Vita nello Spirito

Giovedì, 31 Agosto 2006 03:14

Delle vite sconvolte… (AA.VV.)

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Il primo, André Rochette, è partito quando aveva quarantasette anni per un ricerca non sapeva di che, verso l'India, su istigazione del suo maestro Arnaud Desjardin. La seconda, Hermes Garanger, è rimasta in Francia, ma per fare un viaggio interiore, un ritiro buddista di tre anni, tre mesi, e tre giorni. Il terzo, fratel Didier Maury, aiuta gli altri a superare le tappe di un cammino iniziatici. Tre itinerari, tre incontri.



Mi sono abbandonato…
(André Rochette)

A quarantasette anni André Rochette lascia la Francia per l'India, dopo un incontro con Arnaud Desjardin. Vi fa un'esperienza che sconvolge il suo essere: comprende che non è il padrone della sua esistenza. Da quel momento smette di voler essere attore e sceneggiatore della sua vita, si mette in condizione di dire “sì”.

“Nel 1979 sono partito solo per l'India. Era il primo viaggio della mia vita e fu come l'arrivo su un altro pianeta. Non c'era niente di simile che potesse scompigliare i miei funzionamenti. Più giovane, le cose sarebbero andate certamente in modo diverso, ma allora avevo dietro di me quarantasette anni di condizionamenti! Sono partito perché avevo bisogno di andare a respirare, di allontanarmi dalla mia vita, di fare il punto. Ero impegnato da alcuni anni in un cammino spirituale e tutti i miei punti di riferimento si erano messi a muoversi e a vacillare. In quel periodo di scosse interiori il viaggio in India si è imposto. Di fatto la mia partenza ha risposto più a una spinta interiore che a una vera decisione, Non avevo preparato il mio itinerario, non avevo alcun punto di appoggio, non parlavo né l'inglese né l'indiano; mi ero limitato a fare la valigia e a prenotare un biglietto di andata e ritorno. Ero pronto a lasciarvi la pelle, se era necessario.

“Perduto in New Delhi, mi chiedevo che cosa vi fossi venuto a fare. Ero semplicemente incapace di comunicare con chicchessia, di chiedere indicazioni sulla strada o di prendere un biglietto di bus o di tram. Sembra niente, ma non poter esprimere la propria volontà è qualche cosa di estremo. Sono andato errando per giorni, poi, alla fine, dopo immense difficoltà, ho potuto raggiungere una cittadina. La sera del mio arrivo, in mancanza di meglio e grazie alla buona volontà di alcuni indiani, mi sono ritrovato in una casa, a dormire per terra, senza mangiare, senza bere e senza speranza.

“L'indomani mattina si è prodotta in me una incrinatura fondamentale. Infatti poiché non sapevo più che fare mi sono consegnato interamente nella mani della Provvidenza. In questo abbandono, in questo “lasciare la presa” che ha preso posto nel cuore della mia paura e della mia disperazione ho sentito prodursi in me una distensione felice. Un istante indimenticabile perché ormai so che, qualunque cosa possa accadere, se nel più profondo di me può sopraggiungere questo abbandono, la pace può sopraggiungere nel colmo delle tempeste.

“In piena coscienza della mia incapacità di decisione. ho visto la Provvidenza entrare in azione: da quel momento in poi la vita mi ha fatto fare il viaggio che voleva che facessi, non quello che io volevo fare.

“Durante tre mesi, come per miracolo, o come per “caso” non ho più incontrato che persone che sembravano evidentemente sulla mia strada per aiutarmi , per guidarmi, per assistermi. Così, fra ottocento milioni di Indiani, ho incontrato un uomo al quale il mio maestro, Arnaud Desjardin, aveva reso un servizio dieci anni prima. Per riconoscenza si è preso cura di me. Con lui ho vissuto in mezzo agli Indiani, ho viaggiato, ho visitato luoghi, incontrato saggi. Siamo stati persino invitati a una festa di nozze a Madras, cosa che era del tutto improbabile! Attraverso questo periplo iniziatico, la vita mi ha dato una lezione magistrale: essa non aveva bisogno di me per condurmi là dove dovevo andare e fare le esperienze che dovevo fare. Non avevo che da lasciarmi andare. A poco a poco ho cominciato a funzionare in base all'intuizione: È quasi semplice: imparare a non resistere a ciò che è, e, al di là della confusione mentale e della paura, esercitarsi a sentire che cosa si deve fare e a obbedire a quel che si sente.

