Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 07 Luglio 2006 00:45

I piccoli (Giovanni Vannucci)

I piccoli
di Giovanni Vannucci


La commovente pagina di Mt 11, 25-30 è preceduta da una serie di parole di condanna che Gesù rivolge al suo popolo, indifferente ai richiami austeri di Giovanni Battista, e a quelli più umani da lui rivoltigli: «È venuto Giovanni, non mangiava e non beveva ed è stato considerato come indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e mi dite che sono un mangione e un ebbro, l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora prese a maledire le città dove aveva compiuto prodigi e non si erano convertite».

Le città incredule, che suscitarono lo sdegno di Cristo, fanno da sfondo oscuro a una nuova società che avanza e che si raccoglie intorno a Lui: i piccoli, gli affaticati, gli oppressi, ai quali rivela le cose nascoste ai saggi e agli intellettuali. Chi sono i piccoli, i fanciulli alla cui statura i discepoli sono chiamati ad adeguarsi?

Il piccolo è l’umile, l’uomo pronto ad amare e a credere, l’uomo che ha il cuore aperto allo stupore di ogni fiaba, di ogni vera rivelazione, che, nelle manifestazioni della vita, scorge la presenza del sogno e della poesia, dell’armonia e della meraviglia, che di fronte all’erba verde non pensa alla clorofilla, ma alla mano invisibile che l’ha resa bella di quel colore. Il piccolo è il meraviglioso costruttore del Regno dei cieli. Ai piccoli Gesù dice: «Venite a me».

Per avere la vita è sufficiente andare a Cristo, ma per andare bisogna voler andare! La volontà umana, la capacità di rispondere a un appello, è l’arbitra del cammino verso Cristo. Per credere a Cristo bisogna voler credere, per andare a Cristo bisogna volerci andare. Cristo non ci vuole per forza, non ci lusinga con facili ricompense, non ci violenta, non ci salva nostro malgrado. Ognuno deve avere il suo piccolo e indiscutibile merito; ognuno deve, rispondendo alla chiamata, dimostrare di avere un nome e di non essere un bruto incosciente che attende un maestro qualsiasi pronto a iniziarlo.

«Venite a me che sono mite e umile di cuore». Cristo sintetizza la sua persona in queste due qualità: dolcezza e umiltà.

Non confondiamo la dolcezza con l’untuosità e la smanceria ritenute, ordinariamente, le note che qualificano la persona devota! Quando un frutto è dolce? Quando è maturo, quando tutto in lui ha raggiunto il grado della perfezione. L’umiltà non è la sottomissione ai potenti, ai dotti, ai superuomini, ma l’estrema libertà del cuore che si è scrollato da tutte le prigioni costruite da mano umana e che può dire, in piena verità, «non conosco uomo», sono solo davanti al mistero divino.

La dolcezza di Cristo è bontà aggressiva, combattiva, è la bontà del Buon Pastore che va a cercare la pecorella smarrita, ma è anche il pastore che spacca la testa al lupo, e nella lotta al principe di questo mondo è senza debolezza, lo aggredisce ovunque lo trovi. È umile, la sua indipendenza dai potenti è assoluta fino alla morte di croce per obbedire al suo mandato.

A ben considerare, la dolcissima pagina del vangelo di Matteo si appoggia su una realtà di tensione profonda tra la violenza dei potenti e la mitezza dei piccoli, tra la forza brutale degli integrati nel regno di questo mondo e gli oppressi che conservano intatto nel cuore il sogno di un Regno diverso e sono sensibili alla poesia delle cose. Noi siamo perpetuamente nel mezzo di questa tensione, siamo dei poveri cuori minacciati dalla sclerosi, ci è necessaria una continua vigilanza sugli egoismi sempre risorgenti, per superarli conservando lo stupore, l’attesa del miracolo, dell’incontro con Cristo. Attesa che accende in noi una luce certa e pura che di niente si inquieta, che è in se stessa slancio, offerta, dono.

Abituandoci a muoverci in questa luce, l’universo lentamente cambierà di senso e di aspetto, avremo la sapienza dei semplici, non quella dei dotti e degli intelligenti! Incontreremo la dolcezza, maturità piena, di Cristo, l’umiltà , donazione al più assoluto ideale, del Maestro. Orienteremo in maniera corretta le nostre energie vitali per raggiungere la maturazione del nostro personale io, la più totale offerta di noi stessi alle energie divine. Evitando di far decadere, come fanno i dotti e gli intelligenti, la pienezza di vita, che ci viene comunicata, in oggetto di speculazioni, di ideologie, di parole, di precetti. Schivando quella degradazione della fede ai pregiudizi, agli interessi sodali volgari, alla manipolazione della psiche.

Le parole violente di Cristo contro i Farisei, che avevano miniaturizzato il mistero divino, contro i dottori della legge che avevano «fatto sparire le chiavi della conoscenza» (Lc 11, 52), contro le città che, chiuse nel loro benessere, avevano perduto l’attesa della rivelazione, conservano anche oggi il loro peso. L’umile non dice mai di no allo Spirito che lo muove e lo conduce al giogo dolce e leggero di Cristo, è il no che alimenta le fiamme dell’Inferno.

Ritrovare la pochezza dei piccoli, mi sembra l’urgente consegna del nostro tempo. Vi è fame e sete di conoscenza spirituale nel nostro mondo, ma ancora una volta i dottori della legge, gli intelligenti, avendo la chiave non la vogliono usare, e loro non entrano né lasciano entrare altri nel Regno, simili al cane che dorme nella mangiatoia, non mangia il fieno e impedisce ai buoi di mangiarlo! Eppure il seme divino germoglia e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone quelli che mietono, e non è nei granai del regno di Dio che il grano viene raccolto!

Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo umano e supplichevole chiede: «Dammi da bere, dammi l’acqua deperibile della tua natura umana, in cambio ti darò quella viva della mia natura divina!».

«Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli!».



Giovanni Vannucci, «I piccoli», 14a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 128-130.

Nella Chiesa corinzia era proprio l'ostentazione a incentivare la frequente contrapposizione tra i membri della comunità. Nella seconda lettera Paolo si sofferma ancora su questo atteggiamento umano che non corrisponde alla prospettiva del vangelo.

Una spiritualità che rinnovi la pastorale
di Luigi Guccini



Anche la pastorale, come la vita religiosa, deve affrontare un profondo ripensamento, pena l’insignificanza o la sterilità. Di fronte alla diminuita pratica di molti fedeli è inevitabile la domanda “che fare?” la tentazione è, oltre allo scoraggiamento, l’omologazione alla cultura corrente. Eppure non manca una spiritualità che suggerisce atteggiamenti e percorsi. Come farli diventare “mentalità” pastorale?

Quando si riflette sulla situazione della chiesa e della pastorale nell'odierna società, non si può non rimanere colpiti da una serie di fatti. Solo qualche anno fa, al tempo del dialogo (apologetico!) tra chiesa e mondo, si poteva pensare che la chiesa non riuscisse a farsi ascoltare perché troppo aliena dalla nuova cultura, dunque ignara della lingua parlata, e cioè superata, irreparabilmente out. Ma non sono passati molti anni e si è dovuto parlare piuttosto di post-cristianesimo. Come se la chiesa avesse già dato tutto quello che aveva da dare e avesse esaurito il suo compito.

I dati di fatto a conferma di questa diffusa sensazione sono davanti a noi. Succede per esempio - e non meraviglia nemmeno più - che un fedelissimo lasci la chiesa dall'oggi al domani, senza drammi, e oltre tutto...senza cambiare vita. La pratica religiosa gli era superflua. Oppure rimane sì nella chiesa, ma - per dirla in modo un po' brutale - come si fa con il vecchio club: magari attivi nel volontariato e gradevolmente saldi nelle amicizie, ma senza riferimenti ulteriori che vadano nel profondo, a ciò che veramente decide della qualità della vita, come sesso, denaro, potere...

Succede anche l'opposto: c'è l'incredulo inquieto e insoddisfatto della sua vita, che magari s'accosta alla parrocchia, ma ne ritorna con la sensazione di non aver trovato altro che "le cose di sempre", sostanzialmente incapaci di rispondere a ciò che porta dentro e di cui ha bisogno. Così finisce che uno s'inventa la religione a modo suo. C'è molto fascino per lo straordinario e per il leader carismatico di turno, magari attorno al fenomeno dilagante di sette, magia e satanismo; oppure il grido improvviso nel momento del dolore con qualche ritorno alla fede di un tempo, ma non ci sono le condizioni - e l'aiuto necessario - perché la povera piantina ! possa crescere.

Non può non far riflettere anche quest'altro fatto: sempre meno la secolarizzazione trova credito tra gli stessi laici più laici. Si potrebbe pensare che la chiesa non ha credito perché troppo lontana dal mondo, e invece è vero il contrario: quello che manca molto spesso è piuttosto una chiesa che sappia dire qualcosa di diverso dal mondo, qualcosa che porti a sperare di più, e su basi più solide.

Ci eravamo tanto scaldati per impedire al secolarismo di svuotare l'annuncio cristiano e ci stiamo accorgendo che un cristianesimo omologato al pensiero corrente e alla "qualità di vita" che ne consegue è ancor meno cercato del cristianesimo clericale-parrocchialista di un tempo.

Il caso "vita consacrata"

Davvero non serve a niente essere a tutti i costi ragionevoli, smussare i contrasti con la cultura odierna, fare apologetica soft e affermare, in conclusione, che dentro la chiesa possono starci benissimo tutti quanti, senza particolari prezzi da pagare...Quello che si cerca va molto più in là e non sta neanche in ciò .che l'uomo d'oggi dice di cercare: sta in ciò che porta nel cuore e non lo sa, fino a quando non trova risposta. È la vicenda di molti grandi convertiti, che incontrano Cristo ma non riescono a riconoscersi nella prassi di chiesa che viene loro offerta. Pensiamo a Simone Weil, ad Adrienne von Speyr, a quella misteriosa Camilla di cui il Caffarel ha scritto un profilo così penetrante. Il punto che ritorna è sempre lì: c'è questa divaricazione tra ciò che il cuore umano cerca nel profondo e il tipo di mediazione che - nonostante la forza del vangelo che pure è nelle nostre mani -sappiamo offrire come chiesa.

È in fondo ciò che capita alla vita consacrata. Forse val la pena richiamare questo fatto, decisamente emblematico proprio per ciò che riguarda i problemi con cui si trova a fare i conti la pastorale e il suo rinnovamento.

È dal concilio che la vita religiosa sta lavorando con il massimo di intensità al suo rinnovamento. Ha tentato tutte le strade, dall'impegno per l'aggiornamento, con la riscrittura delle regole, fino alla rifondazione. Ma i risultati non ci sono stati, o almeno non nella misura desiderata. Le case di formazione sono vuote. Il modello di vita religiosa che le ha generate non attira più, non è più proposta, nonostante il cammino che pure si è fatto nel rinnovamento.

