Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Ebrei e cristiani un solo destino
40° Anniversario della Nostra Aetate
di Jean-Marie Lustiger*


Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell'arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l'enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia .

Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall'altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II.

Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull'appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d'oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società.

Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall'ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia.

Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall'esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l'umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica.

In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l'incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un'epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la 'riscoperta' tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze.

1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani - almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede - nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società.

Durante l'ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s'impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell'uomo, il bene non è definito dall'arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s'impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana.

La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l'accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell'altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l'uomo a cui è rivolta.

Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l'affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell'uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l'arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber...

Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall'interno l'arbitrarietà; essa mira a chiarire l'esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell'autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c'è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l'obbligo rispetto all'intera umanità di questa ragione politica?

Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia?

2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell'osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche.

Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l'osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell'ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell'esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica...

E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all'interno delle quali si situa la riflessione morale sull'agire umano personale e sociale.

Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz'altro sulla maniera d'intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un'interpretazione determinata da «Shemà, Israele (...) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell'agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell'amore di Dio e dell'amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell'amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12).

Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull'agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell'umanità.

L'esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l'amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l'ebreo, la pienezza della Legge: l'espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell'amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell'amore posto all'inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.

L'universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l'umanità.

3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull'universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l'insieme dell'umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani?

Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l'opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell'indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l'insieme dell'umanità è inscritta nell'origine stessa dell'ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l'annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l'unico Signore del cielo e della terra.

Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L'ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell'attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l'appartenenza al 'popolo ebraico'.

Allo stesso modo - si può concludere - il fatto d'essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell'esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture.

Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l'intera umanità? E a prezzo della negazione o dell'oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l'umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L'umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell'origine, non per imporla ma per aiutare l'umanità a decifrare il proprio destino.

Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell'esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale.

I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall'origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch'essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell'origine che garantisce la loro speranza.

Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un'umanità frazionata il richiamo all'unità più forte e più grande delle sue immense diversità.

4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l'originalità ebraica né l'identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l'universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto.

L'esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell'unità dell'umanità, figlia dell'Uno. Senza i cristiani l'ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l'ha generato?

Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l'incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell'unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia.

Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l'identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda?

Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola:

'Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri.
Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l'eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l'umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen'.

Così, per la fede cattolica l'identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l'espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina.

E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell'imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l'Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall'alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L'incontro - il legame - degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all'intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un'unità pacifica.

5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c'è di comune agli uni e agli altri che giustifica un'alleanza reciproca?

La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, 'la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1).

Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani - protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l'alleanza e l'elezione.

Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso.

In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s'inscrive nell'attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico.

Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall'esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell'altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d'accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l'insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande.

Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l'urgenza dell'appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l'altro, senza contemporaneamente fare violenza all'altro o penalizzarlo.

L'aspetto attuale dell'umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza.
Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l'opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l'umanità. Sono in gioco l'equilibrio e la pace nel mondo.

L'avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell'umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un'amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.

Roma, 27 ottobre 2005.

* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.

Armenia. Arte senza confini
di Herman Vahramian

«Quando un’idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l’opera». Il pensiero di Ananda K. Coomaraswamy, grande studioso dell’universo indiano, trova perfetto esempio nelle vicende dell’arte e della cultura armene. L’elemento costante e fondamentale che garantisce in esse la permanenza del senso nella permutazione delle forme, è un’ansia, una tensione metafisica verso un centro generatore, un “nodo” primordiale, archetipico. E, come questo è simile a un ventre materno universale, così la terra natale è chiamata “Madre Armenia”, originata dall’incombente entità della “madre-monte Ararat.

Ecco allora la dea Anahid, signora della fertilità, il cui nome significa “la Pura”, scolpita nell’oro che sarà il colore di Maria in tutte le terre mediorientali e in Russia. Ecco Vahagn, il dio guerriero che diventerà San Giorgio, l’uccisore dei draghi. Ecco il dio Aramazd, l’Ahura Mazda zoroastriano, e il culto del Sole (gli armeni sono chiamati Arevordì, “Figli del Sole”) il cui disco si trasmuterà nell’aureola cristiana. Ma con il martirio dei santi Bartolomeo e Giuda Taddeo, gli apostoli che avevano portato il Vangelo in Armenia, anche Aramazd si convertirà al cristianesimo.

Questo processo arriva a compimento nel 301, quando quello armeno diviene il primo popolo cristiano della storia. Il primato della conversione significa per gli armeni l’irrevocabilità nei secoli futuri della scelta fatta. Da questa scaturisce un modus vivendi che costituisce un amalgama quasi perfetto fra le nazioni e la cultura armena, da un lato, e la religione cristiana dall’altro.

La scelta religiosa e culturale operata dagli armeni rispondeva alle loro strategie di sopravvivenza come nazione. Dapprima impero, poi ridotta a entità territoriale omogenea e spartita in seguito fra Est e Ovest, l’Armenia fu oggetto nei secoli di devastazioni e stermini. Greci, romani, persiani, arabi, turchi selgiuchidi, mongoli, e ancora tartari, turchi ottomani e russi ne fecero oggetto di massacri e distruzione. Tra le cause (anche del genocidio) la posizione strategica del territorio e la ricchezza prodotta dai suoi abitanti. Ne derivano consistenti emigrazioni dall’Armenia storica (che comprendeva l’odierna Turchia, tutto il Caucaso meridionale e parte della Siria fino ai confini con la Mesopotamia) verso Bisanzio, la Cilicia, la Polonia, la Romania, la Russia. Flussi migratori che contribuirono alla costruzione di imperi, nazioni e città fino al lontano Bengala, alla Cina, all’Asia centrale. Gli armeni, oggi appena sei milioni sparsi in tutto il mondo, per definire la propria vicenda storica già nel Seicento coniarono l’espressione “genocidio bianco”, ovvero senza spargimento di sangue. Il popolo armeno si è reso presto conto di essere nell’arco della storia “fuori dalla civiltà” e si è aggrappato al cristianesimo come a un’ancora di salvezza. La ferrea adesione alla religione cristiana e la memoria di una costante persecuzione culminata nel genocidio sono le due chiavi, le due ideès fixes, con cui il popolo armeno osserva il mondo. Impossibile distinguerle, o peggio ignorarle, salvo a prezzo di un grave e pericoloso fraintendimento.

Capitale della Grande Armenia cristiana fu Anì. Già imponente fortezza e nodo strategico commerciale sulla Via della Seta, oggi è distrutta e abbandonata in Turchia. Col cristianesimo, e soprattutto nel Medioevo, Anì divenne la «città di mille e una chiesa». La sua cattedrale fu costruita nel 1001 da Trdat, l’architetto armeno che restaurò la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, distrutta da un terremoto nel 986. e per la cattedrale fu importato il lampadario più grande dell’India (X secolo), mentre varie campane tibetane furono sistemate nelle chiese minori.

L’architettura si era sviluppata a partire dal IV secolo d.C. in perfetta contemporaneità con la conversione. La cupola, elemento cardine dell’architettura armena, simile a una tenda appuntita, è la rappresentazione simbolica di un braccio, una mano chiusa e un dito che tendono verso il cielo. Se in principio il modello più diffuso è quello a pianta basilicale, a partire da VII secolo compaiono le chiese cruciformi che si svilupperanno sia in ambito cittadino sia monastico dando vita a complessi di squisita fattura. Ad aghtmar, sul lago di Van (oggi in Turchia), le superfici murarie si popolano di figure, divenendo un vero e proprio libro di pietra. L’architettura armena sembra rifiutare la vicina e potente Bisanzio per guardare direttamente all’Europa, divenendo così un ponte tra Oriente e Occidente. E non meravigli che i celebri pensieri leonardeschi sulla pianta centrale siano posti in relazione con una conoscenza indiretta degli edifici armeni.

A partire dal X secolo gli armeni, costituiti in compagnie di “maestri muratori” composte di maestranze e architetti, percorsero le strade dall’India all’Europa costruendo sinagoghe, caravanserragli, moschee, monasteri. In particolare nella regione balcanica centrale e a Costantinopoli buona parte degli edifici fino all’Ottocento è di fattura armena e perfino nel Taj Mahal in India operarono maestranze armene. C’è persino chi vede nelle compagnie di maestri muratori l’origine della massoneria. Fino agli anni settanta del secolo scorso, vicino al solco inferiore del basamento del duomo di Milano esistevano i logo dei maestri petrografi armeni, che qualche sovrintendente disinformato ritenne fatti con temperini da coppie di passaggio: furono inesorabilmente “armenizzati”, ovvero cancellati.

Con l’architettura gli armeni diffusero dal Golfo Persico fino all’India e al Tibet il simbolo di Cristo (khatch, “croce” in armeno, è una parola ancora oggi utilizzata in diverse lingue orientali) e con esso altri segni quali l’Albero della vita, le Porte del Paradiso (il tappeto posto sotto il feretro di Giovanni Paolo II conteneva questo simbolo armeno), il Sole ariano (o zoroastriano: la parola “ariano” nelle lingue orientali significa semplicemente “iraniano”) o svastica, che il nazismo nella sua foga predatrice adottò scambiandolo col simbolo opposto, quello della “morte del Sole”.

Vanto degli armeni sono i due santi monaci Mesrob e Sahak, che nel V secolo inventarono un nuovo alfabeto nazionale. Tradussero quel che era disponibile sul mercato della cultura occidentale (diversi testi antichi sono sopravvissuti solo in lingua armena) e avviarono “i secoli d’oro dello scritto e della parola”. I monasteri divennero università e soprattutto biblioteche (matenadaram, letteralmente “magazzini di codici”). Buona parte dei volumi fu depositata nei patriarcati e nei monasteri posti al di fuori del territorio armeno: da Gerusalemme a Venezia, da Vienna a Bombay fino all’Istituto Lazarev di Lingue Orientali fondato da un armeno a Mosca.

Fino alla Seconda guerra mondiale il libro (nono solo i testi sacri, ma il libro tout court) fu considerato sacro dagli armeni. Si racconta che durante il genocidio in Anatolia, agli inizi del Novecento, la Bibbia più grande del mondo, oggi nel matenadaram (Biblioteca nazionale) di Everan, fu tagliata in due da un capofamiglia perchè troppo pesante e la prima metà fu trasportata fino al mare e dorso di un mulo. L’uomo tornò dopo quaranta giorni per caricare l’altra metà e solo da ultimo recuperò la famiglia per salvarla dai massacri compiuti dai turchi.

