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Sabato, 15 Gennaio 2005 11:01

- La spiritualità del deserto – Noi popolo dell'Esodo, nomadi verso il Regno.

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- La spiritualità del deserto -

Noi, popolo dell’Esodo, nomadi verso il Regno

di Enzo Bianchi priore di Bose


        PRIMA PARTE

Nella scrittura il deserto è luogo di prova, attesa, educazione alla fede. Come l’antico Israele, il cristiano è chiamato a vivere la precarietà del viaggio verso la tappa definitiva, oltre la morte.


    Il deserto è innanzitutto il luogo dove più si manifesta la resistenza dell’uomo al piano e al volere di Dio: una resistenza che è interna al popolo di Dio, che nasce nel cuore stesso del credente, ma anche una resistenza esterna, originata dalle forze che contrastano il disegno di salvezza di Dio.

    La resistenza interna è un ‘opposizione a Dio che si manifesta nel preferire la sicurezza al rischio, la stasi alla dinamica, il passato al domani che Dio ci prepara. Contro questa tentazione combattono Mosè, i profeti, Gesù stesso quando rimprovera duramente Pietro, chiamandolo “Satana”, perché rifiutava la prospettiva della croce nella vita di Gesù e voleva proseguire il discepolato così come si era svolto fino a quel momento. Così, nella peregrinazione nel deserto il popolo di Israele non vede altro fine al proprio cammino che la morte, stravolgendo la meta fissata da Dio, cioè la terra promessa, la vita piena.
Un secondo elemento di resistenza è la mormorazione, il lamento che porta gli israeliti a ripetere “Perché Dio ci ha condotti fin qui per farci morire?”, e a rimpiangere la condizione vissuta in Egitto, che pure era di dura schiavitù: “Fossimo morti nel paese d’Egitto mangiando pane a sazietà!” (Es 16,3). Ogni uomo è costantemente tentato di fuggire dal posto in cui Dio lo ha collocato, di sognarsi situazioni diverse da quelle reali, altri corpi o altri luoghi. Sorge allora la tentazione di volgersi indietro, scegliendosi altri capi , altri criteri guida: “Diamoci un capo e torniamo in Egitto” (Nm 14,4), tentazione sovente accompagnata dalla protesta contro chi nel deserto cerca di mantenere saldo l’orientamento del cammino: “ E mormorarono contro Mosè…”. La resistenza esterna invece è quella originata da forze opposte al piano di salvezza divino, forze di cui la Scrittura mostra ampiamente l’esistenza. La battaglia del credente non si rivolge solo contro la carne e il sangue: c’è un nemico che è il Demonio, Satana, l’Oppositore. È una forza preternaturale che si erge contro Dio e che noi vediamo solo nei suoi “mediatori”, nelle sue personificazioni: una raffigurazione emblematica di questa “potenza del male” è Amalek. Questi è il nemico che non è mai abbastanza vinto perché rinasce continuamente, il nemico irriducibile verso il quale è stupido avere pietà, il nemico subdolo che assale la carovana degli israeliti a partire dalla retroguardia, dove si trovavano i più deboli, i feriti, i più indifesi…Ma soprattutto Amalek è il divisore che si insinua in mezzo al popolo, nel cuore del credente non appena questi è preda della contestazione radicale: Il signore è in mezzo a noi si o no? Allora Amalek venne a combattere contro Israele” (Es 17,7-8).

Da “Mondo e missione”
Giugno-Luglio 2003


SECONDA PARTE


    Parlare del deserto come tempo significa sottolinearne il carattere di tempo intermedio: il deserto dell’esodo segna infatti il tempo che intercorre fra l’uscita dall’Egitto e l’entrata nella terra promessa. La Scrittura attesta poi che esso si qualifica come un tempo in cui continua ad agire la forza e la potenza di Dio, dunque un tempo di salvezza: guai a pensare che la salvezza consista soltanto nell’uscita dall’Egitto o nell’entrata nella terra santa! La qualifica del deserto come tempo intermedio è un dato essenziale all’economia umana e storica ben prima di esserlo per quella divina e teologica: la vita umana individuale, collettiva, comunitaria, popolare, è scandita da tempi di preparazione e di iniziazione, tempi che possiamo definire intermedi. Si pensi alle varie tappe della crescita umana, al catecumenato per chi si appresta a ricevere il battesimo, al noviziato per chi intraprende la vita monastica, al fidanzamento per chi opera la scelta matrimoniale…La realtà umana è strutturalmente segnata da tempi preparatori, e a sua volta, nella sua interezza, costituisce un tempo intermedio: è grazie a questa dimensione che si crea una tensione dinamica verso il futuro. L’uomo non può essere solamente rivolto verso il passato, non può vivere del passato ma deve muoversi verso il futuro.

