Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Le Chiese dell'oriente cristiano
X. Il Patriarcato di Antiochia
di P. John Nellykullen

Antiochia era un centro urbano importante nel mondo antico, dove, secondo gli “Atti degli apostoli”, i discepoli di Gesù furono per la prima volta chiamati cristiani. Antiochia divenne la sede della patriarcato che incluse tutti i cristiani sia della provincia orientale dell’impero Romano che oltre.

La reazione al Concilio de Calcedonia suscitò uno scisma nel patriarcato. Il gruppo principale che ripudiò il Concilio formò la Chiesa Siro-Ortodossa. La Chiesa che aveva accettato Calcedonia comprese essenzialmente i greci e le parti ellenizzate delle popolazioni locali.

Questa era la situazione quando Antiochia cadde nelle mani degli aggressori Arabi nell’agosto del 638. Considerati come collaboratori del nemico Impero Bizantino, i Greci locali ebbero un lungo periodo di persecuzioni. Il trono patriarcale fu perciò quasi sempre vacante o occupato da un Patriarca-residente all’estero, questo durante il secolo settimo e la prima parte del secolo ottavo.

I Bizantini hanno riconquistarono la città nel 969, e la tennero fino al 1085, quando Antiochia cadde in mano ai Selgiuchidi Turchi. Il patriarcato prosperò sotto il dominio Bizantino e durante questo periodo la liturgia siriaco-occidentale fu gradualmente sostituita dall liturgia Bizantina, un processo che sarebbe stato completato nel secolo dodicesimo .

Nel 1098 i crociati presero Antiochia ed istituirono un Regno Latino in Siria che durò circa due secoli. Un patriarcato Latino fu istituito, mentre la linea dei patriarchi Greci continuò in esilio.

Successivamente Antiochia fu conquistata dai Mamelucchi Egittiani nel 1268, ed il patriarcato Greco tornò ad occupare la sede . Poiché Antiochia da lungo tempo è ridotta a una città piccola, il patriarcato è stato trasferito a Damasco nel 14° secolo. Nel 1517 la zona passò dal dominio dei Mamelucchi Egiziani a quello dei Turchi Ottomani e rimase. sotto il controllo Turcho fino alla fine del prima guerra mondiale. La Chiesa fu indebolita da una scisma nel 1724, quando molti fedeli divennero cattolici e formarono la Chiesa Greco cattolica di rito melkita.

In questo periodo la grande maggioranza dei fedeli di questo patriarcato era araba. Nel 1898, l’ultimo patriarco Greco fu deposto ed un successore Arabo fu eletto in 1899. Cosi il patriarcato divenne completamente Arabo . Un movimento vigoroso di rinnovamento che ha coinvolto la gioventù ortodossa è attivo dal 1940. L’accademia di teologia San Giovanni Damasceno, situata vicina Tripoli del Libano, fu istituito dal patriarcato nel 1970 e nel 1988 fu incorporata ufficialmente all’Università di Balamand.

Il Santo Sinodo del patriarcato di Antiochia è composto dal Patriarca e tutti i Metropoliti attivi. Questo sinodo viene convocato almeno annualmente. Ha la funzione di eleggere il Patriarca e gli altri Vescovi, di preservare la fede e prendere le misure opportune contro le violazioni dell’ordine ecclesiastico. Inoltre, il Concilio Generale della comunità è formato dal Santo Sinodo e da rappresentanti del laicato. Si raduna due volte all’anno. E’ responsabile degli affari finanziari, educativi, giuridici ed amministrativi. Per eleggere un nuovo Patriarca, questo organo sceglie tre candidati e uno di questi sarà eletto dal Santo Sinodo.

Il patriarca attuale è attivo nel movimento ecumenico, ed è coinvolto nelle attività per restaurare l’unità dei cristiani che hanno radici nell’antico e indiviso patriarcato Antiocheno. Per questo motivo ha incontrato 22 Luglio, 1991, il patriarca siro-ortodosso, Ignatius Zakka I Iwas. Hanno firmato un documento che ha esortato al “rispetto completo e reciproco tra le due Chiese”. Questo documento ha proibito il passaggio dei fedeli da una Chiesa all’altra; ha pensato alla possibilità di incontri dei due sinodi; ha dato direttive per l’intecommunione dei fedeli e anche per la Concelebrazione Eucaristica del clero delle due Chiese.

Il Patriarcato partecipa ad una commisione teologica per il dialogo bilaterale con la Chiesa Greco-Cattolica di rito Melkita, per esplorare i modi al fine di sanare lo scisma del 1724. In un atto senza precedenti il Patriarca della Chiesa Cattolica Greca di rito melkita, Maximos V, ha parlato ad un incontro del Santo Sinodo Antiocheno nell’ottobre del 1996. Il Patriarca Antiche ha fortemente sostenuto la continuazione del dialogo internazionale con la chiesa cattolica.

Ci sono negli anni recenti forti emigrazioni di cristiani antiocheni nel nuovo mondo. Varie diocesi sono state istituite in America del Nord, Argentina, Brasile ed Australia. In America del Nord, l’Archidiocese siro-Antiochena è sotto la guida del metropolita Philip Saliba. L’archidiocesi ha 204 parrochie negli USA e 16 in Canada. Questa giurisdizione include il vicariato occidentale composto principalmente da ex-episcopaliani con circa di 10.000 membri, come pure, una missione evangelica ortodossa antiochena che è nata nel campus Crusade per Cristo e dove si usa il rito Bizantino.

La diocese Antiochena ortodossa di Australia è guidato dal vescovo Gibran di Larissa. Questa diocesi ha 9 parrocchie, ed ha inoltre le tre comunità in Nuova Zelanda. Anche una parrocchia russa della lingua inglese in Melbourn è sotto questo vescovo e, è servito dal clero della diocesi antiochena.

C’è una comunità ortodossa Antiochena a Londra in Inghilterra. Inoltre, esiste un gruppo di ex-Anglicani con circa 700 membri, articolato in 9 communità, chiamato “Pellegrinaggio all’Ortodossia”, esso è stato accolto nella Chiesa ortodossa sotto la giurisdizione del vescovo Antiocheno di Parigi che nell’ aprile 1995, ha ordinato due ex-preti anglicani provenienti da questo gruppo come preti ortodossi; in seguito ci sono state molte altre ordinazioni. Alcune di queste comunità usano il rito Bizantino, altre usano una versione modificata della liturgia occidentale.


TERRITORIO: Siria, Libano, Iraq, Kuwait, Iran, le due Americhe, Australia, Europa

GUIDA: Ignatius IV (nato nel 1920, eletto nel 1979)

TITOLO: Patriarca di Antiochia e di tutto l’Est

RESIDENZA: Damasco, Siria

MEMBRI: 750.000

Santificazione e deificazione *






“Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,21). Ciò comporta da una parte di stare “saldi nel Signore così come avete imparato” (ibidem, 4,1) e dall’altra che i credenti dimentichi del passato e protesi verso il futuro corrano “verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù” (ibidem, 3,14). E tutto ciò non in una fuga utopica, ma nella pesante esperienza del quotidiano, fatto di tentazione, di morte e di sofferenza, “diventando conforme a Cristo nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione” (ibidem, 3,11). Questo pensiero che Paolo commenta, in base alla sua esperienza personale ai cristiani di Filippi, riassume un aspetto importante della intera esperienza cristiana che si fonda su questi elementi basilari, la vocazione, cioè l’essere ferrati da Cristo, l’essere conquistati da lui (katelệmptện ypộ Christoû), come si esprime S. Paolo, il conformarsi (symmorphizộmenos) a lui, ed essere da lui trasfigurati (metaschệmatizei to sộma).

Ciò implica un processo, una continua tensione. “Dal punto in cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea” (ibidem, 3,16). Questa visione di cambiamento è pienamente assunta da S. Gregorio di Nissa, che nel proporre Mosè come tipo dell’uomo chiamato da Dio e della esperienza di ogni uomo di giungere alla conoscenza di Dio e al proprio rinnovamento, afferma: “Nessuno ignora che ogni essere soggetto per natura a mutamenti, non rimane identico a se stesso, ma passa continuamente da una condizione all’altra”.

Inoltre “nessun limite circoscrive la vita perfetta e può arrestare il progresso”. La perfezione è nel progresso. La santificazione che altro non è che la conformazione a Cristo, la perfetta immagine visibile di Dio, esprime questo misterioso processo di trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera in ogni uomo, trasformandolo ad immagine di Dio.

I. Guarigione dell’uomo

S. Giovanni Damasceno (sec. VII), il cui pensiero rappresenta una solida corrente teologica e spirituale che ha fortemente influito sulla elaborazione del pensiero cristiano di oriente, presenta una visione antropologica di estremo interesse anche attuale. Egli parte dal dato biblico che ripropone sotto varie forme e ripetutamente, ma che costituisce il dato di fondo e inamovibile. L’uomo è “creato razionale, intelligente e libero, a immagine di Dio”. Seguire quindi questa natura è vivere secondo la volontà di Dio, è vivere secondo virtù. Egli è tuttavia bene attento a non attribuire la perfezione ad uno sforzo puramente umano, perché è Dio che ci sostiene in questo sforzo. “Senza il suo concorso e il suo aiuto noi né vogliamo né facciamo il bene”. Questa synergia, cooperazione umano-divina, garantisce l’autentico progresso dell’uomo, che libero, può sempre non cooperare e anche deviare dalla vocazione alla quale è chiamato: “Sta a noi rimanere nella virtù, di seguire Dio che ci invita, noi però possiamo rigettarla e così operare il male.

Se rimaniamo nella natura, siamo nella virtù; scivolando dalla natura, dunque dalla virtù, nella contronatura, noi penetriamo e restiamo nel male”.L’affermazione della libertà umana è quindi fondamentale per la comprensione del comportamento cristiano L’identificazione fra “agire secondo natura” e “seguire la virtù”, e di converso “agire contro natura” e “operare il male” presuppone la concezione biblica (Gen 1,26) dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. E’ una visione antropologica radicalmente positiva, nonostante la condizione di creatura dell’uomo e quindi soggetto a molteplici limitazioni di intelligenza e di volontà. Di conseguenza quando il Damasceno tratterà “dell’economia divina in vista della nostra salvezza” e deve spiegare in cosa consiste l’opera terapeutica (kệdemonia) di Dio in favore dell’uomo si pone su un piano di correzione etica e quindi di conversione, così come la “caduta” dell’uomo è posta sulla linea della “disubbidienza”. “Non avendo osservato l’ordine del creatore, l’uomo è spogliato della grazia (chậris), privato della familiarità (parrệsia) con Dio e rivestito della necrosi”.

Mantenuto il parallelismo natura-virtù, il Damasceno presenta la conversione come un passaggio dal diavolo a Dio, un cambiamento di tendenza, conseguentemente di comportamento. “La conversione,il passaggio dalla contronatura a ciò che è secondo natura, dal diavolo verso Dio, avviene per mezzo dell’ascesi e della sofferenza”.

Egli parla tuttavia di esigenza della natura “di essere rinnovata” (anakainisthệnai) collegandola immediatamente con l’altra esigenza di “essere istruita circa la via della virtù che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna”.

Questo malessere tuttavia è misterioso e più oscuro di quanto non comprende la stessa ragione. “Bisognava che colui che ci doveva liberare dal peccato non avesse conosciuto il peccato”. L’uomo ha bisogno di una guarigione più profonda. Se questo primo atto è esclusiva opera di Dio che, attraverso Cristo redime l’umanità, il resto esige la piena partecipazione dell’uomo partendo da una ripresa di coscienza della propria alienazione dalla propria “naturale” vocazione. La “conversione” di conseguenza a questo cambiamento di rotta intellettuale (metànoia) e morale, si pone come atto primario ed essenziale della santificazione quale processo di assimilazione a Dio.

II. Partecipazione alla vita divina

“Uno solo è santo, uno solo è Signore, Gesù Cristo”. Questo inno si ripete in ogni celebrazione eucaristica nella Chiesa bizantina, mantiene nella giusta evidenza che la santità è la natura di Dio e che Gesù Cristo è Dio vero da Dio vero, come si professa nel Credo, e sottolinea anche l’unicità della natura di Dio Trino. La santità che si attribuisce all’uomo, ai santi non può essere che per partecipazione. S. Giovanni Damasceno, parlando dei santi e delle ragioni che permettono ed esigono la loro venerazione, applica loro per analogia i titoli di “dei, re e signori”, titoli che sono innanzitutto dovuti e in modo unico a Dio. “Io dico che sono “dei, re e signori” non per natura, ma perché hanno dominato e regnato sulle passioni, conservato inalterata la somiglianza dell’immagine divina secondo cui erano stati generati (perché si chiama re, anche l’immagine del re) e perché si sono uniti liberamente a Dio, offrendogli una dimora e divenendo, in questa partecipazione per grazia, ciò che Egli è per natura”. In questo pensiero del Damasceno si mantiene netta la necessaria distinzione fra Dio e l’uomo deificato, superando la permanente tentazione dell’uomo di sostituirsi a Dio (Gen 3,5.22, peccato dei progenitori; Gen 11,4 torre di Babele), di ogni umanesimo paganeggiante. La partecipazione è tuttavia reale. Il Damasceno nello stesso capitolo cita vari testi delle scritture per mostrare che Dio abita nell’uomo e lo trasforma. “Io farò la mia dimora in essi” (Lev 26,12); “Non sapete che i vostri corpi sono il tempio dello Spirito Santo che dimora in voi?” (2 Cor 3,6). E tutto ciò per l’antico progetto divino che ha destinato gli uomini ad essere a immagine di Cristo. Dio Padre “nella sua prescienza li aveva destinati a essere conformi all’immagine del suo Figlio”, vera immagine di Dio invisibile, “affinché il suo Figlio sia il primogenito fra tutti i redenti” (Rom 8,29).

Il processo di questa trasformazione avviene per partecipazione alla natura divina per benevolenza di Dio. “La divina potenza ci ha donato tutto ciò che giova per la vita e la pietà, avendoci fatto conoscere Dio Padre, che ci ha chiamati alla fede per manifestare la sua gloria, in grazia di cui ci ha messi in possesso dei preziosi e magnifici beni promessi, affinché per mezzo di questi voi diveniate partecipi della natura divina” (2Pt 1,3-4).