L’alta considerazione dei libri si sviluppò anche in relazione al gesto efferato di Alessandro Magno. Egli bruciò tutto ciò che di cartaceo e pergamenaceo trovò sulla sua strada. Tra le innumerevoli biblioteche grandi e piccole che furono arse dietro suo ordine, la più famosa resta la Biblioteca Reale di Persepolis. E così il condottiero si guadagnò il soprannome di Guzhastak, che in pahlavide antico e in armeno classico significa “barbaro e portatore di sciagura e sventura”.

Per sopravvivere come entità etnica e religiosa gli armeni inventarono il camouflage artistico e culturale. Camuffamento è infatti la parola utilizzata da Arshile Gorkij (1904-1948), alias in armeno Vostanik Adoyan. Gorkij fu un esponente dell’arte d’avanguardia americana nota col nome di Action Painting. La sua fu una pittura autenticamente armena, che egli “contrabbandò” come arte americana.

Fino al XVIII secolo gli armeni esportarono in tutto il mondo conosciuto calligrafi, amanuensi, miniaturisti, pittori, e poi medici, chirurghi e soprattutto alchimisti. Naturalmente sotto nomi non armeni.

Tra le arti la lavorazione dei metalli raggiunse livelli di eccellenza. In Anatolia officine e fonderie realizzavano sculture in bronzo per Atene e per Roma. Si narra che Nerone ricevette in regalo dal re Tiridate I i quattro cavalli che oggi ornano la basilica di San Marco a Venezia. Dovunque in Medio Oriente gli armeni misero in relazione Est ed Ovest, agevolati dal fatto di “possedere” la Via della Seta, la grande strada commerciale e di comunicazione che collegava Oriente e Occidente.

Dall’Ovest gli armeni introdussero la civiltà greca e romana e molto più tardi i primi brandelli della nascente civiltà industriale europea, come la tecnologia tipografica (in quasi tutti i Paesi mediorientali il primo libro stampato fu opera di un armeno) e ancora, a partire dalla fine dell’Ottocento, la fotografia. Il genocidio annichilì la cultura armena, le cui manifestazioni persero la propria radice originaria per finire assimilate o usurpate da altre culture. Furono distrutti o dispersi i manoscritti, i gioielli, i tappeti e tutto ciò che costituisce parte di un patrimonio culturale. Furono spezzate le relazioni artistiche, sociali, commerciali e interrotte le vie di comunicazione. Malgrado ciò la cultura e l’arte armene sopravvissero in periferia. E facendosi forza della propria situazione marginale furono capaci di ritagliarsi una fetta di universalità, pur rimanendo sconosciute ai più.

(da I luoghi dell'infinito)

L'Immacolata Concezione
di Giordano Frosini

Il 150° anniversario della definizione del dogma è un'occasione propizia per riprendere il discorso su Maria. Sulla sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silenzio. E tempo di parlarne nei termini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.

Il cammino del dogma dell'immaco­lata concezione di Maria è lungo e anche alquanto accidentato. La defi­nizione del 1854 non è certo giunta impreparata, ma ha dovuto percorre­re un tragitto tutt'altro che agevole ed è ancora segno di contraddizione con le altre comunità cristiane, in partico­lare con il protestantesimo, che nella fede in Maria vede quasi il riassunto di tutte le storture bibliche e teologi­che della Chiesa. Quanto è successo si presta a considerazioni di ordine spe­culativo che rimettiamo a più tardi, dopo aver dato uno sguardo somma­rio alla storia che ha preceduto l'in­tervento infallibile del papa Pio IX. Ri­cordiamo anzitutto che immacolata concezione non è da confondersi, co­me spesso ancora succede, con il par­to verginale di Gesù da parte di Ma­ria: si tratta di un avvenimento prece­dente, che riguarda esattamente la con­cezione di Maria nel grembo della sua madre Anna. Concezione immacolata significa propriamente. che Maria, a differenza di tutti gli altri uomini, è sta­ta concepita, e quindi è nata, senza pec­cato originale.

Questo 150° anniversario della de­finizione del dogma è un'occasione quanto mai propizia per riprendere il discorso su Maria, sulla cui figura e la sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silen­zio, dopo gli eccessi ,e le esagerazioni del nostro passato. E il tempo di ri­parlare della Madre di Gesù nei ter­mini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.

UNA LUNGA STORIA DI SECOLI

La storia del dogma comincia ad­dirittura con un libro apocrifo, il Pro­tovangelo di Giacomo, databile nel se­condo secolo, il quale racconta che Ma­ria è stata concepita senza l'interven­to del padre terreno Gioacchino. La concezione che Maria sia la "Tutta­santa" (Panaghìa per gli orientali) è già presente nei primi secoli e ha una par­ticolare diffusione nel popolo cristia­no. Sant'Agostino, che pure è contra­rio alla verità della immacolata con­cezione, riconosce il substrato popola­re di questa devozione. Nel secolo set­timo si registra la festa liturgica rela­tiva in oriente e, dal secolo dodicesi­mo, in occidente.

Nel secolo successivo Eadmero, di­scepolo di sant' Anselmo scrive un Trat­tato sulla concezione della beata Maria vergine, dove contrappone la devozio­ne dei semplici e degli umili alla sa­pienza dei dotti e degli addetti ai la­vori. Lui si dichiara a favore dei primi. E su questa stessa linea che nel 1435, durante il concilio di Basilea, Giovan­ni di Romiroy chiede che si ponga li­mite alla discussione venendo incontro alla sensibilità del popolo cristiano, che si scandalizza quando sente dire che Maria è nata col peccato originale.

Melchior Cano ripete le stesse con­vinzioni nel secolo sedicesimo. Quan­do il popolo ode parlare del peccato originale presente anche in Maria, si sente "turbato, percosso, torturato". Pensieri espressi sempre più diffusa­mente da altri qualificati testimoni della fede della Chiesa, specialmen­te nell'ambito della Spagna. Nel se­colo diciassettesimo sorge un movi­mento promozionale che parte dalle università, comprendente addirittura un giuramento, per difendere la ve­rità dell'immacolata concezione fino all'effusione del sangue. Questo vo­tum sanguinis si diffuse fra gli ordi­ni religiosi, le confraternite e i fede­li. All'opposizione di Ludovico An­tonio Muratori fa da contrappeso il pensiero di sant' Alfonso de Liguori, che si appella al consenso dei fedeli e alla celebrazione universale della festa liturgica .

Un movimento che si prosegue e si intensifica col passare del tempo, fino a che "Pio IX chiede ai vescovi di appurare nelle loro diocesi «i senti­menti del clero e del popolo». Le ri­sposte positive suggerirono allo stes­so papa di affermare nella bolla lnef­fabilis Deus, con la quale l'otto di­cembre 1854 definiva il dogma, che egli con tale gesto intendeva «soddi­sfare ai piissimi desideri del mondo cattolico». .

L'opinione contraria dei dotti con­tiene il fior fiore del pensiero teolo­gico medioevale composto da Ansel­mo d'Aosta, Bernardo di Chiara val­le, Alessandro di Hales, Alberto Ma­gno, Tommaso d'Aquino, Bonaventu­ra. La ragione dell'opposizione na­scevadalla volontà di difendere la generale trasmissione del peccato ori­ginale in tutti i nati di donna e la uni­versale redenzione operata dal Figlio di Dio fattosi uomo. Fra i favorevoli rifulge la presenza di Duns Scoto con il suo argomento potuit, decuit, fecit e con l'affermazione che Maria era stata preservata dal peccato origina­le per merito della redenzione ope­rata dal Figlio.

Di tutto questo tiene conto papa Pio IX nella sua definizione, dove af­ferma: «La beata Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale». Si noteranno due cose: Maria è sta­ta concepita senza il peccato origi­nale, però anch'essa è stata graziata e salvata dalla redenzione operata dal Figlio.

Siamo al di fuori della rivelazione vera e propria, ma non possiamo di­menticare che quattro anni dopo la de­finizione del dogma, il 25 marzo del 1858, la Madonna stessa sembrò con­fermare l'intervento pontificio presen­tandosi a Bernadette Subirous con le parole: Qué soy éra lmmaculada Coun­ceptiou. Proprio cosÌ, sorprendente­mente usando l'astratto: «lo sono l'Im­macolata Concezione». Bernadette non si rese nemmeno conto dell'im­portanza di queste parole.

UNA STORIA SINGOLARE

Una storia singolare che va fedel­mente ricordata che la Chiesa celebra in quest'anno e in questi giorni. Una storia singolare anche per le scarse e insufficienti affermazioni reperibili nella sacra Scrittura. Il richiamo al protovangelo (Gen 3, 15), alle diver­se figure bibliche, agli scritti dei pro­feti, al saluto dell'angelo e a quello di Elisabetta, alla dottrina della nuova creazione e della presenza divina nel segno del tempio difficilmente posso­no essere presi come testi esplicita­mente e chiaramente probanti il fat­to che noi stiamo ricordando. Ci sono però in questi testi delle suggestioni e delle indicazioni che possono essere sviluppate ed esplicitate in questo sen­so. Si ricorda soprattutto il saluto del­l'angelo, con la misteriosa parola ke­charitomene, tradotta dalla Bibbia di Gerusalemme "tu che sei stata e ri­mani colmata del favore divino" e dal­la Bibbia interconfessionale "egli ti ha colmato di grazia". Nella Fulgens co­rona del 1953 Pio XII parla di un "fon­damento" del dogma nella stessa Sa­cra Scrittura.

E a questo punto che comincia la riflessione teologica attuale su que­sto singolare avvenimento, che fa an­cora gridare allo scandalo il mondo protestante.

E in questione anzitutto la con­cezione della Bibbia in rapporto al­la tradizione..Sola scriptura, dicono i protestanti. I cattolici si esprimono nella Dei verbum con qtìeste parole:

"La Chiesa attinge la certezza su tut­te le cose rivelate non dalla sola Scrit­tura" (DV 9), ma anche dalla sacra Tradizione. Non perché la Scrittura non sia completa, ma perché essa non esprime tutta la rivelazione chiara­mente ed esplicitamente.

La Tradizione interviene per chia­rificare ed esplicitare quanto da Dio è stato rivelato.