Si continua a lavorare, evidentemente, ma la convinzione che si va facendo strada è che sia l'impostazione d'insieme che ha bisogno di essere rivista. Fa riflettere, per esempio - e preoccupa - la sproporzione che c'è tra la mole di risorse impiegate - in persone, tempo e denaro - attorno ai problemi istituzionali e i risultati che si raccolgono. Si moltiplicano le assemblee e le commissioni di studio, continua abbondante la produzione di documenti, ma rimangono lettera morta. Anche l'opera dispendiosissima per la ristrutturazione delle opere e la riqualificazione del personale non ha dato i risultati sperati. Sempre di più i superiori maggiori hanno come l'impressione di girare a vuoto, come se ciò su cui bisognerebbe "mordere" fosse sempre altrove...

Alla fine si è fatta strada la convinzione che il problema sta più a monte e precisamente nel fatto che il modello di vita religiosa a cui si sta lavorando è giunto a esaurimento e che, perciò, è fatica sprecata lavorarci attorno per rivitalizzarlo. Bisogna risalire più in alto e più in profondità, con un percorso più lungo, che parta da più lontano. Come hanno creduto di dover fare molte delle nuove forme di vita consacrata, che rinunciano a strutturarsi secondo il modello tradizionale e chiedono di essere riconosciute semplicemente come associazioni private di fedeli. È che, di fronte al crollo di tutto un sistema di vita e di operatività apostolica, ci si rende conto che la strada da prendere non è in aggiustamenti semplicemente strutturali, ma nel ritorno all'essenziale, l'essenziale della fede e della vita cristiana, per riconsiderare e ridefinire a partire da lì (quindi, dopo un adeguato percorso di purificazione ), anche il resto.

Per intanto - ed è l'affermazione esplicita di molte di queste forme - quello che interessa è di essere semplicemente cristiani, sicuri che dà qui viene anche il resto.

Su che cosa puntare?

Abbiamo indugiato, perché non credo che sia molto diversa la situazione a livello pastorale. Anche la pastorale conosce la sua crisi e quanto profonda. Anche le chiese locali hanno intensamente lavorato per il rinnovamento, ma siamo al punto in cui siamo: ritorna sempre di nuovo il discorso sulla crisi della parrocchia, viene riconfermata come struttura portante della pastorale, ma la situazione è quella che è: troppe cose non tornano.

Che fare in questa situazione: puntare sulla pratica religiosa, ovviamente rinnovata, come la vita consacrata avrebbe potuto puntare sull'osservanza religiosa? Ma proprio questa strada si è dimostrata senza frutto. La crisi della vita religiosa, anzi, è intervenuta in un momento in cui come non mai l' osservanza era in auge. Segno che il problema è altrove. Ed è così anche per la pastorale della chiesa: la pratica religiosa è importante, ma non riuscirà mai da sola a produrre ciò che occorre, né tanto meno a rispondere oggi a ciò che il cuore dell'uomo cerca nel profondo e il Vangelo è in grado di dare.

Bisogna andare più in profondità ed è ciò che aveva intuito Bonhoeffer di fronte alla situazione che si andava profilando: il punto decisivo, diceva, è uno solo ed è «la ricerca di colui che solo ha importanza: la ricerca di Gesù Cristo... Per noi ciò che veramente conta oggi è sapere che cosa vuole da noi Gesù...» (Sequela, 13). Oppure san Francesco il quale, in un momento per tanti aspetti molto simile al nostro, non accettò mai di farne una questione di osservanze o di pratica religiosa, ma capì che unica risposta poteva essere solo il Vangelo e il Vangelo sine glossa. Era troppo grande l'impresa che la chiesa aveva davanti perché si potesse puntare su qualche altra risorsa o semplici aggiustamenti di carattere strutturale.

Siamo a questo punto pure oggi, e perfino di più. Siamo riportati all'origine e, per dirla in termini di annuncio, all'apostolica vivendi forma delle origini, quando il vangelo veniva trasmesso da persona a persona da parte di comunità che semplicemente lo vivevano e se ne sentivano responsabili.

Giocarsi sul vangelo

Non ci si illude con questo che sia semplice o che siano tutti d'accordo. Secondo la lettera agli amici della Comunità di Bose in occasione dell'ultimo Natale «la tentazione più seria» oggi è rappresentata «dall'irresistibile fascino della religione civile». Sempre di più «la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso ed è pronta al riconoscimento dell'utilità sociale della religione». Ma quel che è peggio è che «l'invito rivolto in questo modo alla chiesa da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza favorevole anche

da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie». Non conta niente se poi l'80% degli italiani si dichiara cattolico, ma solo il 40% dice di credere alla risurrezione di Cristo; quello che si coglie tra le righe è il sogno di una chiesa «applaudita, riconosciuta, a volte perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa..., mentre la comunità dei discepoli di Gesù resta incapace di vera profezia...». E "la chiesa di canale 5", come dice umoristicamente, ma non troppo, qualcun altro: una chiesa che «si identifica sempre più con l'occidente ricco e potente».

È evidente la divaricazione che c'è tra questa idea di chiesa e una concezione e prassi -sopra si citava san Francesco - che faccia perno unicamente sul Vangelo e sulla forza disarmata della Parola, come dice ancora la nostra lettera. Ed è su questo sfondo, che richiede però un radicale cambiamento di mentalità, che si intravede la portata e la via di quel rinnovamento della pastorale a cui si mira e che potrebbe trovare proprio nel!a spiritualità la sua sintesi.

È un discorso complesso che ha bisogno di molto approfondimento. Intanto ci sarebbe da notare che la chiesa deve riflettere innanzitutto in se stessa l'immagine di Dio che vuol presentare al mondo. Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio? Quale volto di Dio si può intravedere dietro una chiesa che crede di dovercela fare da sola, che cerca di affermare se stessa e che non sa vivere in modo evangelico il momento di povertà e debolezza che sta attraversando? Sono interrogativi decisivi. Come fa l’uomo - peccatore e limitato per definizione - a scoprirsi amato e perciò salvato, se l'annuncio che portiamo è ancora segnato dal bisogno e dall'ansia di affermare noi stessi, sia pure come chiesa e "a fin di bene"?