Questa partecipazione si realizza attraverso la fede e per mezzo della sacramentale inserzione in Cristo. S. Giovanni Damasceno nel De Fide orthodoxa parla soltanto di due sacramenti: il battesimo e l’eucaristia.

a) “Noi confessiamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e per la vita eterna, perché il battesimo significa la morte del Signore. Noi siamo quindi seppelliti con il Signore, come afferma l’apostolo” L’immersione nell’acqua – morte di Cristo è un avvenimento radicale. “Così come il Signore non è morto che una sola volta, noi non dobbiamo essere battezzati che una sola volta”. E più avanti: “Il battesimo, con la triplice immersione, significa i tre giorni passati da Cristo nella tomba”. L’assimilazione alla morte ha anche di converso l’aspetto di resurrezione alla vita.

Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom 8,11). Sulle tracce di S:Paolo, S:Giovanni Damasceno fa questa sintesi: “L’uomo è composto di anima e di corpo. Ci è data una duplice purificazione per mezzo dell’acqua e dello Spirito.

Lo Spirito ci rinnova “a immagine e somiglianza”; l’acqua per grazia dello Spirito purifica il corpo dal peccato e libera dalla corruzione; l’acqua esprime l’immagine della morte, lo Spirito dispensa le arre della vita”. Non è il rito religioso che opera questa “rigenerazione psichica” – come si esprime il Damasceno – come in un’operazione magica, ma l’azione misteriosa dello Spirito che agisce attraverso il rito, per l’opera redentivi e rigenerativa di Cristo.

“Egli si è fatto uomo come noi, ci libera dalla corruzione per mezzo della sua passione; fa calare dal suo costato santo e immacolato, una sorgente di liberazione, l’acqua che ci fa rinascere e ci lava dal peccato e dalla corruzione, il sangue bevanda che procura la vita eterna” Il battesimo inserisce in Cristo, con cui si forma un “corpo misterioso” attraverso cui si comunica la vita, la nuova vita, la vita divina.”Per mezzo del battesimo noi riceviamo le primizie dello Spirito e la nuova nascita diventa l’inizio, il sigillo, la salvaguardia e la luce di un’altra vita”. Siamo nel cuore del mistero cristiano: il ristabilimento della comunione tra Dio e l’uomo, attraverso l’incarnazione di Dio e la deificazione dell’uomo. Nello stesso capitolo il Damasceno parla dell’unzione che si riceve al battesimo e che rende conformi a Cristo. Non distingue dal battesimo questa “cresima” che fa parte dell’intero avvenimento battesimale (morte, resurrezione, conformazione a Cristo, vita nuova).

“L’olio (èlaion) nel battesimo è ricevuto per l’unzione (chrisin), facendo di noi dei cristi (christoûs) e proclamandoci la misericordia (éleon) di Dio per mezzo dello Spirito Santo; così come la colomba portava un ramo di ulivo a coloro che erano stati salvati dal diluvio”. Diluvio – battesimo – purificazione; olio – ulivo – salvezza; unzione che trasforma in cristi – unti conformi a Cristo. Il pensiero si coordina attraverso la concezione teologica e mistica dell’incorporazione a Cristo. Il rituale bizantino del battesimo fa cantare, a sua conclusione, un versetto dell’epistola di S:Paolo ai Galati che riassume questa concezione: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

b) Questo processo si completa nell’eucaristia. Partecipando all’eucaristia, purificati, “noi siamo uniti al corpo del Signore e al suo Spirito e diveniamo corpo di Cristo”. Il Damasceno spiega questo processo analizzando i termini di partecipazione e di comunione. “Si usa il termine partecipazione (metalệpsis) perché in essa, l’eucaristia, noi partecipiamo alla divinità di Gesù. Si dice anche comunione (koinonia) – e con ragione – perché in essa comunichiamo al Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità, comunichiamo e ci uniamo gli uni agli altri; poiché partecipiamo a un solo pane, tutti diventiamo un corpo e un sangue di Cristo e membri gli uni degli altri, inseriti in Cristo”.

Infine il Damasceno spiega perché il pane e il vino della eucaristia vengono talvolta detti anche “simboli, antitipi” (antitypa) dei beni futuri e afferma: “non perché non siamo veramente il corpo e il sangue di Cristo, ma perché da ora noi, attraverso di essi, partecipiamo alla santità di Cristo, mentre allora noi parteciperemo con l’intelletto alla visione diretta”. La partecipazione al sacramento è partecipazione al corpo di Cristo; per mezzo di essa si prende parte alla divinità stessa di Cristo.

Una tale partecipazione implica una interiore purificazione. S. Giovanni Damasceno usa l’immagine del carbone ardente, presa dal profeta Isaia. “Accostiamoci con ardente desiderio, con le palme delle mani in croce e riceviamo il corpo del Crocifisso. Volgendo verso di lui gli occhi, le labbra e il viso, prendiamo il carbone ardente divino perché il fuoco del nostro desiderio appropriandosi l’ardore del carbone divino bruci i nostri peccati, illumini i nostri cuori, e noi siamo deificati partecipando al fuoco divino”. Ricompare così la componente della purificazione. Il processo di santificazione nell’uomo ha permanentemente questi due poli: liberazione dal peccato e assimilazione a Cristo. Il santo è colui che ha raggiunto la condizione di “creatura nuova”, immagine vivente di Cristo; in più, il santo è colui che liberato dalla schiavitù del peccato ha raggiunto la “statura” di Cristo.

III. Creatura deificata e espressione etica

“Dio è vita e luce e in lui, i santi sono nella luce e nella vita”. Questo risultato definitivo implica quasi sempre il passaggio attraverso le tenebre e il timore della morte. La provvisorietà, l’ambiguità, l’avversità del quotidiano vissuto costituiscono il contesto in cui si sviluppa la “creatura nuova”, il santo.

La “novità” dell’uomo si deve esprimere nel comportamento etico. Questa novità, determinata dalla incorporazione a Cristo e dall’inabitazione dello Spirito nell’uomo, viene così descritta da S: Paolo: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22); e sintetizza l’insieme con una espressione lapidaria: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (ibidem, 25). In tal modo l’immagine di Dio, secondo cui l’uomo è stato creato, si aggiunge la somiglianza. E l’uomo stesso diventa per gli altri “luce e vita”. Il consiglio evangelico è categorico: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.(Mt 5,16)

Osservazione conclusiva

Il santo è colui nel quale ha trovato realizzazione la redenzione, l’uomo deificato. Egli è quindi la testimonianza viva dell’opera salvifica di Dio operante ed efficace. Come tale il Santo può essere proposto come esempio da imitare e da venerare ed è segno di speranza perché egli certifica che ogni uomo può realizzare la sua vocazione e che l’intera convivenza umana può essere trasformata in nuova creazione. La comunità cristiana, chiamata alla santificazione e alla deificazione, già incorporata a Cristo è germe e strumento di questa trasformazione dell’intera umanità.

Romano il Melode (sec. VI) nel suo kontakion per la festa di tutti i santi, sintetizza così, nel canto, questa visione: “La terra si è fatta cielo. I luminari del firmamento e i martiri nel pleroma della chiesa rifulgono e illuminano tutto l’universo, cosicché Davide può dire con noi: “I fulgori tuoi sono stati riflessi sulla terra, o ricco di misericordia”.

* da uno studio di Pavel Evdokimov

Fasi della cultura europea d'oltralpe

L'attualità di Ugo Grozio (1583- 1645) *

di Renzo Bertalot

Premessa

Nel 1991 si riuniva a Canberra la settima assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Il tema dell'incontro riguardava i Segni dello Spirito. Venne alla ribalta una delle affermazioni molto forti: senza lo Spirito la nostra libertà è anarchia. È un'affermazione che fa riflettere e che richiama alcuni punti fondamentali della Riforma del XVI secolo. Va ricordato il Servo Arbitrio di Lutero contro Erasmo, il suo Piccolo Catechismo e anche i primi passi del suo commento al Magnificat in cui è detto che senza lo Spirito si fanno solo "chiacchiere"; il dono della grazia è una creazione dal nulla (ex nihilo). Così ancora va ricordato Calvino, il suo insegna­mento sulla predestinazione e sulla testimonianza interiore dello Spirito Santo. Tuttavia nella seconda metà del XVI secolo le posizioni, che sembravano irrinunciabili, subirono delle sfumature e delle attenuazioni; si risente l'eco del semi­pelagianesimo, di Erasmo e anche di Tommaso d'Aquino. (1) I Riformatori veneti opposero resistenza; tra questi Mattia Flacio Illirico, tacciato di semi-manicheismo. (2)

Il Sinodo di Dordrecht (13 Novembre 1618-9 Maggio 1619)

Con l'arrivo del secolo XVII si infittirono i contrasti tra le varie posizioni che stavano guadagnando terreno. Due correnti si consolidarono, fin dal 1603, attorno ad Arminio e a Gamarus. Arminio morì nel 1609, ma il suo pensiero fu raccolto in cinque articoli messi in circolazione nel 1610 dai suoi seguaci: i Rimostranti. Sostanzialmente si afferma che Cristo è morto per tutti e non solo per gli eletti, la pre­destinazione diventa prescienza in quanto Dio conosce in anticipo quelli che accoglieranno la salvezza: per credere l'uomo ha bisogno dello Spirito Santo, ma la grazia non è irresistibile.

Il Sinodo di Dordrecht si riunì per far luce sulle discus­sioni in corso e per giungere ad un chiarimento. Sotto l'oc­chio vigile di Maurizio d'Orange e dei principi tedeschi si costituì una assemblea che vedeva insieme i rappresentanti di quasi tutte le chiese emerse dalla Riforma. (3) L’attenzione ruotò intorno al Decreto Assoluto secondo il quale Cristo è morto solo per gli eletti: Dio dà la fede agli uni e agli altri (i reprobi) no. La decisione divina è stata presa da sempre cioè prima della caduta secondo la tesi dei gomaristi supralapsa­ri mentre per i rimostranti infralapsari la decisione di Dio è stata presa dopo la caduta prevedendo come avrebbero rea­gito gli uomini alla sua offerta di grazia. Per i primi la gra­zia è irresistibile, per gli altri è invece resistibile. (4)

I rimostranti ebbero la peggio. Le loro idee dovettero emigrare e trovarsi altri spazi di sopravvivenza. Il deismo inglese e la filosofia della religione sul continente affon­dano le loro radici e la loro fortuna nei richiami degli sconfitti del sinodo di Dordrecht.

Nel frattempo si affacciano altre prospettive che sti­molano riflessioni e ripensamenti intorno alle affermazio­ni dei vincitori. Si pone il problema della certezza della propria salvezza. Se Dio benedice i prescelti quali sono i segni che confermano la loro elezione? Per Calvino la sicurezza non la si può ottenere considerando le opere: sarebbe un'autogiustificazione. Barth rileva un forte avvi­cinamento dei riformati al Concilio di Trento per cui i frutti della fede danno la certezza dell'elezione (dimenti­cando così l'albero, cioè il Cristo). In tal senso anche le decisioni di Dordrecht sono "poco accettabili" e “poco convincenti". Cristo passa in secondo piano mentre in primo piano rimane la testimonianza personale dell'uomo eletto, testimone di se stesso. Si confondono le opere della fede con la fede delle opere. L'insistenza sul decreto asso­luto si rivela un "cattivo punto dì partenza". Alla fine l'in­teresse per i teologumeni diventa contraddittorio e cade. (5)

Ugo Grozio (1583 -1645)

Ugo Grozio era un famoso giurista olandese, fortemen­te impegnato nella Riforma. Al sinodo di Dordrecht sostenne la corrente arminiana in contrapposizione al radi­calismo calvinista di Gomar. Si trovò dalla parte perdente e venne condannato al carcere perpetuo, (6) ma la moglie riuscì a farlo evadere. Accolto a Parigi da Luigi XIII ebbe l'incarico di ambasciatore svedese presso la corte di Francia. Era un credente e un teologo, ma il libro che lo rivelò all'attenzione mondiale fu il De jure pacis ac helli del 1625. È considerato il fondatore del diritto internazionale e padre del diritto naturale in opposizione alla scolastica aristotelica e in assonanza con le tesi della Riforma. Con lui si affermano il " laicismo giuridico", la secolarizzazione come “giusnaturalismo laico" e la "scuola di diritto naturale laico". Con Grozio, secondo Nicola Abbagnano, abbiamo la più matura e perfetta formulazione del diritto naturale: un'autentica nascita della filosofia del diritto.

Grozio aveva un forte senso della responsabilità indi­viduale, derivante dalla fede, ma passando dalla teologia al laicismo riteneva necessaria una variazione del vocabo­lario. I termini "fede", "salvezza", "peccato" non vanno certamente dimenticati, ma non hanno spazio nell'area dei valori penultimi che impegnano credenti e non cre­denti indistintamente. Bisogna imparare a ragionare Etsi Deus non daretur, cioè come se Dio non ci fosse (per Grozio è quasi un orrore dirlo). Occorre pertanto tra­sporre i modelli teologici in modelli laici e attuare una secolarizzazione del sacro. Si tratta di fare un passo al di là di ogni confessionalismo e delle formule coraggiose già discusse al tempo della Riforma: "religione civile" o "reli­gione pubblica" o “uso civile della legge”.

Presso tutte le genti (apud omnes gentes) l'incontro con l'altro, il diritto naturale, trova il suo fondamento nella società e nella ragione. V'è per tutti un appetitus societatis che cerca di stabilire un consenso in vista della vita asso­ciata e che di conseguenza impegna a stare ai patti.

L’organizzazione della vita sociale è l'opera dell'uomo basata sulla sola ragione. Il diritto naturale è indipendente dalla teologia, dalla politica e dalla morale. Ciò che è giusto in sé non va confuso con ciò che è giusto davanti a Dio. (7)

Con Grozio ci troviamo ad un nuovo inizio della rifles­sione sul diritto naturale. Tra la vecchia scolastica e la nuova via intrapresa v'è una rottura che semmai richiama l'Umanesimo, il Rinascimento, con il suo ritorno a Platone, e la Riforma.

Rinvii

Con Grozio ci troviamo ad una svolta decisiva della filosofia del diritto contemporaneo. Sulla sua scia si muo­veranno i nomi più prestigiosi del protestantesimo imme­diatamente successivo. La nozione di natura e quella del bene tendono a ricadere nel vago o nell'assolutismo dell'eteronomia. Il libro della natura ognuno lo legge come vuole e la nozione del bene non trova d'accordo il pesce grande e il pesce piccolo.