Una chiarificazione ed esplicita­zione che cresce nel tempo perché «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende in­cessantemente alla pienezza della ve­rità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8). Un cammino aperto teoricamente fino alla fine dei tempi. In questo con­testo non è solo la Tradizione antica che conta, ma anche quella che si manifesta nel corso del tempo. La Chie­sa è un organismo vivente e, come ta­le, aperto al processo della crescita. Non cresce la rivelazione, ma la com­prensione di essa. E il progresso può avvenire attraverso tre possibilità: la riflessione e lo studio dei credenti, l'esperienza data da una più profon­da intelligenza delle cose spirituali, la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevu­to un carisma sicuro della verità (cf. DV ivi).

Dalla breve storia del dogma pri­ma tracciata risulta che il progresso è avvenuto soprattutto attraverso il pri­mo mezzo, cioè la riflessione e lo stu­dio dei credenti, anzi attraverso la sen­sibilità e la coscienza del popolo cri­stiano, in qualche modo quasi con­trapposto alle convinzioni di non po­chi grandi teologi.

IL SENSO DELLA FEDE DEL POPOLO CRISTIANO

E qui si innesta una seconda ri­flessione teologica su cui ha insistito un testo alquanto dimenticato del conci­lio Vaticano II. Nel n. 12 della Lumen gentium si afferma: «L'universalità dei fedeli che tengono l'unzione dello Spi­rito Santo, non può sbagliarsi nel cre­dere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso del­la fede di tutto il popolo, quando "dai vescovi agli ultimi fedeli laici" mostra l'universale suo consenso in cose di fe­de e di morale».

La verità della immacolata con­cezione è un caso particolare, forse il più singolare, dell'applicazione di questo "sensus fidei" di cui il popolo cristiano è in possesso perché tutto quanto pervaso dallo Spirito Santo. I teologi parlano di un influsso priori­tario della fede popolare. Una fede che si è espressa non tanto con scrit­ti quanto con fatti e iniziative di or­dine cultuale e artistico (Stefano De Fiores). Quasi una conquista della te­nacia e della perseveranza del popo­lo cristiano. Questo potrebbe anche spiegare perché la festa dell'Immaco­lata sia la solennità mariana più cara al popolo cristiano. Un caso certa­mente interessante da un punto di vi­sta teologico. Un'occasione di rifles­sione su uno dei convincimenti tutt'al­tro che secondari del concilio Vatica­no II, che potrebbe anche avere altre applicazioni.

Il ritorno del dogma dell'immaco­lata concezione è anche un'occasione quanto mai opportuna per riflettere su quella verità del peccato originale di cui si parla molto poco e anche male ai nostri giorni. Un punto di dottrina sul quale, più che su tanti altri, è ne­cessario un processo di aggiornamen­to, richiesto diversi anni fa da Paolo VI, preoccupato del silenzio che cir­condava questo importante capitolo di fede cristiana. Il discorso non è affat­to semplice, ma si possono ricordare gli elementi più necessari pèr questa revisione.

IL PECCATO ORIGINALE

Mettiamo in disparte i doni pre­ternaturali che non hanno nessun fon­damento biblico. L'unico dono che Dio aveva fatto all'uomo ai primordi del­la sua esistenza era il dono sopranna­turale della grazia o dello Spirito San­to, attraverso il quale l'uomo era ele­vato alla dignità di figlio di Dio, fra­tello di Cristo, membro divinizzato della famiglia trinitaria. Il peccato era tale soltanto per coloro che l'hanno commesso (Adamo-Eva, il primo uo­mo e la prima donna, la prima comu­nità arrivata all'uso della ragione e della libertà); per tutti i discendenti il peccato è soltanto analogico, cioè non un vero peccato, ma lo stato che con­segue il peccato. E non sarebbe affat­to male smettere di chiamarlo pecca­to per non fare confusione. Sui di­scendenti grava soltanto la conse­guenza di quell'atto di ribellione com­piuto all'inizio dell'umanità: cioè la privazione della grazia, della vita di­vina, dello Spirito Santo. I progenito­ri dovevano trasmettere uno stato e non ce l'hanno potuto trasmettere per­ché lo persero per se stessi. Come un fiume che è stato bloccato alle sue ori­gini: l'acqua per forza di cose non scor­re più. Sulle conseguenze del peccato in noi dobbiamo fare un'operazione di pulizia. Il peccato non ha cambiato le leggi naturali della biologia e della fisica, ma soltanto il nostro stato inte­riore, che reagisce in modo diverso al­le sollecitazioni dell'esterno. Il para­diso terrestre non era il paradiso fi­nale: un luogo e uno stato in cui era­no presenti la morte, il dolore, la sof­ferenza, l'ignoranza e tutti i limiti del­l'esistenza umana, aggravati certa­mente dallo stato primordiale in cuj si trovava l'umanità. Era diverso il mo­do di reagire a essi. L'aggravarsi del-­la concupiscenza può essere anche spiegato con il peccato del mondo, cioè con la massa di peccati che l'uomo ha compiuto dopo e anche in conse­guenza del peccato originale. La giu­stizia di Dio è fuori questione perchéla consapevolezza del peccato e dello stato da esso determinato è contem­poranea alla promessa di salvezza at­traverso la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Le due cose avvengono in perfet­ta sincronia.

Tutta l'umanità ne è partecipe nel momento primo della vita, che è il momen­to della concezione, con una ecceZIOne: questo propriamente significa che Maria è nata senza il peccato originale. Si può dire, come si è sempre det­to, che il dono è sta­to fatto a colei che era destinata a diven­tare madre del Signo­re. Ma si può allarga­re la nostra conside­razione, dicendo che Dio voleva rico­minciare da capo. La parentesi del peccato è come saltata, si ritorna alla purezza delle origini, l'umanità si tro­va all'aurora di un nuovo giorno. Il lavoro di Dio continuerà nella nasci­ta verginale di Gesù, per rendere no­to a tutti che il mondo nuovo non è opera dell'uomo (in particolare non è opera dell'orgoglioso maschio, umi­liato perché reso inutile), ma soltan­to opera di Dio. Di Dio e di questa umile ragazza appartenente a un po­polo senza gloria e senza storia che, nonostante tutto, ha portato avanti nei secoli il segreto del lieto annunzio del­la salvezza.

LA VERA DEVOZIONE A MARIA

Vorrei discutere in ultimo il fatto che l'esenzione dal peccato originale è presentata nei documenti ufficiali co­me un privilegio singolare (altrettanto non sarà fatto per il dogma dell' As­sunzione, almeno se si sta al testo del­la definizione di Pio XII). Qualcosa che appartiene, dunque, solamente a Ma­ria. Si tocca qui uno dei passaggi più fecondi che si registrano oggi nella sen­sibilità della Chiesa, anzi delle Chiese: il passaggio dalla mariologia dell'esal­tazione alla mariologia dell'imitazio­ne. La prima ha certamente prodotto i suoi frutti, ma anche distaccato Ma­ria dal popolo cristiano che qualche volta, è innegabile, è perfino arrivato a esagerazioni e perfino fanatismi. Cer­tamente ha relegato Maria in un mon­do lontano che la rendono grande sì, ma quasi inimitabile, perché appunto arricchita di doni che appartengono soltanto a lei.

Fra vecchio massimalismo e mini­malismo, il concilio Vaticano II ha aperto un'altra strada: Maria riporta­ta all'interno della Chiesa, che diventa il modello e l'esempio di ogni esistenza cri­stiana e anche della Chiesa nel suo com­plesso. Una via bat­tuta anche dai papi post -conciliari, per i quali si può dire che la vera devozione a Maria comincia dalla sua imitazione. In questa linea si leggo­no la Marialis cultus di Paolo VI e la Re­demptoris mater di Giovanni Paolo IL Non si dimenticano le glorie, ma si sottoli­nea la necessità del­l'imitazione. Maria modello del popolo cristiano è diven­tato il titolo più ecumenico della Ma­dre di Dio.

Anche la liturgia della solennità dell'Immacolata ci porta alla stessa conclusione, ed è esattamente quello che fa Giovanni Paolo II nella sua en­ciclica. La terza lettura è incentrata sul­la "piena di grazia", annunciata sullo sfondo della prima lettura dedicata al peccato originale; la seconda, tolta dal­la lettere agli Efesini, ci ricorda che anche noi, pure in forme diverse dal­le sue, siamo "scelti prima della crea­zione del mondo, per essere santi e immacolati (immaculati è il termine usato dalla Volgata conservato dalla versione della CEI: la Bibbia inter­confessionale traduce più precisamen­te "senza difetti") al suo cospetto nel­la carità". Quello che è successo a lei prima avviene per noi dopo, ma il ri­sultato è lo stesso. Maria è perfetta­mente imitabile in tutte le sue ric­chezze, cominciando dalla fede per la quale, secondo sant' Agostino, ella con­cepì prima nell'anima che nel corpo. E la cosa è ancora più coinvolgente se pensiamo che Maria è più grande per la sua fede che per la stessa maternità divina.

La nostra meditazione termina co­sì con un atto di umiltà e con la fer­ma convinzione che il cammino di Ma­ria può essere anche il nostro cammi­no. Oltre il suo esempio, essa non ha altra cosa da dirci se non le parole pro­nunciate alle nozze di Cana: "Fate quel­lo che egli vi dirà". Ella rimane la Ver­gine del silenzio. Un augurio e un pro­gramma di vita.

Sabato, 03 Giugno 2006 21:10

Pentecoste

Pentecoste



Il risorto Signore–Dio, il pastore agnello, la vite, l’asceso è contemplato nella pentecoste come colui che invia il Consolatore-Spirito di verità. Spirito che la liturgia dispone ad accostare ripercorrendo, senza sovrapporle, la pluralità delle esperienze neotestamentarie: lucana, paolina, giovannea.

Il giorno della cinquantina. La chiave principale di lettura del brano degli Atti è il riferimento alla festa giudaica della pentecoste. Non a caso.

Originariamente essa veniva celebrata sette settimane dopo la pasqua come momento conclusivo dei lavori di raccolta e di mietitura delle messi. Si ringraziava Dio del dono del pane. Da qui la denominazione di festa delle settimane (hag shabu’ot). A partire con certezza dal secondo secolo a.C. Il cinquantesimo giorno diventa anche “festa delle alleanze (hag schebu’ot), specificatamente di quella cosmica con Noè, di quella patriarcale con Abramo, di quella sinaitica con Mosè.