Significa che la prima via da imboccare per una pastorale rinnovata in senso spirituale è la via dell'umiltà. L'impressione che si ricava molto spesso è che nella pastorale ecclesiastica ci sia ancora troppo bisogno di riuscire, di fare il pieno, di assembrare gente, di mettere al muro gli avversari e vincere. Ma il Dio che annunciamo non ha bisogno di vincere e non ha mai promesso ai suoi un successo mondano. Si è tanto parlato di chiesa povera e dei poveri, riducendo il discorso al tema economico, pur fondamentale e lacerante. Oggi fa infinitamente più questione (almeno qui in occidente) il vedere una chiesa che non sa fare evangelicamente i conti con la sua propria povertà: una chiesa che...pensa di essere alla dissoluzione, perché non le riescono più le cose di sempre e le istituzioni di cui dispone fanno acqua.

Bisognerebbe ricordare di più che la teologia dell'umiltà fa un tutt'uno con la teologia della croce. E poi ricordare che l'umiltà riguarda non solo i singoli ma anche (e forse soprattutto) i soggetti collettivi. Le beatitudini sono proclamate da Gesù come programma per il Regno, e se la chiesa è sacramento del Regno, non si riuscirebbe a capire perché. ..se ne possa dispensare.

Se non andiamo errati, parte da qui, oggi, la vera riforma pastorale, purificata da ogni volontà di riconquista. E la pastorale - non lo si dimentichi - è responsabile dello stile di presentazione che la chiesa fa di sé al mondo.

In prospettiva personalista

Forse abbiamo indugiato anche troppo. Ma è evidente quanto sia decisiva, nell'opera pastorale e di evangelizzazione, la visione di chiesa da cui si muove e il tipo di obiettivi a cui si mira. È anzi qui, in definitiva, che si decide la partita.

Le cose da dire in questa linea sarebbero molte, e innanzitutto c'è l'attenzione da prestare alle persone. È nella persona in definitiva che si risolve l'annuncio, ed è quando uno incontra il Signore e aderisce a lui nella fede che l'opera si può dire compiuta. Ed è ugualmente in questa prospettiva che le risorse provenienti dalla spiritualità cristiana dimostrano tutto il loro valore e la loro forza anche in campo pastorale. Finché l'opera della chiesa non riesce ad aprire i cuori alla fede in un effettivo incontro con Cristo; finché le coscienze non vengono rigenerate in senso veramente cristiano; finché la persona stessa non arriva a fare di Cristo e della sua parola il criterio che guida tutte le sue scelte..., l’opera della chiesa non ha ancora raggiunto il suo scopo.

È in questa linea del restò che si è sempre mosso il cammino di fede della nostra gente. Non è senza significato che L' arte di amar Gesù Cristo di sant' Alfonso abbia avuto in Europa non meno di ventimila edizioni , e che l’Unesco abbia elencato gli Esercizi spirituali di s. Ignazio fra i cento libri che hanno maggiormente influito sulla cultura mondiale. ..Le "devozioni" a cui è stata abituata la nostra gente avranno avuto i loro limiti e così una certa educazione alla "pietà", ma non si possono ignorare i frutti che hanno prodotto nella coscienza credente.

Così come non si può ignorare quel tessuto interiore e insieme pratico di virtù che ha caratterizzato nel profondo la coscienza collettiva del nostro popolo. Ed è ancora l'insegnamento dei nostri santi, soprattutto quelli più presenti alla vita della gente, che sta all'origine di quei valori di speranza, sopportazione del dolore, rispetto dell'altro, solidarietà verso i deboli, convinzione di essere amati e importanti davanti a Dio, bisogno di interiorità..., che hanno caratterizzato ma in modo così profondo l'animo del popolo cristiano.

Davvero non è più il tempo di una pastorale di militanza collettiva. Occorre saper aiutare a incontrare Dio di persona. Con l'educazione alla preghiera, senza dubbio, ma anche con quella testimonianza che viene dalla fiducia, dalla non direttività, dalla giusta pazienza con cui dare all'altro il tempo tecnico di capacitarsi e di crescere, dalla non fiducia nel valore salvifico delle opere, e dunque da un certo modo di guardare anche il peccato e il limite. Senza rinunciare all’esigenze di una seria vita spirituale. Serietà anche in fatto di sesso, di soldi e potere; al di là di ogni equivoco. Ma dentro un rapporto educativo che miri al complesso della persona, presa nel suo divenire mai improvvisato, nell'interazione sapiente di tutti i valori.

Nel tessuto della storia

Quando si parla di spiritualità e vita spirituale c'è certamente anche il rischio di portare il discorso su percorsi e a conclusioni che non sono quelli giusti. Il primo rischio è quello dell'intimismo, il ridurre cioè la spiritualità in un ambito esclusivamente. privato, che induce a chiudersi, anziché esporsi con libertà e coraggio a tutto ciò che interpella il cristiano "da fuori”. Una prassi che poi porta., in ambito pastorale, a fermare il discorso sul piccolo gruppo, molto affiatato e impegnato, ma senza quel respiro apostolico che costituisce comunque il vero compito della chiesa nel mondo.

