica ortodossa, un modo di secolarizzare il mondo. L'Ortodossia è essenzialmente pneumatologica ed è questo a contraddistinguerla. La sua spiritualità è il risultato finale della sua trinitarietà. Così la Grazia non è la mediazione tra la sfera soprannaturale e quella naturale; la grazia è l'azione delle divine energie nel mondo creato; essa rivela la presenza dello Spirito Santo nel mondo. La caratteristica spirituale-pneumatologica dell'Ortodossia rende il Cristianesimo più completo e rivela il predominio del Nuovo Testamento sui presupposti del Vecchio. Nel suo apice, l'Ortodossia comprende lo scopo della sua vita come la ricerca del conseguimento della grazia dello Spirito Santo. Ciò comporta la spirituale trasfigurazione della creazione. Questa comprensione è essenzialmente opposta alla comprensione legalistica con la quale il mondo divino e il mondo soprannaturale sono composti da una legge e da una norma che devono modellare il mondo creato e naturale.

L'Ortodossia è principalmente liturgica. Il popolo cristiano viene informato e illuminato non solo dai sermoni e dall'insegnamento ma dalle liturgie che infondono e adombrano la vita trasfigurata. La liturgia insegna attraverso la vita dei santi incoraggiandone il culto. Tuttavia l'immagine dei santi non è il punto di riferimento principale: a loro è stata garantita la grazia dell'illuminazione e della trasfigurazione della creazione solo attraverso l'azione dello Spirito Santo. Questo, non essendo per l'Ortodossia una qualche realtà normativa, non è facilmente comprensibile né da chi ha normali stili di vita né dalla storia; considerare l'azione dello Spirito Santo è ben poco attraente per qualsiasi organizzazione. L'ignoto mistero dell'attività dello Spirito Santo sulla creazione non è mai stato compreso in termini storici e culturali.

La peculiare caratteristica dell'Ortodossia è la libertà. Questa realtà interiore non è osservabile all'esterno ma è presente dappertutto. L'idea della libertà come fondamento dell'Ortodossia è stata presentata nel pensiero religioso russo del XIX e XX secolo. L'ammissione della libertà di coscienza distingue radicalmente la Chiesa Ortodossa da quella Cattolica. Ma la comprensione di libertà nell'Ortodossia è differente dalla comprensione di libertà che ha il Protestantesimo. Nel Protestantesimo come in tutto il pensiero occidentale, la libertà è compresa individualisticamente, come un diritto personale, da conservarsi da ogni abuso altrui. Perciò viene dichiarata autonoma.

L'individualismo è estraneo all'Ortodossia. Ad essa appartiene un collettivismo particolare. Una persona religiosa e una collettività religiosa non sono incompatibili tra loro. La persona religiosa è tale grazie ad una collettività religiosa e la collettività religiosa è fondata da persone religiose. In tal modo la collettività religiosa non diviene un'autorità esterna che opprime esternamente la persona stessa con insegnamenti e leggi. La Chiesa non è all'esterno delle persone religiose e tantomeno si oppone ad esse. La Chiesa è con loro e in mezzo a loro. In tal modo non è un'autorità. La Chiesa è una realtà piena di grazia che esprime unità, amore e libertà. Ogni genere di autoritarismo è incompatibile con l'Ortodossia perché questo comporta una frattura tra la collettività religiosa e la persona religiosa, tra la Chiesa e i suoi membri. Non può sussistere alcuna vita spirituale senza libertà di coscienza; non può sussistere neppure un vero concetto di Chiesa dal momento che essa non tollera degli schiavi in sè poiché Dio vuole che la persona sia libera. Ma l'autentica libertà religiosa e di coscienza, la libertà dello spirito, è resa evidente quando non è isolata autonomamente in una singola personalità, divenendo individualismo, quando è in una personalità consapevole d'essere una sovrapersonale unità spirituale, in unità con un organismo spirituale nel Corpo di Cristo, cioè nella Chiesa. La mia coscienza personale non è estromessa o posta in opposizione alla coscienza sovrapersonale della Chiesa, si rivela solo nella coscienza della Chiesa. Tuttavia, senza alcun approfondimento spirituale della mia coscienza personale, della mia personale libertà, la vita della Chiesa non si realizza dal momento che questa vita non può essere esterna alla persona e non può esserle imposta. Partecipare alla Chiesa richiede libertà spirituale. Tale libertà è necessaria non solo quando si abbraccia la fede per la prima volta - cosa che anche il Cattolicesimo riconosce - ma per tutta la vita cristiana. La libertà della Chiesa rispetto allo Stato è sempre stata precaria ma, nonostante ciò, l'Ortodossia ha sempre goduto libertà in seno alla Chiesa. Nell'Ortodossia la libertà è organicamente correlata con la Sobornost ossia con l'attività dello Spirito Santo nella collettività religiosa che è rimasta nella Chiesa in tutti i tempi, non solo nei periodi in cui si celebravano i Concili Ecumenici. Sobornost significa la vita dei cristiani nella Chiesa e non ha mai avuto bisogno di qualche giuridica ed esterna approvazione. Neppure i Concili Ecumenici hanno avuto a che fare con qualche autorità giuridica indiscutibile ed esterna a loro. L'infallibilità e l'autorità sono caratteristiche di cui gode solo l'intero corpo ecclesiale attraverso la sua storia. I trasmettitori e i custodi di quest'autorità sono tutti i credenti che compongono la Chiesa. I Concili ecumenici godono della loro autorità non perché sono conformi ad esterne legali e giuridiche caratteristiche ma perché il popolo della Chiesa, l'intera Chiesa, li ha riconosciuti come ecumenici e genuini. E' genuino solo quel Concilio ecumenico che ha l'assistenza dello Spirito Santo; l'effusione dello Spirito Santo non ha alcun criterio giuridico ed esteriore, è riconosciuta dal popolo cristiano perché si accorda con la loro interiore evidenza spirituale. Tutto ciò indica un carattere non giuridico e non normativo nella Chiesa ortodossa. Oltre a questo la coscienza ortodossa ha una comprensione molto più ontologica della Chiesa. Non la considera come un'organizzazione o una struttura, non come una società di fedeli, ma come un organismo religioso spirituale, come il Corpo Mistico di Cristo. L'Ortodossia ha una natura cosmica che non è sufficientemente espressa né dal Cattolicesimo né dal Protestantesimo. La Cristianità occidentale è principalmente antropologica. Invece la Chiesa è anche il cosmostheosis, di divinizzazione dell'uomo e dell'intero mondo creato. La salvezza non è che la deificazione (theosis). L'intero mondo creato, l'intero cosmo è soggetto alla deificazione. La salvezza è l'illuminazione e la trasfigurazione della creazione, non una giustificazione giuridica. L'Ortodossia si volge al mistero della Resurrezione come al sommo e finale scopo del Cristianesimo. E' per questo che la festa centrale nella vita della Chiesa ortodossa è la festa di Pasqua, la Resurrezione gloriosa di Cristo. I raggi lucenti della Resurrezione pervadono il mondo ortodosso. La festa della Resurrezione ha un incommensurabile e grande significato più nella liturgia ortodossa che nel Cattolicesimo nel quale l'apice è visto nella festa della nascita di Cristo. Così mentre nel Cattolicesimo s'incontra principalmente il Cristo crocefisso, nell'Ortodossia si vede il Cristo risorto. Il percorso della Croce è il percorso dell'uomo ma esso porta l'uomo stesso e il resto del mondo verso la Resurrezione. Il mistero della Crocefissione può essere ignorato dietro a quello della Resurrezione. Tuttavia il mistero della Resurrezione è il massimo mistero dell'Ortodossia. Il mistero della Resurrezione non riguarda solo l'uomo, è una realtà cosmica. Per questo modo di vedere l'Oriente è molto più cosmico dell'Occidente che è antropocentrico. Nell'atropocentrismo occidentale c'è una sua forza e un suo significato ma indubbiamente anche un limite. Le basi spirituali dell'Ortodossia contengono un desiderio di salvezza universale. La salvezza non è compresa soltanto come un evento individuale ma collettivo che abbraccia tutto il mondo. Perciò l'Ortodossia non avrebbe mai potuto concepire quell'affermazione di Tommaso d'Aquino in base alla quale la persona retta del Paradiso sarà deliziata dalla sofferenza dei peccatori in Inferno. Alla stessa maniera l'Ortodossia non potrebbe mai proclamare l'insegnamento sulla predestinazione né nella sua forma estrema (Calvino) né in quella immaginata dal beato Agostino. Contrariamente a ciò diversi padri orientali della Chiesa, da Clemente di Alessadria a Massimo il Confessore, sostenevano l'idea dell'Apokatastasis, della salvezza universale e della Resurrezione. Tale è la carattersitica contemporanea del pensiero religioso russo. Il pensiero ortodosso non è mai stato ossessionato dall'idea della giustizia divina e non ha mai dimenticato l'idea dell'amore divino. Così l'uomo è stato principalmente definito dall'idea della trasfigurazione e della deificazione umana e cosmica, non dalla giustizia divina. cristianizzato; in essa l'intero mondo creato è soggetto all'effetto della grazia dello Spirito Santo. L'apparizione di Cristo ha un significato cosmico, cosmogonico; è e significa una nuova creazione, un nuovo giorno della creazione del mondo. La comprensione giuridica della redenzione, come se fosse un processo giuridico avvenuto tra Dio e l'uomo è piuttosto estraneo all'Ortodossia. Essa ha una comprensione ontologica e cosmica dell'apparizione di una nuova creazione e di un'umanità rinnovata. Ciò che soggiace a questa visione è l'idea centrale e corretta di