Ogni cultura dà una forma alla sostanza della religio­sità fatta di significati per i quali si può essere pronti a dare la propria vita. Alla fine del processo ci troviamo ad un punto irrazionale (per E. Fromm una devozione) che invano si cerca di ridurre alla razionalità. La cultura ha un aspetto dinamico e fluttua del continuo. È l'ambito del diritto naturale che si evolve tra ciò che è giusto per l'oggi e ciò che non lo è più. Il legislatore vi attinge per tradurlo in lettere di alfabeto (il diritto positivo, da positum). Possiamo quindi dire che il diritto naturale è la culla del diritto positivo, ma ne è anche la bara perché appena formulato è già vecchio: non riesce a stare al passo con la dinamicità dell'evoluzione storica. È decisi­vo poter gestire la diversità che deriva dall'incontro con l'altro. Il diritto naturale è un concetto limite, un'esi­genza di giustizia, un segno della libertà interiore che sempre precede quella esteriore. Si fa presente nelle soluzioni negoziate e nel dialogo. In sua assenza il dirit­to positivo è completamente nelle mani del legislatore e può facilmente cedere alle tentazioni dittatoriali o inte­griste.

Il discorso riguarda anche le chiese. Per questo Kant, il filosofo del protestantesimo e assertore della sola gratia, ha ritenuto che la chiesa visibile è "repellente" perché impone i suoi dogmi. (8) E. Troeltsch ricorda Grozio: ha avuto il merito di liberarci dall'invadenza delle chiese. (9)

Va inoltre ricordato in modo particolare Dietrich Bonhoeffer e la sua interpretazione non religiosa del cri­stianesimo. La religione è “carne" mentre la fede è "Spirito"; la religione non è altro che una «forma espres­siva dell'uomo». Il linguaggio religioso va abbandonato perché i tempi sono cambiati ed occorre una terminolo­gia diversa, una traduzione adeguata ad un cristianesi­mo adulto per parlare del Regnum Christi; del Cristo l’uo­mo per gli altri. Occorre una forte dialettica tra identità e identificazione, una lettura cristologica della realtà per evitare che la necessaria identificazione diventi idolatria o utopia. «Viviamo nelle penultime cose, e crediamo nelle ultime", secondo la ben nota formula di Ugo Grozio: Deut non daretur. (10)

Non si può trascurare l'apporto significativo di K. Barth, uno degli esponenti più significativi della teologia protestante del XX secolo. (11) Nel suo scritto Communauté chrétienne et communauté civile troviamo molte assonan­ze significative con il pensiero di Grozio.

Lo Stato non sa nulla del Regno di Dio e perciò va affrontato senza appellarsi a Dio o alle Sacre Scritture. I cittadini sono tali indipendentemente dalla loro fede in Dio o nella rivelazione. La comunità civile non ha altro punto di riferimento che il diritto naturale e le sue utopie, rimane nel vago, orientata verso il giuspositivismo. Lo Stato non sa quale sia il vero criterio della giustizia; può agire e discutere solo entro i limiti dell'intelligenza. A questa discussione partecipa anche la chiesa facendosi corresponsabile e rallegrandosi degli eventuali paralleli­smi con il diritto naturale (parabola del Regno di Dio sco­nosciuto).

Il cammino ecumenico

Il primo millennio ci lascia in eredità alcune difficoltà con l'oriente cristiano che ancora stentano ad essere supe­rate. Pensiamo alla discussione sul Filioque e alla data della Pasqua. Certo il 1054 ha rappresentato un momen­to, difficile per l'occidente escluso dalla vera chiesa (orto­dossa), che negli ultimi tempi, con Paolo VI, tende al superamento dello scisma tra Roma e Costantinopoli. La presenza degli ortodossi nel movimento ecumenico del XX secolo ha contribuito a riportare all'attenzione delle chiese la nozione di conciliarità, la necessità di un ecume­nismo temporale (rileggere la storia cristiana insieme) in sostituzione di un ecumenismo spaziale basato sul con­fronto odierno delle varie posizioni confessionali. Ultimamente si è però registrato un malessere crescente per quanto riguarda il funzionamento del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Le questioni pratiche oscurava­no eccessivamente l'obbiettivo comune della ricerca dell'unità visibile della chiesa per cui lo stesso modo di sten­dere le dichiarazioni finali delle assemblee metteva a disa­gio la componente orientale. La presenza di un così gran numero di chiese membro riduceva a forte minoranza la componente ortodossa. Si rendeva quindi necessaria una ristrutturazione del funzionamento tradizionale del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Le commissioni stabilite in vista di questo scopo hanno cominciato a preparare i documenti necessari ad una soluzione soddisfacente che sarà presa in considera­zione dal Comitato Centrale. Saranno esaminate le que­stioni ecclesiologiche, la preghiera comune, il modo di prendere le decisioni e le qualità necessarie per essere accolti come membri del CEC. Intanto si può organizzare un forum su un qualsiasi argomento particolare in via di consultazione.

Interessante al nostro scopo è mettere in rilievo la pro­posta di un metodo di consenso per vagliare l'opinione prevalente tra i partecipanti senza dovere ricorrere ad una votazione. Il metodo si dispiega in cinque possibilità: 1 - l'unanimità, 2 - La discussione riflette esaurientemente l'opinione generale dei presenti il che è riconosciuto dalla minoranza, 3 - le divergenze vengono segnalate nella pro­posta finale, 4 - i partecipanti rinviano la discussione, 5- i partecipanti sono d'accordo nel non prendere alcuna decisione.

A cavallo del terzo millennio ci si rende conto che la tradizionale votazione democratica non rende giustizia alle attese comuni (Hitler era stato votato al 75% !).

Siamo così giunti all'attualità del pensiero di Ugo Grozio: un forte appello alla pace e alla tolleranza all'epoca dell'inquisizione e delle guerre di religione Occorre trovare il consenso (internazionale) più ampio possibile e lasciarlo attentamente allargarsi e correggersi in quanto tutti (apud omnes gentes) sanno cos’è ingiusto e ripu­gnante. Nel contesto della filosofia del diritto, dei valori penultimi, del cristianesimo adulto di Bonhoeffer, del diritto naturale (parabola del Regno di Dio) di Barth, possiamo usufruire dei suggerimenti anche per il cammi­no ecumenico e la comunione reale già vigente nonostan­te le imperfezioni reciproche. Intanto il discorso sui valo­ri di mezzo tra l'invariabilità dell'Evangelo e il continuo fluttuare della situazione storica (middle axioms), dall'in­contro di Seul (1990) si allarga a tutte le religioni e tocca la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la dignità umana, la libertà religiosa, la reciprocità. Lo stesso pon­tefice Giovanni Paolo II nel rivolgersi al mondo islamico si richiama a temi di comune interesse.

Ugo Grozio ci lascia il suo messaggio e aggiunge una prospettiva alla quale dovremmo prestare la massima attenzione: al consenso segue lo stare ai patti. Forse que­sto è il punto più difficile. È una sfida che ci precede nella nostra marcia e che ci giunge da tempi lontani, molto tri­sti e spesso molto duri. È il cielo sereno dopo la tempesta.

Note

* Cf. R. Bertalot, La prospettiva protestante, in Rivista di teologia morale, n.134, (2002), pp. 185-190.

(1) K. Barth, Dogmatique, vol. VIII, Labor et Fides, Ginevra, 1958, pp.149, 334 ss.

(2) P. Tillich, Teologia sistematica, vol .II, Claudiana, Torino, 2001, p. 49.

(3) Barth, Dogmatique, vol. VIII, p. 69

(4) J. L. Neve, A History of Chistian Thought, vol. 2, The Muhlenburg Press, Filadelfia, 1946, pp. 16-26.

(5) Barth, Dogmatique, vol. VIII, pp. 61, 117, 332-339.

(6) G. Spini, Storia dell’età moderna, Torino, 1965, vol.3, p. 520.

(7) R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993, pp. 83-89.

(8) R. Bertalot, Per una chiesa aperta. L'eco di Kant nel mondo moderno, Ed. Fedeltà, Firenze, 1999, p. 16.

(9) Neve, A History, p. 26.

(10) R. Bertalot, Fasi della cultura europea d’oltralpe, ISE, Venezia, 2002, p. 48.

(11) R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo, p. 89.

* (in R. Bertalot, Fasi della cultura europea d’oltralpe, ISE, Venezia, 2002, pp. 37-45)

Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50)
di Bruna Costacurta



Ho pensato di ripercorrere con voi una storia biblica, che è una storia di famiglia e di una famiglia problematica, in conflitto. E' la storia della famiglia di Giuseppe e la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, dove il problema che si pone è, innanzitutto, un problema di fratellanza. Conoscete la storia. Giacobbe, il padre di questi dodici fratelli, ha un amore di preferenza per Giuseppe. Non si sa bene perché, nel senso che in genere si dà la spiegazione che Giuseppe era nato nella sua vecchiaia. Però lo stesso vale anche per Beniamino, il fratello di Giuseppe, tutti e due i figli della moglie amata da Giacobbe, Rachele.

Dunque: Giacobbe ama Giuseppe con un amore di preferenza. Fondamentalmente senza motivo, perché sempre l'amore di preferenza è senza motivo. L'amore di preferenza dipende dal fatto che una persona ama un'altra più di tutte. Perché? Perché di sì! E' il problema che c'è alla base della scelta di Israele. Perché mai Dio ha scelto Israele e l'ha preferito rispetto a tutti gli altri popoli? Perché era il più grande? No! Perché era il migliore? No! Perché allora? Perché di sì! Perché ha scelto quello!
Le preferenze non hanno spiegazioni, però ci sono e nelle famiglie spesso è presente questo problema. Nelle famiglie, quando ci sono dei fratelli, inevitabilmente ci sono delle situazioni di differenza tra questi fratelli, che poi possono essere lette da ciascuno di questi fratelli come situazioni di preferenze di amore da parte dei genitori.

Se volete questo è anche il problema di Caino e di Abele. Anche quella è una famiglia, la famiglia dell'origine e anche quella è una famiglia segnata dalla tragedia, proprio a motivo di una preferenza non accettata. Lì la preferenza era quella di Dio nei confronti di Abele, che Caino non accetta. E anche quella era una preferenza non motivata. Non c'è nessun motivo che il testo dà per giustificare il fatto che Abele appaia come preferito da Dio rispetto a Caino. Non è vero che Caino era più cattivo di Abele, almeno fino all'omicidio. Sì, si vede poi che questo c'era, ma non che facesse sacrifici peggiori di quelli di Abele, non che avesse fatto cose particolari… C'è che l'amore di preferenza, come ogni amore, è gratuito e l'amore di preferenza non vuol dire che non si ami anche l'altro, ma vuol semplicemente dire che si amano le persone in modo diverso. Ora, chi non è capace di accettare questa diversità, legge la diversità come preferenza ingiusta nei confronti dell'altro. E questo vuol dire mancata accettazione dell'altro come diverso, quindi mancata accettazione del fratello, ma soprattutto perché c'è alla base una mancata accettazione del padre come padre, nel senso che Caino odia Abele, perché non è capace di accettare il modo con cui Dio lo ama; non solo il modo con cui ama Abele, ma anche il modo con cui ama Caino stesso. Se Caino fosse stato felice e contento del modo con cui Dio lo amava, non avrebbe avuto nessun problema nel fatto che anche Abele fosse amato in un modo diverso, che sembra persino migliore, ma questo non crea problemi. Se io sono contento di come mi ama Dio, poi non mi fa problema se Dio ama un altro in un altro modo, se quell'altro riesce meglio di me. Io sono contento di come sono, perché sono il risultato dell'amore di Dio. Quando dunque comincia la gelosia, l'invidia, la rivalità tra fratelli, c'è sì un problema di fratelli, ma c'è fondamentalmente un problema di padre e di accettazione del suo amore.

Allora, per Caino e Abele, il padre di riferimento era Dio, qui, per questi fratelli della storia di Giuseppe, il padre di riferimento è invece il padre carnale, Giacobbe, che ama in un modo particolare Giuseppe. Il testo – in questo senso – è molto raffinato anche da un punto di vista psicologico. Queste sono situazioni che si ritrovano continuamente nelle nostre famiglie. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza con suo padre Isacco… Il padre preferiva Esaù e Giacobbe era invece il preferito dalla madre, Rebecca. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza e adesso, come avviene spesso inconsciamente, li riproduce nella sua famiglia con i suoi figli. Così si pone questa situazione di una figliolanza mal vissuta, che è quindi anche una fratellanza mal vissuta.

Ricordate la storia: Giuseppe, amato dal padre, riceve in dono la tunica particolare. C'è tutta una serie di segni che dicono che lui è il preferito e lui, non si sa bene se, ingenuamente o meno, sembra non tentare di diminuire le tensioni, ma anzi addirittura le provoca, andandosene in giro a raccontare i suoi sogni, soprattutto quello dei covoni che si inchinano e quindi dei fratelli che dovrebbero rendergli omaggio. E allora, già questo era il preferito del padre, poi va in giro a dire che i fratelli dovranno omaggiarlo! Di per sé non è che questo aiuti molto le relazioni fraterne. Tanto non aiuta le relazioni fraterne, che i fratelli smettono definitivamente di essere fratelli di Giuseppe. Per cui Giuseppe viene inviato dal padre dove stavano i fratelli, che appunto non sono più fratelli, non lo salutano neppure e loro, invece di accoglierlo come fratello mandato dal padre, decidono di ucciderlo. Un po' perché non ne possono più - e quindi l'omicidio come manifestazione del rifiuto e della rabbia - un po' anche probabilmente per cercare di sfuggire a quest'ombra che incombe su di loro e cioè il rischio che i sogni di Giuseppe si avverino. C'è dunque una volontà di morte che è rifiuto dell'amore del padre e tentativo di mettersi in qualche modo in salvo. Vi ricordate che Ruben e Giuda intervengono. Non vogliono che il fratello sia ucciso e dicono: buttiamolo nella cisterna! Non è un granché come soluzione, però è un modo per tenerlo vivo e per prendere tempo, se non che passa la carovana e Giuseppe viene venduto. La vendita è una specie di trasposizione simbolica dell'omicidio. In realtà Giuseppe in questo modo è stato eliminato e quindi per i fratelli lui è definitivamente morto.