È a questa apertura, mai sufficientemente vasta e profonda, che rimandano le testimonianze. dei grandi credenti del nostro tempo. Se, da un una parte, essi chiedono più religione, più mistero, più apertura al trascendente e quindi più spiritualità, non per questo si presentano come uomini e donne estranei alloro tempo, che intendono la profezia come un rompere con il mondo. Non glielo consentirebbe il Dio che hanno incontrato, il quale è un Dio che "si perde" per il mondo, come dimostra Gesù. La loro "attesa di Dio" (Simone Weil) è dall'interno di questa condizione umana, che essi hanno sposato e di cui condividono fino in fondo la sorte. A. von Speyr sosteneva la fede in un "Dio diverso", proprio perché infinitamente più grande di tutte le misure in cui lo vorremmo rinchiudere quando lo consideriamo Salvatore. E non avevano paura del mondo Edith Stein, La Pira, madre Teresa, Ch. de Foucauld o p.s. Magdeleine, questa donna che ha fatto dell'immersione nel mondo - nella vita di tutti, come insegna il "modello divino Gesù " - la sostanza del suo progetto di vita.

Se c'è qualcosa che resiste, dopo l'interminabile stagione del dialogo con il mondo, è proprio la solidarietà dei grandi mistici recenti con la sorte umana, con la condizione di tutti. Nessuno come loro ha saputo ascoltare il mondo e l'uomo che lo abita ed è a questo che essi rimandano la nostra pastorale. I nostri contemporanei pongono interrogativi nuovi e hanno diritto di essere ascoltati. Non possiamo ridurli a pensare e a sperare secondo formule ormai stereotipe. La loro "attesa di Dio" e di un "Dio diverso" va molto al di là e interpella la chiesa nel modo più forte. Le risposte di ieri - incentrate sulla compattezza sociale, sull'appartenenza, dunque sull'obbedienza e su una rinuncia a se stessi intesa come impegno a non ragionare. e non rischiare in proprio - non bastano più. Oggi è il valore della persona e della sua responsabilità a fare da fondamento alla ricerca della fede, e questo dobbiamo saper ascoltare.

L'aver capito che Dio ama l'uomo e perciò lo salva ci mette in grado di far percepire a chi ci incontra la stima che abbiamo di lui, e questo per una ragione che risale al mistero stesso di Dio. L'anima della pastorale è in fondo qui: saper credere all'opera di Dio nei nostri interlocutori, senza giudicarli, senza condannarli mai, neanche quando sbagliano. È questo che li può far trasalire dal profondo del cuore, fino a rivelare loro una realtà di vita e di salvezza mai prima sospettate.

Temi da approfondire

Sono solo alcuni accenni a un tema di grande attualità, che viene sempre più in evidenza nella chiesa d’oggi. Solo “accenni” perché, in effetti, il problema non è semplicemente qui, nel sottolineare ancora una volta l’importanza e l’attualità del tema. Sta piuttosto nel fatto che la spiritualità cristiana – presa in se stessa e nei suoi riferimenti all’opera dell’evangelizzazione – ha bisogno di essere ripensata e ritrovata nei suoi veri contenuti, nel suo vero significato. Si è già fatto molto in questi anni; il problema è come far sì che quanto è stato acquisito a livello specialistico diventi mentalità. Appunto, come arrivarci? È un problema insieme di studio e di rinnovamento interiore. Un problema di formazione. Bisogna rimboccarsi le maniche e rimettersi a scuola, la scuola dello Spirito.

(da Settimana, 11, 2005)
Mercoledì, 21 Giugno 2006 22:50

Divina Liturgia di rito bizantino

Testo in italiano della Divina Liturgia (celebrazione eucaristica) di rito bizantino.

Nato in Dalmazia nel 1866, visse sino al 1942, quasi sempre a Padova. Ultimo di dodici figli, pareva uno "scarto umano": piccolissimo, claudicante, pronunzia difettosa, sempre malaticcio; cosa mai avrebbe potuto realizzare? Ma lo sguardo di Dio era su di lui per farne un capolavoro di bellezza e di forza spirituale. La nobiltà d'animo suppliva all'aspetto fisico.

L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *


Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…

Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.

Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.

Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio

I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).

In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.

Condizioni propizie alla fede monoteista

Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.

L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.

Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).

Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo

La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.

La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Lezione Seconda
Fede, teologia, storia della salvezza



1. La fede in rapporto alla teologia


Se consideriamo la teologia come atto dell’uomo, essa può essere indicata con l’espressione classica di intellectus fidei, intelligenza della fede. La teologia in questo senso soggettivo suppone la fede e la luce della fede: essa nasce quando la fede, mediante un movimento di appropriazione e di riflessione intellettuale, muove verso una conoscenza delle cose credute (fides quaerens intellectum), senza cessare per questo di essere fede. 

Un dialogo coraggioso, aperto, franco, sensibile e umile... con l'umanità contemporanea, con la ragione umana, le scienze... con tutto quanto concerne la giustizia sociale, i diritti umani, la solidarietà con i poveri... Un dialogo che sa ascoltare, dibattere, discernere e assimilare ciò che di buono e vero, giusto e umanamente degno viene proposto dall'interlocutore.

Lo scisma nella Chiesa Russa
fra il passato e il futuro
di Vladimir Zelinskij


Oltre alla Russia che occupa la settima parte del pianeta, da quasi 90 anni ne esiste un’altra, dispersa su tutta la terra. Queste due Russie non sono separate da confini territoriali, ma piuttosto da quelli ideologici; ciò che fu imposto come verità indiscutibile all’interno del paese non aveva nessun fascino per i suoi figli che si trovavano fuori. L’opposizione tra la “Russia rossa” e la ”Russia bianca” (se ammettiamo tale divisione schematica) ha trovato il proprio riflesso anche nel mondo ecclesiale, presentandosi come divisione netta e secca tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa Ortodossa Russa all’estero.