Infine la caratteristica più importante dell'Ortodossia è la sua coscienza escatologica. L'antica escatologia cristiana, l'anticipazione della seconda venuta di Cristo e la Resurrezione, era particolarmente diffusa ed è ancora conservata nell'Ortodossia. L'escatologia ortodossa comporta uno scarso attaccamento al mondo e alla vita terrena ma una grande attenzione al Cielo e all'eternità, cioè al Regno di Dio. Nel Cristianesimo occidentale, la realizzazione della Cristianità lungo la storia significa efficienza e organizzazione terrena. Ciò si può realizzare bene solo stornando l'attenzione dal mistero del secondo arrivo di Cristo. Nell'Ortodossia il principale risultato della sua inferiore attività storica ha comportato la conservazione delle grandi realtà escatologiche. Il lato apocalittico del Cristianesimo si è espresso molto meno in Occidente. In Oriente e nell'Ortodossia, specialmente in quella russa, sono sempre esistite tendenze apocalittiche come anticipatrici d'una nuova effusione dello Spirito Santo. L'Ortodossia, essendo la forma cristiana più conservativa e tradizionale, ha conservato meglio le antiche verità e questo può permettere un rinnovamento religioso. Tale rinnovamento non riguarda il pensiero umano - come avviene in Occidente - ma la trasfigurazione religiosa della vita. Il primato della pienezza della vita al di là delle diverse culture è sempre stata la speciale caratteristica dell'Ortodossia. L'Ortodossia non ha avuto quel fiorire di culture che sono sorte attorno al Cattolicesimo e al Protestantesimo. Questo si spiega se si tiene conto che l'Ortodossia si volge al Regno di Dio e ne considera la venuta non come la conseguenza di un'evoluzione storica ma come il risultato d'una mistica trasfigurazione del mondo. Non è l'evoluzione ma la trasfigurazione che caratterizza l'Ortodossia. Perciò essa non può essere conosciuta attraverso dei trattati teologici ma attraverso la vita della Chiesa e dei credenti. L'Ortodossia deve uscire dalla sua condizione di isolamento e di silenzio e testimoniare i suoi tesori ignoti e spirituali. Solo dopo potrà avere un significato per il mondo. Il riconoscimento dell'esclusivo significato spirituale dell'Ortodossia come la più pura forma di Cristianesimo non deve comportare un'autosoddisfacimento nè il totale rifiuto di significato del Cristianesimo occidentale. Al contrario dobbiamo considerare il Cristianesimo occidentale e imparare diverse cose da esso. Dobbiamo andare verso l'unità cristiana e perciò l'Ortodossia è un'ottima base. Tuttavia siccome l'Ortodossia soffre molto di meno della secolarizzazione che pervade in Occidente, può contribuire incommensurabilmente alla cristianizzazione del mondo. La cristianizzazione del mondo non deve significare la secolarizzazione del cristianesimo. Il Cristianesimo non può essere separato dal mondo se il mondo continua a vivere in lui. Mentre resta nel mondo il Cristianesimo lo deve conquistare, non lasciarsi conquistare.

(Articolo tratto da " Vestnik of the Russian West European Patriarchal Exarchate "- Paris 1952)

La Pasqua, festa centrale per Israele, ha un divenire storico assai complesso e in vari punti ancora oscuro. Ciò è dovuto alle varie santificazioni che si sono sovrapposte lungo i secoli.

