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Sabato, 21 Maggio 2011 21:10

Il giovane ricco

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Mc 10/17-31

di  P. Innocenzo Gargano O.S.B. Cam.

 

17Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e gettandosi in ginocchio davanti a lui gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».

18Gesù gli disse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre». 20Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. 21Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, perche aveva molti beni.

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». 24I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com'é difficile entrare nel regno di Dio! 25E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più sbigottiti, dicevano fra loro: «Chi mai si può salvare?». 27Ma Gesù, guardandoli, disse: «impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio».

28Pietro allora gli disse: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31E molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi».

Anzitutto cerchiamo di mettere un po' di ordine nella nostra mente tentando di scoprire il cuore della pagina.

La struttura di un testo non comporta che il centro del testo corrisponda anche al centro geometrico della pagina: può essere all'inizio o al centro o alla fine. A me sembra che il centro di questa pagina sia l'affermazione di Gesù al v. 27, la dove Gesù conclude di fatto il discorso con riferimento a Gn 18,14:

«Tutto è possibile presso Dio».

Questa frase la ritroviamo in Marco altre due volte. La prima volta al c. 9:

«Tutto è possibile a chi crede»

(era la risposta data da Gesù a proposito dell'impossibilità da parte dei discepoli di riuscire a guarire il ragazzo lunatico: «se e possibile? Ma tutto e possibile a chi crede»).

Una seconda volta in questo incontro di Gesù con il ricco che gli corre incontro.

Una terza volta infine al c. 14,36, in cui sconvolto dalla prospettiva della passione, chiede al Padre di liberarlo dalla necessità di bere il calice della sofferenza richiamandosi appunto alla onnipotenza di Dio:

«Padre, a te tutto èe possibile, passi da me questo calice»

Si tratta di tre situazioni limite in cui l'uomo accusa la propria incapacità a risolvere problemi fondamentali della sua vita fisica, psicologica, o spirituale.

Gesù al Getsemani, ovviamente, ha di fronte a se la perdita della vita fisica. E confessa la potenza di Dio, capace, se il Padre lo vuole, di garantire la continuità di questa vita fisica.

La situazione del ragazzo lunatico di Mc 9,23 può essere riferibile all'ambito psichico dell'uomo. Ci sono delle interferenze nella psiche umana che non permettono all'uomo di godere della pienezza della propria integrità e l'uomo è incapace di risolvere questo dramma. E di nuovo ci si affida alla onnipotenza di Dio.

Qui, invece, in Marco 10, siamo di fronte a una incapacità spirituale: l'uomo aggrappato, radicato alle proprie ricchezze, non riesce ad avere la forza di liberarsene, accusa la propria incapacità radicale e quindi resterebbe prigioniero di questi legami se non intervenisse l'onnipotenza di Dio.

Nel Vangelo di Luca questa stessa espressione viene riportata al termine dell'incontro dell'angelo con Maria e anche allora !'espressione diventa in qualche modo il centro di tutto il racconto.

L'angelo pronuncia queste parole con riferimento sia al concepimento di Elisabetta che nella sua vecchiaia ha concepito un figlio sia al concepimento di Maria che, nella sua verginità, ha anch'essa concepito un figlio: perché nulla è impossibile a Dio.

Dunque, fra le cose impossibili all'uomo e possibili a Dio, abbiamo l'inizio e il termine della vita, abbiamo l'armonia delle capacità psicologiche interiori dell'uomo e abbiamo anche la scelta decisiva del cambiamento di vita, da una vita legata alle ricchezze, idolatricamente legata alle ricchezze, a una vita aperta, libera, fiduciosa unicamente del Signore.

Si tratta dunque - come dicevamo - delle situazioni limite dell'uomo.

Tutta questa pagina dovremmo vederla allora - questa è la mia convinzione - illuminata da questa proclamazione: nulla è impossibile a Dio.

Questo è il centro.