“All’estero” non è un termine geografico e nemmeno politico. E’ la denominazione ecclesiale creata nel 1921 in Serbia dai quei vescovi e sacerdoti della Chiesa Russa che insieme a due milioni di profughi hanno lasciato la Russia dopo la Rivoluzione del 1917. Ma a differenza dei greci che, cacciati nello stesso periodo dall’Asia Minore, avevano il proprio capo ecclesiale nel Patriarcato di Costantinopoli, i russi non potevano rivolgersi al patriarca di Mosca poiché si trovava sotto la mortale pressione esercitata da parte del regime – che per gli emigrati era il male assoluto, sanguinario. Così, in una situazione inaspettata per l’Ortodossia, che da millenni si appoggiava all’ecclesiologia della Chiesa locale sul territorio di una nazione, è nata una Chiesa con il suo gregge oltre le frontiere e che voleva salvaguardare a qualsiasi prezzo il suo carattere nazionale, non confluendo in altre Chiese locali. (1) Un altro punto del proprio programma era (ed in modo implicito rimane anche oggi) il restauro della monarchia con la famiglia imperiale Romanov nel momento in cui finalmente fosse finito il giogo bolscevico.

Il Patriarcato di Mosca che viveva sotto questo giogo fu costretto a reagire, tagliando con la Chiesa all’estero. Ma per quest’ultima un atto simile non aveva nessun valore; lo scisma era già iniziato. Nel 1931, la partecipazione di una diocesi russa - che rimaneva ancora sotto la giurisdizione del Patriarcato - alle preghiere interconfessionali celebrate a Londra in difesa della Chiesa perseguitata in Russia, portò il metropolita Serghij, capo della Chiesa di Mosca, a sospenderla a divinis. Per rimanere nella canonicità questa diocesi chiese l’omoforo (la protezione ecclesiale) di Costantinopoli. Così, oltre delle frontiere dell’URSS, si sono formate tre “Chiese-sorelle” russe in contrasto tra di loro - quella di Mosca, quella di Costantinopoli e quella all’estero, diffusa soprattutto in America, in Germania ed in Australia.

Per lunghi anni la Chiesa all’estero è rimasta fuori della comunione con la famiglia delle Chiese ortodosse canoniche, considerando se stessa come l’unica autentica Chiesa Russa: a differenza di quella a Parigi, che era scappata “sotto i greci” e, soprattuto, contro quella di Mosca che era diventata schiava di un regime ateo e blasfemo. Questo spirito, non privo dell’orgoglio di essere gli ultimi depositari della “Santa Rus”, ha creato una certa immagine di Chiesa vera, “pulita e ideale”. I suoi vescovi portano i titoli di Shiangai, di New-York, di Berlino, di Sidney, di Cannes, ma la loro bandiera è sempre russa-russa, non macchiata dal collaborazionismo con il nemico di Dio. Quando nel 1974, subito dopo il suo esilio forzato dall’URSS, il grande scrittore Soljenitsyn si è rivolto al III Concilio della Chiesa Russa all’estero con un suo appello all’unità ecclesiale in ambito russo, il metropolita Filaret, all’epoca suo capo, nella sua risposta ha ricordato una santa di San Pietroburgo del XVIII secolo, Xenia, una “pazza in Cristo”. Una volta venne al mercato e trovò una grande botte di miele; improvvisamente lei la rovesciò, tra lo stupore del popolo. Ma sul fondo di quella botte c’era un topo morto. Così, ha detto Filarete, è anche la Chiesa di Mosca; i dogmi, i riti, i sacramenti mandano profumi come miele, ma sotto c’è un topo morto: la sottomissione al regime dell’anticristo.

E quando la sottomissione non c’è più? Quando al posto dell’anticristo rosso ne è venuto un altro, “democratico” e variopinto, con il quale la Chiesa almeno non è più costretta a collaborare? Dopo il crollo del comunismo, per 15 anni questa domanda si è posta nella coscienza del clero e dei fedeli della Chiesa “bianca”. Finalmente, nel maggio scorso, il suo IV Concilio, riunito a San Francisco, ha proclamato solennemente la fine dello scisma. Più precisamente: del suo intento di ristabilire la comunione eucaristica con la Chiesa-Madre. Non si tratta di “tornare all’ovile” nel senso amministrativo, perché materialmente e giuridicamente la Chiesa all’estero vuole rimanere indipendente, ma piuttosto della riconciliazione canonica e spirituale. Questa decisione ha portato tanta gioia in alcuni ortodossi della Russia e dell’estero e ha provocato una certa amarezza in altri. Perché? La sfiducia nei confronti della Chiesa di Mosca è diventata parte dell’ideologia dei “zarubezniki” (seguaci della Chiesa al’estero), la propria ragione d’essere. La Chiesa di Mosca, affermano costoro, non ha ancora espresso un pentimento pubblico per il proprio “serghianesimo”. (2) Un peccato non rigettato si nasconde e può essere ripetuto. Già con i primi segni di avvicinamento fra Mosca e “l’estero”, quest’ultimo si è diviso in due, fra i partigiani e gli oppositori dell’unione. Ma il “serghianesimo” è comunque del passato e “i vitalibani” (3) - che vanno ripetendo che da Mosca “può mai venire qualche cosa di buono?” - sono una misera minoranza. Invece il problema che divide davvero le due parti della Chiesa Russa porta il nome ecumenismo. Nell’ottica della Chiesa all’estero il Patriarcato di Mosca non solo fa, ma anche confessa l’ecumenismo, cioè partecipa alla paneresia. L’ecumenismo è stato ufficialmente scomunicato negli anni ‘70 dal già citato metropolita Filarete. Questo anatema non solo rimane in vigore, ma anche rivela il tenore dell’anima di una Chiesa che da decenni ha vissuto con la coscienza di essere l’unica guardiana della verità in un mondo immerso nelle proprie colpe, nelle corruzioni e nelle cadute. Il documento finale del Concilio di San Francisco finisce con un concitato appello a Mosca (“col dolore nel cuore” davanti allo spettacolo del peccato della Madre) di uscire dal Concilio Ecumenico delle Chiese. In pratica, di rompere con l’ecumenismo.