La Passione nei quattro Vangeli

di Michel Berder

 

 

 

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù. Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli, la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21). Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca.

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca, la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo.

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

* Professore al Seminario interdiocesano di Vannes e al SIET di Bretagne-Mayenne

(da Il mondo della Bibbia, n. 32)

Rileggere il Corano alla luce della modernità è una sfida che si impone all’islam. Invece che un attentato all’ortodossia, l’operazione potrebbe essere vivificante e creare le condizione per una vera riforma dell’islam.

Questa presenza attiva della Vergine nella Chiesa è misteriosa e sfugge a indagini precise. E’ possibile solo evocarla attraverso qualche tema biblico. Ne scelgo tre: Vergine-Madre, Tempio di Dio, Strumento di salvezza.

La strada dell'ecumenismo,
la pazienza dell'unità

di Enzo Bianchi





Il dialogo fra cattolici e ortodossi procede a rilento ma occorre fiducia. A noi occidentali è chiesto di avere comprensione e lungimiranza, ai nostri fratelli di superare la tentazione del nazionalismo. Affinché torniamo a respirare insieme.

Le relazioni ebraico-cristiane
alla luce dell'ultima edizione
dell'Encyclopaedia Judaica

di Emanuela Zurli

A che punto sono le relazioni ebraico-cristiane? Per accertarlo si potrebbe verificare se nella seconda edizione dell'Encyclopaedia Judaica, pubblicata nel 2006, si trovano voci che nella prima, uscita nel 1972, non erano state considerate. Ebbene, nell'ultima edizione una nuova voce è dedicata proprio alle “relazioni ebraico-cristiane". Un denso testo di circa diciassette colonne ne ripercorre nei dettagli la storia, dall’inizio, con la promulgazione - ad opera del Concilio Vaticano II di Nostra Aetate (la Dichiarazione su “Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane", 28 ottobre 1965) fino agli ultimi sviluppi. Nel paragrafo n. 4, di neanche settanta righe, dedicato al “Legame della Chiesa con la stirpe di Abramo", il documento conciliare conteneva il germe di una ricchissima serie di iniziative e di contatti che avrebbero sempre più coinvolto, da un lato, le maggiori rappresentanze di molte Chiese cristiane (prima di tutto la Cattolica e quindi le Protestanti, costituenti gran parte del World Council of the Churches e, solo con molto ritardo, quelle ortodosse) e, dall'altro, le principali associazioni ebraiche presenti nella International Jewish Committee on Interreligious Consultations.

Sorsero così commissioni composte di membri delle due religioni che a più riprese, e in attuazione dei documenti applicativi di Nostra Aetate (basti ricordare gli incontri annuali della International Catholic-Jewish Liaison Committee, ILC, o dell'International Council of Christians and Jews, ICCJ, le cui basi erano state poste prima del Concilio), si sarebbero impegnate su fronti comuni. 'Ira di essi ricordiamo, seguendo l’Encyclopaedia Judaica: la condanna dell'antigiudaismo (che le diverse Chiese hanno ammesso di aver predicato), dell'antisemitismo (che, come dichiarò nel corso dell'incontro dell'ILC tenutosi a Praga nel settembre del 1990 il futuro cardinale Cassidy, "esige un atto di Teshuvah [pentimento, ndr] e di riconciliazione" da parte cristiana) e di ogni forma di discriminazione. Non meno forte l'impegno profuso da varie associazioni, nazionali ed internazionali, nell'approfondimento del comune patrimonio religioso di ebrei e cristiani come delle diverse, rispettive tradizioni o, ancora, nella promozione - in alcuni contesti e secondo modalità differenti di momenti di preghiera condivisa. E non solo: la sempre maggiore intesa tra le due religioni avrebbe portato alla progettazione di interventi concernenti la più vasta comunità mondiale su temi quali la violenza, il razzismo e i diritti umani.

Nel corso di alcuni decenni il neonato ”dialogo ebraico-cristiano" avrebbe così raggiunto, come scrive N. Solomon nella conclusione della voce "relazioni ebraico-cristiane”, “uno stato di maturità". Una maturità ampiamente dimostrata anche da questo testo dell'Encyclopaedia Judaica che, redatto nella sua prima parte da S. P Colbi, non manca di sottolineare, per ognuna delle questioni di volta in volta trattate, la sempre maggiore disponibilità delle diverse Chiese - in particolare della Cattolica - nei confronti del popolo ebraico (come attestato dalla prima visita di un Papa alla sinagoga di Roma, effettuata da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986) e delle sue esigenze, anche politiche (come dimostrato dall'interessamento, ad esempio di Paolo VI, per la situazione di Gerusalemme e dei luoghi santi e dall'instaurazione dei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Stato di Israele nel 1993). Allo stesso modo è evidenziato il riconoscimento, da parte cristiana, delle proprie gravi responsabilità nei confronti delle sofferenze degli ebrei. Si pensi, ad esempio, che l’affermazione di Cassidy, citata nella relazione sull’incontro di Praga, è definita “il primo documento pubblicato con la partecipazione dell'autorità vaticana che abbia ammesso, anche se in modo obliquo, la colpa cattolica in relazione all'olocausto”.

Accanto al loro consolidato e progressivo miglioramento l'Encyclopaedia Judaica denuncia anche, però, gli ostacoli tuttora incontrati dalle relazioni ebraico-cristiane. Nella parte finale della voce ad esse dedicate, N. Solomon non manca di ricordare, oltre alla tensione tra le due comunità creata da singoli episodi (come l'apertura del convento di Auschwitz, la beatificazione di Edith Stein e di Maximilian Kolhe. alcuni atti politici o "infelici sermoni pasquali” di alcuni Papi), due persistenti motivi di attrito: il proselitismo nei confronti degli ebrei. praticato da piccole sette evangeliche indipendenti e, soprattutto, il non ancora pieno riconoscimento, da parte di alcune Chiese, dell'importanza sia politica sia teologica di Israele. Viene inoltre ribadito che l’antisemitismo sarà inintenzionalmente favorito fino a quando non saranno abbandonare la "teologia sostitutiva" e le ultime tracce di "insegnamento del disprezzo", per lasciare definitivamente il posto alla "nuova teologia" ed alla "nuova comprensione degli ebrei e dell'ebraismo". È quindi con l'auspicio che il nuovo corso intrapreso dalle diverse Chiese "diventi parte del normale insegnamento e catechesi… tra i cristiani di tutto il mondo" che Solomon chiude l'articolo.