Intorno a questo centro adesso vediamo come si muovono i personaggi, cioè gli interlocutori di Gesù e Gesù stesso.

In questa pagina possiamo distinguere sostanzialmente due parti:

  1. la parte dell'incontro dell'uomo ricco con Gesù;

  2. la parte della riflessione di Gesù, integrata dall'interrogativo di Pietro. Pietro è come un aiuto utilizzato dall'evangelista per dare a Gesù la possibilità di svolgere ampiamente la sua riflessione, facendone anche un'applicazione concreta, attualizzante, alla situazione degli apostoli che poi è la situazione simpliciter dei discepoli del Signore.

Vediamo le singole parti.

La prima parte di questo primo blocco la possiamo rintracciare nei versetti dal 17 al 22: è l'incontro del giovane ricco con Gesù, il dialogo e la conclusione.

Ovviamente, anche in questa prima parte del primo blocco ci sarà una centralità che scopriremo senza mai però perdere di vista la centralità del versetto 27 di cui ho già parlato.

La seconda parte possiamo rintracciarla nei versetti dal 23 fino al 27 che termina proprio con questa proposta o proclamazione del Signore: tutto, infatti, è possibile presso Dio.

Poi c'e quello che abbiamo chiamato il secondo blocco che permette all'evangelista, dietro la sollecitazione di Pietro, di dare a Gesù la possibilità di approfondire ancora il discorso e di applicarlo alla situazione concreta degli apostoli e dei discepoli in generale.

L'ultimo versetto, il versetto 31 (i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi) è una specie di proverbio che era invalso all'interno della comunità. Un evangelista lo mette in un posto, I'altro in un altro e Marco l'ha preso e l'ha messo qui.

Chi sono questi «primi»? Sono i ricchi, i «primi»? Può anche darsi che i «primi» siano i capi all'interno della comunità, oppure i «primi» possono essere coloro che si ritengono giusti all'interno della comunità. Matteo è più articolato quando utilizza questa espressione di Gesù. Quindi la possiamo tenere da parte e la potremo commentare alla fine.

 

2. L'INCONTRO DEL RICCO CON GESU: VV. 10,17-22

Riprendiamo il testo dal versetto 17:

«Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli chiese... ».

La novità di questo testo possiamo intuirla già fin da questa prima descrizione. Finora abbiamo visto che l'iniziativa veniva sempre presa da Gesù; vi ricordate che è Gesù che ha chiamato Simone e Andrea, è Gesù che ha chiamato Giacomo e Giovanni, è Gesù che ha chiamato Levi, e Gesù che ha chiamato i dodici.

Qui, invece, è qualcuno che si propone, lui personalmente, al Signore; qualcuno che è stato molto impressionato da ciò che ha sentito raccontare di Gesù e quindi si è deciso a chiedere proprio a Gesù la risposta al problema di fondo che lo assilla certamente da molto tempo.

In altre situazioni abbiamo, nel Vangelo di Matteo, qualcuno che dice al Signore:

«Ti seguirò ovunque tu vada».

E anche allora Gesù risponde: «Ma ti rendi conto di che cosa chiedi? Guarda che le volpi hanno la tana, gli uccelli hanno il nido, ma il figlio dell'uomo non ha dove posare capo». E’ dentro questa cornice che dobbiamo vedere il dialogo di Gesù con l'uomo ricco. Gesù vuole cercare, di fatto, di aprire quest'uomo alla consapevolezza di tutte le conseguenze che derivano dall'essersi incontrato con lui.

E’ un uomo sincero che, correndo addirittura, si getta in ginocchio davanti a Gesù; correndo, ciò vuol dire che è pieno di entusiasmo e di generosità e che è anche disponibile a riconoscere la superiorità di Gesù rispetto a tutti gli altri rabbi; dunque non si pone come semplice interlocutore, ma come qualcuno che si butta in ginocchio davanti a Gesù senza forse rendersi conto fino in fondo del perché di questo gesto. Gesù cercherà di fargli capire il senso profondo del gesto che lui ha compiuto forse - ripeto - senza piena consapevolezza.