    Questo dato antropologico è assunto dalla Scrittura, rispettato da Dio che vuole portare alla salvezza l’uomo nella sua completezza. Ma la Bibbia non solo assume la categoria del tempo intermedio, ma la privilegia costruendo la storia della salvezza come un susseguirsi di tempi intermedi che preparano la pienezza, la completezza. La rivelazione ebraico-cristiana accorda un enorme importanza al “tempo a venire” e così stabilisce una forte tensione dinamica verso l’avvenire: tale tensione prende forme svariate, rivestendo ora la categoria messianica, ora la categoria apocalittica, ora quella escatologica, ma al di là delle differenti manifestazioni, ciò che è davvero fondamentale è la presenza insopprimibile di questa dinamica.

    Il tempo intermedio è per sua essenza “provvisorio”: non è un tempo cui si è destinati, ma un tempo attraverso cui bisogna passare, una conditio sine qua non per raggiungere una meta, un fine. La Scrittura utilizza il numero quaranta per indicare il tempo provvisorio, intermedio. Mosè passa quaranta giorni sul Sinai prima di vedere la Gloria di Dio (Es 24,18) poi trascorre altri quaranta giorni prima di ricevere la Legge (Es 34,28), Israele passa quarant’anni nel deserto (Am 2,10), Elia cammina per quaranta giorni nel deserto prima di giungere all’incontro con Dio (1Re 19,8), Gesù sosta quaranta giorni nel deserto prima di iniziare la sua missione di predicazione e di annuncio del Regno (Mc 1,12). Dunque il numero quaranta è una cifra teologica che indica un tempo lungo ma non chiuso in se stesso, bensì aperto al futuro: è il tempo della provvisorietà.

    Questo tempo intermedio del deserto è anche un tempo di attesa: non va vissuto nella passività, ma riempito di attesa e di speranza. Solo se è animato dall’attesa il deserto resta un tempo pieno di vita, altrimenti si trasforma in tempo mortifero e diventa un “carcere”. Ora il carcere, a differenza dei tempi intermedi che preparano a un futuro, è un tempo di pura passività, sottomesso alla negatività e alla morte. Il rischio del deserto è proprio che questo tempo può essere vissuto come carcere e quindi portare alla distruzione.

Quello del deserto, invece, è un tempo volto a un fine, teso a un futuro che ne costituisce lo sbocco. Per Israele il deserto è in vista dell’incontro con Dio e dell’ingresso della terra promessa; per Gesù, è in vista del suo ministero pubblico: dunque esso ha un termine ben preciso verso il quale deve tendere con tutte le forze l’uomo impegnato nel cammino nel deserto.

Da “Mondo e missione”

Giugno-Luglio

TERZA PARTE

 
  - Nel deserto si giunge alla fede e all’intimità massima con Dio -

    Il tempo intermedio, inoltre, è tempo che non può passare invano, senza lasciare traccia, e che non deve essere mai dimenticato. Esso continua a vivere nella memoria in nome della sua singolarità, della durezza che lo ha contraddistinto, dell’entusiasmo e della partecipazione con cui lo si è vissuto. Il tempo classico del ricordo, del memoriale è proprio il tempo del deserto: per la Bibbia è la stagione del dialogo amoroso fra Dio e Israele, “il tempo degli amori”, costantemente sognato e ricordato da Osea e Geremia. Questi profeti rileggono l’esperienza passata del deserto rievocandola in termini idilliaci, perfino mitizzati, fino a farne un “esempio” e a porlo nel futuro d’Israele come una possibilità aperta. In realtà, il popolo nel deserto non è affatto stato così vicino e fedele a Dio come appare dalla trasognata rievocazione di Osea (cfr Os 2, 16-25), anzi, dal libro dell’Esodo, l’Israele del deserto appare come il popolo infedele per eccellenza, disobbediente e ribelle, eppure il profeta trasfigura quel momento del passato d’Israele facendone un esempio di obbedienza e di fedeltà: “Nel deserto lei mi risponderà, come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto”.

    Nel cristianesimo l’elemento dinamico, sotto la forma della categoria escatologica, è a tal punto insopprimibile e costitutivo che il credente e la Chiesa devono porsi in una tensione di costante rinnovamento per non svuotare di senso e smarrire il fine stesso della propria vocazione e speranza. Non è certo un caso che negli Atti degli Apostoli il nome con cui sono chiamati i cristiani è “quelli della via” (At 9,2), cioè quelli che camminano come pellegrini, che avanzano e non cessano di attendere il Signore. Paolo arriverà a dire, sulla scia dell’attesa ardente del tempo ultimo, che ormai il tempo si è fatto breve, si è accorciato (1 Cor 7,29) e il giorno del Signore è imminente: per il cristianesimo e per la chiesa il futuro ha più peso di quanto ne abbia il passato. Vivere nel passato significa non situarsi mai nell’oggi di Dio, nel “qui e ora” in cui ciascun credente deve instaurare il proprio rapporto con Dio: un rapporto che non è quello di ieri o di domani, bensì quello che si decide e si vive nell’oggi.