Su certe critiche mosse dal noto studioso e rabbino di Oxford, che certamente non rappresenta l'unica posizione dell'ebraismo sull'argomento, una parte del mondo cristiano - non meno differenziato, al suo interno, di quello ebraico - forse non sarebbe d'accordo. Per concludere riteniamo, comunque, che l'articolo dell'Encyclopaedia Judaica possa essere considerato un'eloquente testimonianza del fatto, per riprendere quanto affermato nel suo ultimo libro da un'altra significativa voce dell'ebraismo, Tullia Zevi (Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dal 1983 al 1998), che "ebrei e cristiani ora procedono sul binario sicuro della collaborazione e del dialogo".

(da Centro Card. Bea Newletter, n. 2, autunno 2007)
Il diritto alla diversità,
anche nella Chiesa

di Marcelo Barros


Nell’attuale contesto ecclesiale e teologico della Chiesa cattolica, è stato per molti una bella sorpresa il fatto che il documento di Aparecida non solo abbia contemplato le posizioni teologiche dominanti nella gerarchia ecclesiastica, ma abbia anche trattato con rispetto e considerazione le pastorali sociali e le Comunità ecclesiali di base (…). Non ci sono dubbi che la Conferenza di Aparecida sia stata, almeno riguardo al clima ecclesiale e alla presenza di una certa diversità di posizioni nell’episcopato, più aperta della quarta Conferenza (Santo Domingo, 1992) e questo non poteva non riflettersi in qualche modo sul documento finale.

I settori più aperti della Chiesa hanno gradito questi accenni di apertura, che saranno certamente utili nel cammino ecclesiale latinoamericano e caraibico, pur non mutando sostanzialmente il modello di Chiesa e di pastorale dominanti. (…). C’era da aspettarsi che questa apertura teologica e pastorale riecheggiata in alcuni momenti ad Aparecida (…) incontrasse le obiezioni di altri settori dell’episcopato.

Il testo ufficiale divulgato dal Vaticano con l’approvazione del papa contiene più di 200 emendamenti al testo originale approvato dai vescovi. Il teologo cileno Ronaldo Muñoz enumera 34 variazioni che hanno indebolito o alterato il testo. (…) Poiché il Vaticano non ha riconosciuto pubblicamente di aver modificato il documento (secondo la legge canonica vigente, la Curia romana ha autorità per farlo), era normale che all’inizio si attribuisse la responsabilità ai due vescovi che erano, all’epoca della Conferenza di Aparecida, presidente e segretario del Celam. Questi ultimi avevano dichiarato di aver introdotto solo variazioni di stile e di punteggiatura, ma il testo è stato modificato in punti fondamentali, come nei paragrafi sulle comunità ecclesiali di base e le pastorali popolari. (…) Con l’aumento delle pressioni, i due ex dirigenti si sono difesi affermando che i mutamenti provenivano da autorità della Curia romana. Hanno anche chiarito che, poiché queste autorità del Vaticano hanno agito in nome del papa, avevano tutto il diritto di cambiare il testo approvato dai vescovi rappresentanti di tutto l’episcopato latinoamericano e caraibico.

Questi pronunciamenti non hanno impedito la diffusione di lettere individuali e collettive all’attuale direzione del Celam, affinché questa intervenga per il ripristino del testo originalmente approvato dai vescovi. Dietro a tali richieste c’è non solamente il desiderio di esprimersi contro la mancanza di rispetto verso l’episcopato da parte di chi ha alterato il testo, ma soprattutto la speranza che l’attuale direzione del Celam sia non solo aperta e sensibile alla giustizia, ma anche sufficientemente libera di prendere posizione contro la violazione del testo della conferenza, per quanto dietro a tale atto vi siano autorità del Vaticano.

Chi conosce l’attuale realtà del Vaticano e della Chiesa cattolica sa che è quasi impossibile che la questione sia rivista e il testo originale recuperato. Per quanto molti sappiano cosa è accaduto e vedano segnali chiari di chi sta dietro le alterazioni del testo, nessuno parlerà chiaramente e dopo qualche giorno i mormorii passeranno. Tutto tornerà alla calma dei regimi autoritari e al silenzio delle complicità tattiche e delle omissioni, vissute sempre per salvare ciò che sarà ancora possibile salvare. In ogni modo, le manifestazioni e gli scritti pubblicati sulla violazione del documento finale di Aparecida sono stati molto positivi perché hanno dato vita ad un dibattito che non è così comune in ambito cattolico e che può rivelarsi fecondo, soprattutto se le persone non si limiteranno a una discussione giuridica, ma cercheranno anche di approfondire quello che c’è dietro l’alterazione del documento sul piano dell’ecclesiologia e della pastorale.

Dietro alle parole e ai testi

Discutere il modello di Chiesa e di spiritualità vigenti nella Chiesa cattolica romana e nell’episcopato latinoamericano e caraibico è una questione dolorosa e apparentemente inutile, sia perché il pensiero ecclesiologico dominante a Roma e nella maggioranza dei settori gerarchici della Chiesa cattolica è molto chiaro e non ammette dubbi, sia perché l’impressione generale è che, in America Latina, nessuno è in grado di cambiare tale realtà. Tuttavia ci sono sempre minoranze profetiche convinte che la propria missione sia quella di mantenere accesa la fiaccola della speranza e di non permettere che la Parola di Dio venga messa in catene. Un’analisi anche rapida della storia della Chiesa nel XX secolo mostra come, al tempo del pontificato di Pio XII (dal 1938 al 1958), il Vaticano e la gerarchia cattolica respirassero un clima di chiusura e ostilità a qualunque cambiamento, quasi come l’attuale clima vaticano. Tuttavia, pur in quell’inverno ecclesiale, vennero generati tutti quei semi di apertura e rinnovamento che, subito dopo, sarebbero stati assunti e ufficializzati dal Concilio Vaticano II. Movimenti come quello biblico, liturgico, ecumenico, o come l’Azione Cattolica, si svilupparono all’epoca di Pio XII in mezzo a difficoltà e repressioni, ma la loro perseveranza permise loro di collaborare al rinnovamento di tutta la Chiesa, quando fu possibile contare sul "papa buono" che convocò il Concilio.

Attualmente, l’importante è che le comunità e le persone che le accompagnano non rinuncino alla propria missione profetica. Tutti sanno che non serve a nulla, in sé, scrivere o protestare contro l’alterazione del testo perché, purtroppo, questo modo di procedere non è estraneo a un certo modo di concepire il magistero ecclesiale. (…).

