Formazione Religiosa

Martedì, 19 Settembre 2006 01:44

Lezione Quarta. Il Dio liberatore nell'esperienza dell'esodo

Vota questo articolo
(0 Voti)

Lezione Quarta
Il Dio liberatore nell'esperienza dell'esodo


Introduzione

Il Credo di Israele, contenuto in Gios. 24,2-13 e in Dt. 26,5-9, descrive l’intero cammino della storia salvifica vissuta da Israele. Il punto centrale della fede israelitica è la proclamazione della liberazione dall’Egitto.

Questo evento era già stato anticipato nelle narrazioni patriarcali (cfr. Gen. 15,13: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni»).

 

Nel Credo di Gios. 24,6-8 sono contenuti gli articoli più antichi:

«Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi».

L’uscita dall’Egitto rivestì per Israele il carattere di una straordinaria esperienza dell’azione salvifica di Dio. Questo evento nella Bibbia, dell’Antico e Nuovo Testamento, divenne il tipo e il pegno di tutte le liberazioni effettuate da Dio in favore del suo popolo.

Nell’esodo Israele vide la garanzia assoluta e perenne della volontà salvifica di Dio, cui poteva richiamarsi in ogni esperienza di tribolazione e di asservimento. Alla base di questo «pilastro il più rilevante e fondamentale della storia della salvezza».

1. La tradizioni letterarie

L’Esodo propone tre temi principali:

a) la liberazione dall’Egitto;
b) il cammino nel deserto;
c) l’alleanza del Sinai;

Questi tre temi delimitano altrettante sezioni del libro dell’Esodo:

1. Nei capp. 1,1-15,21 il centro geografico degli eventi è l’Egitto, la terra della schiavitù. Di qui gli Israeliti escono guidati dalla mano di Dio.

2. Nei capp. 15,22-18,27 si narra la marcia del popolo nel deserto.

3. Nei capp. 19-40 l’alleanza del Sinai è l’evento centrale. Tema sviluppato anche in Lev., Num., Deut.

Le fonti letterarie che interessano gli eventi dell’Esodo sono quelle incontrate in Gen. Ad esse si aggiunge la fonte Deuteronomista (= D). Tale fonte non proviene dagli ambienti religiosi di Gerusalemme, come si era creduto in passato, ma dagli ambienti religiosi del Nord. Si presenta, infatti, come aspirazione a quella unità religiosa del popolo, che proprio dallo scisma del Nord era stata profondamente lacerata.

Il suo punto di partenza è costituito dalle tradizioni mosaiche con il loro contenuto religioso, e il suo clima spirituale è formato dall’appello alla fedeltà religiosa, che nel Nord, in particolare, assume il tono di un richiamo a tornare alle origini.

Il nucleo centrale della fonte D risale al sec. VIII-VII; la sua stesura finale, al periodo esilico (VI sec.) con qualche ritocco post-esilico (V sec.). Proviene dai circoli profetici del regno del Nord. La legge mosaica è presentata come la somma e il paradigma della perfetta vita religiosa dell’israelita.

La caratteristica di questa fonte è la letteratura della storia passata in clima attualizzante per le circostanze nuove in cui viene a trovarsi Israele. La storia è intesa come presenza del Dio salvatore, mediante l’alleanza con il suo popolo.

2. L’evento storico

I dati riportati dalla Bibbia, utili per stabilire la cronologia degli eventi, sono scarsi. Neppure l’ausilio dell’archeologia apporta luce sufficiente. Vi si parla di lavori forzati per la costruzione delle città-magazzino Pitom e Ramses (sotto la XX dinastia: Ramses II, 1290-1224). Quindi l’esodo sarebbe da collocare sotto il successore di Rames II, Nerneptah (1224-1214).

Recentemente è stata elaborata la teoria di due esodi: un esodo-espulsione e un esodo-fuga. Il primo sarebbe avvenuto nel sec. XV (cronologia letterale da Abramo + 450 anni); il secondo nel sec. XIII.