A questo punto c'è un'annotazione interessante che fa il testo: dopo averlo gettato nella cisterna, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che sono dei fratelli – si mettono a mangiare. Questo è un bel modo con cui il testo sottolinea l'assoluta crudeltà di questi fratelli e anche l'esasperazione radicale a cui ormai erano arrivati, per cui questi si mettono a mangiare tranquillamente. Ma questo crea anche un gioco perché loro lo gettano nella cisterna e mangiano e poi quando non ci sarà proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di essersene liberati per sempre. C'è dunque il cibo che fa da filo conduttore.
Non bisogna dimenticarsi che, quando Giacobbe, il padre di questi fratelli, aveva ingannato il fratello e il padre, anche lui aveva ingannato il padre con una questione di cibo, portandogli la cacciagione che il padre amava. Siamo davanti ad una famiglia divisa ed in realtà come famiglia è distrutta.
Nelle nostre famiglie non ci sono tanto figli e fratelli gettati nelle cisterne, però di famiglie distrutte ce ne sono tante e questa storia di Giuseppe può diventare una specie di paradigma, da assumere non nella sua materialità, ma per il senso che rivela. Qui noi siamo davanti ad una famiglia che non ha più nessun punto di coesione, perché la situazione è quella di fratelli che hanno la loro unità tutta basata solo sulla complicità in un delitto e, dall'altra parte, c'è un padre ingannato e disperato. Dunque, la famiglia non c'è più! C'è un padre che non è più capace di essere tale e che viene in qualche modo ridotto all'impotenza dai suoi stessi figli e questi figli che rifiutano il padre e non sono più fratelli, perché sono fratelli, solo perché complici. E la complicità non è fraternità.

E allora: ecco che si dipana tutta la nostra storia. Tra l'altro la notizia della morte di Giuseppe al padre viene data mandando la tunica di Giuseppe intrisa di sangue, così che lui pensi che Giuseppe è stato divorato da una belva feroce. Ed è significativo ancora una volta tutto il gioco, perché prendono del sangue di capretto per ingannare il padre e Giacobbe per ingannare suo padre Isacco aveva ugualmente usato il capretto. C'è questa specie di cicli che ritornano e che ritroviamo nella nostra storia e nelle nostre famiglie di uomini, proprio perché ciò che i padri hanno vissuto, poi comunque, in qualche modo, tendono a riprodurlo con i figli e questa è una dimensione che bisogna tenere d'occhio.
Giuseppe viene dunque venduto e portato in Egitto. Sappiamo lì di varie vicende; ci sono ancora di mezzo i sogni e proprio per l'interpretazione dei sogni Giuseppe diventa secondo solo a Faraone nel paese d'Egitto per tutta la nota faccenda del grano messo da parte che poi serve per il tempo della carestia. Carestia che tocca anche il paese di Canaan, cosicché a un certo punto Giacobbe deve inviare i suoi figli in Egitto a cercare il grano e li invia, però, tenendosi con sè Beniamino. Lui è l'unico altro figlio di Rachele, la moglie amata da Giacobbe… Giacobbe ha già perso Giuseppe, è chiaro che non vuole perdere anche Beniamino e se lo tiene a casa, perché è il più piccolo, e così gli altri fratelli partono. Arrivano in Egitto, si incontrano con Giuseppe, si inchinano davanti a lui e – questo è significativo – i sogni cominciano ad avverarsi - ma loro non lo sanno, perché loro non riescono a riconoscere Giuseppe. Ormai è passato del tempo, lui si è “egizianizzato”. Ma, soprattutto, l'impossibilità di Giuseppe di riconoscere i fratelli è simbolicamente l'impossibilità per questi fratelli di accettarlo come fratello. Essi lo hanno voluto morto e per loro è morto e quindi, quando se lo ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo.

Ciò è simbolicamente molto significativo. Giuseppe decide di recuperare questi fratelli lui, che è ancora fratello, mentre loro non sono più fratelli di lui. E così decide di aiutare i suoi fratelli a ridiventare tali. E comincia allora il cammino di presa di coscienza che Giuseppe fa fare loro e che comincia con il mettere i fratelli in una situazione di difficoltà; non tanto per vendicarsi e per ripagarli con la loro stessa moneta, ma perché è necessario che il cammino di peccato che questi fratelli hanno percorso sia ripercorso a ritroso, sia recuperato e per trasformare il male in bene bisogna passare inevitabilmente attraverso la sofferenza. Allora Giuseppe crea una situazione di difficoltà e di sofferenza per i suoi fratelli, non per vendetta, ma per amore, perché vuole che i suoi fratelli facciano un cammino di conversione.

Così li accusa di essere spie ed essi davanti a questa accusa sono costretti a rivelarsi e a dire chi sono. Sono pieni di paura, perché sono davanti ad uomo straniero, che non conoscono, che parla una lingua diversa dalla loro, potente. Sanno che la vita è nelle sue mani e si sentono improvvisamente dire: voi siete spie! Come fare a dimostrare che non è vero? E allora dicono chi sono, dicendo più di quello che dovrebbero dire. Dicono: noi siamo figli di un solo padre; eravamo dodici, adesso un fratello non c'è più, l'altro è rimasto con il padre… No! Noi non siamo spie! Giuseppe li sta accusando di essere spie e loro dicono di non esserlo! Non siamo spie, perché siamo figli di un solo uomo! Non si vede bene perché mai l'essere figli di un solo uomo sia in contraddizione con il fatto di essere spie. Loro probabilmente stanno cercando di portare la cosa su un piano familiare; perché dunque sono accusati su un piano nazionale? Però il loro parlare non è pertinente e soprattutto che c'entra il fatto che un fratello non c'è più e che c'entra il fatto che l'altro fratello è rimasto in Canaan? Perché mai questo dovrebbe essere una prova della loro onestà? La loro risposta non è pertinente nei confronti dell'accusa di Giuseppe, ma è perfettamente pertinente, invece, nella misura in cui si capisce che, quando uno si porta dietro il peso del peccato, quando poi si trova in difficoltà e ha paura, in qualche modo cerca di confessarlo, in qualche modo il peccato ritorna su, in qualche modo si rivela, anche se uno non vuole. E questi cominciano a rivelare che un fratello non c'è più! Giuseppe coglie la palla al balzo e, prima li sconcerta, mettendoli in prigione, lasciandoli lì nel loro brodo per tre giorni, poi, operando un cambiamento di decisione, che li sconcerta ancora di più. Infatti prima aveva detto: uno di voi andrà a prendere l'altro fratello e voi rimanete qui. Poi li lascia in prigione e poi dice ancora: andate via tutti, uno solo di voi rimane qui! Essi capiscono sempre di meno e sempre più vivono il fatto di essere in balia di questo che, oltretutto, sembra uno che cambia idea continuamente, mezzo matto. Vai a capire questo cosa fa! Dunque cresce l'angoscia nei fratelli, questo sentirsi in balia di Giuseppe; uno allora viene tenuto e tutti gli altri vengono inviati ad andare a prendere Beniamino per portarlo da Giuseppe, con questo discorso che va nella linea dei fratelli, ma che è appunto del tutto non pertinente e che è quello di Giuseppe che dice: se voi mi riportate qui il fratello che avete lasciato in Canaan, io saprò che voi non siete spie. Giuseppe va nella linea tracciata dai fratelli, dove il fatto delle spie è molto chiaramente solo un modo perché questi si rendano conto. E loro si rendono conto. Perché loro a questo punto sanno di essere completamente in mano di questo potentissimo sconosciuto. “E allora si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato, per questo ci è venuta addosso questa angoscia!” Il sangue del fratello pesa addosso e quello che sta avvenendo viene da loro percepito come una punizione, perché l'angoscia che stanno provando adesso ricorda loro l'angoscia di Giuseppe. E questo essere completamente in balia di questo qui ricorda quell'essere totalmente in balia di Giuseppe, gettato in fondo alla cisterna e poi addirittura venduto come se fosse un oggetto.

Giuseppe sta cominciando a ottenere i primi risultati, perché sta cominciando a far emergere la coscienza della colpa in questi suoi fratelli e contemporaneamente si prende cura di loro, perché gli dà il grano e consente quindi a loro di tornare in patria e di dare vita alle loro famiglie e quindi al padre Giacobbe. Allora: questi ritornano, ritornano da Giacobbe. Vi ricordate che c'è la strana scena, ripetuta due volte, di loro che aprono il sacco e trovano dentro il denaro. Così si spaventano ancora di più, perché quello là, mezzo matto, gli aveva detto: voi siete spie! Adesso avrà l'occasione per dire: voi siete anche ladri! Infatti si ritrovano con il denaro, come se avessero portato via il grano senza pagare. Non capiscono e hanno paura! Comunque tornano da Giacobbe e adesso in qualche modo loro si ritrovano nella stessa situazione dei tempi di Giuseppe, perché ancora una volta tornano dal padre e ancora una volta c'è un fratello in meno. A quei tempi c'era in meno Giuseppe e hanno detto: un leone lo ha sbranato! Adesso non c'è Simeone e se l'è sbranato un altro leone, cioè il potente, folle d'Egitto. Tornano senza uno e questo tornare senza uno, a motivo di quell'altro uno che è lì adesso, condiziona tutto. Perché loro tornano dicendo: se vogliamo riavere Simeone, dobbiamo tornare lì con Beniamino. E Giacobbe, davanti a questa prospettiva dice: no! Io Beniamino non lo lascio andare; anzi ancora di più! Giacobbe dice: voi mi avete privato dei figli. Lo dice solo perché è angosciato, addolorato e amareggiato, ma sta dicendo la verità senza saperlo! Voi mi avete privato dei figli, Giuseppe non c'è più! Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere! No! Perché tutto questo ricade su di me! Allora c'è Ruben che dice: mi faccio garante e lui dice: no! Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo! Se gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere la mia canizie negli inferi! Allora: vedete che cosa è riuscito a fare Giuseppe! Giuseppe, che è vivo, sta guidando il gioco, perché è lui che ha tenuto lì Simeone, è lui che ha chiesto che gli riportino Beniamino! E' lui, dunque, che tira le file del gioco, perché è vivo, ma in realtà sta condizionando tutto, perché è creduto morto. Giacobbe non vuole mandare Beniamino, perché è convinto che Giuseppe sia morto e allora, avendo perso Giuseppe, non vuole perdere anche l'unico altro figlio di Rachele. Se Giacobbe sapesse che Giuseppe è vivo potrebbe mandare Beniamino, ma invece, siccome lui sa che Giuseppe è morto, allora non manda Beniamino; ma se non manda Beniamino, allora non riesce neanche a riprendere Simeone. Questo fatto che Giuseppe è morto impedisce la liberazione di Simeone, ma tutto questo sta avvenendo perché in realtà lui è vivo e sta facendo questo suo gioco. Allora, questo essere contemporaneamente vivo e morto di Giuseppe è ciò che condiziona tutto quanto e, d'altra parte, questo suo essere contemporaneamente vivo e morto è determinato dal fatto che i fratelli hanno commesso il loro peccato e non lo hanno confessato. Giuseppe è contemporaneamente vivo e morto, perché i fratelli hanno mentito, dicendo che è morto! Non hanno saputo confessare il fatto di averlo venduto e allora questo peccato non confessato dei fratelli, adesso fa' sì che Giuseppe sia contemporaneamente vivo e morto e che di fatto tutta la storia venga bloccata.

Beniamino non parte, Simeone rimane laggiù, loro rimangono lì e aspettano di morire, perché, quando poi il grano finisce, non resta che morire. Solo che poi, davanti alla morte, l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento e poiché finisce il grano Giacobbe cede e manda Beniamino. Questi devono necessariamente tornare in Egitto per prendere altro grano. I fratelli si rimettono in marcia e ritornano in Egitto; hanno il problema di quel denaro nei sacchi, si ingraziano il vice di Giuseppe. Questi li rassicura, ma loro non capiscono cosa sta succedendo, non sanno se credere o non credere a queste rassicurazioni, poi però vengono invitati al banchetto. Quindi prima sono lì che pensano: chissà adesso questi che cosa ci fanno per questa faccenda del denaro! Poi invece vengono invitati al banchetto e quindi cominciano a pensare che tutto sommato è vero; le parole che gli hanno detto sono vere, non devono temere nulla! Lì, nel banchetto, però cominciano a succedere cose strane: viene data una porzione doppia a Beniamino. Perché? Che cosa sta succedendo? Questi poi parlano un'altra lingua; quindi non riescono a capire cosa succede. Il pazzo là dovrebbe restituire Simeone, però dà la doppia razione a Beniamino. Che cosa sta succedendo? Si volesse tenere Beniamino! E l'angoscia cresce, finché vengono rimandati, partono… gran sospiro di sollievo! Non c'è più da avere paura e nel momento in cui la tensione si abbassa, nel momento in cui non sono più sulla difensiva, in cui si è più vulnerabili, Giuseppe dà l'ultima mazzata! Perché? Mentre loro sono tranquilli, perché finalmente è andata, e sono nel viaggio di ritorno, li fa inseguire, bloccare da quello stesso suo vice che li aveva rassicurati e che adesso invece è diventato una belva. E quindi ancora una volta questo sconcerta i fratelli, e vengono accusati di aver rubato la coppa di Giuseppe, che non è una coppa qualsiasi, ma che è la coppa attraverso cui Giuseppe fa le divinazioni e interpreta i sogni. I fratelli si sanno innocenti di questa colpa, come si sapevano innocenti del fatto di essere spie. Dunque, ancora una volta dicono: non è vero! E allora: aprite pure i sacchi e se trovate la coppa, chi ha la coppa sarà nostro prigioniero! Loro sono tranquilli, tanto non hanno commesso questa colpa. Ne hanno commessa un'altra molto peggiore, ma quella tanto non la sa nessuno! E allora: aprite pure i sacchi! Aprono i sacchi e la coppa viene trovata nel sacco di Beniamino e quindi ora Beniamino deve essere tenuto in ostaggio; ora è Beniamino quello che deve morire.