Violare un testo approvato da un’assemblea rappresentativa è impensabile in regimi democratici e all’interno di Chiese dalla concezione ecclesiologica sinodale. Tuttavia, se la Chiesa cattolica è ancora considerata una società sacra, in cui l’autorità è sempre ritenuta al di sopra della comunità, è comprensibile che chi detiene il potere si senta in diritto di intervenire in maniera permanente per sanare quello che non gli appare coerente o opportuno. Il papa e la curia romana possono sempre mutare un testo già approvato da una conferenza di vescovi. In America Latina, si può deplorare questo tipo di intervento o auspicare un diverso modo di procedere, ma se nel quotidiano della prassi ecclesiale si accetta tale modello di Chiesa, non si dovrebbe protestare contro la violazione del testo. Per quanto i cambiamenti vengano realizzati di nascosto e senza che vi sia chiarezza sui responsabili, essi sono legittimi anche se non giusti. (…).

Secondo l’ecclesiologia romana vigente, i fratelli e le sorelle che hanno firmato appelli per il ripristino del testo originale (…) difficilmente l’otterranno, dal momento che tale concessione dovrebbe essere data dalla stessa autorità ecclesiastica di cui si contesta il modo di agire (…). È importante lottare per il recupero del testo originale. È un diritto delle comunità sapere quello che l’insieme dell’episcopato latinoamericano ha detto realmente su di esse. Tuttavia, dobbiamo andare alla radice del problema e denunciare l’ecclesiologia che soggiace non solo all’atto della violazione ma alla struttura mentale che rende possibili tali atteggiamenti.

La realtà di una Chiesa eterogenea

(…) Chi vive il proprio impegno nel cammino ecclesiale latinoamericano vorrebbe aiutare la Chiesa a compiere al meglio la propria missione liberatrice e a collocarsi nella grande comunità delle persone che lavorano e tentano di dare vita a un nuovo mondo possibile. Per questo è importante chiarire il contesto ecclesiale e teologico latente dietro ciascuno dei due testi in questione: il documento originale e il testo adulterato.

(…) La Chiesa cattolica romana, come tutte le altre confessioni cristiane, è uno spazio pluriculturale, in cui pastori e fedeli si trovano su posizioni teologiche e umane diverse. Anche se l’attuale papa riuscisse a eliminare ogni traccia della più piccola diversità ancora esistente in alcuni settori del Vaticano, anche se egli si relazionasse solo con collaboratori scelti a sua immagine e somiglianza, anche così sarebbe difficile impedire la diversità di opinioni e di visioni teologiche nel seno delle Chiese locali.

Chi ha violato il testo approvato dall’episcopato latinoamericano per impedire che in esso restasse un riferimento più positivo alle Cebs e alla pastorale popolare non riuscirà a cambiare la visione dei vescovi che, nella conferenza, hanno affermato che le Cebs rappresentano un grande beneficio per le Chiese locali. (…).

D’altro lato, i vescovi, gli assistenti e gli altri partecipanti alla Conferenza che hanno tentato di includere le Cebs e le pastorali nel testo finale di Aparecida sanno che, dietro tale questione, c’è in gioco il modello di Chiesa vissuto a partire da Medellín e oggi diventato ancora più necessario e urgente (…).

Questi vescovi sanno che il documento di Aparecida deve testimoniare l’esistenza delle Cebs e il bene che esse fanno all’insieme della Chiesa perché questa è la verità e perché sottolineare questo aiuta tutti, ma, sia che il documento si occupi della questione sia che eviti di affrontarla, il cammino delle Cebs andrà avanti lo stesso. Se non ne parlerà, sarà senza dubbio lo stesso episcopato a dover rendere conto a Dio di questa omissione storica. Tuttavia, con ogni delicatezza e rispetto, dobbiamo ammettere che, in sé, le comunità non hanno bisogno di mendicare una qualche citazione elogiativa o la benedizione forzata di pastori che non hanno sensibilità per la propria missione episcopale. In fondo, coloro che stanno lottando per il ripristino del testo originale stanno difendendo i vescovi latinoamericani, i quali, in maggioranza, hanno senso pastorale e meritano rispetto quando votano e firmano un documento emesso a loro nome.

Il diritto di essere Chiesa nella diversità

I fratelli e le sorelle che, malgrado tutte le difficoltà, portano avanti la discussione e lottano perché il documento finale di Aparecida rifletta quanto avviene nei settori popolari delle Chiese offrono una testimonianza di amore e fedeltà alla Chiesa, come pure di profondo rispetto per i pastori. Esprimono il fatto che la Chiesa non è data solo dalla curia romana e da certi settori della gerarchia. Contro qualunque desiderio di rottura o di disobbedienza ecclesiale, cercano brecce nella struttura rigida ancora vigente per proseguire nel cammino proposto dal Vaticano II e da Medellín (…).

Solo una vera spiritualità dà la forza per un esercizio che richiede tanta pazienza e resistenza. Lottando pacificamente perché il riferimento alle Cebs e alle pastorali popolari venga assunto dal testo ufficiale di Aparecida, stanno ottenendo una grande vittoria: ricordano ad alcuni capi della Chiesa che hanno il diritto di pensare quello che vogliono, ma che sono chiamati a coordinare un corpo ecclesiale diversificato ed eterogeneo. Per questo, almeno per senso di giustizia, devono rendersi conto che esistono molti fedeli e pastori che pensano in modo diverso e meritano di essere rispettati e anche accompagnati pastoralmente.

Di fatto, se, durante la Conferenza di Aparecida, le discrepanze teologiche e anche di carattere socio-politico sono state meno intense o visibili di quanto avvenuto a Puebla (1979), non è perché tali differenze non esistano più. La ragione sembra risiedere nel fatto che, attualmente, i vescovi con un’opzione per il cammino proposto dal Concilio Vaticano II sono un’infima minoranza nell’insieme degli episcopati nazionali e questo "resto di Israele" ha meno forza e, salvo alcune onorevoli eccezioni, non è stato votato per la Conferenza. È chiaro che questi vescovi più aperti avrebbero dovuto essere votati dai confratelli in ogni Paese, giacché nessuno di essi sarebbe mai stato scelto da Roma che, tuttavia, ha la pretesa di rappresentare tutti. Per questo, all’interno della realtà monolitica artificialmente creata dai vertici ecclesiastici, il dialogo dei vescovi con alcuni teologi inseriti in gruppi come Amerindia e con alcuni laici impegnati in servizi di pastorale più aperti non è stato solo sorprendente ma è apparso come un’alba ancora immersa nell’oscurità ma già gravida della luce di un nuovo giorno ecclesiale (…). In un certo modo, i diversi eventi ecclesiali avvenuti ad Aparecida durante la Conferenza sono stati l’annuncio di un giorno in cui, senza escludere il diritto dei vescovi di fare una conferenza propria, le Chiese d’America Latina potranno realizzare una grande assemblea ecumenica del popolo di Dio, con la rappresentatività e l’autorità per offrire orientamenti per il cammino delle Chiese.