    Un’ altra specificazione biblica del tempo del deserto è quella che lo caratterizza come tempo di prova e di umiliazione. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Dt 8,2). Infatti è nella prova, nell’umiliazione e nella solitudine del deserto che l’uomo conosce se stesso e il proprio cuore, così come solo lì può conoscere l’altro, misurando la propria fedeltà al Signore nelle prove che quotidianamente incontra.

Da “Mondo e missione”

Giugno-Luglio 2003

QUARTA PARTE


Il deserto però, proprio perché luogo di prova, è anche tempo di pedagogia divina: nel deserto nasce la fede, nel tempo intermedio del deserto l’uomo deve ricordare, arrivare alla conoscenza e alla custodia della parola di Dio nel proprio cuore: Nel deserto si comincia a capire e a conoscere Dio: in particolare si arriva a capire che Dio è vicino al suo popolo come un Padre, è premuroso come una Madre, è l’amore fedele di uno Sposo.

    È dunque nel deserto che si giunge alla fede, alla conoscenza, all’intimità massima con Dio: nel deserto Dio è Padre, Madre, Sposo.

    Nel deserto si va non per fuggire gli uomini, ma per porsi in un coraggioso faccia a faccia con Dio. Nel deserto si va per lottare contro i demoni, cioè contro le angosce, i pensieri che crescono a dismisura nutrendosi di se stessi fino a divenire presenze mostruose nel cuore dell’uomo, invulnerabili per la loro inconsistenza. Gesù stesso andò nel deserto sotto la guida dello Spirito Santo “per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1): analogamente il cristiano va nel deserto nella convinzione della propria debolezza e fragilità, quindi del bisogno di una guida. Il deserto svela la verità della condizione umana riducendo l’uomo all’essenziale, ai bisogni elementari. Nella spoliazione del deserto l’uomo è ridotto a “essere” il proprio corpo: lì ci si conosce più che mai come “essere umano in un corpo”. Il deserto è allora il luogo spirituale dove anzitutto si rivede il rapporto con il proprio e con ciò che ad esso è strettamente connesso: il cibo che lo nutre, il vestito che lo ripara, il sonno che gli dà riposo…

    Nell’assenza di presenze umane, nell’astinenza da cibi, parole e gesti altrimenti quotidiani, nella durezza delle prove e dei mali che il deserto fa patire, si sperimenta il carattere pedagogico del deserto. Il deserto libera da tutto ciò che è ingombrante e superfluo e purifica la fede delle incrostazioni idolatriche che la contaminano: il deserto è il vaglio che rivela la salvezza di un credente. È lì che per grazia di Dio può avvenire il cammino di conversione delle molteplici passioni e appetiti dell’uomo nell’unico desiderio: quello del volto di Dio. Gli israeliti nel deserto mostrarono la loro infedeltà tentando Dio nel chiedergli di spegnere il bruciare ardente delle loro brame: ma questa prova insegnava a Israele a essere assetato di Dio e desideroso del suo volto. Come testimonia Gesù stesso quando nel deserto, dopo quaranta giorni di digiuno, “ebbe fame”, tale prova è finalizzata a mostrare che l’unico cibo che può sfamare è la parola di Dio (Mt 4, 2-4; cfr. Dt 8,3). Il deserto è dunque un luogo pedagogico anche per il cristiano che lì soprattutto impara l’essenziale: “cercare prima il regno di Dio e la sua giustizia mentre tutte le altre cose” ¢ cibo, bevanda, vestito…- “saranno date (da Dio) in aggiunta” (Mt 6,33).

    Il cammino attraverso il deserto è pertanto una necessità per noi tutti: abbiamo bisogno di ripercorrere il deserto per percepire le radici stesse della nostra fede, per imparare nella carne che la nostra vita non dipende dall’economia dei beni, ma da ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Se la nostra destinazione è il Regno, se la nostra vocazione è il giardino dell’ Eden in cui Dio pose l’uomo, noi dobbiamo tuttavia attraversare la “valle di lacrime”, il deserto come luogo in cui impariamo nella nostra carne che siamo destinati alla vita divina. Sì, andare nel deserto è operare una rottura con un mondo ben preciso, ma questa rottura è in vista di un unione più intima con Dio, perché è nel deserto che è rivelata l’essenza stessa di Dio: il nome del Signore è stato consegnato a Mosè proprio nel deserto! Il deserto è allora il luogo per eccellenza della comunione con Dio, lo spazio e il tempo in cui si entra nei pensieri di Dio, si raggiunge il suo “cuore”.

Da “Mondo e missione”

Giugno-Luglio 2003

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