E’ un uomo che corre verso Gesù, gli si getta in ginocchio davanti e lo riconosce come maestro, come rabbi, e non solo come maestro, ma come maestro buono.

Quindi c'è anche un aggettivo preciso; per lui era moltissimo questo! Certamente Gesù non era a quei tempi l'unico rabbi, l'unico maestro in Israele. Si conoscono i due grandi rabbi della generazione immediatamente precedente a Gesù, che hanno lasciato il segno in tutta la tradizione ebraica: Hillel e Shammai. Hillel era considerato un maestro accondiscendente, che interpretava la Legge in favore dell'uomo; riusciva a piegare la Legge verso l'uomo.

Shammai, invece, era piuttosto un maestro che voleva il rigore dell'applicazione della Legge, quindi era il rappresentante di una corrente un po' più rigida: non era la Legge che si piegava verso l'uomo, ma era l'uomo che doveva piegarsi sotto la Legge.

Gesù molto probabilmente si inserisce nella linea di Hillel, perciò la fama di Gesù è una fama che lo rende attraente alla povera gente che sente troppo pesante il giogo della Legge, intesa in senso legalista. La bontà riconosciuta a Gesù lo poneva in linea forse con la bontà riconosciuta a Hillel e al suo metodo interpretativo della Torah, della Legge.

Anche quella famosa massima di Gesù:

«non è l'uomo fatto per la legge, ma è la legge fatta per l'uomo»

sembra non sia un'invenzione di Gesù, ma che derivi appunto da questa scuola di Hillel. A Dio - diceva Hillel - preme la vita dell'uomo, per l'uomo ha dato la Torah, e quindi per poter salvare l'uomo nella sua integrità si può anche piegare la Legge al servizio dell'uomo.

Definendo Gesù «Maestro buono» l'uomo ricco crede di avergli detto tanto, di avergli riconosciuto un valore eccezionale, una qualità eccezionale. L'interrogativo che fa a Gesù «che cosa farò, che cosa dovrei fare per ottenere la vita eterna?» è lo stesso interrogativo che, secondo la tradizione ebraica, si poteva porre ed è stato posto a Hillel e a Shammai da un pagano. Shammai fu interrogato per primo dal pagano e rispose in modo molto duro al pagano, imponendogli di imparare e di applicare tutti i comandamenti, uno dopo l'altro.

Allora questo pagano - prosegue una tradizione ebraica - andò da Hillel ponendogli la stessa domanda e Hillel rispose sintetizzando tutti i comandamenti nell'unico comandamento e aggiungendo: tutto il resto è commento. Siamo dunque in un' atmosfera e in un contesto che rende più familiare al mondo ebraico questa pagina del Vangelo di Marco.

Gesù viene interrogato:

«Maestro buono, cosa dovrei fare per ottenere in eredità una vita che abbia le caratteristiche del tempo eterno?».

Ricordando la distinzione del tempo in: «krònos», «kairòs» e «aiòn», qui siamo di fronte al tempo inteso come «aiòn». L'eternità che interessa all'uomo ricco non è tanto il succedersi ininterrotto e infinito di un momento dietro l'altro, quanto una vita qualitativamente diversa.

Gesù, prima di rispondergli, cerca di renderlo consapevole delle implicazioni esistenti all'interno del suo atteggiamento e delle sue parole. C'e una specie di provocazione dell'uomo ricco portata avanti da Gesù; c'e una sottintesa rivelazione dell'identità di Gesù in tutto questo: tu mi definisci «maestro buono», ma se mi dici «buono» sai che l'unico buono è Dio, dunque renditi conto della dignità di colui di fronte al quale ti trovi.