I critici sono d’accordo che si trovano elementi sparsi e combinati di due tipi diversi di esodo, anche se si può osservare che la redazione definitiva ha unificato e armonizzato le varie esperienze, nell’Esodo guidato da Mosé. Questo si spiega con il fatto che l’Esodo non è stato composto come un libro di cronaca o di storia, bensì come epopea religiosa. All’origine vi sono certo degli eventi reali e storici, ma sono interpretati e attualizzati dall’agiografo in vista della fede. Si ha quindi la seguente sequenza:

1. evento storico situato nello spazio e nel tempo;
2. interpretazione del fatto: la scoperta del significato della storia coincide con la rivelazione del piano di Dio;
3. la fede che fa celebrare l’evento nella vita (conseguenze morali) e nella liturgia.

Possiamo prendere come esempio la partenza di Israele dall’Egitto:

1. Evento storico: Es. 12,37: «Gli Israeliti partirono in numero di 600.000 e una grande massa partì con loro».

2. Interpretazione: Es. 12,51: «In quel giorno il Signore fece uscire gli Israeliti dall’Egitto».

3. Celebrazione: Es. 15,1: «Allora Mosé e gli Israeliti cantarono questo canto a Jahwé e dissero: “voglio cantare in onore di Jahwé; egli si è coperto di gloria; ha gettato nel mare cavallo e cavaliere: mia forza e mio canto è il Signore, a Lui devo la mia liberazione”».

L’evento storico dell’Esodo è presente in tutte le tradizioni e tribù; è stato celebrato dalle varie tribù nei santuari locali ma con accenti e sezioni proprie. L’esperienza sinaitica con la conseguente alleanza, ad es., non è conosciuta da tutte le tradizioni, perché:

1. non tutte le tribù sono scese in Egitto;

2. alcune tribù del Sud (Levi, Giuda, Simeone) hanno puntato direttamente sulla Palestina, dopo il soggiorno a Kades e quindi non hanno conosciuto l’esperienza del Sinai e l’alleanza.

Ogni nucleo tribale tramandò, prima oralmente, poi per iscritto, le proprie tradizioni, elaborate e celebrate nei rispettivi luoghi di culto. In seguito esse furono unificate e “contaminate” tra loro. L’evento dell’esodo, nella sua essenzialità costituisce un fatto a prescindere dal quale tutta la storia d’Israele diventa incomprensibile.

3. Alcuni aspetti dell’esperienza religiosa dell’Esodo

Per misurare in qualche modo il progredire della salvezza nella storia, possiamo prendere in considerazione qualche aspetto significativo ed emblematico dei primi quindici capitoli dell’Esodo.

a. La rivelazione del nome

La rivelazione del nome divino avvenne solo all’età mosaica anche se la tradizione J fa risalire il culto di Jahwé alle origini dell’umanità (Gen. 4,26) per creare un legane di continuità tra le due epoche salvifiche. Sia E (cui appartiene Es. 3,6-9-15), sia P (Es. 6), situano in Egitto la rivelazione del nome.

L’evento è inserito in una teofania (roveto ardente: Es. 3,1-5). Il fuoco che divampa e non consuma è un’immagine efficace della divina trascendenza, inaccessibilità, forza e purezza, come pure dello zelo inarrestabile che Dio ha per la sua gloria: «Jahwé, tuo Dio, è un fuoco divoratore, un Dio geloso» (Dt. 4,15.24).

Mosé chiedeva di conoscere il nome del Dio dei padri: difatti, secondo gli Egiziani, gli dèi hanno nomi vari, ma celano il loro vero nome, perché chi lo conoscesse verrebbe a disporre della loro potenza (come fece Iside con Rha). Jahwé rivela il proprio nome senza essere costretto con la violenza o l’inganno, di propria iniziativa, per un atto di bontà e di comunione.