Davanti a questo i fratelli finalmente non sono più complici, ma diventano solidali e davanti alla prospettiva che Beniamino debba pagare, loro dicono: allora no! Paghiamo tutti insieme! La complicità è diventata solidarietà! Ora i fratelli sono ritornati ad essere fratelli, pronti a pagare insieme. Con una frase molto significativa che dice Giuda: che diremo al mio signore, come parlare, come giustificarci? Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi. Ed eccoci schiavi del mio signore noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa. Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi, solo che la colpa di cui lui sta parlando non è quella della coppa, è quella di aver venduto il fratello, ma Giuda pensa che tanto colui a cui sta dicendo questa frase non possa saper nulla di quello che è avvenuto, lui non sa che quello è Giuseppe! E lui parla a Giuseppe di quello che hanno fatto a Giuseppe, convinto che tanto Giuseppe non possa capire e che Giuseppe avrebbe interpretato come la colpa della coppa. E invece Giuseppe capisce ed era lì che li voleva portare. E allora Giuseppe interviene e offre la libertà a tutti in cambio di Beniamino. A questo punto Giuda di nuovo interviene raccontando tutta la storia, gli incontri precedenti, di come loro avevano convinto il padre a lasciare Beniamino, del fatto che lui si era fatto garante, perché Beniamino potesse partire e dice Giuda: e adesso, se noi torniamo senza nostro fratello, per nostro padre è la fine, perché nostro padre ama Beniamino più di tutti. E c'è la frase: l'amore del padre per Beniamino è troppo grande, la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro. Questo Giuda non lo può dire di se stesso e infatti può dire tranquillamente: tieni me, ma rimanda Beniamino! Perché, se Beniamino non torna, nostro padre muore. Se invece non torno io, nostro padre continua a vivere. Dunque, Giuda sta dicendo: Beniamino è amato più di me! Beniamino è amato più di tutti noi fratelli messi insieme. Ebbene, proprio a motivo di questo, Giuda dice: prendi me! Allora, l'amore del padre che, ai tempi di Giuseppe, era stata proprio la causa della decisione di uccidere Giuseppe, l'amore del padre, che era stato il motivo per quella decisione, adesso quello stesso amore di preferenza diventa invece il motivo per offrire la propria vita. L'amore di preferenza del padre era stato il motivo per uccidere, adesso diventa il motivo per consegnare la propria vita e morire al posto del fratello amato. Non si tratta più di uccidere il fratello amato dal padre, ma di morire al suo posto. E proprio a motivo del fatto che il padre lo ama di più!

La gelosia è completamente riassorbita ed è diventata amore fraterno ed è diventata anche amore filiale, perché è l'amore fraterno nei confronti di Beniamino, ma è soprattutto l'amore filiale nei confronti del padre. Giuda, per amore del padre, accetta di morire e per amore di un padre che ama Beniamino più di tutti gli altri; accetta di morire per amore di un padre che ama un altro più di lui.

Questo è il vero amore filiale; questa è la vera accoglienza del Padre e questo è anche il vero amore fraterno. E questo è, per i fratelli di Giuseppe, il compimento del cammino che Giuseppe voleva far fare loro. Voleva farli ritornare ad essere fratelli, perché voleva che tornassero ad essere figli ed ora questo è avvenuto. Il peccato è stato completamente riassorbito, perché quello che era motivo di peccato, adesso è diventato motivo dell'amore più grande, che è dare la vita per gli amici. La conversione ora è totale. Chi ha ucciso è diventato invece capace di morire per gli altri. Il peccato è stato completamente riassorbito e allora adesso Giuseppe può anche manifestarsi. Giuseppe si manifesta, i fratelli possono finalmente riconoscerlo, perché avendo finalmente riconosciuto il padre si possono anche riconoscere come fratelli e questo ricrea la famiglia. Ma questo è possibile solo perché Giuseppe ha perdonato! Non c'era cammino possibile per i fratelli, per convertirsi e non c'era cammino possibile perché la famiglia potesse ritornare ad essere tale, se non perché c'è stato qualcuno che ha subito l'ingiustizia, la violenza, qualcuno che è stato vittima e che invece di rispondere al male con il male, ha risposto al male con il bene, ha perdonato. Ed è solo su questo perdono di Giuseppe che si basa tutta la storia. Poiché Giuseppe ha perdonato, ha potuto aiutare i fratelli a fare il cammino della figliolanza e della fratellanza. E poiché Giuseppe ha perdonato, la famiglia è tornata ad essere famiglia.

E questo è paradigmatico, dove paradigma vuol dire che non è la materialità che è significativa, ma il senso che il testo rivela. Il senso che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie è che, perché le famiglie siano tali, perché possano restare unite e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la frattura, bisogna che ci sia qualcuno che perdona! Bisogna che ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il bene dell'altro e il bene comune. Bisogna che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore di una forza più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di cedere. Il più forte accetti di difendere la debolezza, accetti di perdonare, di rinunciare anche ai propri diritti per salvaguardare invece il bene comune.

Questo è vero delle famiglie, ma questo è vero anche di quella grande famiglia che è la chiesa. E allora adesso, quando si è capito questo, i fratelli ridiventano fratelli, ridiventano figli e compare allora, a questo punto, il vero protagonista che è Dio. Dio che, da Giuseppe, viene proclamato come colui che si inserisce nella storia degli uomini per cambiarla. Dio come Colui che trasforma la storia di morte in storia di vita. “Dio che è Colui che mi ha mandato qui prima di voi, perché io potessi farvi vivere e se voi avevate pensato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire al bene per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso!” Il Dio della vita che entra dentro la storia di morte degli uomini per trasformarla. Ma questo è possibile perché il perdono di Dio si incarna nel perdono di un uomo. Dio può perdonare perché Giuseppe ha perdonato. Allora, cambiano le prospettive: il male è cambiato in bene e i sogni di Giuseppe si avverano, ma non come pensavano i fratelli. Perché effettivamente i fratelli si prostrano davanti a Giuseppe, ma non è per l'umiliazione, quanto perché l'hanno ritrovato. E il sole, cioè il padre, non si prostra. Il padre, Giacobbe, invece abbraccia Giuseppe. Ecco il compimento dei sogni di Giuseppe; il compimento dei sogni non è la prostrazione, ma è che finalmente Giuseppe entra nel suo ruolo di figlio e, da fratello, consente anche ai fratelli di entrare pienamente nella loro verità di fratelli e di figli capaci di lasciarsi amare come il padre vuole amare e come Dio vuole amarci.

Così la famiglia si ricompone e Dio può rivelarsi e può farsi presente dentro questa famiglia e può allora veramente ricolmarla del suo amore, che si incarna poi nell'amore del Padre, nell'amore dei fratelli, facendo definitivamente trionfare la vita, perché la vita – quella vera – è possibile solo quando è una vita perdonata.

Mercoledì, 18 Ottobre 2006 02:35

Lezione Quinta. Il deserto

Lezione Quinta
IL DESERTO

 

La tappa di vita di Israele che va dall’uscita dall’Egitto fino all’occupazione della terra promessa non è solo un passaggio intermedio tra due grandi eventi.

L’esperienza del deserto costituisce una tappa significativa della storia salvifica, sulla quale la riflessione religiosa d’Israele è tornata con frequenza, trovandovi aspetti molto vari e l’emblema di situazioni storiche delle epoche successive.

Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (terza parte)
di Alberto Valentini


Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve


3. La prima comunita’

Finora si è parlato della comunità, della sua spirituale coesione e costanza nella preghiera. Indubbiamente At 1,14 sottolinea l'unità dei primi credenti, ma evidenzia - più che altri sommari - l’articolazione della medesima. Il nostro testo, così breve, è il sommario più esplicito circa la composizione della comunità postpasquale. E' un punto di riferimento prezioso per la Chiesa di ogni tempo, che vi può ritrovare le coordinate fondamentali della sua unità e della sua molteplice configurazione. In questo autorevole e programmatico testo, incentrato sugli apostoli, ma aperto ad altre presenze e ai diversi doni dello Spirito, le comunità cristiane potranno sempre ricercare l'armonia e l'equilibrio tra la missione apostolica e i diversi ministeri e carismi di cui lo Spirito dota incessantemente i credenti. Vi potranno riscoprire, con sensibilità e in forme nuove, il compito della donna al servizio del vangelo e, in particolare, quello di Maria, la madre di Gesù.

Va ricordato che siamo di fronte a un testo redazionale, nel quale le intenzioni dell’autore si esprimono in maniera più diretta ed esplicita. Ogni elemento, per conseguenza, dev’essere valutato con grande attenzione. (71) A questo punto ci sembra importante considerare i diversi personaggi che compongono la comunità apostolica, la "cellula germinale" della Chiesa neotestamentaria.

3.1. Gli apostoli

Nell'opera lucana, com'è noto, il gruppo dei Dodici viene identificato con gli apostoli, (72) i quali sono ritenuti a titolo speciale, in certo senso esclusivo, testimoni di Cristo. (73) Negli Atti, essi sono i personaggi principali, garanti della continuità tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. (74)

"Essi 'non sono i primi d' una serie'; essi formano 'un gruppo a parte', svolgente una funzione fondatrice e normativa, insostituibile e non reiterabile. Sulla loro testimonianza la Chiesa è stata fondata una volta per tutte e in questa testimonianza essa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità". (75)

L'identità dei Dodici è caratterizzata da quattro note fondamentali: (76)

- Anzitutto essi sono i testimoni della risurrezione di Gesù (At 1,22): (77) questo è l'oggetto specifico del ministero degli apostoli, dato che a loro - e non a tutto il popolo - Gesù si è manifestato dopo la sua risurrezione (cf 10,40-41; 13,30-31); ad essi "si mostrò vivo, dopo la sua passione, con molte prove convincenti, apparendo (optanómenos) loro durante quaranta giorni" (At 1,3). (78)

- Per essere testimoni si richiede di aver fatto parte del gruppo apostolico per tutto il tempo del ministero di Gesù, cominciando dal suo battesimo fino al giorno in cui fu assunto in cielo (At 1,21-22). L'apostolo deve garantire la continuità tra il Gesù storico e il Signore della gloria, tra Gesù e la "chiesa" radunata nel suo nome.

- Gli apostoli sono coloro che il Signore si è scelto per mezzo dello Spirito santo (At 1,2). Si diventa tali non per una decisione personale, ma per una scelta del Signore. Ciò appare con evidenza nella chiamata dei Dodici secondo la tradizione sinottica (Mc 3,13-19; Mt 10,1-4; Lc 6,12-16), e in occasione dell'elezione di Mattia (At 1,24): in quella circostanza, la comunità prega e getta la sorte per conoscere chi sia colui che il Signore ha scelto.

- Si è costituiti apostoli per la forza dello Spirito. Questa nota non risulta dal racconto dell'elezione di Mattia, ma appare dal contesto in cui il racconto è collocato: tra la promessa dello Spirito fatta agli apostoli (At 1,4-5.8) e la sua effusione nel giorno di Pentecoste (At 2,1-4). E' lo Spirito che abilita a compiere la missione di testimonianza al Risorto.

L'oggetto specifico della testimonianza apostolica è dunque la risurrezione (At 1,22) di Gesù, e più ampiamente l'intero evento pasquale, secondo le Scritture, come viene dichiarato in conclusione al vangelo lucano e riaffermato all'inizio e nel corso degli Atti. In Lc 24,46-47 Gesù precisa i contenuti e l'ambito della missione degli apostoli: "Così sta scritto: il Cristo doveva patire e risorgere dai morti il terzo giorno, e nel suo nome doveva essere predicata a tutte le genti la conversione per il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme". (79) Nel v. 48, Gesù affida loro l'incarico ufficiale: "Voi sarete testimoni di queste cose". La missione, però inizierà soltanto dopo, quando si compirà la promessa del Padre e saranno rivestiti di potenza dall'alto (cf v. 49).

Secondo il testo evangelico, le parole di Gesù, pur avendo di mira gli apostoli, sono pronunciate davanti agli Undici e a "quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). La narrazione degli Atti è più precisa: il Risorto si rivolge agli "apostoli che egli per mezzo dello Spirito santo si era scelti" (At 1,2); sono essi, in maniera esplicita e diretta, i destinatari delle istruzioni e delle apparizioni del Signore Gesù: essi devono rendergli testimonianza, e per questo riceveranno lo Spirito (cf 1,8). Nell'attesa, sono riuniti in preghiera nella stanza superiore della casa.

Ma per il momento essi sono soltanto Undici; il loro numero è incompleto e dev’essere reintegrato: è necessario che uno prenda il posto lasciato vuoto da Giuda. Collocando l'episodio dell'elezione di Mattia tra l'ascensione e la Pentecoste, Luca fa intendere di attribuire un' importanza particolare (deì oùn...) alla ricostituzione del gruppo dei Dodici, anche se in seguito il nome di Mattia non ricorre più nel libro degli Atti e i Dodici sono menzionati solo in At 6,2. Possiamo chiederci perché Luca insista sul mumero dodici, riferito agli apostoli-testimoni, e perché gli prema che il numero sia ricomposto prima della Pentecoste. Alla prima domanda si può certo rispondere che i Dodici sono in rapporto con le dodici tribù d'Israele, ma tale ovvia spiegazione esige chiarificazioni ed approfondimenti. La relazione con le dodici tribù infatti può essere intesa in diversi modi: con riferimento al popolo ebraico in prospettiva escatologica, secondo Mt 19,28 (Lc 22,30), (80) oppure soteriologica, nel senso che la salvezza è destinata inizialmente a Israele; con riferimento alla Chiesa, vedendo nei Dodici i rappresentanti del nuovo Israele. (81)

Qualunque senso si voglia dare alla ricostituzione dei Dodici, essa deve avvenire prima di Pentecoste. Ma qual è il motivo di tale necessità? La risposta può essere la seguente: quando lo Spirito sarà effuso su ogni carne, il popolo di Dio - rappresentato dai Dodici - dovrà essere al completo davanti al Signore, come un tempo, ai piedi del monte, nel giorno dell'alleanza (cf Es 24,3-4; Dt 5,22). (82) Esso riceve in tal modo lo Spirito e viene costituito testimone di Cristo davanti a tutti i popoli, rappresentati potenzialmente dai Giudei della diaspora, convenuti a Gerusalemme da ogni nazione che è sotto il cielo (At 2,5). "Per questo inizio dell'attività di testimoni - che deve aver luogo necessariamente a Gerusalemme - bisogna che il numero dodici sia completo; dopo la morte di Giacomo (At 12,2) non ci sarà più bisogno di completare il numero". (83)

Secondo la visione lucana, dunque, gli apostoli occupano una posizione unica nella Chiesa del Nuovo Testamento, in particolare nella comunità di Gerusalemme. Tale centralità emerge con evidenza in At 1,14, considerato in se stesso e alla luce del contesto. Il soggetto esplicito del nostro breve sommario sono gli Undici ("tutti costoro"), collocati all’inizio della frase, in posizione privilegiata e dominante. Gli altri personaggi si aggiungono ad essi, condividendone la situazione e l'esperienza spirituale. Nel verso precedente gli Undici sono stati elencati ad uno ad uno, per nome; (84) con loro Gesù si era intrattenuto per quaranta giorni dopo la sua risurrezione; ad essi aveva promesso la potenza dello Spirito per la missione di testimonianza; di fronte a loro era stato assunto in cielo, avvolto nella nube della gloria divina.