Soltanto dopo che Gesù ha richiamato il giovane (per Marco non è un giovane, è piuttosto un tizio), dopo averlo richiamato alla consapevolezza che avrebbe dovuto avere con il suo gesto e con le sue parole, prosegue: «Bene, hai i comandamenti, osserva i comandamenti». Ma i comandamenti richiamati da Gesù sono quelli della seconda tavola.

Per gli ebrei sono due le tavole della Legge; una prima tavola prescrive i comandamenti verso Dio e una seconda tavola quelli nei confronti dell'uomo. Gesù fa aprire gli occhi a quest'uomo sull'osservanza della tavola relativa ai rapporti con gli uomini aggiungendo un «non frodare», espressione che non si ritrova nel decalogo. Gli esegeti non sanno spiegare perché, comunque viene inserita.

Da notare inoltre che, mentre Matteo conclude la lista con il comandamento dell'amore del prossimo «e amerai il prossimo come te stesso», Marco non registra questo comandamento. Abbiamo comunque una lista tutta particolare:

«non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dare falsa testimonianza, non frodare, onora il padre tuo e la madre»

e poi non c'e altro. Non sappiamo perché.

Di fatto però la lista è tale da poter permettere al giovane di constatare di avere custodito questi comandamenti fin dalla sua giovinezza.

«Fin dalla mia giovinezza ho osservato questi comandamenti».

A questo punto Gesù considera la situazione dell'uomo che ha davanti a sé una situazione ottimale ad accogliere la chiamata da parte di Dio.

Gesù dunque conferma questi comandamenti, stima al punto che considera colui che li ha osservati fedelmente fin dalla giovinezza come il terreno adatto in cui adesso può gettare il seme della sua chiamata. C'è sì l'uomo ricco davanti a Gesù, ricco economicamente - lo vedremo dopo - ma c'è soprattutto l'uomo giusto davanti a Gesù, l'uomo che sinceramente, fedelmente, ha custodito e quindi osservato tutti i comandamenti del Signore.

Dietro questa figura dell'uomo giusto, ovviamente c'e Israele, c'e tutto il popolo ebraico che ha osservato i comandamenti, li ha custoditi senza trasgredire neppure uno jota dei comandamenti di Dio e che perciò, in questa lettura di Marco, diventa il terreno ottimale in cui può essere gettata la provocazione o la proposta definitiva di Dio attraverso la missione di Gesù di Nazaret.

Potremmo anche allargare questi confini e identificare nell'uomo giusto ogni uomo sincero, di buona volontà, che vive nel mondo, al di la dell'appartenenza o meno ad una struttura di popolo eletto o ad una struttura religiosa propriamente detta. Ogni uomo che riesce a compiere fedelmente i propri impegni di fondo diventa, in questa pagina di Marco, il terreno propizio, ottimale, in cui può essere gettato il seme del Signore.

E di fatto questa parte dal v. 21 al v. 22, descrive più in profondità l'incontro tra il terreno già pronto e il seme che sta per essere gettato. Gesù entra dentro l'uomo:

"emblepsas» dice il testo greco, «lo guardò dentro»;

non c'e l'«éiden» di cui si parlava a proposito della vocazione di Simone e Andrea, di Giacomo e Giovanni; c'e un guardare dentro; «en» significa «in»; «blepo» è lo sguardo inteso nel senso fisico: c'e quasi una funzione onomatopeica di questo verbo «blepo», come quando uno apre e chiude le palpebre.

Si tratta dunque dello sguardo inteso nel senso fisico: lo guardò dentro e rimase meravigliato per l'onesta, il candore, la sincerità dell'uomo.

E lo amò.

Gesù si innamora di quest'uomo, si innamora della bellezza interiore di quest'uomo. Si tratta di un verbo (nel testo greco) che non viene usato né a proposito di Simone e Andrea, né a proposito di Giacomo e Giovanni, né a proposito di Levi, né della vocazione dei dodici: «egapesen». Gesù si innamora di quest'uomo onesto, di quest'uomo giusto, di quest'uomo puro.