Con particolare riferimento a quest’ultima, al punto che pentecoste diventa “il giorno in cui ci fu data la Torah”, giorno in cui, dirà Filone, “le dieci parole il Padre dell’universo le ha proclamate mentre la nazione era adunata, uomini e donne insieme”.Un insieme, prosegue la tradizione ebraica, caratterizzato da un “cuore solo” e dalla preghiera unanime: “pregavano Dio affinché dopo averlo accolto con favore, desse a Mosè un dono che li facesse vivere felici”. La legge appunto, data tra “tuoni,lampi, suono del corno e monte fumante (Es 20,18). Una legge, continua l’insegnamento rabbinico, a destinazione universale: “La voce di Dio appena pronunciata si ripartì in settanta voci, in settanta lingue, cosicché tutti i popoli la capirono e ogni popolo udì la voce nella propria lingua”,ma venne meno, ad eccezione di Israele (Atti 2/1-11).

Luca volutamente inserisce la pentecoste cristiana in quella giudaica a voler sottolineare una continuità di storia di salvezza. Il datore del pane e della legge oggi porta a compimento la serie dei suoi doni mediante uno spirito che scende e si posa, simile a lingua di fuoco, su uomini e donne “assidui e concordi nella preghiera” (At. 1,14); tutti insieme, come al Sinai, in attesa del dono promesso dal risorto (Lc 24,49), sorgente di vita nuova nella letizia (At 2,42-47), uno spirito dato nel fragore del tuono e del vento.

Oggi, proclama l’autore degli Atti, nasce l’alleanza nello Spirito, a destinazione particolare e universale. Il nucleo dei circa centoventi (Atti 1,15) riempiti di Pneuma è chiaramente giudaico, e con questo Luca precisa che è in Gerusalemme, proprio in quel luogo, che il Padre nello Spirito fa emergere la prima comunità post-pasquale del Figlio. E giudei, per nascita o per conversione (At 2,5,11,14) sono anche gli spettatori sorpresi dal fragore e sbigottiti dinanzi al fenomeno del “parlare in altre lingue”.

Nel medesimo tempo il testo indugia non casualmente, sulla diversità delle lingue, sull’elenco dei popoli e sul fatto che questi giudei osservanti provengono da ogni nazione che è sotto il cielo. A voler adombrare che ciò che accade in Gerusalemme è solo l’inizio di un cammino che vedrà coinvolti l’intera Giudea, la Samaria e gli estremi confini della terra (At 1,8). La sorpresa in Gerusalemme, è l’iniziazione degli apostoli alla molteplicità delle lingue, evento pneumatico reso necessario per poter narrare in forma comprensibile le grandi opere di Dio.

“E’ chiaro, scrive un esegeta contemporaneo, l’insegnamento: tocca alla chiesa assumere tutte le lingue dei degli uomini e tutte le culture di cui tali lingue sono l’espressione e il veicolo. Essa non deve condurre gli uomini a capire il suo linguaggio, ma parlare ad essi nel loro linguaggio. La sua vocazione universale le vieta di identificarsi con qualsiasi cultura particolare.

Il frutto dello Spirito (Galati 5/16-25). Il brano paolino fa parte della parentesi che l’apostolo rivolge ai cristiani della Galazia “chiamati a libertà. Perché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13). Paolo ha davanti a sé il quadro comunitario oscillante tra amore e mordersi a vicenda (Gal 5,15). Lo giudica invitando i battezzati a prendere coscienza della loro verità umana, verificabile dal comportamento:

- Se distruttori del dover essere comunitario pervertendo l’amore umano, il culto divino, la comunione ecclesiale e la dignità personale attraverso l’impurità la magia e l’idolatria, la divisione e gli eccessi della tavola (TOB), costoro devono sapersi creature “secondo la carne”. Espressione che in Paolo indica l’assoluta autosufficienza che si contrappone al dono di Dio in Gesù Cristo, lo Spirito Santo. L’io e il proprio desiderio sono il signore che orienta il pensare e l’esistere, nonostante il permanere nel contesto ecclesiale. Questo tipo di credente, anche se dice di tendere al bene, a una vita morale, di fatto finisce per produrre opere di morte e di disgregazione. Diventa trasmettitore di energie negative.

- Se liberi per una diaconia al fratello edificando la comunità con atteggiamenti positivi, cifra di un amore che si fa gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, mitezza e dominio di sé, costoro devono sapersi posseduti dallo Spirito perché camminano in esso adempiendone il frutto: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25). E uomo spirituale è colui che è reso libero dall’io, dai suoi desideri e da ogni legge esteriore per diventare dimora di uno spirito accolto e non contristato, guida che dischiude l’essere a un esistere il cui frutto concreto è una vita libera per amare.

Spirito, proseguono le brevi pericopi evangeliche tratte dai discorsi di addio di Giovanni, che svolgerà un compito di testimonianza e di guida alla verità (Gv 15,26-27; 16,12-15).

- Di testimonianza (Gv 15,26-27. Davanti all’ostilità presente e futura nei confronti di Gesù, di Dio suo Padre e dei discepoli, ostilità fatta di odioe di argomentazioni dotte (Gv 15,18-25; 16,1-4-7-15), gli amici di Gesù rischiano il dubbio, lo scoramento, la defezione. Ma essi non devono e non dovranno temere perché lo Spirito che procede dal Padre sarà inviato dal risorto glorificato quale consolatore e difensore nelle loro coscienze della ragione di Gesù e del suo messaggio. Nel processo del mondo a Gesù lo Spirito è l’avvocato difensore che testimonia a suo favore convincendo i discepoli della giustezza della sua causa. Tema che l’evangelista porterà a compimento in Giovanni 16,8-11.

- Di guida alla verità (Gv 16, 12-15). Gesù è esplicito nel dire che è in rapporto alla verità un “adesso” e un “quando”. L’adesso è il tempo storico di Gesù. Egli, che tutto ha ricevuto dal Padre, tutto ha detto ai suoi (Gv 15,15); ma questi sono al momento incapaci di coglierne fino in fondo il senso e le esigenze. Incapacità che sarà tolta “quando verrà lo Spirito di verità”, il quale non si discosterà dall’insegnamento di Gesù ma lo riprenderà conducendo i discepoli sulla strada della sua piena intelligenza. Lo Spirito diventerà per essi esegeta del mistero e del messaggio del Figlio e, conseguentemente, del Padre. Lo Spirito diventerà per essi guida al cuore della verità, annunciatore di una rivelazione restata fino allora non pienamente chiara. Sarà infine annunciatore, di “cose future”. “Spirito di profezia” (Ap 19,10), egli inizierà i suoi a saper leggere la storia alla luce di Gesù e del suo messaggio.

Conclusione. La molteplicità delle testimonianze converge nel rendere trasparente alla coscienza personale ed ecclesiale l’opera di Dio per l’uomo. Il Padre invia il Figlio, il Figlio invia lo Spirito, lo Spirito accolto genera un singolare modo di essere uomini. La sua presenza creatrice apre ad un esistere libero e agapico, nella gioia, pronto ad accogliere ogni lingua per comunicarvi la bellezza del dono di Dio; la sua presenza consolatrice e persuasiva conserva saldi nei giorni della prova; la sua presenza magistrale inizia ad una conoscenza piena di Gesù e della sua parola; la sua presenza profetica, rende capaci di leggere gli eventi con gli occhi di Dio; infine la sua presenza taumaturgica, chiara nella sequenza Veni sancte Spiritus, smaschera e guarisce la nostra incapacità di fare il bene e le nostre nevrosi attraverso la meditazione della Parola, il consiglio, l’aiuto psicologico. Nell’esperienza cristiana tutto è opera dello Spirito inviato, appunto, a “rinnovare la faccia della terra” (Sal 104).


Il battesimo della conoscenza
di Vladimir Zelinskij

Il rapporto tra la sfera umana e il resto del creato è diventato «il problema» da quando l'uomo ha capito di poter essere il peggior nemico del proprio habitat. La strada che ha preso la nostra civiltà – ne sono già visibili i tratti futuri - va verso la ri-creazione o la sostituzione del vecchio ambiente umano. La vegetazione e l'alimentazione, il clima e il tempo, gli organi del corpo, la riproduzione della nostra specie, e perfino il modo di pensare, di percepire, di conoscere il mondo, vivono un processo di cambiamento. Questa mutazione sembra svolgersi secondo un progetto nascosto, la cui realizzazione è sempre più a portata di mano grazie al miglioramento delle tecnologie. Lo scopo di questo progetto, una sorta di proiezione del nostro "io" collettivo sulla realtà, è la graduale «soggettivizzazione» del mondo, della sua trasformazione nella provincia dell’uomo conquistatore. L'inizio di questo processo si trova nella nostra stessa sete di conoscenza, che analizza il cosmo come c'è dato e impone ad esso la sua razionalità che «può andare molto spesso contro la razionalità inerente alla natura» (Ioannis Ziziulas).

Alcuni, anzi molti di questi progetti portano grandi benefici all'umanità. «I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano» (Mt 11,3). Oggi tanti cuori battono grazie alle vittorie della scienza umana; la terra, i mari, i fiumi ci nutrono oggi meglio rispetto a secoli fa. Sulle tracce di questi benefici, però, si fa strada - ancora clandestina - l'ideologia della sostituzione, dell'imposizione (a volte violenta) della propria legge alla struttura nascosta del creato. Il computer, con cui la famiglia umana fa tutti i giorni un numero incalcolabile d'operazioni indispensabili, ha la tendenza ad imporsi come rivale del nostro cervello; i geni, che biologicamente costruiscono l'enigma della personalità, sono già un libro aperto che possiamo domani riscrivere nel modo scelto da noi, e così via. Questa razionalità crea un suo universo denso e chiuso, come coagulo di energia intenzionale. Il mondo appena trasformato è più accessibile, meno misterioso, più sottomesso al potere dell'uomo che vuole perpetuarsi facendo del creato la continuazione di se stesso.

La conoscenza non è mai neutra perché nulla di ciò che l’uomo sceglie non è predeterminato dal suo orientamento interiore. Quando l'uomo conosce se stesso, il suo desiderio di conoscenza è già scelto da lui. La risposta alla domanda «Perché conoscersi?», esiste ancor prima che la domanda si ponga. Ovvio: per essere padrone di se stesso, per aumentare le proprie capacità mentali, per una volontà di potere… Oppure per capire il pensiero di Dio sull’uomo, per sentire la voce del mistero dentro la propria anima. Ogni conoscenza può diventare un avvenimento spirituale capace di portarci all'origine della nostra umanità, alla scoperta di essere stato voluto, concepito, amato... «Sei Tu che hai creato le mie viscere/ e mi hai tessuto nel seno di mia madre./ Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/ sono stupende le Tue opere». (Sal 138,14).