Nel primo sommario di At 1,14, gli apostoli - il cui compito è la testimonianza - sono presentati come uomini dalla preghiera assidua e concorde, per garantire la quale, in seguito (cf At 6,2-4), affideranno ai diaconi il servizio delle mense. Una scena, per certi versi parallela, è quella di 4,24-31, nella quale gli apostoli sono nuovamente in preghiera unanime, implorando di poter annunciare con tutta franchezza la parola di Dio. Ed anche in quel caso si ha un'effusione dello Spirito che li restituisce al loro ministero di testimonianza.

La comunità apostolica manifesta fin dall'inizio una grande unità, ma al tempo stesso una significativa molteplicità e varietà di presenze: gli apostoli sono persone di comunione che associano altri alla loro vita e al loro ministero. Della comunità primitiva fanno parte, senza distinzioni di sorta - da sempre riscontrabili nella vita e nella pietà giudaica - delle donne.

3.2. Alcune donne

La presenza di donne, introdotte senza articolo definito e pertanto in maniera piuttosto generica in At 1,14, pone dei problemi. Chi sono in realtà tali persone, qual è il loro compito, quale il significato della loro presenza nella comunità delle origini? Qualcuno, influenzato dalla loro posizione nella frase, subito dopo gli Undici, e dalla variante del codice D - che aggiunge "e i figli" - ha pensato possa trattarsi delle mogli degli Apostoli. Ma spiegazioni di questo genere appaiono fragili. (85) Il numero indeterminato di donne richiama piuttosto le discepole di Galilea - menzionate dal solo Luca in 8,2s -, le donne ricordate nella storia della passione e le prime testimoni della risurrezione (23,49.55s; 24,10.22-24). La presenza tra gli apostoli di queste persone, che avevano seguito Gesù fino alla sua Pasqua, sono un segno ulteriore di quella continuità che Luca si preoccupa di stabilire tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. La comunità primitiva segue anche in questo l'esempio del Maestro, il quale aveva riservato un posto e compiti particolari alle donne nel servizio al vangelo. Esse, insieme con gli apostoli, sono chiamate a rendere testimonianza al Signore Gesù. Lo Spirito, che fra non molto discenderà su tutti i membri della piccola comunità, radunata nella stanza al piano superiore, non farà alcuna distinzione tra uomini e donne, a differenza di quanto avveniva in rapporto alla Torah. (86) Come spiegherà Pietro, si verifica ormai ciò che era stato annunciato dal profeta Gioele: "Negli ultimi giorni, dice il Signore, / effonderò il mio Spirito su ogni carne / e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie..." (At 2,17). L'appartenenza a Cristo, suggellata dal dono dello Spirito, fa cadere ogni discriminazione e realizza il progetto di umanità nuova formulato da Paolo: "non c'è più giudeo né greco, schiavo o libero, uomo o donna: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). In At 1,14 l'unità si realizza nella preghiera e nella vita di comunione in attesa dello Spirito. C'è già la premessa per una condivisione più ampia, in particolare per la partecipazione delle donne, a vari titoli, al servizio del vangelo, come ripetutamente verrà segnalato nel libro degli Atti. (87)

3.3. Maria, la madre di Gesù (88)

Nel vangelo di Luca, Maria occupa un posto di rilievo, ma la sua posizione è singolare, quasi stralciata dalle altre figure femminili. Perché, ci si domanda, non viene annoverata tra di loro, eventualmente in prima fila, lei che in Luca è benedetta più di tutte le donne? Come mai, inoltre, nei racconti dell'infanzia di Luca ella è in primo piano accanto a Gesù e poi nel vangelo quasi scompare: non viene nominata con le altre donne al seguito di Gesù, non è ricordata nella passione, né tra le testimoni del Risorto? E, analogamente, perché viene presentata in questo primo importante sommario degli Atti - e in maniera singolare, come non avviene per le altre anonime donne - mentre in seguito non sarà più ricordata? Sono interrogativi che lasciano perplessi e inducono non di rado a posizioni contrastanti: ad un'esaltazione perfino eccessiva della madre di Gesù oppure, al contrario, a trascurarla adducendo come motivo la pretesa laconicità della Scrittura.

Certo, non è un caso che Luca parli di Maria nei racconti dell'infanzia e all'inizio degli Atti. I primi capitoli delle due opere di Luca, possono essere considerati rispettivamente come vangelo dell'infanzia di Cristo e della Chiesa. (89) Essi appaiono diversi dalle parti che seguono: sono testi marcatamente teologici, che anticipano agli inizi della vita di Gesù e della Chiesa - con linguaggio di fede esplicita - quanto solo al termine del vangelo e degli Atti si può dire effettivamente realizzato. Si tratta dunque di una riflessione dopo gli eventi, alla luce di Pasqua e sotto l'influsso dello Spirito. Il fatto che la figura di Maria sia in particolare evidenza in questi testi e sottaciuta altrove, significa che la riflessione su di lei è avvenuta lentamente, in maniera progressiva e non uniforme nelle diverse comunità neotestamentarie. In primo luogo, la fede apostolica e l'annuncio kerigmatico si sono concentrati sul mistero pasquale di morte e risurrezione (cf 1Cor 15,3-4); in tale fase, ovviamente, non si parla di Maria, almeno in maniera esplicita. In un secondo tempo, la riflessione si estende al periodo della vita pubblica che va, secondo la testimonianza di At 2,21-22, dal battesimo di Giovanni fino all'Ascensione; in questo periodo, Maria compare o viene nominata, ma occasionalmente (cf Mc 3,31-34; 6,3). Solo in seguito, a proposito della nascita e dell'infanzia di Gesù, la figura e il ruolo della madre sono messi in chiara luce. Questa è un'epoca più tardiva, nella quale la riflessione cristologica si è fatta più ampia e articolata, ed ha convogliato tradizioni ed esperienze ecclesiali diverse; anche la figura di Maria acquista allora densità teologica: ella è la madre del Messia, discendente davidico e Figlio dell’Altissimo (Lc 1,32); concepisce per opera dello Spirito santo (1,35), viene salutata quale madre del Signore (1,43), è benedetta per il frutto del suo grembo e proclamata beata per la sua fede (1,42.45). E' la serva esaltata dall'Onnipotente, colei che tutte le generazioni faranno oggetto di un macarismo senza fine (1,48-49).

Maria rivela una personalità non solo individuale, ma anche “corporativa”, (90) che ingloba in sé, in modo misterioso ma efficace, il popolo dell’alleanza - come già Abramo - a motivo della sua fede ed obbedienza. E’ la figlia di Sion, (91) salutata all’annunciazione con le voci dei profeti (cf Sof 3,14-15; Zc 2,14; 9,9) e che a sua volta canta la splendida salvezza di Dio (cf Lc 1,46-55). Possiamo dire che la sua immagine, senza nulla perdere della sua concretezza e individualità, è plasmata da Luca - e ancor più dalla tradizione giovannea - con categorie teologiche e simboliche.

Ella comunque si stacca dagli altri personaggi e si colloca in un ambito a sé. Questo potrebbe spiegare il fatto che Luca, in un testo conciso ed essenziale come il nostro - che introduce le donne in maniera generica e solo in conclusione ricorda i fratelli di Gesù - trovi il modo di citare Maria col proprio nome e col titolo peculiare di “madre di Gesù”. Si tratta di una presentazione così esplicita che non può essere fortuita, tanto più che si trova in un sommario, in cui ogni particolare ha il suo peso. (92) Non siamo di fronte a una semplice informazione storiografica, che sarebbe fuori luogo in quel contesto, ma ad un'annotazione che rivela indubbia valenza teologica e spirituale. L'autore intende mettere in luce la continuità tra il Gesù storico, nato per opera dello Spirito con la collaborazione di Maria e la nascita della Chiesa per opera del medesimo Spirito, con la presenza di Maria qualificata come madre di Gesù, (93) "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29). Ella è madre di Colui che la comunità ha accolto nella fede come il Signore della gloria, di quel Gesù che elevato al cielo invia lo Spirito, e al quale bisogna rendere testimonianza fino agli estremi confini della terra.

In seguito, Maria non sarà più nominata, ma il capitolo primo degli Atti è programmatico per tutto il libro e per la vita della Chiesa. Alla luce di questo primo sommario, siamo invitati a contemplare Maria nella comunità dei credenti di ogni tempo. Ella è presente come madre di Gesù dovunque ci siano testimoni del Risorto, in qualunque luogo donne e uomini si radunino, insieme con gli apostoli, in attesa dello Spirito del Signore.

3.4. I fratelli di lui (94)

In contrasto col giudizio negativo, ma ingiustificato, espresso da Charlier nei confronti dei “fratelli” di Gesù, (95) sembra invece "che in seno a questo gruppo, proveniente dalla Galilea, si sviluppasse una forma di cristianesimo molto legato alle tradizioni giudaiche". (96) Per questo motivo Luca sarebbe interessato a mostrarne la presenza a Gerusalemme, insieme con altri discepoli, attorno agli apostoli.

Alla luce, dunque, della situazione della Chiesa di Gerusalemme e in fedeltà al suo assunto di presentare in chiave positiva ed esemplare la comunità delle origini, Luca ha inserito in At 1,14 questo tratto significativo circa i parenti di Gesù.

4. Conclusione breve

At 1,14, pur nella sua laconicità, è un testo di notevole importanza. Certamente viene arricchito e precisato dai sommari successivi, ma contiene già in sé elementi che lo qualificano e caratterizzano nettamente. Esso si segnala per la sua posizione e per i contenuti.

Grazie alla sua collocazione, At 1,14 ha il pregio di essere il primo dei sommari, inserito nella pagina introduttiva degli Atti. Se ogni sommario astrae in qualche misura dagli episodi contingenti e - interrompendo per un istante la narrazione - si sofferma su caratteristiche ed atteggiamenti qualificanti la comunità, ciò è vero in particolare per questo primo brano, che intende presentarci l'immagine della Chiesa ai suoi albori, nella sua identità originaria.

La prima pagina degli Atti, lo ribadiamo, anticipa in qualche misura il messaggio e lo svolgimento del libro; d'altra parte, riprende l'ultimo capitolo del vangelo lucano, vale a dire la sua conclusione.

E' emblematico il fatto che l'ultimo versetto del vangelo (Lc 24,53) - il quale costituisce praticamente un sommario - e il primo quadro di gruppo degli Atti (1,14) ritraggano gli apostoli in preghiera: nel primo caso, nel tempio, (100) nel secondo, radunati nella stanza superiore della casa.

A Luca preme sottolineare la preghiera, più ancora mostrare la comunità in preghiera. Questo motivo è ripreso con insistenza negli Atti, a partire dal sommario successivo (2,42.46s); è riscontrabile nell'esperienza dei vari personaggi, e viene affermato - per quanto concerne gli apostoli - in maniera solenne e inequivocabile: "Noi ci dedicheremo con assiduità alla preghiera (te proseuchè... proskarterésomen)" (At 6,4). (101)

Luca è stato colpito dalla preghiera di Gesù, dal suo dialogo costante con il Padre. Gli apostoli presentano il medesimo atteggiamento: prima di ogni altra cosa, essi sono una comunità in preghiera. Nella Pentecoste, in cui ricevono il battesimo per mezzo dello Spirito (cf At 1,5) e l'investitura ufficiale per la missione di testimonianza (cf At 1,8), essi rivivono l'esperienza del Maestro: come Gesù (baptisthéntos kaì proseuchoménou) (Lc 3,21), essi vengono battezzati, mentre sono in orazione (cf At 1,14).

Gli Undici formano dunque una comunità in preghiera, ma non sono soli, come non erano soli a Gerusalemme, dopo la risurrezione di Gesù (cf Lc 24,33). Evidentemente essi occupano una posizione di privilegio nella comunità delle origini, ma con loro ci sono altre persone che ne condividono in misura e forme diverse i doni e il ministero. Questi personaggi non sono stati nominati antecedentemente, in quel che concerneva il compito apostolico di testimoni ufficiali del Risorto, ma vengono presentati qui - con la loro particolare fisionomia - nella "chiesa" in preghiera, della quale fanno parte insieme con gli apostoli.

I sommari seguenti e lo sviluppo del libro degli Atti riveleranno altri importanti aspetti della vita dei credenti, ma in questo primo brano, concernente la comunità apostolica - cellula germinale della Chiesa del Nuovo Testamento - a Luca premeva sottolineare la preghiera, meglio, mostrare la comunità in unanime, perseverante preghiera. Si tratta, ovviamente, di una testimonianza fondamentale con la quale, in ogni tempo, la Chiesa è chiamata a confrontarsi.

(fine)


Note

(71) Gli autori rilevano giustamente la grande differenza tra l’accuratezza del testo di At 1,13-14, nel presentare gli apostoli, le donne, Maria la madre di Gesù e i fratelli di lui, e la genericità del v. 15b, che si limita ad affermare, come per inciso: “la moltitudine di coloro che erano riuniti era di circa 120 persone".

(72) Il concetto di apostolo, riservato ad essi, appare già in Lc 6,13, al momento dell'elezione: "...ne scelse dodici, che chiamò anche apostoli", precisazione assente in Mc 3,14. Questa identificazione è affermata con coerenza da Luca: cf Lc 9,1.10; 17,5; 22,14 (diverso da Mc 14,17); 24,10; At 1,2.26; 2,37.42.43; 4,33.35.36.37; 5,12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1. Quando nel gruppo non vengono inclusi, rispettivamente, Giuda o Pietro (Lc 24,9.33; At 1,26; 2,14), si parla degli "Undici".