Se quest'uomo e simbolo — come abbiamo accennato — di Israele e di tutti coloro che hanno vissuto con coerenza nella propria vita, l'innamoramento di Gesù va inteso con riferimento a Israele e ad ogni uomo retto che vive in questo mondo.

Ma l'innamoramento spinge adesso Gesù a chiedere qualcosa di più. Prima era stato il giovane che era andato da Gesù. Adesso è Gesù che va dal giovane.

Andando da Gesù, e andando con la sincerità del cuore che si portava con se, il giovane ha provocato l'amore di Gesù che adesso gli chiede di più. Ha fatto innamorare Gesù. E gli disse:

«una sola cosa ti manca»:

hai tutto, ma ti manca l'amore; hai fatto tutto ciò che era preliminare; ti manca di concludere queste nozze, di consumare l'amore.

Come uno sposo che ha preparato tutte le cose, la casa, tutto ciò che si potrebbe chiamare un patrimonio, in funzione delle nozze e adesso gli manca una cosa soltanto: consumare l'amore.

Come può farlo? Gesù gli indica la strada: per poter arrivare alla consumazione dell'amore hai bisogno di uscire da te stesso, hai bisogno di spogliarti; tutto quello che hai vendilo, dallo ai poveri e possiederai il tesoro, il tesoro del cuore, così che sarai finalmente tutt'uno con il tuo tesoro. Ricordati però che non si possono servire due padroni, non si può consumare l'amore, nello stesso tempo, con due persone diverse. Distribuisci ai poveri tutto ciò che possiedi e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e segui me. Ecco la strada.

II modo concreto con cui quest'uomo può consumare le nozze è la sequela di Gesù. E’ la proposta per il giovane ricco, è la proposta per Israele ed e la proposta per ogni uomo di buona volontà.

Può anche essere la proposta per noi. Ci siamo preparati un'intera vita e quando siamo sulla soglia in cui ci viene semplicemente chiesto di fare l'ultimo passo, denudarci per poter incontrare, vivere l'intimità con lui, ecco cosa ci può succedere:

«Egli intristitosi a causa di questa parola (o a causa della Parola) se ne andò amareggiato».

Secondo il suo giudizio Gesù gli ha chiesto troppo, rivelando così un fondo di tiepidità che Gesù non si aspettava. Deve aver faticato davvero molto questo uomo se fin dalla giovinezza si è preoccupato di custodire bene i comandamenti del Signore; ma in realtà ha vissuto la sua vita con tale e tanto volontarismo e legnosità che, quando Gesù gli ha proposto il fuoco, si e ritrovato lontano.

Questa tristezza e questa amarezza del giovane ricco sono una tristezza e un'amarezza che poi intaccheranno in fondo Gesù stesso. La tristezza è contaminante. II cuore di Gesù deve essersi sentito veramente ferito da questa incapacità del giovane ad accettare la provocazione finale.

Qui Marco parla della tristezza dell'uomo ricco, ma noi possiamo facilmente immaginare anche la tristezza umana di Gesù.

Ripensiamo un momento a Gesù che, osservando — secondo Luca — la bellezza della città di Gerusalemme, piange su di essa.

«Quante volte ho tentato di radunarti sotto le mie ali, come una chioccia raduna i suoi pulcini e tu non hai voluto».

Il pianto di Gesù è l'ultima provocazione, l'ultimo tentativo di strappare un consenso alle nozze da parte dell'uomo giusto, dell'uomo onesto che ha custodito fin dalla giovinezza i comandamenti del Signore.

L'osservazione che l'evangelista fa a proposito delle motivazioni che hanno portato al rifiuto è un'osservazione ovvia:

«infatti, aveva molte ricchezze».