Così la conoscenza può diventare ascolto, dialogo con Dio. Il Suo nome non è evocato solo per contrastare il concetto della «sostituzione», con qualcosa di più religioso, ma per ricordare che esiste anche un altro tipo di conoscenza, quello «accordato» dall'ascolto e dallo stupore. Il sentire del creato è la radice della sapienza che può favorire la nascita ad un pensiero diverso. Il pensiero che nasce dallo stupore si muove verso la saggezza della memoria della creazione, del risveglio della nostra vera personalità, dell'incontro con il miracolo che il mondo è. L'uomo che si conosce, ricordandosi in Dio, si risveglia, comincia a vedere – con uno sguardo non sentimentale, ma piuttosto spirituale - la sua casa nell'universo come meraviglia. E cambia se stesso. Il suo «io» smette di fare il piccolo signore del mondo e il creato non è più il luogo del «non-io» da conquistare, da eliminare o da sostituire. Le opere di Dio non costituiscono più una provincia dell'ego umano. Invece dell'utopia dell'«egoismo universale» si fa strada il realismo biblico del riconoscimento. L'uomo si riconosce nel pensiero e nell'amore di Dio per riconoscere poi anche le Sue opere.

La riflessone che ci offre il cristianesimo orientale non è un'altra buona ideologia della salvaguardia del creato, ma un atteggiamento più sottile e certamente più difficile da attuare: il cambiamento del nostro sguardo sulle opere di Dio, la trasfigurazione del pensiero che scaturisce dal cuore umano. La conoscenza umana può nascere non solo dal «volere umano» di possedere l’altro (o le cose, o il creato), ma anche dalla scelta d’un amore da scoprire, d'un compito da svolgere. «I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle Sue mani annunzia il firmamento, il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la notizia» (Sal 18,2).

Davvero si può trasformare quella «notizia» nella conoscenza del mondo? Crediamo di sì, se la conoscenza di tutto ciò che può essere visto, toccato, pensato proviene dalla comunione con Colui che non può essere né visto, né toccato e neanche pensato.

Come si può entrare in comunione con l'opera di Dio? Non esiste una risposta semplice. Ma ciò che non si può spiegare, si può a volte mostrare, invitando la nostra intelligenza a soffermarsi nel luogo privilegiato dell'incontro con Dio: la preghiera. La preghiera è una forma di conoscenza nella quale confessiamo che tutto ciò che è chiamato ad essere, viene dalle mani del Signore. «Tu, Signore, hai voluto trarre dal nulla/ all'esistenza tutte le cose,/ e con la Tua provvidenza costruisci il mondo./ Dinanzi a Te trepidano le potenze dei cieli,/ a Te inneggia il sole,/ Te glorifica la luna./ Le stelle sono tornate a Te, / luce Ti ascolta./ Al Tuo cospetto tremano gli abissi/ e per Te le sorgenti lavorano./ Hai steso il cielo come una tenda/ e reso stabile la terra sulle acque./ Tu infatti, Dio indescrivibile,/ senza principio e inesprimibile,/ sei venuto sulla terra,/ hai assunto la forma di un servo/ e sei diventato simile all'uomo./ Nella tua infinita misericordia, Signore,/ non hai sopportato di vedere il genere umano/ tormentato dal demonio,/ ma sei venuto e ci hai salvati».

Nella tradizione della Chiesa ortodossa questo inno è letto per la benedizione dell'acqua che precede il battesimo. Il rito della benedizione si svolge non soltanto nel tempio, ma anche all'aria aperta. L'acqua è da sempre simbolo della vita, una materia «animata» del mondo: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque», dice il secondo versetto della Bibbia. L'uomo prende l'acqua come materia, e la fa «simbolo», cioè legame fra il mondo visibile ed invisibile. Ormai lui è il sacerdote dell'acqua, dell'elemento cosmico, che ci porta agli elementi principali della rivelazione di Dio nel cosmo. La memoria sacra della creazione, del peccato originale, della redenzione, della morte e della risurrezione del Cristo sono sintetizzati nella benedizione dell'acqua che è "corpo materiale" del sacramento. Ogni sacramento è la manifestazione di una realtà dello «spirito di Dio». Perciò la preghiera che noi abbiamo citato fa parte della liturgia della festa d'Epifania nella Chiesa Ortodossa.

La manifestazione di Dio avviene costantemente in questo mondo. La prima risposta dell'uomo è lo stupore e poi la «simbolizzazione» del creato. Il compito dell'uomo è sacerdotale: sentire il Verbo che era «in principio» in ogni cosa ed esprimerlo nel messaggio, nell'immagine, nel sacramento. Tutto può essere sacramento, il luogo dell’epifania di Dio: acqua, sole, stelle, luna, sorgenti, abissi... Anche se non dobbiamo dimenticare che il mondo è colpito dal peccato, che getta la sua ombra non solo sull'uomo, ma tramite l'uomo anche su tutta la materia.

L’inno che abbiamo proposto ci ricorda la «storia» vissuta da Dio, la storia della salvezza, l'anamnesis in senso liturgico. Non si tratta solo del ricordo di un avvenimento lontano, ma la memoria di un fatto presente fin dal momento costitutivo della nostra esistenza. Nell’inno vengono descritti gli atteggiamenti del creato, faccia a faccia con il suo Creatore, il cui volto è invisibile. In questo modo di essere davanti al Creatore ogni creatura esprime il suo modo di essere per Lui e con Lui. Così entriamo in quella liturgia cosmica che anche la nostra conoscenza può celebrare. In altre parole, abbiamo la possibilità di vivere e confessare il dono che è costituito dal nostro essere davanti al Mistero che ci attira, ci chiama, ci trasfigura. Quando seguiamo le tracce delle creature, come «stelle tornate a Te», come «luce che Ti ascolta», percepiamo il modo più appropriato di conoscenza del mondo: la sapienza. La sapienza è una modalità di pensiero che «non nasconde i benefici» di Dio, ma piuttosto li scopre, li confessa. La sapienza è la conoscenza «battezzata», rivestita in Cristo, che apre i nostri occhi alla luce della creazione, e le orecchi alla prima benedizione, quando «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31).

La sapienza è la ricerca di questa «bontà», celata e rivelata; la ricerca di tutto ciò che Dio vide e benedisse. Essa illumina lo sguardo e ci insegna a vedere l'inizio della creazione nel dialogo con quel «Tu» che ci ama. La conoscenza battezzata ci porta al nostro «io» autentico, chiamato alla vita da Dio e con Dio. Dalla «polvere del suolo» da cui l'uomo era stato creato, l’ego umano si converte al segreto, all'inconcepibile personalità della creazione. Nella memoria che osiamo chiamare eucaristica - perché si tratta della comunione vera e propria - l'uomo entra in colloquio con l'amore che Dio ha manifestato ancora prima della creazione. Questa memoria è un modo di vedere chiaro e di rispondere al Creatore. Dalla trasparenza della fede, dallo stupore della gioia proviene un altro tipo di conoscenza che non cerca il potere, ma piuttosto il segreto di saper dire grazie.

«Fateci posto nei vostri cuori» 2Cor 6-7
di Karin Heller


Da qualche anno, sia la Chiesa cattolica in Europa sia quella nel continente americano si trovano di fronte a una crisi grave e seria. Sugli schermi della televisione, come pure presso altri mass media, sono presentati al grande pubblico comportamenti scandalosi che scuotono vescovi, sacerdoti e l' intero popolo cristiano. Un approccio sbrigativo della situazione tende a dividere i protagonisti in due categorie: le vittime e «i responsabili». Le vittime sono innanzitutto i bambini di ambo i sessi e le donne; i responsabili sono i sacerdoti e i vescovi che hanno agito o taciuto a diversi livelli.

In questo contesto intendiamo commentare i cc. 6 e 7 della seconda lettera ai Corinzi. Il titolo scelto per la nostra riflessione permette di intuire che i problemi posti da questi misfatti non possono essere risolti semplicemente con la detenzione degli uni e con il riconoscimento pubblico del torto subito degli altri. Sappiamo dalla psicologia moderna che ferite di questo genere lasciano impronte indelebili nell' esistenza delle vittime nonché in quella di coloro che sono alI' origine di tali abusi. La giustizia umana svolge una funzione preziosa, ma non basta. Chiediamo di essere aiutati anche dalla parola di Dio, come la troviamo nelle due lettere alla comunità di Corinto.

Tale comunità non è certo un modello esemplare di vita nella gioia e nella pace. Dobbiamo avere il coraggio di non idealizzare la vita delle prime comunità cristiane e leggere sino in fondo le realtà quotidiane dei nostri antenati nella fede. Malgrado le diversità di cultura, di epoca, di contesto storico, politico e religioso, la vita di queste comunità era animata da difficoltà e da scandali che rispecchiano a diversi livelli le realtà delle comunità di oggi.

Il cuore di Corinto batte nel porto, anzi, essa è la «città regina dei due mari». La posizione geografica favoriva una ricca attività economica e quindi finanziaria. Anche la presenza dei templi pagani contribuiva alla ricchezza della città. Infatti la prostituzione sacra prosperava grazie a uomini e donne che si tenevano a disposizione dei passanti e pensavano di rendere onore alle divinità. Fra queste l'Afrodite Pandèmos o Venere popolare, la dea dell'amore, riscuoteva grande successo. Intale contesto, si comprendono le difficoltà di Paolo per l' evangelizzazione. Senza voler paragonare la situazione incontrata da Paolo con quella di oggi, il testo che commentiamo può illuminare i nostri dibattiti poiché mette in luce realtà fondamentali e comuni alle due situazioni. Esse sono in particolare il rapporto fra la comunità e i suoi capi, il tema del fare un posto nel cuore e quello della consolazione.

Pastore e comunità cristiana: verso quale rapporto?

Il tema del rapporto fra l' apostolo e la comunità copre i sette primi capitoli della lettera. Il problema posto coinvolge Paolo stesso, altri pastori chiamati «superapostoli» (2Cor 11,5) e i fedeli. Costoro, volendo abbracciare la sapienza del mondo, rigettano il mistero pasquale (1Cor 1,17-3,4). Ne viene una divisione della comunità (1Cor 1,11-17) ed è messa in dubbio l'autorità di Paolo (2Cor 11 ). La situazione richiama un tema di attualità, quello del rapporto fra pastori e comunità cristiana: è un rapporto sempre da costruire, da mantenere e da rinforzare. Nella seconda lettera ai Corinzi questo rapporto è preso e ripreso a partire dal tema della riconciliazione. E stupendo il fatto di poter scoprire il posto centrale di questa tematica nell' argomentazione paolina. Questo fatto sottolinea fortemente che i buoni rapporti non sono dati per scontati. Essi sono il frutto di lunghi e penosi sforzi che consistono nel superare le distanze fra gli uni e gli altri, create da opinioni diverse, ferite, colpi bassi, maldicenze, cecità e sordità spirituali.