L’appello non è ancora condizione sine qua non. Ma può diventarlo.

La storia dell’attività ecumenica del Patriarcato di Mosca è abbastanza breve, ma a modo suo drammatica. L’ecumenismo non era neanche pensabile nel periodo della persecuzione aperta e sanguinaria (1918-1943). E nemmeno al tempo della “protezione” staliniana. Nel 1948, quando Stalin volle fare dell’Ortodossia il proprio baluardo contro il Vaticano, l’ecumenismo fu risolutamente rigettato. Ma nel 1961, al culmine della persecuzione krusceviana, il Patriarcato entrò nel Consiglio Ecumenico delle Chiese - naturalmente con il permesso dello Stato (4) che trovava utile per sé continuare la propria politica anche con le mani e con le voci ecclesiali. La Chiesa da parte sua voleva semplicemente sopravvivere e mostrare la sua presenza sull’arena internazionale. Così il rapporto con le altre Chiese (le trattative teologiche con i luterani, i cattolici e gli anglicani) andava di pari passo con il servizio reso allo Stato in modo pubblico (“la lotta per la pace”, nella sua versione sovietica) ed anche in segreto (attraverso l’infiltrazione del KGB nell’ambito ecclesiale). Dopo il crollo dell’URSS questo ecumenismo è andato in crisi, crisi che è diventata poi più acuta con il problema del proselitismo cattolico, l’invasione delle sette, ecc. La Chiesa di Mosca, però, in nessun caso vuole irrigidirsi nella posizione “via, lontano da me” (Mt 25,41) nei confronti di tutto il mondo etero-ortodosso.

Ma ci sono anche altri punti caldi di discussione. Chi sarà il rappresentante degli ortodossi russi fuori Russia? Il vescovo di New-York, per esempio, sarà designato da Mosca o dalla Chiesa all’estero? Oppure le strutture parallele rimarranno come prima (oltre alla Chiesa ortodossa Americana, anche quella di origine russa)? A chi deve appartenere la proprietà della Chiesa all’estero in Terra Santa e che Mosca considera come sua? Ma il problema più aspro è quello delle decine di parrocchie della Chiesa all’estero create dopo il crollo dell’URSS, che si trovano all’interno della Russia (e anche dell’Ucraina). La loro identità stessa si trova in un’opposizione accanita a Mosca. Loro si sono già pronunciati contro qualsiasi unione col Patriarcato.

Ma è proprio l’ecumenismo che rimane il punto più cruciale del disaccordo. Certo, la Russia può arrabbiarsi contro tutti i proselitismi, congelare il dialogo, poi aprirsi di nuovo, rimproverare o abbracciare l’Occidente, ma il rapporto con esso, spesso difficile, è imprescrittibile alla cultura russa. Solo in Russia, però. Perché l’Europa, anche da nemica, fa parte della sua anima. Ma tanti russi all’estero (come molti convertiti all’ortodossia in Occidente) sono cresciuti con una nostalgia per l’”Eden dove voi non siete mai stati” (5) e con le spalle rivolte a quel deserto spirituale che li circonda in Occidente. “Per me la Francia è così estranea - mi disse in russo con un forte accento francese un vescovo della Chiesa all’estero - come qualsiasi altro paese del mondo”. Se questi atteggiamenti persistono nei prossimi anni, è più probabile che l’ecumenismo della Chiesa Russa faccia un passo indietro. Sì, ma fino al momento in cui la coscienza della cattolicità fraterna - che la luce di Cristo illumina - deve prevalere sull’ossesione di ricercare ovunque eresie. La storia, anche se oggi si discosta da quella luce, deve riscoprirla di nuovo nell’unità.

Note

1) Formalmente, la base ecclesiale della formazione della Chiesa all’estero è stato un decreto del 1920 del patrirca Tichon che ha concesso alle diocesi separate dall’autorità centrale durante la guerra civile il permesso di autogestirsi da soli.

2) Dal nome del metropolita Serghij (Stragorodsky) che nel 1927, sotto la pressione del regime e dello scisma interiore, dopo gli arresti di molti vescovi, intervenne con una sua famosa Dichiarazione nella quale proclamava non solo la lealtà della Chiesa ad un sistema nemico di Dio, ma in pratica anche la sua sottomissione morale.3) Dal nome del vecchio metropolita Vitalij che presiede la parte più “dura” della Chiesa all’estero.

4) A quell’epoca non si poteva neanche riparare una vecchia cinta intorno ad una chiesetta di campagna; immaginarsi l’entrata di tutta la Chiesa Russa nel CEC!

5) Dalla poesia di M.Tsvetaeva, poetessa russa.

Teologia ufficiale e religione popolare
di Thomas Römer *



La maggior parte dei testi dell'Antico Testamento proviene da un piccolo numero di intellettuali che tentarono, durante e dopo l'esilio babilonese, di riformulare la fede yahwista. Facendo questo, non si curarono affatto delle preoccupazioni degli «Ebrei medi», la maggior parte dei quali era rimasta in Palestina.

La distinzione tra «religione ufficiale» e «religione popolare» si è imposta da tempo alla sociologia della religione. Per conoscere la religione popolate ebraica di allora, lo storico deve leggere l’Antico Testamento tra le righe e prendere in considerazione documenti extrabiblici.