Certamente non si può parlare di ricchezze semplicemente economiche; si tratta di un altro tipo di ricchezze o per lo meno si tratta anche di un altro tipo di ricchezze e lo abbiamo visto. Sono ricchezze di ordine spirituale, legate proprio alla consapevolezza di possedere una coerenza invidiabile, autentica, quindi non ipocrita, ma vera.

3. RIFIUTO E TRISTEZZA: VV. 23-27

La risposta negativa rattrista anche il Signore, il quale però contrappone in qualche modo al rifiuto del giovane ricco l'accoglienza generosa di coloro che ha davanti a sé.

Avevamo sottolineato il verbo «emblepsas». Qui Marco riprende lo stesso verbo, però non mette la preposizione «ém», mette la preposizione «perì»; è piuttosto l'idea di un qualcosa che si avvicina all'idea del cerchio. Guardando intorno. Intorno a se Gesù ha il cerchio dei suoi discepoli più immediati, il cerchio dei discepoli che sono seduti ai suoi piedi. A questo cerchio di intimi Gesù manifesta finalmente la sua tristezza dando spazio a uno sfogo che può essere tipico di chi fa una dichiarazione d'amore e viene rifiutato:

«Come difficilmente coloro che hanno ricchezze potranno entrare nel regno di Dio»

A questo punto l'evangelista precisa che a queste parole i discepoli sono colti dal «thambos», cioè da uno stupore che contiene in se il timore e il tremore che afferrano chi è posto di fronte a una teofania.

Il verbo è abitualmente utilizzato in contesti teofanici, cioè in contesti di rivelazione della presenza di Dio; in questo rifiuto cioè del giovane ricco a varcare la soglia e ad accettare la provocazione d'amore da parte di Gesù c'e qualcosa che ha attinenza diretta con un progetto nascosto nel mistero di Dio.

Se restiamo in questo accostamento simbolico tra l'uomo ricco e Israele, constatiamo che lo stesso «thambos», lo stesso stupore, timore e tremore proveranno gli apostoli — Paolo in particolare — di fronte all'inspiegabile rifiuto di Israele a entrare nella comunità del Signore.

Un progetto misterioso da parte di Dio, di cui l'uomo non sa darsi una spiegazione e che però nonostante tutto, permette di nutrire la speranza. Paolo lo dirà a proposito di Israele: al termine, anche Israele entrerà. Quindi questo riferimento al «thambos» dei discepoli che sono seduti ai piedi del Signore ci permette di non condannare definitivamente quest'uomo ricco, come di fatto non lo condanna neppure Gesù; certe cose avvengono perché si manifesti l'onnipotenza di Dio.

Il quarto evangelista lo dirà chiaramente a proposito del cieco nato.

Ci sono situazioni di ordine fisico, di ordine psichico, di ordine spirituale che sfuggono al tentativo razionalista dell'uomo; fanno parte del mistero nascosto dai secoli in Dio; e se Dio permette queste cose, forse le permette perché sia manifesta la sua onnipotenza. Ecco perché bisogna mettersi in punta di piedi di fronte a questo uomo ricco che rinuncia, o che rifiuta di passare la soglia.

Del resto potremmo intuire qualcosa di ancora più sconcertante se accostassimo la figura di questo uomo ricco alla figura di Giovanni il Battista del quale Gesù dice chiaramente che

«tra i nati di donna non è nato nessuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio e più grande di lui».

E’ sconcertante il fatto che Giovanni invii i suoi discepoli verso Gesù, fino a farli trasformare da discepoli suoi in discepoli di Gesù di Nazaret e non senta bisogno, lui personalmente, di fare altrettanto. E’ mistero di Giovanni, forse e anche il mistero di Israele e di ogni uomo onesto delle nostre strade.

Di nuovo l'invito rivolto a noi è quello di metterci in punta di piedi con timore e tremore di fronte a questo rifiuto; se questo vale dell'uomo ricco, di cui parliamo, se questo vale di Giovanni Battista, se questo vale di Israele, perché non dovrebbe valere anche per tanti uomini di buona volontà — si pensi a Simone Weil per esempio — che restano sulla soglia?