L’orizzonte teologico e pastorale del documento finale

(…) Per il fatto di essere votato da tutta l’assemblea e di dover incorporare in qualche modo suggerimenti e proposte dei più diversi settori cattolici del continente, il documento finale di una Conferenza come quella di Aparecida non riesce a raggiungere una grande unità formale, presentando anche elementi eterogenei. Questo fatto è positivo, nel senso che riflette la diversità delle Chiese e dei settori ecclesiali nel continente. Al contrario, leggendo il testo attuale, la domanda che sorge è se, per mantenere l’unità di testo, non si sia finito per mettere da parte molte delle proposte più interessanti giunte dai diversi settori ecclesiali del continente.

Nell’insieme del documento, alcuni paragrafi riflettono un’ecclesiologia missionaria nella linea di una Chiesa di servizio e impegnata con l’umanità. In altri passaggi, il documento offre un’altra impressione, come se il progetto contenuto nel testo fosse ancora quello di una Chiesa della Cristianità che vuole riprendersi il suo ruolo egemonico e culturale nella società. Per questo, l’incidente dell’eliminazione dei testi più avanzati diventa più grave. Indebolisce paragrafi più aperti e permette che il testo possa esser letto come un insieme che ha dietro di sé una tendenza ecclesiologica estremamente conservatrice.

La sfida della grande missione continentale

La proposta di vari settori ecclesiali di rivitalizzare un grande movimento missionario a livello latinoamericano è stata non solo accettata ma sostenuta dal papa e incorporata nel testo. Come dice p. José Comblin, resta da capire chi lo farà e come. Tuttavia, anche prima di distribuire compiti, è fondamentale capire cosa il documento intende per missione.

Purtroppo, le espressioni usate dal documento finale vanno più nel senso di una Chiesa della Cristianità che nella prospettiva che oggi, in America Latina, ci piace chiamare "lascasiana". Ciò si concretizza oggi in una missione che rispetti pienamente l’altro, il diverso, che veda il volto divino presente nell’oppresso e abbia la convinzione che, sulla base del Vangelo, la prima missione di chi è discepolo di Gesù riguardi la vita e la salute delle persone che soffrono. Questa missione lascasiana, oggi, include il dialogo interculturale e interreligioso e ha come obiettivo il Regno, il progetto divino per il mondo, e non solo la Chiesa.

Nel momento attuale, è fondamentale che questa grande missione avvicini i popoli del continente nella prospettiva della patria grande bolivariana e orienti tutte le forze della Chiesa in direzione della difesa di una cultura della pace, contro la guerra, le spese militari, la pena di morte e il capitalismo che provoca la morte di tanti poveri. È parte essenziale di questa missione una nuova coscienza ecologica di comunione solidale con la terra, l’acqua e tutta la natura.

(…) Sarebbe impossibile per la Chiesa realizzare questa missione in modo profondo se essa si concepisse come una istituzione multinazionale, centralizzata e centrata su un potere sacro che crede di rappresentare Dio. Solo una Chiesa che accetti di essere evangelizzata per essere evangelizzatrice e assuma un cammino di conversione istituzionale può pensare ad una missione come questa. Solo se essa si organizzasse come vera comunione di Chiese locali avrebbe coerenza sufficiente per proporre agli altri i valori del Regno indicati da Gesù Cristo ed impegnarsi per la giustizia e la democrazia in questo continente. Per questo, un presupposto fondamentale di questa missione è ricostituire nella Chiesa cattolica la piena ecclesialità delle Chiese locali, con uno sforzo nuovo di rinnovamento dell’ecclesiologia catto-lico-romana.

Nel 1973, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Mondiale delle Chiese, nella riunione di Salamanca, sviluppò la visione di una "comunità conciliare". Nozione ripresa dall’Assemblea del Cmi a Nairobi: "La Chiesa una deve essere vista come una comunità conciliare di Chiese locali, esse stesse autenticamente unite. In questa comunità conciliare, ogni Chiesa locale possiede, in comunione con le altre, la pienezza della cattolicità e dà testimonianza della stessa fede apostolica. Essa riconosce che tutte le altre Chiese fanno parte della stessa Chiesa di Cristo e che la loro ispirazione emana dallo stesso Spirito" (…). È un linguaggio ben diverso dal modo in cui il testo di Aparecida parla della Chiesa (…). Sarebbe stato bello se il Documento conclusivo di Aparecida riprendesse perlomeno, 40 anni dopo, quello che i vescovi latinoamericani dell’epoca affermarono a Medellín: "Che si presenti sempre più nitido, in America Latina, il volto di una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, svincolata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione di ogni essere umano e di tutta l’umanità" (Medellín 5, 15a).

(…) Da molti anni, in America Latina, abbiamo cercato di credere in Gesù e di seguirlo aderendo alla fede di Gesù e non solo alla fede in Gesù. In questa prospettiva, ricevere la fede di Gesù come il contenuto più intimo della nostra fede ci apre in maniera fondamentale al progetto di Dio che significa concretamente vita per tutte le creature dell’univer-so. È una prospettiva di missione e di vita ecclesiale regnocentrica e non cristocentrica. È quello che ci hanno insegnato maestri come Jon Sobrino ed è l’orientamento attuale dell’Asett, l’Associazione Ecumenica dei Teologi e delle Teologhe del Terzo Mondo. A partire da questo sostrato di impegno con la realtà, la missione può assumere un carattere più propriamente religioso di testimonianza del Regno di Dio, rappresentato nelle comunità ecclesiali e nei valori proposti dalle Chiese. Tali valori sono la valorizzazione dell’al-tro e del diverso, come pure la spiritualità del dialogo e del riconoscimento della presenza e dell’azione divine nelle altre culture e nelle altre religioni. È così che la cristologia, anziché dividerci dagli altri, ci rende possibile vivere una prassi liberatrice a partire dal pluralismo culturale e religioso.

(da Adista, 2007)

Domenica, 16 Marzo 2008 17:09

Cipriano (Lorenzo Dattrino)

CIPRIANO

di Lorenzo Dattrino



Cecilio Cipriano nacque verso il 210 a Cartagine, da famiglia non cristiana. La sua cultura conobbe molti sbocchi, secondo il costume del tempo, e abbracciò lo studio del latino, del greco e della retorica, ma del diritto, a differenza di Tertulliano, non sembra avere cognizioni approfondite. Divenne presto famoso come retore. Non fece viaggi, e rimase quasi continuamente entro gli orizzonti urbani e nelle consuetudini d’una agiata famiglia.