E' vero che in At 14,4.14 vengono chiamati apostoli anche Paolo e Barnaba; in questi casi - senza parlare di distrazioni dell'autore - bisogna dire che Luca utilizza il termine "apostolo" in un'accezione più ampia. Si noti tuttavia che, secondo testo occidentale, nel v. 14, è assente la qualifica "gli apostoli", che pertanto potrebbe non essere originale.

Si deve però osservare che, in base ai sinottici, non si può sostenere che Gesù, prima di Pasqua, abbia conferito ai Dodici - in forma esclusiva - il titolo di apostoli; ciò, quindi, vale anche per Luca (cf J. Dupont, Le nom d'Apôtres a-t-il été donné aux Douze par Jésus?, Bruges-Louvain 1956, 46s).

La stessa equazione: Dodici=apostoli non è propria di Luca: si trova anche in Ap 21,14. "Essa riflette senza dubbio le idee dell'epoca successiva alla scomparsa dei Dodici e corrisponde naturalmente a una certa tendenza a idealizzarli, tendenza di cui la redazione del terzo vangelo offre più d'un esempio significativo" (J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, in Id., Nuovi studi, 131-132).

(73) Solo eccezionalmente altri, diversi dai Dodici, vengono qualificati come testimoni: in At 22,15 e 26,16 è detto "testimone" Paolo e in At 22,20 Stefano. Per quanto riguarda Paolo, in particolare, bisogna dire che egli merita questo titolo, dal momento che i Dodici "hanno attuato solo l'inizio del programma che era stato assegnato alla loro attività di testimoni, mentre il resto è stato svolto da Paolo...:egli è testimone come loro, anche se non esattamente allo stesso titolo" (J. Dupont, L'apostolo come intermediario della salvezza, in Id., Nuovi studi, 116). Per Luca "il vangelo non è più anzitutto un escatologico agire di Dio in virtù della risurrezione di Gesù, ma una trasmissione che deve risalire al Gesù terreno, dalla cui completezza e validità dipende tutto. Per lui, dunque, gli apostoli possono essere testimoni della risurrezione soltanto quando sono in grado di garantire anche la trasmissione su tutto l'operato terreno di Gesù (1,21)" (J. Roloff, Apostolat/Verkündigung/Kirche. Ursprung, Inhalt und Funktion des kirchlichen Apostelamtes nach Paulus, Lukas und den Pastoralbriefen, Gütersloh 1965, 36). Il concetto di apostolo, nella visione di Luca, è caratterizzato "dal legame con la vita di Gesù, e dunque dalla sua unicità storica" (H. Conzelmann, Die Mitte der Zeit, Tübingen 51964, 201s, nota 2).

(74) "Questi testimoni sono gli intermediari obbligati tra il Cristo vivo e gli uomini destinati ad aver parte alla salvezza realizzata dalla vita, morte e risurrezione di Gesù" (Ph.-H. Menoud, Jésus et ses témoins. Remarques sur l'unité de l'oeuvre de Luc, in Id., Jésus-Crist et la Foi. Recherches néotestamentaires, Neuchâtel-Paris 1977, 106).

(75) J. Dupont, a.c., 121.

(76) Ivi, 129s.

(77) A puntuale conferma giungono le parole di Pietro - insieme con gli Undici! (2,24) - nel giorno di Pentecoste: "Dio ha risuscitato questo Gesù, e di ciò noi tutti siamo testimoni" (2,32).

(78) Essi hanno mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti (At 10,41; cf Lc 24,30s); lo hanno visto e toccato, constatando che il Risorto ha "carne ed ossa" e non è un fantasma (cf Lc 24,39).

(79) In 24,47 l'ordine della testimonianza è invertito: "...a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme"; in At 1,8 viene ristabilita la successione logica e reale, distinguendo anche le tappe della testimonianza apostolica, e cambiando la formula "tutte le genti" con "fino all'estremità della terra", espressione profetica (Is 49,6) ripetuta in At 13,47.

(80) "Quando il Figlio dell'uomo siederà sul suo trono di gloria, siederete anche voi su dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele" (Mt 19,28).

(81) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo (Atti 1,15-26). A proposito d'una spiegazione recente, in Id., Nuovi saggi, 171.

(82) In Es 24,3-4 si parla di "tutto il popolo" e delle "dodici stele per le dodici tribù d'Israele".

(83) G. Schneider, o.c., 316.

(84) All'inizio degli Atti, Luca ripete l'elenco degli apostoli - già presentato nel vangelo (Lc 6,14-16), anche se con differenze nell'ordine dei nomi - non tanto perché, come afferma Haenchen (o.c., 159), il suo secondo libro sarebbe apparso separatamente, ma piuttosto per introdurre ufficialmente i garanti della tradizione su Gesù e i testimoni autorevoli della sua risurrezione.

Circa l'ordine seguito e le trasposizioni nell'elenco degli apostoli, si veda in particolare J.-P. Charlier, L'Evangile de l'enfance de l'Eglise. Commentaire de Actes 1-2, Bruxelles-Paris 1966, 77-81.

(85) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo, a.c., 171. L'aggiunta "e i figli" del codice D potrebbe riprendere un motivo presente nella tradizione biblica e giudaica antica. Secondo Dt 29,9-11 tutto il popolo sta davanti al Signore per rinnovare l'alleanza: "tutti gli israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli..." (cf anche Dt 31,11-12); Giuseppe Flavio racconta che “gli israeliti insieme con le mogli e i figli”attendevano con gioia la Torah(Ant. Giud., III, 5.1-2). Mosè, sceso dal monte, radunò tutta l'assemblea: "il popolo con le mogli e i figli, per ascoltare il Signore che avrebbe parlato loro" (ivi, III, 5.4).

A proposito del passaggio del mare, inoltre, il targum e il midrash - rileggendo il salmo 68,25-28 applicato all'evento della liberazione - affermano che gli israeliti proruppero nel canto insieme con le donne e i bambini, anche quelli ancora in seno alle madri.

Questo sfondo potrebbe essere significativo per spiegare l’aggiunta “i figli” - dopo le donne - nel nostro testo. Nella Pentecoste, al momento di ricevere lo Spirito, come un tempo ai piedi del Sinai, tutti senza distinzione, comprese le donne con i loro figli, sarebbero chiamati a ricevere la Legge e a far parte dell'alleanza (cf A. Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale, Milano 1995, 88-91; cf Id., E c'era la madre di Gesù..., 444-447.

(86) Nell' Alleanza nuova, tutti conosceranno il Signore, dal più piccolo al più grande (cf Ger 31,34).

(87) Cf At 12,12; 16,1 (cf 1Tm 1,5; 3,14-17); 16,14-15; 21,9).

(88) Alla figura di Maria riserviamo un’attenzione particolare: sembra che ciò risponda alle intenzioni di Luca. Egli che aveva posto in notevole rilievo la madre di Gesù nei racconti dell'infanzia e poi l'aveva lasciata quasi in ombra nel resto del vangelo, la presenta nuovamente qui in posizione privilegiata, accanto agli apostoli, e in seguito non la nomina più. Ciò può apparire sconcertante. A noi invece sembra che la figura di Maria esca in qualche modo dal contingente per assumere una dimensione teologica e simbolica, che la colloca nel cuore del mistero della salvezza e della comunità ecclesiale, accanto agli apostoli primi testimoni della risurrezione di Gesù.

(89) Cf J.-P. Charlier, o.c., 138-14. Charlier stabilisce un parallelismo piuttosto elaborato, ma in fondo convincente tra At 1,1-2,13 e Lc 1-2. La funzione di questi "racconti dell'infanzia" nei confronti del resto del vangelo e rispettivamente degli Atti, è molto simile. Lc 1-2 rappresenta una specie di microevangelo, una miniatura dove si trovano in abbozzo le grandi linee e i temi maggiori del vangelo, ma in maniera velata e sottile. La stessa cosa si può dire per il "vangelo dell'infanzia della Chiesa". Luca vi ha enunciato, in una cinquantina di frasi, con grande varietà, le coordinate della sua ecclesiologia e le articolazioni principali della sua seconda opera (cf ivi, 139-140).

(90) Cf R. Kugelman, The Hebrew Concept of Corporate Personality and Mary, the Type of the Church, in Pont.Acad.MAr.Intern., Maria in Sacra Scriptura, Romae 1967, 179-184.

(91) Cf Lumen Gentium, 55. S. Lyonnet, ChaireKecharitoméne, (Lc 1,28), Bib 20 (1939)131-141; H. Sahlin, Jungfru Maria, Dottern Sion, in Ny Kyrklig Tidskrift 8 (1949) 102-124; N. Lemmo, Maria "figlia di Sion", a partire da Lc 1,26-29. Bilancio esegetico dal 1939 al 1982, in Marianum 45 (1983) 175-258.

(92) “Ella è reclamata, si direbbe, dal ruolo di primo piano svolto nel vangelo dell’infanzia. Nell’ora in cui nasce la Chiesa...era necessario che Maria fosse citata con il titolo per il quale dev’essere ricordata” (J.-P. Charlier, o.c., 76).

(93) Si osservino i significativi contatti tra Lc 1,35: "Lo Spirito santo verrà su di te / e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” e

At 1,8: “riceverete potenza dallo Spirito che verrà su di voi”. Tra i due testi così disposti è possibile scorgere anche un’ideale figura chiastica, che rafforza ulteriormente il parallelismo. Non è pertanto da escludere una “intenzionale rispondenza tra le due espressioni” (cf G. Schneider, o.c., 279, nota 37).

Nella presenza di "Maria, la madre di Gesù" a Pentecoste, nel momento in cui - secondo Luca - viene effuso lo Spirito e nasce la Chiesa, si potrebbe scorgere un certo parallelismo con la scena del Calvario di Gv 19,25-27.30 ove "la madre" di Gesù - nell' ora in cui egli "spirò" (v. 30) - fu proclamata madre del discepolo amato. Resta comunque vero che lo spirito "trasmesso" (parédoken) da Gesù, quando "tutto è compiuto" (v. 30) è solo preludio all'effusione dello Spirito da parte del Risorto (Gv 20,22; cf 7,39; 14,26; 16,17.8).

(94) Secondo Mc 6,3 (cf Mt 13,55), i “fratelli” di Gesù sarebbero: Giacomo, Josè, Giuda e Simone. Mc 3,31 e par. citano, insieme con la madre di Gesù, anche “i suoi fratelli”, con l’articolo, ma senza nominarli, appunto come in At 1,14.

(95) Il fatto che essi siano menzionati dopo le donne, insinuerebbe il dubbio - secondo Charlier - che Luca o la Chiesa abbia voluto emarginare, in qualche misura, i parenti del Signore (cf J.-P. Charlier, o.c., 76-77). Ma il testo non sembra autorizzare tali sospetti.

(96) C.M. Martini, Atti degli Apostoli, Roma 51979, 62, nota 14.

(97) Si pensi, in particolare, alla figura di Giacomo, "fratello del Signore" che presiede la stessa comunità (cf At 12,17; 21,18). Si tenga presente inoltre che - fatto non meno significativo - a Giacomo succede Simeone, "cugino del Signore" (cf Eusebio, Stor. Eccl.,IV, 22, 4): "La Chiesa di Gerusalemme annette dunque un'importanza decisiva ai legami del sangue; in assenza del "Signore" è al suo parente più stretto che spetta l'autorità...Ma il punto di vista di Luca è diverso. Egli mira a collegare Giacomo a Pietro. La menzione ch'egli fa del personaggio in 12,17 ha solo lo scopo di preparare il ruolo ch'egli svolgerà nel "concilio" di Gerusalemme" (cf J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, a.c., 148).

(98) Per l'aspetto edificante del libro degli Atti, cf E. Haenchen, o.c., 114-120.

(99) Cf ivi, 161.

(100) "...ed erano continuamente nel tempio, lodando Dio".

(101) Alla preghiera, il testo aggiunge la diaconia della parola, ribadendo l'elemento tipico del ministero apostolico: rendere testimonianza alla risurrezione del Signore (cf At 1,22).

La religione tende sempre a mettersi al posto di Dio, a far sì che le persone cerchino Dio attraverso di essa. Per questo molti credono che Dio o lo si trova nei culti e nelle cerimonie religiose oppure non lo si trova in nessuna altra parte.

Le riflessioni che qui presento non intendono in alcun modo costituire una critica alla dottrina e alla disciplina ufficiale della Chiesa. E neppure intendono entrare nei problemi della cosiddetta pastolare degli omosessuali: certo la gravità e l’urgenza di questi problemi, insieme al dramma interiore dei soggetti e degli operatori che devono affrontarli, indicano che la ricerca teorica deve essere approfondita.

Il monaco e l'Eucaristia
di P. D. Donato Ogliari osb

Tra le gemme più belle incastonate in quell'edificio spirituale che è la Regola di san Benedetto, vi sono due aforismi pressoché identici che i seguaci del santo Pa­triarca non tardano ad imprimere nella loro mente e a porre come sigillo sul loro cuore. Il primo di questi aforismi raccomanda ai monaci di "non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e il secondo, dopo aver affermato che "primo passo dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio", precisa che "questa è proprio di coloro che ritengono di non avere nulla di più prezioso di Cristo" (RB 5,2).

Se anche san Benedetto non avesse detto altro di Cristo, basterebbero queste due brevi ma dense pennellate a delineare la centralità che egli attribuisce alla persona del Cristo nella vita del monaco. Il Figlio di Dio fatto uomo è, infatti, il cuore della giornata monastica, il suo centro di attrazione e di propulsione. Grazie a Lui, e alla sequela di Lui, s'illumina, prende slancio e si invigorisce quella diuturna ricerca del volto di Dio nella quale si dipana l'esistenza quotidiana del monaco.

È alla luce di questo cristocentrismo, che anche l'Eucaristia (nonostante che san Benedetto la celebrasse coi suoi monaci solo una volta alla settimana, di do­menica) ha finito con l'entrare in maniera decisiva nella trama giornaliera della comunità monastica, incastonandosi all'interno della sua architettura orante, là dove la comunità si radica e si costruisce giorno dopo giorno. L'Eucaristia è dive­nuta così quella "cifra sintetica" nella quale la ricerca di Dio, condotta dal mona­co alla scuola di Cristo e del suo Vangelo, è racchiusa, e nella quale s'inverano simultaneamente lo spatium mysterii e lo spatium caritatis.