"Sottomettersi a ciò che è non è passività. Abbandonare tutto nelle mani di Dio è la risposta assoluta a tutte le nostre sofferenze. Il maestro indiano Swâmi Ramdas proprio come il pellegrino russo (1) si rimettevano completamente alla Provvidenza. Si accontentavano di pregare, senza mai sapere dove avrebbero dormito, né che cosa avrebbero mangiato. Ho pensato per molto tempo, io che avevo tante angosce, che occorresse molto coraggio per conservare tale atteggiamento. Ora non lo credo più. Semplicemente avevano fiducia. Non era un atto di coraggio, ma un atto di felice sottomissione. Si sentivano al sicuro con il divino. Allora non si può avere la minima paura.

Nota(1) Avendo perduto tutto, questo pellegrino si mette per strada per cercare l'uomo che possa spiegargli la parola di san Paolo: “pregate continuamente”. (Racconti di un pellegrino russo)

Estratto da Courage de changer sa vie, di Anne Ducrocq (Edition du Relié, 2003). A. Rochette ha d’altronde pubblicato in collaborazione con Gilles Farcet, Par l’amour de la vie (La table Ronde, 1997).

 


 

Ho imparato tutto da me…
(Hermès Garanger)

Ha ventinove anni, sembra averne diciannove e si esprime come se fosse l'incarnazione di secoli di sapienza. Glielo si dice e se ne diverte: “Quando ero ragazzina, il mio fratellino mi rimproverava di parlare come una nonna.” Si cerca di farla uscire dai gangheri, si moltiplicano le domande stupide, la si interrompe. Invano. lo sguardo di Hermès Garanger rimane limpido. Il suo volto sereno. le sue mani non tradiscono alcuna irritazione. Ascolta, risponde, si apre con una sincerità incredibile. “Non ho nulla da nascondere. Non ho neppure nulla da nascondermi”. Allora racconta…

Racconta prima di tutto la sua nascita, ventinove anni fa, in Scozia, in un monastero buddista dove i suoi genitori erano andati per fare un ritiro di una settimana, e dove invece sono rimasti due anni. Racconta poi il loro ritorno in Borgogna, l'acquisto di un castello e di un vasto terreno per edificarvi il monastero tibetano di Kagyu Ling; la scuola del villaggio al mattino, la vita in seno alla comunità nel pomeriggio, in un universo di lama, di monache e di laici. Racconta gli abiti color zafferano e gli strumenti di musica sacra che erano la sua compagnia quotidiana, Kalou Rimpotché, il suo maestro, che teneva per mano quando era molto piccola, “come mio nonno”, per giocare e chiacchierare. Lì si dilatava. “La scuola mi annoiava. Avevo dei compagni, andavo a giocare da loro, essi venivano da me, ma non mi ritrovavo nei loro interessi: le fattorie, le vacche, i trattori. Parlavano del loro avvenire. Per me non ne vedevo che uno solo: essere buddista praticante. Partire verso il mio intimo per liberarmi. Mi dicevano che non era un mestiere. Ma era la mia via.

A quattordici anni, l'età dei primi incontri e dei posters dei cantanti, Hermès fa il voto di castità. È deliziosa, ma evita di agghindarsi: nessun trucco né minigonna, nulla che possa sedurre un ragazzo. Difficile in piena adolescenza? “Era una scelta personale, insiste. E poi, non mi ricordo di aver attraversato una crisi di adolescenza.” A quindici anni e mezzo decide di seguire i corsi degli studi secondari per corrispondenza. Ma l'inizio delle scuole coincide con la preparazione di un gruppo al ritiro di tre anni, tre mesi e tre giorni. Fa parte del gruppo una persona sorda: Hermès è incaricata di assistere alle lezioni preparatorie e trascrivere per lei gli insegnamenti prodigati da un grande maestro venuto apposta dall'India. Risultato? Hermès … entra in ritiro, divenendo così la più giovane occidentale che abbia compiuto questa pratica. A fior di labbra essa ammette che questa entrata fu precoce, anche secondo i criteri asiatici, poiché i monaci tibetani non vi partecipano generalmente prima dei diciassette o diciotto anni.

Furono gli anni più belli della mia vita, dice con una luce negli occhi. Ho imparato tutto su di me, anche se la mia motivazione non era di ricercare me stessa, di cercare di comprendermi, ma semplicemente di imparare a meditare.” Così per tre anni, tre mesi e tre giorni Hermès è vissuta in una cella di nove metri quadrati con un angolo cucina dove si preparava i pasti. Programma: due rituali collettivi quotidiani, seduta di yoga, e soprattutto quattordici ore di meditazione solitaria ogni giorno su basi cambiate regolarmente dal maestro. Ossia duecento pratiche diverse, con le loro divinità, i loro mantra, i loro testi da recitare. E un immenso lavoro da fare su di sé, sulle proprie collere, sulle proprie emozioni. Il tutto secondo il programma ancestrale, quale è insegnato al Tibet da secoli.