Lo studio dei nomi propri

I nomi che i genitori scelgono per i loro bambini sono un buon indicatore della religione popolare. Nell’antichità, questi nomi sono quasi tutti teofori, fanno cioè riferimento ad una divinità di cui essi esprimono un'attitudine, un'azione, o un augurio che gli si indirizza. L'Antico Testamento ha conservato, accanto a nomi teofori yahwisti (come Gionata: «YHWH ha dato»), numerosissimi nomi propri che si riferiscono a diverse divinità: Išba’al («Uomo di Ba'al»), Elqana («El ha creato»), Abram («Il Padre [l'antenato divinizzato] è innalzato»). Questi nomi non sono affatto un residuo dell' età arcaica. I testi biblici ed extrabiblici mostrano come nomi propri ebraici formati a partire da nomi di dèi stranieri sono ancora di moda nel periodo babilonese o persiano: Mardocheo («Che appartiene a Marduk»), Šinusur («Che Sin [Dio lunare] protegga»).

I teologi che hanno edito la Bibbia hanno mantenuto questi nomi che erano troppo diffusi e di cui certi elementi teofori (specialmente «El» e «Ab») potevano essere identificati con Yahwè. In alcuni casi, tuttavia, si è tentata una sorta di censura. Nei libri di Samuele, gli ultimi redattori hanno sostituito ad alcuni nomi in «Ba’al» la terminazione in «bošet»,: così Išba’al è diventato Išbošet («Uomo della vergogna»).

Le pratiche politeiste in epoca babilonese e persiana

Una grande parte della popolazione ebraica non deportata resta apparentemente attaccata alle pratiche politeiste. Parecchi testi che adottano la prospettiva della Golah (gli esuli a babilonia) criticano queste pratiche. Ezechiele (cap. 8) ci informa che, durante l'epoca babilonese, si celebrava a Gerusalemme il culto di Tammuz, un dio mesopotamico molto popolare la cui morte e resurrezione garantivano la fertilità del paese. Secondo lui, gli abitanti di Gerusalemme giustificavano le loro pratiche religiose col fatto che Yahwè avrebbe abbandonato il paese. Allo stesso modo, il culto di una dea chiamata la «regina del Cielo» era ancora molto diffuso al momento dell'esilio; si trattava di un culto familiare in cui le donne avevano il ruolo centrale. Il cap. 44 del libro di Geremia critica severamente questa venerazione.

I destinatari della critica per più si oppongono alla proibizione del loro culto:

«Anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto... nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (vv. 17-18).

Bisogna dedurne che l'abolizione del culto della Regina del cielo (probabilmente la dea Ašerah) era ancora in piena discussione nel giudaismo dei secoli VI e V a.C. Un'interessante testimonianza della sopravvivenza di una religiosità popolare ci proviene dai documenti della comunità ebraica insediata ad Elefantina, un'isola situata sul Nilo nel sud dell’Egitto, che ospitava una guarnigione militare in epoca persiana. In questa comunità che aveva il suo proprio tempio, si è continuato ad associare a Yahwè (Yaho) una dea. Così, si prestava giuramento «per Yaho il dio, per il tempio, e per l'Anat di Yaho».

Altri dèi vi erano parimenti venerati sotto i nomi di Ašam-Betel e di Haram-Betel. A dispetto di queste pratiche che dovettero fortemente dispiacere alla nascente ortodossia di Gerusalemme e di Babilonia, gli Ebrei di Elefantina intrattenevano numerosi scambi epistolari con le autorità religiose di Gerusalemme. Sembra anche che pagassero un’imposta ecclesiastica.

Tra rifiuto e integrazione

Come si doveva gestire il permanere di una religiosità popolare a carattere politeista nel momento in cui gli artefici del giudaismo postesilico avevano ratificato nella Torâ la venerazione del solo Yahwè e l'osservanza dei suoi precetti? Erano possibili due atteggiamenti: la condanna della religione popolare, oppure la sua integrazione nel sistema della teologia ufficiale. Come ci accingiamo ad esaminare a proposito del culto degli antenati defunti, entrambi gli atteggiamenti hanno trovato codificazione nella Bibbia.

Il culto dei morti giuoca un ruolo importante nella maggior parte delle religioni dell'umanità. È così anche per le religioni del Vicino Oriente antico. Consistevano nel portare cibo o altre offerte ai defunti per mantenere la continuità tra le generazioni e per ottenere prosperità e protezione. Così certe tombe, specialmente quella di un antenato del clan o della tribù, rivestivano un carattere sacrale. Isaia (65,4) parla di persone che visitano i sepolcri durante la notte, cosa che attesta la pratica di un culto dei morti in epoca persiana. I redattori del Deuteronomio hanno reagito a questa pratica proibendola. I riti di lutto sono dichiarati illeciti (Dt 14,1), come l'offerta di cibo a un morto (26,14).

Di fronte a questa pedagogia repressiva, i redattori sacerdotali adottano una diversa strategia. Essi cercano di integrare la religiosità popolare nella fede yahwista dando alla prima un nuovo senso. In Gn 23, un autore di ambiente sacerdotale riferisce l'acquisto della tomba di Abramo, che era senza dubbio oggetto di culto. Descrivendo l'acquisto di questa tomba come un banale atto immobiliare la pietà popolare è da un lato presa seriamente, dall'altro è contemporaneamente trasformata. Poiché Dio non interviene in alcun momento in questa storia, il lettore è invitato a comprendere che se i gesti e i riti legati agli antenati sono importanti, le tombe patriarcali non hanno, in sé, alcun valore sacrale.

L'atteggiamento della teologia ufficiale nei confronti della religiosità popolare oscilla tra rifiuto e «recupero». Questo doppio atteggiamento si vede ancora, anche ai nostri giorni, nelle tre religioni monoteiste.

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

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