Es. 3,14-15: «Dio disse a Mosé: io sono colui che sono. Poi disse: dirai ai figli d’Israele: Jahwé, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre. Questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

In questo testo il nome “Jhwh” viene spiegato con una espressione relativa paranomastica: «Io sono colui che sono». Che cosa significa?

a) Non è una definizione dell’essenza divina in senso ontologico – come traducono i lxx e la Vulgata: Ego sum qui sum –. Il contesto non è filosofico, bensì operativo: riguarda ciò che Dio sta per fare in favore di Israele.

b) Il verbo haia è da intendere nel senso di “esserci”. Il nome potrebbe essere tradotto piuttosto così: «Io ci sarò per voi; vi sarò vicino». L’imperfetto (ehié) ebraico, indica che l’azione permane nel tempo, oppure che continua a svolgersi (è insieme azione passata, presente e futura). Quindi l’espressione «ehié asher ehié» potrebbe tradursi: «Io sono colui che sono»; o al futuro: «Io sono colui che sarò», o anche: «Io sono colui che agisco». Il futuro farebbe riferimento all’alleanza; il presente indicherebbe meglio la presenza efficace.

Jhwh è un nome che deve confortare uomini sfiduciati, sottoposti alla schiavitù in terra straniera. Implica la garanzia della vicinanza della benevolenza divina. Grazie al nome, Israele aveva la certezza di poter sempre raggiungere il cuore di Dio (Es. 33,19; 34,6).

In Es. 3,14-15 si mette pure in rilievo la continuità tra il Dio che rivela il proprio nome e il Dio dei padri, Abramo, Isacco, Giacobbe.

Il nome non è una definizione, ma solo un segno, che lascia intatto il mistero di Dio. Questo gesto di Dio fa parte della sua “economia”: Egli si rivela confidandosi con Israele, partecipando in qualche modo la sua santità e l’essere. Perciò, in Israele l’uso del nome rivelato era riservato al culto e doveva essere protetto dagli abusi (giuramenti, maledizioni…): doveva essere “santificato”.

c) Il più eccelso testimone della rivelazione e l’apportatore definitivo della salvezza, riceverà il nome di Gesù = Jeshua (Jhwh è salvezza): «Con ciò il nome prodigioso di Jahwé, che per un millennio portò alla esaltazione lirica il cuore d’Israele, è stato tramandato nella nuova alleanza e anche qui è diventato il nome che è sopra ogni nome» (Fil. 2,9-3).

2. La Pasqua

La sezione sulla Pasqua è contenuta in Es. 12,1-13,16. Le fonti più antiche J e E vengono ampiamente completate e reinterpretate da P, che vi aggiunge il rituale celebrativo, e da D, che vi traspone le leggi precisate in epoche successive.

La festa della Pasqua preesisteva all’Esodo; era una celebrazione annuale dei pastori nomadi al momento di abbandonare i pascoli invernali per passare a quelli primaverili, all’inizio del nuovo anno (mese di Abid, detto in seguito Nisan). Il nome pesah potrebbe riferirsi a questo passaggio o migrazione al seguito delle greggi.

Prima di partire per i pascoli si offrivano capretti divenuti commestibili durante l’anno, il frutto dei greggi. Il rituale è tipicamente nomade: arrostimento delle carni, in ora mattutina, con sandali e le vesti degli erranti, il bastone da viaggio.

Questa festa primaverile riceve un nuovo senso, più profondo nel contesto dell’Esodo. Da un rito di redenzione compiuto ogni anno, nel momento decisivo e pericoloso del rinnovarsi delle cose, diventa segno di protezione del passaggio di Jahwé nella santa notte dell’uscita (Es. 12,21-23). Da festa ciclica annuale, diventa, con la fede jahwista, una festa storica, un memoriale (zikaron) delle imprese salvifiche di Dio. L’antico rito cambia significato.

La fonte D, particolarmente attenta alla teologia del memoriale, enuncia il principio della contemporaneità dell’evento salvifico con i celebranti del rito: Es. 13,3-4: «Ricordati di questo giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto, da una casa di schiavitù, perché con mano forte Jahwé vi ha fatto uscire di là… È oggi che voi uscite, nel mese di Abid».

3. Uscita dalla casa di schiavitù

L’uscita dall’Egitto è una redenzione operata da Dio: Israele viene riscattato e liberato da due nemici: l’Egitto e il mare, due nemici di Dio (Cfr. Es. 15,1-21).

Il verbo “uscire” riferito all’evento dell’esodo, ricorre un centinaio di volte, ad es.:

Es. 11,8, Mosé è simbolo vivo di tutto il popolo.