Tre anni dopo da quella cella esce una giovinetta tutta nuova. “Una volta che si è retto a questa sfida, che si è rimasti tagliati via dal mondo, senza alcun legame con l'esterno se non qualche lettera insignificante, senza giornali, senza radio, ebbene!, dopo di questo si è solidi! Ho l'impressione che la mia vita sia incominciata da quell'uscita: il ritiro mi ha dato le basi sulle quali oggi posso costruire tutto”, confida. Le basi, e soprattutto un modo di essere: “Ho preso delle distanze. Quel che un tempo mi avrebbe irritato ormai mi fa sorridere. Mi è più difficile andare in collera, essere gelosa, provare sentimenti negativi: mi interrogo subito, mi analizzo anche prima che l'emozione possa esplodere. E comprendo che perdere l'autobus non è la fine del mondo e che anche se mi vengono i nervi, l'autobus se ne infischia. A che serve, allora?

Un simile stato d'animo deve essere mantenuto, concede la giovane. Non con un approfondimento di conoscenze teoriche o con la lettura di opere consacrate al buddismo, ma con l'esercizio di questi principi. Infatti in seguito ha moltiplicato i ritiri di qualche mese in India o al Nepal, si piega a una disciplina rigorosa: una o due ore di meditazione quotidiana, per ben esplorare i suoi angoli oscuri, quelli che potrebbero impedirle di continuare a trasformare le emozioni negative in emozioni positive. tanto che Hermès può affermare, senza batter ciglio: “Credo di conoscermi completamente. A rischio di sembrare pretenziosa, posso anche dire che sono padrona di me. Detto questo, mi resta ancora molto da imparare. Fino alla fine della vita, e poi in tutte le altre vite che verranno dopo.

Per quel che riguarda questa vita, essa accarezza il sogno di continuare il suo tirocinio incontrando vecchi maestri che meditano soli nelle grotte al più profondo dell'Himalaya. Attualmente è addetta alla produzione, ha persino realizzato degli scenari in questa prospettiva. Non le manca più che il produttore interessato dal progetto. Aspetta dunque, limando ancora altri progetti. Nell'indifferenza? “Non confondete indifferenza e non attaccamento, supplica. È impossibile essere indifferenti a tutto quello che avviene intorno a noi!

 


 


Aiuto gli altri a entrare nel deserto
(Frère Didier Maury)

Li aiuto a vivere il loro passaggio. Ad abbandonare le false sicurezze. Ad affrontare le prove che incontreranno lungo il cammino, quando saranno completamente sprovveduti.

Un vasto giardino circondato da edifici vecchi di un secolo, larghi corridoi, scalini di pietra che non nascondono la loro età, grandi scaloni in legno ben cerato. Per il neofita, il convento dei Carmelitani di Avon ha l'aria di un labirinto. Vi regna un profondo silenzio: a quest'ora mattutina i tredici monaci della comunità sono intenti alle loro occupazioni.

Fratel Didier pontifica in una grande stanza arredata in maniera assai sobria: un tavolino, alcune sedie, dei cuscini, dei libri. Nulla, assolutamente nulla che indichi la sua professione: iniziatore. Egli stesso confessa di non fare troppa pubblicità su questa parola che disturba perché troppo spesso comporta una consonanza esoterica. Terapeuta? Il termine gli sembra troppo carico di ambizioni: Passatore? “Perché no? Mi piace molto la parola passaggio, che esprime l'idea di un itinerario”.

Ed è proprio di un itinerario che si tratta. Un itinerario di due anni, che fratel Didier propone a gruppi di una quindicina di persone. Alla cadenza di un giorno al mese, li aiuta a superare le tappe di un “percorso iniziatico”. Un percorso, ed è bene saperlo prima di mettersi in cammino, disseminato di insidie, di lacrime, di solitudine.

Fratel Didier propone due strade per condurre a questa liberazione; la Bibbia e i racconti, secondo la via scelta da ogni persona. In collegamento con Catherine Gayet, che anima i laboratori di risveglio al movimento. Ma quale che sia la strada scelta, l'itinerario rimane lo stesso: rivivere l'essenziale del passaggio del popolo ebreo attraverso il deserto, in altri termini attraversare la morte per aprirsi alla rinascita e così entrare nella terra promessa.