Spatium misterii

La presenza reale del Cristo nella celebrazione eucaristica, sia nella Parola proclamata sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche - dove tale presenza rag­giunge il massimo grado - diventa il luogo della concentrazione, lo spatium misterii nel quale la ricerca monastica trova il suo quotidiano approdo e la sua ragion d'essere. Nell'Eucaristia il monaco si consegna al Mistero Santo di Dio, resosi pienamente manifesto nella morte e risurrezione di Cristo. Lì, a contatto con tale mistero, il monaco ridice ogni volta daccapo il suo umile "sì", e accondiscende ad essere conformato al disegno di amore del Padre che ha preso forma definitiva nel Mistero pasquale del Cristo suo Figlio.

Ogni volta che partecipa alla mensa eucaristica, il monaco è sospinto a ritrovare nel Cristo il senso della propria esistenza e a trasformarla quotidianamente, sull'esempio di Lui, in un gesto di amore. Nell'Eucaristia, le parole evangeliche "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà (Lc 9,24) acquistano agli occhi del monaco il loro pieno significato. Lì egli ritrova, in maniera sempre nuova, il fulcro della sua vocazione, del suo vivere e del suo bruciare di quella stessa immolazione del Cristo che, offrendosi per la nostra salvezza, spalanca agli uomini gli orizzonti illimitati del cuore com­passionevole di Dio.

Spatium caritatis

monastica, quale memoriale di una vita "persa" agli occhi del mondo, ma "salvata" e trasformata in Colui che vive per sempre, è chiamata a sua volta, e secondo il suo specifico carisma, ad irradiarsi. Il perdersi del monaco in Cristo, il suo essere nascosto con Lui in Dio, non lo rende infatti avulso dalla storia e dalla compagnia degli uomini, ma, al contrario, proprio perché vulnerabile al Mistero di Dio manifestato nel Figlio Gesù, egli è sospinto a divenire un testimone sempre più luminoso e profetico della salvezza e della totalità di senso che egli trova nel Cristo. Ed è proprio alla luce di questa verità, di cui si fa umile servitore, che il monaco è costantemente rinviato a quella forza primigenia contenuta nell'Eucari­stia, e che si traduce nello spatium caritatis.

Vi è un singolare episodio nella vita di Benedetto, quando questi era ancora giovane eremita nascosto agli occhi del mondo, che illustra molto bene la ricerca di Dio, che ha il suo fulcro nel Cristo pasquale e non può non avere, come suo naturale sbocco, l'attenzione e l'amore ai fratelli. Narra dunque il biografo di Benedetto:

e sedettero. Dopo aver parlato di varie cose spirituali, il sacerdote esclamò: 'Orsù, mangiamo! Oggi è Pasqua'. L'uomo di Dio rispose: 'Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!'. Infatti, vivendo lontano dalla gente, il santo non sapeva che proprio quel giorno fosse la solennità di Pa­squa. Il sacerdote riprese: 'Oggi è davvero la Pasqua di risurrezione del Signore. Non ti è permesso perciò fare digiuno. E io sono stato mandato proprio per que­sto, perché prendiamo insieme i doni dell'Onnipotente'. Così, benedicendo Dio, presero cibo insieme" (Gregorio Magno, Dialoghi II, 1).

Benedetto, sprofondato e assorto nelle cose di Dio, si era reso conto che era Pasqua soltanto alla vista del sacerdote che lo aveva a lungo cercato e finalmente trovato. E come se la sua coscienza si fosse, per così dire, risvegliata di fronte al Cristo presente in quel fratello che gli aveva fatto visita e che ora gli stava accan­to: "Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!", esclama Benedetto.

L’Eucaristia è proprio quello spatium caritatis che segna quotidianamente i passi del monaco. In questo "spazio" egli si immerge ogni giorno non solo per "gu­stare e vedere quanto è buono il Signore" (cf Sal 33,9), ma anche per ritrovare la forza e la gioia di farsi carico del fratello, capace di scorgere, al di là dell'epidermi­de, i doni a cui egli è portatore e che, ultimamente, provengono dal Signore.

non possia­mo accostare chi ci sta accanto mantenendo le nostre prevenzioni e i nostri pre­giudizi nei suoi confronti. Per cogliere la presenza del Risorto in ogni fratello occorre affidarsi alla novità dello Spirito che rende i nostri occhi capace di scor­gere l'inedito al di là di ciò che diamo per scontato.

Chiarificazione e obiezione

meglio, sulleorme del Cristo, l'oblazione di sé, quale inveramento della ricerca di Dio. Nell'Eucaristia, infatti, la sequela Christi è chiamata a trovare un riscontro nella traduzione concreta di quella consegna che Gesù ha lasciato ai suoi nell'Ul­tima Cena: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34), consegna che toglie il diritto di cittadinanza ad ogni egoistica inerzia e ad ogni forma di autosufficienza.

Lì, nell'Eucaristia, l'immolazione libera e obbediente del Figlio al disegno salvifico del Padre diventa la cattedra quotidiana dalla quale il monaco attinge quotidianamente la forza necessaria per spezzare la propria vita, insieme con Gesù, nell'umile e gratuito servizio dei fratelli, sorretto dalla gioia e dalla luce dello Spirito.

(Da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005)

Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci

Dire «ecclesiologia del Vatica­no II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infat­ti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fon­do, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compia­ciuta, bensì individuare le sorgen­ti della sua vita e attività, precisar­ne modalità, relazioni, fini.

Le quattro Costituzioni conci­liari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum con­cilium ne approfondisce la dimen­sione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centra­lità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinami­che in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Li­turgia, la Parola e la Carità.

La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tut­ti gli elementi ecclesiologici es­senziali. Se in essa convergono lo­gicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i de­creti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecume­nismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche so­no quasi l'espansione di LG 15, co­sì come la dichiarazione Nostra ae­tate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozza­to in LG 17; il decreto Christus Do­minus sull'ufficio pastorale dei ve­scovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sa­cerdotale approfondiscono la teo­logia e spiritualità dei presbiteri, an­che in chiave formativa, concen­trata in LG 28; il decreto Apostoli­cam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione ope­rativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vi­ta religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'im­portanza dei mezzi di comunica­zione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (di­chiarazione Gravissimum educa­tionis) e la libertà religiosa in rap­porto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).

La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo ap­prossimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-gui­da di LG - quasi degli slogan bre­vemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a di­sposizione non riportiamo indica­zioni bibliografiche, con l'ecce­zione dell'ultimo «manuale» di ec­clesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al no­stro argomento. (1)

1. La Chiesa non è semplice­mente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero tri­nitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nel­la storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.

La cosiddetta concezione «so­cietaria» e visibilista di Chiesa, ac­centuata dalla reazione dei contro­riformisti nei confronti dell'«invi­sibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hie­rarchica», in polemica contro le in­gerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integra­ta già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teolo­gicamente più profonda della Chie­sa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimen­sionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teolo­giche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiolo­gia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure sempli­cemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa imma­gine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).

Da questo squarcio di orizzon­ti derivano alcune importanti im­plicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal pun­to l'origine della Chiesa alla vo­lontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento de­cisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente di­ventava irrinunciabile la dimostra­zione della «storicità» di certe pa­role di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX seco­lo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'in­nesto «pieno» della Chiesa nel mi­stero di Cristo: l'inizio e la cresci­ta della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che usci­rono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...

Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un se­condo: la Chiesa affonda le sue ra­dici non sul solo mistero cristolo­gico bensì sull'intero mistero trini­tario. La storia teologica della Chie­sa, come illustra LG 2, inizia, in­fatti, nell'atto stesso della creazio­ne dell'universo, continua nella vo­lontà di Dio di radunare gli uomi­ni non singolarmente ma come po­polo e nell'elezione di Israele. Que­sta medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innu­merevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le af­fermazioni che la Chiesa «già pre­figurata sino dal principio del mon­do, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come affer­ma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).

La coestensione della Chiesa al­la storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il ti­tolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il pri­mo concetto fa risaltare le dimen­sioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il se­condo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nel­la Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'en­tità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società uma­na tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la ne­cessità di una vera e propria «con­versione» dai modi più superficia­li (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di inten­derne la vita e la missione.

2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio bat­tesimale di tutto il popolo di Dio.

Il Vaticano II, specialmente nel ca­pitolo secondo di LG (9-17), po­ne le basi teologiche per una ec­clesiologia comunionale e, all'in­terno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del mini­stero ordinato e del laicato. La ri­duzione «gerarcologica» dell'ec­clesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radi­calmente corretta ed integrata dal concilio.

La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addi­rittura nel solo papato, venne a po­co a poco allentata dai testi conci­liari attraverso il recupero della no­zione di «popolo di Dio» come de­scrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il po­polo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Tri­nità ne è il soggetto misterico e di­vino.

La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazio­ne sul popolo di Dio precede quel­la sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo com­piuto dal Vaticano II. La realtà ec­clesiale di base è quella battesima­le-cresimale-eucaristica, che com­prende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compi­ti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momen­ti della sua storia. Il ministero or­dinato, dentro al popolo di Dio - non sopra accanto - svolge la funzione di richiamare efficace­mente l'origine continua della gra­zia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Pa­rola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha per­messo quindi di collocarvi il sa­cerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeria­le». Si apre così lo spazio per un'ef­fettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto es­si sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - compo­nenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.

Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella co­scienza teorica e pratica dei cri­stiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sul­la gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percor­si - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e del­la dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).

3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e pas­seggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia mis­sionaria che superi le riduzioni ere­ditate nel corso degli ultimi secoli.

Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla mis­sione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo ex­traecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uo­mini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della de­lega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appun­to «missionari». In campo intraec­clesiale la missione veniva riser­vata ai preti e ai vescovi. Se inte­sa, infatti, in senso ampio, essa in­dicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sa­cramentale dei sacerdoti nei con­fronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i se­condi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività sal­vifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacer­dote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'in­terno della potestas iurisdictionis).

La seconda riduzione - pasto­ralmente conseguente ma teologi­camente precedente la prima - si può definire verticale: non si par­la, se non sporadicamente, di Chie­sa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto in­vece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiolo­gia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è es­senzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al no­stro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristia­no - il concilio, accogliendo sti­moli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non ces­serà mai, perché appartiene alla na­tura della Chiesa. Prima del conci­lio si trascurava la radice teologi­ca della missione, che è l'opera tri­nitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Fi­glio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiet­tata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguen­te affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).

La missionarietà come dato es­senziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battez­zati, non sembra ancora caratteriz­zare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si la­menta ancora, almeno nella Chie­sa italiana, un'eccessiva cura ver­so la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vange­lo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisa­mente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.

4. La Chiesa non è solo l'uni­versalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la co­munità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla dioce­si e, subordinatamente, alla par­rocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipa­zione piena e attiva di tutto il po­polo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla me­desima preghiera, al medesimo al­tare cui presiede il vescovo, cir­condato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svol­ta copernicana», questo testo ac­coglie in casa cattolica l'ecclesio­logia eucaristica ignaziano-orien­tale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che co­me realtà societaria. In quest'otti­ca, dunque, la «più alta manifesta­zione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primazia­le ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della ce­lebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pie­nezza episcopale.

La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nel­le comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del qua­le si raccoglie la Chiesa, una, san­ta, cattolica e apostolica». Ma è so­prattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazio­ni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese partico­lari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rappor­to Chiesa particolare/Chiesa uni­versale non è di somma o sottra­zione. Il testo citato delinea piut­tosto tale rapporto in due direzio­ni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanen­za: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattoli­ca; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a forma­re la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese parti­colari che si forma concretamente la Cattolica.

Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chie­sa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è diffi­cile individuare gli elementi costi­tutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che ri­suona integralmente in ogni Chie­sa locale; nei sacramenti, special­mente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa lo­cale, e in sommo grado nell'Euca­ristia, celebrata in ogni Chiesa lo­cale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di ca­rità che si irradia in ogni Chiesa lo­cale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.

Il Vaticano II, pur senza ap­profondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/lo­cale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:

ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» so­lo se si trova in comunione con tut­te le altre Chiese nel mondo; co­munione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridi­co che emerge la necessità della co­munione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reci­procità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralisti­ca», che trascura la ricchezza teo­logica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ec­clesiologica continuerà ancora a lungo.

5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appar­tenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecu­menico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costitui­ta e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, go­vernata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo orga­nismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di ve­rità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'a­dozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre co­munità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cf. UR 4). Allo stesso sco­po tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamen­te incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

La mancata identificazione pu­ra e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissio­ne di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al prin­cipio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un or­dine o "gerarchia" nelle verità del­la dottrina cattolica, essendo diver­so il loro nesso col fondamento del­la fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecume­nico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Di­chiarazione congiunta sulla giusti­ficazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tut­to impensabile senza queste gran­di aperture del Vaticano II. La sfi­da, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le co­munità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristia­ne, sono invitate a dialogare e te­stimoniare a loro volta la fede cat­tolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a re­cuperare l'essenziale e distinguer­lo da ciò che è secondario.

6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'ini­zio (cf. LG 3 e 5): è la base teolo­gica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema in­terreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).

Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, rife­rendosi a coloro che non hanno an­cora ricevuto il Vangelo, si affer­ma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dal­la Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'am­bito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle re­ligioni e delle culture in quanto ta­li: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni ger­me di bene (quidquid boni... semi­natum) che si trova nel cuore e nel­la mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Es­sa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quan­tunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e pro­pone, tuttavia non raramente ri­flettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».

Vi sono altri riferimenti che an­drebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rile­vare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle al­tre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di acco­glienza, discernimento e valoriz­zazione. Il concilio ragiona preva­lentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teolo­gia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presen­te - a diversi livelli - nelle altre tradi­zioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva an­che in chiave pneumatologica, in­vitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.

Analogo è il discorso sul rap­porto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo cam­po senza dubbio il capitolo secon­do della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elènca­ti prima di tutto rischi e opportu­nità che il mondo odierno presen­ta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scatu­riscono necessariamente dall'o­dierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconosce­re i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclu­sivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comu­nione che arricchisce sia la Chie­sa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cri­sto rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifi­ca ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di cia­scun popolo.

Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differen­te misura, verso il loro compi­mento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre re­ligioni, le altre culture e i loro ap­partenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialo­go, che si risolverebbe in eserci­zio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo mis­sionario; dialogo e annuncio si im­plicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra an­cora piuttosto lontano dalla porta­ta delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamen­te tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'inte­gralismo.

«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmen­te ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno ve­ramente «recepirlo».

1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.

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