Es. 3,10-12; 20,2, Dio viene definito: «Colui che ha fatto uscire».

Dt. 1,27; 7,19; 9,12.

Es. 6,6-7; Lev. 26,45.

L’uscita si concretizza in rapporto ad un luogo e ad una storia: l’Egitto. Lì gli Ebrei erano stati “stranieri” (gherim): categorie di persone senza legame con la terra, con le istituzioni, con il potere, con la religione del luogo. Un popolo senza diritti, esposto all’oppressione e al sopruso.

L’Egitto non è solo una terra straniera, ma «una casa di schiavitù» (Es. 20,21). La qualifica di schiavo per Israele, già tanto degradante nel contesto sociale dell’antichità, si articola in varie situazioni:

- Israele è “caricato” del peso massacrante dei lavori forzati (Es. 1,8-14): amareggiarono la loro vita con duro lavoro, con l’argilla e i mattoni, con ogni genere di lavori nei campi: ogni specie di lavoro massacrante con cui li fecero lavorare.

- Si impongono dei sovrintendenti-aguzzini ai lavori (Es. 3,21).

- Si uccidono i figli maschi, come misura spietata per limitare la crescita numerica degli Ebrei, secondo il costume dei vincitori nell’antichità.

- Si esige che il popolo stesso si rifornisca della paglia per i mattoni, senza diminuire la produzione giornaliera (Es. 5,7ss).

- Si vita qualunque spazio di libertà, anche per una festa di tre giorni (Es. 5,1ss).

L’azione di Dio è la liberazione, il dono della libertà. Israele passa dalla schiavitù del Faraone alla signoria di Dio, dalla servitù al servizio (abodah).

Questo nuovo tipo di rapporto (servizio) è caratterizzato dalla piena libertà, e si concretizza nel servizio etico-religioso (Fonte D: alleanza, comandamenti), e nel servizio cultuale (fonti J, E, P).

In Es. 5,1-19 (fonte J) si riassumono le differenze tra il lavoro per il Faraone e il culto per Dio: il culto è una liberazione, un festoso pellegrinaggio dalla fatica al riposo.

Conclusione

1. Nell’esperienza dell’Esodo Dio si manifesta come Colui che dà la libertà. Dio non rende schiavi, non opprime. La sua signoria è minacciata dalla concorrenza di altri padroni (l’uomo e le cose). Il servizio di Dio comporta che l’uomo sia libero da altri padroni. Servendo Dio imparerà da lui a divenire servitore dei fratelli.

2. La schiavitù, sotto ogni forma, non è solo un problema di giustizia e di uguaglianza, ma anche un problema religioso: ogni uomo è servo di Dio; quando è schiavo di idoli o di padroni umani, oppresso dalle necessità e dall’incertezza della sopravvivenza, non può realizzare in pieno il rapporto con il suo Signore. L’Esodo è, quindi, prototipo di tutte quelle situazioni in cui c’è un oppresso e un oppressore, uno sfruttato e uno sfruttatore. Dio non è un estraneo ai movimenti di liberazione, contro qualunque tipo di sopruso. L’uomo che riacquista la sua dignità di uomo, è nella condizione più adatta per vivere da figlio di Dio.


Bibliografia

J.S. Croatto, Storia della salvezza, cit., pp. 39-60.

P. De Surgy, Le grandi tappe del mistero della salvezza, cit., pp. 79-90.

J. Schildenberger, Realtà storica e generi letterari nell’A.T., Brescia, pp. 124-166. In particolare I miracoli dell’esodo e del deserto, pp. 124-147.

R. Cecolin, L’esodo, via di Dio verso la libertà, in Aa.Vv., Invito alla Bibbia, Roma, pp. 45-83.

N. Füglister, Il valore salvifico della Pasqua, Brescia.

G.von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, I, Brescia, pp. 207-219.

G. Ravasi, Il Dio liberatore, in «Studi biblici» (At. 5), Roma, pp. 3-23.

M. Noth, Esodo, Brescia.

C.M. Martini, Vita di Mosè, Roma.

Letto 5214 volte Ultima modifica il Venerdì, 18 Novembre 2011 16:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search