Per curare questa malattia che consuma la comunità, Paolo indica come rimedio la riconciliazione. Essa è inscindibile dalla persona di Gesù Cristo e dalla fede in lui. Solo lui è capace di esercitare il ministero della riconciliazione, avvicinando gli uni agli altri per mezzo della sua morte sulla croce in vista di un popolo solo (Ef 2,14-18). Perciò Paolo stesso, i pastori, capi della comunità, e tutti i fedeli sono permanentemente chiamati a fare memoria di Gesù.

Il c. 6 presenta in particolare la dimensione esistenziale di questo ministero. Per Paolo, l'autenticità di esso si riconosce grazie a una serie di prove subite nella propria carne. La lista è particolarmente lunga: «...in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza, nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fati- che, nelle veglie, nei digiuni...». La lista può sconvolgere i lettori. Non ha forse molto a che fare con l'idea di riconciliazione presente nella nostra mente. Difatti, quante volte essa appare legata all'immagine di uno che alla fine accetta di perdere la faccia, mentre l' altro celebra la propria magnanimità. Oppure l' immagine della riconciliazione si riduce a quella di un' assoluzione data in maniera sbrigativa e distratta in un angolo oscuro di una chiesa.

La pagina di Paolo mette invece in risalto un processo di riconciliazione progressivo, mai concluso definitivamente, e sempre da riprendere. Il ministero di riconciliazione impegna lungo la vita colui che ne è il ministro, nonché colui che ne è il beneficiario. Senza dubbio, Paolo parla e agisce partendo dal fatto che egli stesso è dapprima stato riconciliato da Dio con Dio e con se stesso (Gal 2,19-20). Egli esercita il ministero della riconciliazione radicato in Cristo, «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Non c' è motivo per Paolo di essere orgoglioso o di considerarsi superiore agli altri. Paolo è costantemente cosciente di ciò che Cristo ha fatto per lui quando egli stesso era peccatore.

È solo questo che spinge l'apostolo a superare le ferite ricevute dai responsabili e dai fedeli della comunità di Corinto. Seguendo Cristo, Paolo è venuto per servire e salvare uomini peccatori. Configurato a Cristo sconosciuto, afflitto, punito, povero, moribondo (6,9-10) e malgrado ciò che è accaduto, Paolo non cessa di offrire il soccorso del ministero della riconciliazione ai corinzi mentre egli stesso è bisognoso, perchè cerca un segno di compassione da parte della comunità di Corinto: «Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Il nostro cuore si è tutto aperto

I vv. 11-13 del c. 6 costituiscono una sorta di vertice rispetto al difficile rapporto fra Paolo e i cristiani di Corinto. Solo in questo passo si incontra l'espressione «corinzi» con la quale Paolo interpella direttamente i protagonisti. In questo modo, l' apostolo passa da un'esposizione quasi teologica del tema della riconciliazione a un modo di parlare intimo, presentato in tono confidenziale.

Il contenuto è guidato da due realtà fondamentali della vita umana che rappresentano pure i temi chiave della Bibbia. Si tratta da un lato del tema della bocca, organo indispensabile di comunicazione per mezzo della parola, e dall'altro di quello del cuore. Quest'ultimo è «il concetto antropologico più usato dell' Antico Testamento»; esso è «la sede dell'attività dell'intelligenza e della volontà. Il leb o lebab (cuore ) è la persona capace di riflessione e di scelta, la persona interiore».

Proprio in questo senso devono essere intese le parole di Paolo. Il suo cuore, capace di riflessione e di scelta, è tutto aperto a favore dei corinzi. Quest' apertura impliica che non c'è posto nel suo cuore per l'ambiguità e la menzogna. Perciò dichiara: «La nostra bocca vi ha parlato francamente» (6,1.1). Inoltre, il cuore di Paolo è paragonato a uno spazio aperto dove i corinzi non possono sentirsi allo stretto. In altre parole, nel suo cuore, c'è posto per tutti. Questa interpretazione è appoggiata sul senso stesso della parola greca choreo (far posto) che significa «far spazio sufficiente per contenere»; l'idea di Paolo è quella di «far spazio sufficiente per contenere tutti». Anche i corinzi devono aprirsi e a loro Paolo chiede: «Aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Segue una breve esortazione (cf. 6,14- 7,1) circa una scelta radicale da fare. Paolo afferma che c'è una fondamentale incompatibilità tra Cristo e Beliar. Quest'ultimo nome può essere identificato con beliyya ' al, una forza malvagia, cattiva, personificata, com'è attestato dal Primo Testamento. 2Cor 6,14-15 è l'unico passo nel Nuovo Testamento dove ricorre questo nome. Esso, sempre associato alle tenebre, sottolinea un legame forte con le forze della morte. Inoltre, l'apostolo mette in risalto .l'incompatibilità fra il tempio di Dio e gli idoli, e afferma un impossibile collaborazione tra un fedele e un infedele (6,15- .16). C'è un legame forte tra queste affermazioni paoline e l'esortazione deuteronomista di scegliere fra la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, il bene e il male (D t 30,15-20).

Per questo motivo, la riflessione di Paolo si colloca nella linea della letteratura sapienziale che privilegia le tematiche della scelta radicale, dell'orecchio che ascolta (Pr 22,17-18), del figlio che accoglie dal padre insegnamenti di sapienza (Pr .1,8; 5,1-2), della bocca degli stolti e della lingua dei saggi (Pr 15,1-5), della sorte diversa degli empi e dei giusti (Sap 1-3). Nel contempo, le riflessioni sapienziali mettono in risalto il tema del popolo in cammino guidato dalla presenza di Dio per mezzo del santuario (Sap 10,15-19,22). Paolo riprende tutte queste tematiche quando ricorda ai corinzi che essi sono il tempio del Dio vivente, osservazione che introduce una serie di citazioni del Primo Testamento (6,16-18). Il tema del tempio a sua volta lo conduce a insistere sulla purificazione «da ogni macchia della carne e dello spirito» (7, l), per accedere a un rapporto intimo con Dio com' è quello fra un padre e un figlio, un padre e una figlia (6,17-18).

Alla fine dell'esortazione è ripreso il tema della bocca e del cuore. L'appello al cuore come sede di riflessione, di intelligenza e di volontà è la cerniera dell'intera argomentazione di Paolo. Di nuovo, il testo mette in risalto la franchezza con la quale Paolo ha parlato (7,4 ). L'apostolo esclude ogni condotta ingiusta verso la comunità e trova ragioni per vantarsi dei corinzi (7,2.4 ). Nell' atteggiamento di Paolo si trovano tracce del volto di Dio sposo che parla al cuore della sposa (Os, 2,16). Difatti, le affermazioni di Paolo evocano le parole di uno sposo che dice alla sposa: «Tu sei nel mio cuore "per morire insieme e insieme vivere» (7,3). Quindi, il problema ultimo di questa pagina paolina è alla fine quello dell'amore, l'unico capace di fare un posto autentico all' altro poiché attinge alla mutua comprensione, alla comunione di pensiero.

Dio unico consolatore per mezzo degli uomini

Il tema della consolazione è senza dubbio una tematica centrale dell'intera lettera. Si può addirittura affermare che 2Cor 1 è il grande capitolo consolatorio del Nuovo Testamento. Nel testo che commentiamo, il tema della consolazione si articola in modo seguente: è Dio che consola; lo fa con la venuta di Tito da Paolo; Tito porta con se la consolazione che ha ricevuto dai corinzi (7,6-7). La consolazione divina avviene, quindi, per mezzo degli uomini. Questa tematica non è nuova. Essa caratterizza difatti le attese messianiche secondo le quali uno dei nomi del Messia sarà Menachem, cioè Consolatore. Di conseguenza, la consolazione ricevuta da Paolo non è un qualsiasi «conforto», perchè egli si sente destinatario di un'azione divina, la cui caratteristica è quella di essere efficace.

Tutto ciò ci conduce a una riflessione sulla peculiarità del concetto biblico di consolazione. Il significato di base del termine greco parakaleo è «chiamare vicino a se». Per estensione, significa chiedere consiglio o aiuto, esortare, ammonire, consolare. Il sostantivo parakletos può essere tradotto con avvocato, difensore, intercessore. Questi termini evocano una situazione difficile, qualche volta disperata, dove si rischia addirittura la vita. Ne abbiamo un esempio tipico nel libro di Daniele. Susanna è condannata a morte con l'accusa di adulterio. Sul cammino verso l'esecuzione trova in Daniele un difensore, avvocato, che farà luce sulla condotta malvagia dei due accusatori. Egli farà condannare i due malfattori mentre Susanna è riconosciuta innocente (Dn 13).

Il passo appena citato ci introduce nel cuore stesso della consolazione com' è intesa dalla Bibbia. Il punto di partenza è il problema di una persona innocente che subisce un'ingiustizia. La persona si rivolge a Dio come suo avvocato. Dice, difatti, Susanna a Dio: «lo muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me». Il Signore allora «ascoltò la sua voce» e «suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele» (Dn 13,43-45). L'intera azione di Daniele è condotta sotto la guida del santo spirito di Dio.

Questa tradizione è mantenuta nel Nuovo Testamento dove lo Spirito consolatore è dato a Gesù nel momento del battesimo (M t 3,16-17 e par.). Il Vangelo secondo Giovanni tramanda la rivelazione data a Giovanni Battista: «L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo» (Gv 1,33). In Gesù è quindi data la consolazione permanente per mezzo dello Spirito. Da qui si capisce che il Nuovo Testamento attribuisce sia a Gesù sia allo Spirito di Dio il titolo di paracletos (Gv 16,5-15; 1Gv 2,1).

L' esperienza dei discepoli descritta da Gesù nel Vangelo secondo Giovanni corrisponde alI' esperienza di Paolo avversato dalla comunità di Corinto. Paolo è sicuro di non aver fatto nessun torto ai cristiani di Corinto. Egli si dichiara innocente: «A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato» (2Cor 7,2). Perciò «Dio che consola gli afflitti» non lo ha abbandonato. Di fatto Paolo si sente consolato e passa dalla tristezza alla gioia: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia» (2Cor 7,4). Concretamente è Tito che reca consolazione a Paolo. Portandogli buone notizie della comunità.