Tutto comincia con “l'uscita dall'Egitto”. L'esperienza che ciascuno effettua, in qualche misura, alla metà della vita, verso i quaranta o cinquant'anni. “È un momento di crisi, in quanto i punti di appoggio su cui uno aveva costruito la vita cominciano a crollare”, constata fratel Didier. Su questo interviene in primo luogo, “per aiutare ad abbandonare un funzionamento troppo segnato dall'attività, dal sovrainvestimento sul mondo esteriore, dice. Mi colpisce una frase nella parabola del figliol prodigo: “Allora rientrò in se stesso…” (Luca 15,17). Quel giovane che era fuori di sé subisce un rovesciamento. Dopo aver vagabondato per il mondo, partirà verso la scoperta della sua interiorità, di Sé. Non è un viaggio tranquillo, ma lo credo essenziale“.

Allora fratel Didier invita a inoltrarsi nel deserto. Ad abbandonare le false sicurezze, a consentire a entrare nella solitudine. La vera solitudine, quella che si prova anche in mezzo a una folla. “Lungo la strada vi sono tentazioni di fuga, di compensazione, di regressione. Ma bisogna ugualmente avanzare, addentrarsi ancor più nel deserto. È una specie di iniziazione, un passaggio che opererà una trasformazione della persona. E ciò presuppone dei riti di passaggio improntati a un simbolismo morte-vita. La società occidentale ha abbandonato i suoi riti di passaggio, compresi quelli che un tempo erano garantiti dalla Chiesa. Vi è in questo una perdita di umanità, perché l'iniziazione è un modo di trasmissione del saper essere, è connessa con la sapienza della vita. Essa dà un senso, una direzione all'esistenza. Fare il collegamento fra il cammino iniziatico e il cammino pasquale è stata la mia scommessa, per aiutare le persone che incontro a ritrovare la strada di Dio nella loro vita concreta, rispettando quel che sono.”

Al cuore di questa esperienza c'è il passaggio attraverso la morte, il fondo dell'abisso. “Io stesso l'ho raggiunto in un periodo delle mia vita. confida fratel Didier. Mi trovavo in uno stato di desolazione. Tutte le mie relazioni erano tagliate: con me stesso, con gli altri, con Dio. Non mi rimaneva che la fede. Poi una mano si è tesa. Mi ha tratto fuori di là. Ho fatto l'esperienza di essere stato strappato alla morte.” Da allora fratel Didier restituisce il dono che ha ricevuto. “Do ai partecipanti i mezzi per uscirne. Li aiuto a vivere il loro passaggio. Ad abbandonare le loro false sicurezze. Ad affrontare le prove che incontreranno per la strada quando saranno totalmente sprovveduti. A dare senso alla loro vita. Ma soprattutto ad aprirsi a un altro sguardo che vede oltre l'apparenza. In una parola, a raggiungere la Terra promessa.” Quelli che frequentano gli “itinerari per una liberazione” non sono necessariamente credenti, anche se, egli dice,“nell'esperienza del deserto c'è l'incontro con Dio”. Che si può chiamare anche in un altro modo, che importa infine: il Dio di Didier Maury non se ne offenderebbe. “Non è né contabile, né moralizzatore, ma ha una libertà stupefacente“, dice.

Infine c'è il termine. “Il fine di tutta questa avventura”, ricorda fratel Didier. A questo momento l'iniziatore diventa levatrice: “Io faccio partorire quella parte di sé che per lungo tempo è stata lasciata in ombra: è il principe o la principessa che dorme in ognuno di noi e che arrivano a svegliarsi. I partecipanti imparano a scoprirli e nello stesso tempo a utilizzare tutte le risorse che erano in loro e che si rifiutavano di vedere. È una parte oscura, nascosta, preziosa. È davvero un peccato continuare a ignorarla…

Riaccompagnandoci, Didier Maury parla ancora. Occasionalmente evoca il suo proprio iniziatore, uno specialista di racconti. Poi parla del padre Abel Pasquier che è stato per venticinque anni in Africa, ha elaborato i racconti e l'iniziazione africana e fu suo professore all'Università cattolica di Parigi. “Mi ha trasmesso questa lettura iniziatica dell'esistenza. Il mio sguardo si è aperto.” Non sarà lei forse un pochino stregone, fratel Didier?

(da Actualité des religions n° 45)



Letto 4817 volte Ultima modifica il Lunedì, 24 Febbraio 2014 19:42
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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