La conversione al cristianesimo ebbe la sua origine nell’incontro con un presbitero della città, di nome Ceciliano. Era l’anno 245. L’avvenimento sorprese tutta la città. La prima conseguenza di quella conversione fu la decisione di privarsi dei suoi beni patrimoniali: se di tutti o solo in parte, non si può dire. Nel 249, dopo la morte del vescovo Donato e a soli tre anni dalla sua conversione, fu eletto vescovo di Cartagine per acclamazione popolare. In quegli stessi anni è da porre l’inizio di una rara coscienza e di una instancabile dedizione a favore delle classi più povere. Era ormai da un trentennio che la chiesa cartaginese godeva di pace.

Nel 250 si scatenava la persecuzione di Decio. Furono imposti atti pubblici, da cui risultasse l’adesione di ogni cittadino al culto ufficiale: i renitenti erano condannati alla confisca dei beni, all’esilio oppure al lavoro nelle miniere. Sembra che la pena di morte fosse comminata soltanto ai vescovi. Molte, purtroppo, furono le apostasie, anche da parte di alcuni membri del clero. Cipriano ritenne opportuno o necessario ritirarsi nell’ombra, in luogo vicino alla città, e di là seguire e controllare gli avvenimenti. Si mantenne in vigile contatto con alcuni presbiteri,da lui scelti per il governo della sua chiesa attraverso un frequente invio di lettere.

Al cessare della persecuzione, dovuta unicamente alla morte di Decio, Cipriano poté ritornare a Cartagine nella primavera del 251. Sorse allora la questione della riammissione dei lapsi nella comunione della chiesa. I «caduti», appoggiati da parte del clero ostile a Cipriano, e sostenuti dagli stessi «confessori della fede», sopravvissuti alle torture, esigevano la riammissione. Cipriano ricorse a misure di grande prudenza, mettendosi in contatto anzitutto con altri vescovi dell’Africa e con Roma, in quel momento senza vescovo e governata, come abbiamo visto, dal Presbyterium, di cui faceva parte preminente il prete Novaziano Le decisioni prese dal concilio di Cartagine del 251 furono le seguenti: a) coloro che avevano sacrificato, denominati sacrificati dovevano fare penitenza, in previsione di esser riconciliati soltanto però in punto di morte; b) coloro che erano riusciti a ottenere un attestato dell’avvenuto sacrificio, senza però avervi partecipato, denominati perciò libellatici, erano ammessi alla penitenza e alla riconciliazione.

Intanto a Roma Novaziano, deluso per l’elezione di papa Cornelio, provocava lo scisma che da lui prese il nome, inteso a sostenere il rigorismo più esigente in rapporto ai lapsi. Cipriano e Cornelio rimasero fermi per una condotta di comprensibile riammissione.

Superato questo periodo di inquietudine interna, si abbatteva sulla città una sventura d’altro genere, la peste. La carità eroica, con cui Cipriano si prodigò per i colpiti dal contagio, induce a ricordare quella a noi più nota, in cui rifulse la carità di san Carlo e di Federico Borromeo a Milano. Passata anche questa sciagura, insorse un’altra penosa questione riguardo al battesimo conferito dagli eretici.

Il papa di quel tempo, Stefano I (254-257), sosteneva che non si doveva rinnovare quel battesimo. La tesi contraria era affermata da Cipriano, unitamente ai vescovi dell’Africa e dell’Asia Minore. C’era il rischio che si passasse alla provocazione di uno scisma: lo impedì la morte di papa Stefano nell’agosto del 257. Frattanto cominciava a infierire la tremenda persecuzione voluta dall’imperatore Valeriano. L’anno seguente (258), dopo un anno d’esilio, Cipriano moriva a Cartagine, martire della fede.



a) Le opere

«L’attività letteraria di Cipriano è strettamente legata agli avvenimenti della sua vita e del suo tempo. Tutti i suoi scritti sono dovuti a circostanze particolari e mirano a fini pratici. Cipriano era un uomo d’azione. Si curava più della direzione delle anime che di speculazione teologica. Non possedeva la profondità di Tertulliano, né il suo talento letterario e la sua ardente passione: era dotato di saggezza pratica». (1) Tra le sue numerose opere, sceglieremo le più singolari:

A Donato. Piùche una lettera, lo scritto si risolve in una pagina autobiografica. L’autore, da poco convertito, espone all’amico, specie nella prima parte, il mutamento prodottosi in lui per effetto della conversione alla fede cristiana. li destinatario non va confuso con Donato, vescovo di Cartagine. Si tratta di un amico, compagno della conversione. Ecco il brano più significativo di tutto lo scritto.


Lettura

La gioia della conversione

«Una volta io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tulle le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano davanti, ero in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita. Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse veramente difficile e pesante per i miei sentimenti di quel periodo ciò che la misericordia di Dio mi prometteva per portarmi alla salvezza. Ritenevo fosse difficile poter nuovamente rinascere e deporre le abitudini precedenti, anche se il battesimo nell’acqua della salvezza mi rinnovava a vita nuova. Ritenevo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l’anima senza mutare nel suo fisico. Continuavo a dirmi: come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto a un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi da quelle abitudini che ho indebitamente contratto e che da molto tempo mi dominano con arroganza, perché sono invecchiate con me? Queste abitudini sono legate a radici molto profonde [...j. Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero anch’io legato dai moltissimi vizi della mia vita passata e non avrei mai creduto di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualche cosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me. Ma sopraggiunse l’aiuto dell’acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall’alto si diffuse una luce nel mio animo purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai uomo nuovo. Dopo questo avvenimento ciò che era colpito dal dubbio divenne, in un modo che io non saprei descrivere, improvvisamente certezza; quello che era impenetrabile mi apparve accessibile e luminoso».