E la comunità stessa diventa fonte di consolazione. Tito stesso ha ricevuto dai corinzi la consolazione (2Cor 7,7). Costoro si erano rattristati a motivo della lettera inviata da Paolo (2Cor 7,8). Però tale scritto aveva generato in loro una tristezza «secondo Dio», cioè un salutare pentimento. Ed è proprio questo che consola Paolo, che può ora contare decisamente sulla comunità: «Mi rallegro perchè posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7,16).

Conclusione

Come abbiamo accennato nell'introduzione, queste pagine di Paolo sono istruttive per la situazione tragica nella quale si trovano molte comunità del vecchio e del nuovo continente. Questi insegnamenti possono essere riassunti nel modo seguente.

I rapporti fra pastori e comunità sono sempre da costruire, da mantenere, da rafforzare. Si tratta di un processo lungo, progressivo e spesso anche difficile. Pastori e fedeli non sono mai come li abbiamo sognati, desiderati, voluti e anche idealizzati. La realtà della vita in comune comporta sempre la tentazione del culto della persona: «"lo sono di Paolo", "lo invece sono di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!"» (1Cor 1,12). Si tratta della tentazione tipica dell'idolatria. Il problema è proprio quello di perdere di vista «il tem- pio di Dio», perchè si vede solo con gli occhiali degli idoli. Sappiamo dall'esperienza umana, nonché dalla psicologia moderna che l'idolo può innescare un effetto disastroso quando suscita una delusione. Dall' amore appassionato si passa allora all' odio che fomenta violenza e distruzione.

Per combattere questa tentazione, occorre guardare a Cristo che ci ha inviato lo Spirito dal Padre e ha dato alla Chiesa una struttura contro la quale «le porte degli inferi non prevarranno» (M t 16,18). Ciò significa che i membri della Chiesa si devono confrontare con le forze della morte nei suoi vari aspetti. Nel contempo però, non mancherà mai ai pastori e ai fedeli la consolazione che viene da Dio solo. Se talvolta capita di essere profondamente delusi dal comportamento scandaloso di un membro della comunità, si potrà trovare, nello stesso tempo, una persona sulla quale risplende una traccia del Volto divino che consola.

La sfida fondamentale della vita cristiana è, infine, quella dell'apertura del cuore, come indicato dal titolo della presente riflessione. Tale apertura o chiusura si identifica con il grande mistero interiore degli uomini. Costoro si lasceranno toccare dagli eventi avvenuti a un uomo inviato da Dio Padre, venuto in mezzo alla nostra situazione di peccato, di ingiustizia e di giudizio? Acconsentiranno questi uomini, a una lunga, laboriosa e anche penosa attività come quella di Maria, Madre di Gesù, che serbava «tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51)? Potranno un giorno sperimentare, come i discepoli di Emmaus, il cuore che «ardeva nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino» (Lc 24,32)? Infine, potranno sostenere la domanda del Risorto: «Perchè siete turbati e perchè sorgono dubbi nel vostro cuore» (Lc 24,38)?

(da Parole di vita, 6, 2002)

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentaseiesima parte

La povertà

Nello stile marista la povertà è strettamente connessa con il carisma dell’Istituto, perché riguarda il distacco dai beni temporali e, insieme, da altre forme di ricchezza, quali la stima, la risonanza, il successo, le amicizie dei potenti, le soddisfazioni e il plauso degli uomini. La povertà permette di restare “ignoti et quasi occulti”.

Il tenore di vita esteriore del Marista dev’essere semplice e comune; il cibo, gli indumenti, gli oggetti d’uso si contraddistinguono per un solo aggettivo che il P. Colin attribuisce loro: “vulgaris”. (Constit., cap. VI, p. 12: “Alimentis vulgaribus…, pallio ex panno vulgari…, laneo vulgarique panno…, vestem ex vulgari item panno”.)

La povertà è “pons firmus ad beatam aeternitatem, et antemurale contra salutis hostes et vanas huius speculi sollicitudines”. (Ibid., cap. II, art. I, n. 84, p. 31).

Nella trattazione sistematica dei voti il P. Fondatore non si contenta di richiamare le norme giuridiche vogenti in materia di voto di povertà; ad essa aggiunge un altro articolo: De quibusdam aliis ad paupertatem spectantibus, ove traccia un cammino di più intima assimilazione a Cristo e a Maria. ( Ibid., cap. II, art. Iv, n. 137, p. 48; n. 148, p. 51.)

Richiamandosi forse alla pratica della povertà in altri istituti (francescani, trappisti), il P. Colin dà delle norme o, almeno, delle indicazioni che avrebbero contraddistinto il Marista da certi religiosi e dal clero secolare: nessuno, neppure il Superiore Generale, dovrebbe avere a proprio uso esclusivo una cavalcatura (Ibid., cap. II, n. 141,. Pp. 49-50); la biancheria stessa da bucato dovrebbe essere, possibilmente, comune: le offerte per i ministeri non sollecitate (Ibid., cap. II, n. 150, p. 52); gli stipendi di mese e le elemosine, qualora la Società avesse altre fonti sufficienti di reddito, “non recipere optimum est” (Ibid., cap. II, n. 142, p. 50).

Tuttavia le norme che riguardano la povertà esterna vanno lette alla luce dell’articolo “De Societatis spiritu”. Lì la povertà non è descritta solo come spogliarsi delle cose terrene, bensì lo abbiamo visto diffusamente nelle pagine precedenti, come distacco dalla propria considerazione, abnegazione completa di se stessi, considerandosi come servi inutili e feccia degli uomini. La povertà è svestirsi di ogni manifestazione dello spirito mondano negli edifici, nel tenore di vita, nei rapporti con il prossimo, “amantes nesciri et omnibus subesse” (Ibid., art. X, n. 50, p. 19).

Perfino le opere di zelo, da praticare necessariamente nel mondo, devono essere accompagnate dall’”amore per la solitudine e il silenzio e dalla pratica delle virtù nascoste”. In un periodo in cui generalmente i religiosi erano economicamente bene installati e la Chiesa di Francia cercava sistematicamente di recuperare i beni che i diversi regimi le sottraevano, la Società di Maria viene chiamata a dare testimonianza di autentico spirito di povertà evangelica e di gratuità.

Nel capitolo finale delle Costituzioni, pensato dal P. Colin come la sintesi di tutte le norme, la povertà è computata come uno dei “quattro angoli inespugnabili”, sui quali è edificata la Società. Essa è “omnium virtutum conservatrix, et ideo Societatis vere praesidium et tutela” ( Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161). Ritrovando un intimo collegamento con altri aspetti dello spirito marista il P. Fondatore afferma che la povertà, liberando il cuore dalle cose terrene e superflue (Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161)…

Venerdì, 02 Giugno 2006 21:09

La missione dell’uomo (Giovanni Vannucci)

La missione dell’uomo
di Giovanni Vannucci


Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito Santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito Santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine.

Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito Santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito Santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici.

Ma come e a chi è concesso lo Spirito Santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia - è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità... -. Lo sciamano, quando sale sul suo albero - l’albero ha sette tacche, sette segni incisi -, quando giunge al settimo segno riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito Santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. E’ il numero della pienezza divina e umana.

L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? E’ l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve - attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo.

L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore, poi è costituito da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore : il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito Santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini.

Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? E’ un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Poi lo Spirito è cantato dal nostro linguaggio ... Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi ; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, il vagabondo, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare il lavoratore, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è lo studente, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è la madre, che accompagna questo corteo; poi c’è il magistrato, un giurista, un guerriero; poi c’è l’artista, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è il prete.

Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri.

Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia.

Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa.

Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito Santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo.

Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato.

Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito Santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito Santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra . E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa.

Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. E’ un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana.

Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito Santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito Santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme.

Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito Santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita.

Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito Santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora - vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi... sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè alla visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito Santo.



1) Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.undefined
Venerdì, 02 Giugno 2006 20:35

La solidarietà di Dio (Alex Zanotelli)

"Passai vicino" - a te dice il Signore parlando ad Israele schiavo in Egitto - "ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue…". (Ez 16) E’ il Signore che si accorge del grido degli schiavi forzati a costruire i palazzi imperiali del faraone.

Dialogo nella tradizione cistercense
Per vivere in comunione
di Zelia Pani



Il valore pedagogico del dialogo nella formazione iniziale e in quella permanente come strumento di relazione tra le persone e di costruzione di una visione comune in funzione comunionale.

“Perché Possa vivere e crescere nell’unità, ciascuna comunità necessita di una visione comune della vita monastica”; in caso contrario, le persone che vivono in monastero potrebbero avere, del proprio esserci, ognuno un’idea diversa e quindi crearsi un cammino “separato”, vivere una propria vita e non contribuire efficacemente a creare un contesto comunitario generatore di vita. Lo scrive da Roma l’abbadessa madre Rosaria,ocso (ordine cistercense della stretta osservanza) in un articolo pubblicato sul Bulletin de l’A.I.M. (Alliance Inter Monastères), 84/2005, 43-50: un numero monografico su L’art de gouverner, nel quale il ministero dell’autorità al servizio della comunità è considerato secondo svariati aspetti.

Il tema sviluppato da madre Rosaria, Comunità in dialogo, la visione comune: un’autenticità vissuta insieme, propone una riflessione certamente estensibile, con le eventuali varianti carismatiche, anche a qualsiasi comunità religiosa che voglia realizzarsi come espressione della Chiesa-comunione.

A tutte, infatti, si attaglia l’osservazione del fatto che – scrive l’abbadessa – difficilmente la frammentazione dei progetti e dei comportamenti risulta attraente presso i giovani e le giovani chiamati/e alla vita consacrata in monastero, provenienti per lo più da un mondo rattristato dalla solitudine e chiuso in modo più o meno egoistico nell’individualismo; né può essere fonte di gioia e di vita nuova per le stesse comunità in atto.

In particolare, tuttavia, l’accento è posto nella riflessione di m. Rosaria sulla realtà da lei stessa vissuta nel suo autorevole ruolo: “Una riscoperta della vita cenobitica benedettina-cistercense, secondo la quale l’itinerario verso Dio si compie nella comunità e attraverso la comunità, sacramento di Cristo salvatore, avrà un impatto positivo sulla gioventù d’oggi.