Lasciamo aperto il perché. Non facciamoci giudici di queste persone, anche se non possiamo fare a meno di rattristarci insieme col Signore.

Forse è proprio per questo che, implicitamente, Marco pone questa situazione di Gesù accanto alla situazione del ragazzo lunatico che non riesce a guarire per la mancanza di fede dei suoi discepoli cui contrappone la situazione personale di Gesù al Getsemani, che, posto nella medesima prova, si affida all'onnipotenza di Dio sperando nel compimento della promessa fatta a Davide e alla sua discendenza.

La meraviglia dei discepoli costringe Gesù a intervenire di nuovo. In realtà Gesù coglie adesso la tristezza dei discepoli. La tristezza infatti si è propagata. La tristezza dell'uomo ricco diventa tristezza di Gesù e provoca tristezza anche nei discepoli. Gesù conforta chiamandoli «tekna». «Teknon» significa «figlio» piccolo cioè «bambino».

Utilizzando questo termine, Gesù assume nei confronti dei discepoli un atteggiamento motto affettuoso. Sente il bisogno di rincuorarli. Ha dovuto prima superare in se stesso la prova di questa incapacità del suo amore infinito — perché è l'amore del Figlio di Dio — nei confronti di questo sasso che non riesce a farsi liquefare dall'amore. Egli sa che il suo problema sarà anche il problema dei suoi discepoli, quando, di fronte al rifiuto del Vangelo, si interrogheranno: ma come è possibile?

Si può dire della nostra missione che non siamo santi abbastanza, non siamo sufficientemente Luce, non siamo incandescenti abbastanza per fondere l'altro con il calore del nostro amore. Questo non avremmo potuto dirlo né avrebbero potuto dirlo i discepoli a proposito dell'amore di Gesù; eppure anche l'amore di Gesù si rivela impotente di fronte a questo uomo ricco.

Come mai Israele non ha varcato la soglia? Paolo ne parla «apertis verbis»:

«vorrei essere anatema, per i miei consanguinei».

E’ ciò che roderà il cuore, forse, di tutti gli autentici apostoli del Signore fino ad oggi. Gesù sa tutto questo. Perciò adesso assume un atteggiamento particolarmente affettuoso: «tekna», «ragazzi miei», «figli miei», non vi lasciate sopraffare da questa tentazione.

L'accostamento al Getsemani è molto chiaro: non lasciatevi sopraffare da questa tentazione: veramente è difficile entrare nel regno di Dio.

E’ addirittura più facile per un cammello passare attraverso la cruna dell'ago, anziché per un ricco superare la soglia del regno di Dio.

Lo sconcerto dei discepoli cresce ancora di più; ma allora? Il fatto che Gesù stesso abbia confermato la difficoltà che loro avevano intuito li sconvolge ancora di più. Dove va a finire tutto il nostro ideate di espansione del regno di Dio fino ai confini del mondo? Come potremo allora illuderci che sia possibile a Israele di attraversare la soglia, a Giovanni di farsi discepolo di Gesù di Nazaret, a Simone Weil di entrare concretamente nella chiesa?

Chi allora si potrà salvare?

Si immagini un cammello che entra nella cruna di un ago. Dicono che fosse una porticina molto bassa da cui entrare in Gerusalemme e che fosse talmente piccola da sembrare la cruna di un ago. Quale che sia, l'immagine dell'impossibilità è evidente. E dunque chi può pretendere di essere fine abbastanza da entrare dentro la cruna di un ago, se neppure quest'uomo così ligio alla Legge, così onesto, così integerrimo, perfetto nell'osservanza non ha potuto riuscirci?

Adesso si capisce perché il centro di tutto il testo il versetto che stiamo per leggere.