(A Donato 3,4. Tr. di G. Toso, Opere di Cipriano, Torino 1980, pp. 82-84)


• De lapsis (Gli apostati). Quest’opera, universalmente conosciuta, porta un titolo che, letteralmente, si riferisce ai «caduti» durante l’infierire della persecuzione di Decio; il titolo stesso, però, è reso più comunemente col termine di «apostati» o anche di «rinnegati». Lo scritto fu composto nella primavera del 251, quando era cessata la persecuzione e Cipriano era ritornato in sede a Cartagine dopo quattordici anni di esilio.
L’opuscolo passa in rassegna tre categorie in base al comportamento tenuto dai cristiani durante quel periodo di prova: i più fedeli, confessori della fede pur in mezzo ai tormenti; i caduti nell’apostasia; i «libellatici», che s’erano procurato astutamente il certificato di adesione. Lo scritto fu redatto in previsione del sinodo che i vescovi dell’Africa avevano deciso di organizzare nel maggio del 251 sui criteri da adottare in rapporto alla caduta dei cristiani. Cipriano ammetteva che «i caduti dovevano venire riconciliati. Egli insisteva però sulla necessità di una penitenza severa e prolungata: fin tanto che sulla conversione non avevano garanzie sufficienti, non bisognava riconciliare, salvo in punto di morte». (2)

• De catholicae ecclesiae unitate (L’unità della chiesa). Si tratta di una lettera pastorale, scritta in occasione dello scisma di Novaziano. Anche a Cartagine era in atto uno scisma, capeggiato dal prete Novato e dal diacono Felicissimo, tutti e due oppositori di Cipriano. Roma e Cartagine subivano dunque contemporaneamente le due deviazioni. Era l’anno 251. In seguito Cipriano riprese l’opuscolo con alcuni ritocchi, sicché, almeno per alcune parti, oggi si riconoscono due redazioni: la seconda fu scritta quando già si svolgeva la controversia sulla validità del battesimo conferito dagli eretici, come sosteneva il papa Stefano. Quest’opera può essere considerata come il primo trattato sulla chiesa. L’atteggiamento e il pensiero di Cipriano formano l’oggetto di conclusioni ancora molto discusse da parte degli studiosi. Ne vedremo il processo e il contenuto nel giudizio conclusivo.

• De dominica oratione (La preghiera del Signore). Contiene soprattutto il commento sulle singole petizioni del Pater noster. Precedono alcune premesse generiche sul modo di pregare e sulle doti che devono essere proprie di ogni preghiera. La conclusione afferma la necessità di accompagnare la preghiera con le buone opere, il che dona al breve opuscolo il pregio di un carattere sociale e comunitario.

• L’epistolario. È una raccolta di 81 lettere, delle quali ben 16 inviate allo stesso Cipriano da vari corrispondenti. Le lettere abbracciano tutte le fasi che distinguono i periodi più singolari della sua ricca esistenza. Sono divise in gruppi, secondo l’argomento, i destinatari e le occasioni che le hanno dettate. Vi è trattata la questione dei lapsi e lo scisma creato prima da Novato e poi da Novaziano. Vi è la corrispondenza con i vescovi di Roma, Cornelio e Stefano. Infine la questione sul battesimo conferito dagli eretici. L’importanza maggiore di questo epistolario affiora dalle notizie storiche, fornite da chi aveva vissuto tutte le vicende in prima persona.


b) La dottrina

Cipriano resta uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia della chiesa cristiana antica. In rapporto ai grandi contenuti della fede, soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e dell’incarnazione, la sua dottrina risulta irreprensibile. Ma è specialmente nei confronti della chiesa e del battesimo, dove appare particolarmente la sua sollecitudine, che hanno luogo alcune riserve. È stata infatti posta questa domanda: Cipriano riconosceva o no il diritto di Roma a intervenire negli affari di un’altra chiesa locale? Dalle risposte date dai vari studiosi, mi pare che quella di J. Daniélou sia tra le più evidenti: «Nel pensiero di Cipriano c’è certamente dell’ambiguità. O, più esattamente egli viene a trovarsi sulla confluenza di due correnti, alle quali rende ugualmente testimonianza, ma non ne vede ancora le possibilità di conciliazione. È attaccato all’unità della chiesa universale e in particolare al primato romano. Ma, d’altronde, è intimamente conscio dei diritti dell’episcopato locale. Papa Stefano dal canto suo, ha piena coscienza del suo diritto di intervenire negli affari delle altre chiese. E, d’altronde, Cipriano, in occasione precedente, sollecitandolo a intervenire, gli aveva riconosciuto questo diritto (...).

Se, al di là dei problemi particolari, cerchiamo di mettere in luce il significato della controversia, se ne vede l’importanza. Essa riguarda infatti la questione del principio e delle modalità del primato romano. Il conflitto non verte su questo primato in sé. Cipriano ne è uno dei grandi testimoni. Bensì verte sulla sua estensione. Quel che Cipriano rifiuta è un intervento in un settore che, a suo parere, è di pertinenza della chiesa locale. D’altra parte non c’è dubbio che la violenza della condanna scagliata da Stefano rivela una tendenza del vescovo di Roma a un abuso di autorità. Nella misura in cui difendeva la legittimità delle diverse tradizioni liturgiche, Cipriano protestava legittimamente contro le tendenze centralizzatrici di Roma. Ma nella misura in cui trattava una questione dogmatica, Stefano era nel giusto, affermando il diritto proprio di intervenire. L’avvenire dimostrerà che aveva ragione». (3)


Per l’approfondimento

Edizioni

PL 4; CSEL 3,1-2; CCL 3,1-2.

Traduzioni

G. Toso, Opere di san Cipriano, Torino 1980 (contiene: A Donato; La condotta delle vergini; Gli apostati; L’unità della chiesa cattolica; La preghiera del Signore; A Demetriano; La pestilenza; Le buone opere e l’elemosina; La virtù della pazienza; La gelosia e l’invidia; A Fortunato; Atti proconsolari; Lettere).

Studi

P. Brezzi, La riconciliazione ecclesiastica nella disciplina penitenziale secondo Tertulliano, Origene e Cipriano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», Nuova Serie, vol. IV, 1952, pp. 105-127; L. Dattrino, L’ecclesiologia di san Cipriano, in «Lateranum» 50 (1984), 127- 150; G. Mongelli,La chiesa di Cartagine contro Roma durante l’episcopato di san Cipriano, in «Miscellanea francescana» 59 (1959), 104-201; E Trisoglio, San Cipriano: un governatore di anime, in «Latomus» XX (1961), 342-243; 549-567.


Note


1) J. Quasten, Patrologia, I, p. 578.

2) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 244.

3) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 247-248.

Il XX secolo è stato definito il secolo della Chiesa e, certamente, stiamo assistendo a movimenti di pensiero, nel campo ecclesiastico, che sconvolgono le vie tradizionali. Non siamo, tuttavia, dispensati dall'interrogare il nostro passato confessionale. Il problema dell'unita' della Chiesa non è una prerogativa del nostro secolo, anche se oggi assume delle proporzioni di primaria importanza.