COSTRUIRE CON SAPIENZA

Lo stile formativo cistercense – che conferma nell’ocso la sintonia dei suoi padri «con ciò che il concilio ha chiamato una “ecclesiologia di comunione”» - punta per ciascuna comunità sul dovere di costruire la propria visione comune su tre punti specifici: “l’insegnamento dell’Abate, fondato sulla tradizione, nel senso vero e bello del termine, costituito da tutto ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, ossia il Vangelo, la regola, la dottrina dei Padri, che l’insegnamento attuale dei capitoli generali, il magistero della Chiesa, la storia e l’identità particolare della comunità di appartenenza; la riflessione e il dialogo, mediante i quali tale insegnamento viene assimilato e integrato in un criterio che determina le decisioni concrete della nostra vita qui e ora, in modo tale che la tradizione sia una risorsa e non un ostacolo; un ascolto colmo di saggezza di ciò che forma la realtà storica nella quale siamo inseriti. Che cosa ci viene chiesto qui e ora? Come ne integriamo il contenuto nella nostra tradizione viva? Il nostro carisma quale risposta dà alle sfide concrete che oggi ci vengono lanciate?”

A questo punto l’abbadessa ritiene di dover segnalare un possibile equivoco e propone di distinguere tra visione comune e ideologismo: “Nell’ideologismo si prende un’idea, dunque un particolare della realtà e lo si assolutizza fino a farne la chiave interpretativa dell’intera realtà”: si tratta – e qui richiama anche il pensiero dell’Abate generale dom Bernardo Olivera – di una forma di violenza sulla realtà, di un’esagerazione che si regge soltanto a prezzo di innumerevoli censure della realtà, come dimostra la storia delle ideologie dell’ultimo secolo.

Ma la verità - prosegue – “non è un’idea spuntata nella nostra mente. Non v’è che una sola verità assoluta e universale, a partire dalla quale anche il minimo frammento di realtà può essere accolto e compreso: Dio. Non un dio-idea, ma il Dio vivente, la santa Trinità fattasi palpabile nell’umanità di Cristo. Attorno a lui, per la forza dello Spirito siamo uno, siamo la Chiesa. Ed è convertendoci al suo modo di pensare e di vedere le cose che giungeremo a una visione comune”.

UNO STRUMENTO NECESSARIO

Il pensiero che m. Rosaria esprime trova riscontro – ella stessa scrive – sul documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica/2002, del quale anzi riporta l’intera parte centrale del n. 18. in tale sezione infatti la CIVCSVA pone al centro dell’itinerario di rinnovamento, cui tutte le comunità religiose sono tenute, il dialogo: il dialogo in funzione formativa, perché si possano conoscere e valorizzare le persone nelle loro doti umane, sociali e spirituali, e discernere “in esse i limiti umani che chiedono il superamento nonché le provocazioni dello Spirito che possono rinnovare la vita del singolo e dell’istituto” (RC 18); e il dialogo comunitario che porti in funzione comunionale ad “accogliere ed integrare i diversi modi i vedere e sentire “ (ivi) .

Il dialogo appare così - prosegue l’articolo - supremamente necessario a causa della grande differenza nell’educazione, nella cultura e nella corrente di pensiero ispirativa dei giovani nel mondo d’oggi, globalizzato e livellato in superficie ma privo di una cultura fondamentale omogenea; dove il Vangelo non è più un punto di riferimento e le medesime parole non hanno identico significato, mentre in monastero è indispensabile che le parole Dio, virtù, umiltà, fede, carità, silenzio, obbedienza… - e il contenuto che noi attribuiamo loro abbiano il medesimo senso.

La necessità odierna di un confronto continuo è perciò evidente: “Parlare, esprimersi per identificare il valore delle parole, discernere ciò che è buono e vero da ciò che non lo è, risalire dalle parole ai principi, dai principi al pensiero che li determina, e ancora più lontano ai sistemi di pensiero e alle esperienze dalle quali le parole sono sgorgate”.

Il dialogo che lo stesso RC qualifica formativo si riferisce - precisa m. Rosaria - al tempo della formazione iniziale quando la sua funzione pedagogica è più importante e durante la quale il dialogo avviene in primo luogo col formatore. “In monastero la Parola incarnata, Gesù, si incontra anzitutto nel rapporto privilegiato con colui che esercita per noi la paternità spirituale, e col quale viviamo l’apertura del cuore”.

È pur vero che ultimamente l’espressione tradizionale di paternità spirituale è stata a mano a mano abbandonata per far posto a quella di accompagnamento spirituale: un cambiamento di vocabolario che è spia di una profonda modificazione dell’intima sensibilità comune, passata “da qualcuno che si trovava davanti a me a qualcuno che si trova di fianco a me”.

Tuttavia nella tradizione monastica, benché il termine accompagnamento sembri più adatto alla mentalità contemporanea, il linguaggio filiale rimane quello che traduce in modo più completo e incisivo la realtà della relazione tra formatore e formando/a . Infatti “c’è qui in gioco un impegno responsabile e libero che ha caratteristiche molto diverse da quelle di una relazione semplicemente fraterna. Per il novizio, prendere liberamente la decisione di rinunciare alla propria sufficienza e autonomia è riconoscere che soltanto attraverso la mediazione di un altro potrà emergere la grazia dello Spirito Santo. San Benedetto considera l’apertura del cuore come l’apertura al Signore stesso. I testi della Scrittura che egli cita a tal proposito dicono esplicitamente che il fondamento di tale relazione è la fede. L’atteggiamento filiale consiste realmente in questo: aprire progressivamente il proprio cuore per ricevere una parola, credendo che tale atto esprime l’apertura alla stessa verità che è Cristo”.

In secondo luogo – precisa m. Rosaria – “il dialogo si vive in gruppo, tutti i fratelli o le sorelle con il formatore (nel noviziato e nel monasticato, da noi, l’incontro è settimanale). All’inizio, lo scambio nel dialogo tra i giovani verte su ciò che si legge e si interiorizza riguardo alla vita monastica, le sue osservanze, i suoi valori e anche l’esperienza che ognuno ha fatto sia dei valori che del modo nuovo di vivere”. E si nota ben presto – prosegue esemplificando – che quando si scambiano idee il dialogo si ferma al livello teorico, si vede che rimane una distanza tra ciò che si è capito e ciò che è stato vissuto. Così con l’aiuto del maestro o della maestra delle novizie i giovani prendono coscienza delle contraddizioni esistenti in se stessi; ognuno scoprirà le proprie incoerenze e sperimenterà alla luce della parola del Signore la dinamica di conversione che il dialogo può provocare portando alla ricerca della verità: sul piano del pensiero, su quello dell’autenticità di vita e di quell’impegno comune che conduce a scoprire “una verità più grande di quella che ciascuno può trovare cercando autonomamente”.

IL DIALOGO COMUNITARIO

Non c’è dubbio che anche il dialogo comunitario sia formativo, quantunque abbia luogo in un campo di indagine più ampio come la partecipazione nel consiglio dei fratelli al governo dell’abate, o più spesso perseguendo altre finalità, ad esempio per giungere a una decisione in merito a questioni concrete mediante una semplice riflessione interpersonale.

Ma ciò non è ancora il vero e proprio dialogo monastico, finalizzato non alla messa in comune di qualcosa o alla conoscenza reciproca o a uno scambio qualsiasi di idee, ma a qualcosa di più profondo che riflette il senso del dialogo ecclesiale.

“Nella Chiesa il dialogo non è un dibattito democratico e tanto meno uno scambio in vista di una migliore conoscenza psicologica. Né per crescere nel dialogo è sufficiente essere generosi. La generosità non coincide con la capacità di comunicare, di ascoltare, di collaborare. Il dialogo ecclesiale, strumento di ricerca della verità è molto diverso, sia nella teoria che nella pratica, dal dialogo democratico dove tutte le idee vengono non solo rispettate ma ritenute ugualmente valide: tutto può essere buono, tutto possibile. Nel dialogo ecclesiale accoglienza e rispetto sono dovute a ogni persona e a ogni cammino personale sincero e autentico. Ma non tutte le idee sono uguali: occorre valutarle attentamente una per una, col rispetto dovuto alla verità che si conosce e che si cerca. Riflessione, dominio di sé, umile consapevolezza nei valori nei quali si crede, apertura all’altro che è diverso, capacità di ascoltare con pazienza, simpatia e intelligenza…”.

INCONTRARSI ATTORNO A GESÙ

L’elenco di quanto sia necessario per un dialogo comunitario fruttuoso sarebbe ancora lungo, ammette m. Rosaria; ma ciò che ella afferma essere indispensabile è “mantenere la presenza dello stesso atteggiamento di fede di cui si è detto per il dialogo nella formazione iniziale: è la stessa relazione sacramentale che si estende fino all’ultimo dei fratelli e delle sorelle, come giustamente esige s. Benedetto: “Che i fratelli si obbediscano scambievolmente”. Se manca tale indispensabile condizione, la fede, neppure le più belle idee porteranno frutti di conversione.

Un clima che avvolge totalmente la vita comune orientata con costanza all’autenticità della comunione, quasi di un reale modus vivendi sempre in atto: è ciò che si intuisce dietro le parole dell’abbadessa cistercense, la quale sottolinea il fatto che il dialogo in comunità “è un momento di incontro dove Gesù è veramente presente. Noi ci raduniamo nel suo nome, siamo la sua Chiesa e cerchiamo il suo pensiero e la sua volontà su di noi. Apprendiamo ad ascoltare e a comunicare a costruire la visione comune e l’unità, non di rado anche attraverso un cammino di riconciliazione.

Impariamo a discernere le situazioni e le difficoltà, sapendo tutti che dobbiamo compiere ogni sforzo per amarci gli uni gli altri; il più difficile infatti è riconoscere che se io faccio personalmente tale sforzo anche l’altro sta facendo il medesimo sforzo. E la fede nello Spirito che anima me anima che lui, poiché credere nell’amore dell’altro si fonda sul fatto di essere la Chiesa, il corpo del Signore”.

Infine, il dialogo comunitario rimane sempre un mezzo di ricerca della verità a più livelli: “Verità di se stessi: correzione fraterna, revisione di vita, confessione di mancanze personali, richiesta di perdono; verità del cammino concreto della comunità mediante scambio di idee, consiglio dell’abate in verità e umiltà nello spirito della regola e quando è necessario come decisione mediante voto; ricerca dello sguardo di Dio, del pensiero di Cristo e della sua Chiesa, della sua volontà per la nostra comunità, e il nostro ordine in questo momento storico della Chiesa e del mondo”.

Ecco perché - conclude m. Rosaria - occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, e perché unica nostra premura deve essere quella di divenire discepoli, persone mature e pacificate, capaci di ascoltare, di apprendere, di meravigliarsi.

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