Marco descrive Gesù di nuovo con lo stesso verbo «blepo» e di nuovo con «emblepo»; prima I'aveva utilizzato perché voleva sottolineare lo sguardo di Gesù che entrava dentro il cuore dell'uomo ricco; poi ha utilizzato lo stesso verbo ma con un'altra preposizione per indicare il cerchio dei discepoli; adesso riprende di nuovo «emblepo».

Gesù capisce lo sconcerto, capisce lo sgomento dei suoi discepoli, e perciò entra adesso col suo sguardo in ciascuno di loro. Avendoli guardati dentro, Gesù dice: «sì, impossibile per gli uomini» — non dice impossibile per gli uomini ricchi, impossibile per Israele, impossibile per chissà quali altri personaggi, o semplicemente per gli uomini:

«impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio».

Gesù richiama i discepoli all'esperienza di gratuità che hanno già fatto nel momento stesso in cui sono stati guardati dal Signore e chiamati a lui; chiamati dalla situazione diversissima in cui si trovavano. Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Levi, ecc. non potevano neppure accampare la stessa onestà di vita che poteva accampare l'uomo ricco che era corso incontro a Gesù.

Riferendosi dunque all'esperienza di gratuità da loro stessi sperimentata, Gesù li porta alla constatazione: «vedete, impossibile agli uomini, ma non impossibile a Dio. Infatti, tutto è possibile a Dio».

 

4. L'INTERROGATIVO DI PIETRO: VV. 27-31

E questa è davvero una bella notizia. Dopo che i discepoli si sono visti trascinare di tristezza in tristezza, di fallimento in fallimento, guardando non soltanto al proprio personale fallimento, ma al fallimento di Gesù si sentono aprire il cuore alla speranza:

«a Dio tutto è possibile».

II messaggio centrale di tutto il Nuovo Testamento sarà proprio questo: la risurrezione dei morti, impossibile per I'uomo, ma possibile per la forza e la potenza di Dio. Sarà il filo di tutti i discorsi di Pietro e di Paolo negli Atti degli apostoli. Questo Gesù, che secondo le possibilità umane ormai era stato eliminato, inchiodato sulla croce, ucciso e sepolto, questo stesso Gesù è stato risuscitato dalla potenza di Dio. E dunque, se noi possiamo essere testimoni di questo, allora vuol dire che possiamo anche avere fiducia che un ricco entri nel regno di Dio; che Israele attraversi la soglia; che Giovanni si ritrovi dentro; che Simone Weil e anche noi possiamo sperare di appartenere in pienezza al regno di Dio.

Pietro incomincia a prendere un po' di respiro. Gesù fa discorsi altissimi. E Pietro:

«Noi abbiamo lasciato tutto... ».

Non si è reso conto che ha potuto lasciare tutto perché è stato afferrato da Cristo. Quello sguardo è stato come un amo lanciato in bocca a Pietro che vi è rimasto impigliato come un pesce; lui non si rende più conto che fa parte della compagnia del Signore perché il Signore ha gettato l'amo e lui ha abboccato. E sottolinea: ma in fondo noi abbiamo lasciato tutto, ti abbiamo seguito. Dunque, allora…..Gesù afferra l'occasione per chiarire e dare anche un po' di conforto:

«voi che mi avete seguito, in verità vi dico... non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto».

E’ un conforto, è il viatico per il pellegrinaggio; perché le amarezze, le disillusioni, le tentazioni di sconforto saranno veramente tante. Ma già qui, anche secondo le interpretazioni degli esegeti, e anche per i Padri, il riferimento di Gesù è per la compagnia degli uomini su questa terra, durante questo tempo che è il tempo opportuno, in cui ciascuno mette in gioco la propria vita.

Già qui, ora, avrete il conforto, il sostegno, l'aiuto che derivano in modo quasi naturale dal fatto di poter avere un tetto, di non avere la preoccupazione della casa, di avere fratelli, sorelle, madri, figli, campi, tutto; anche se tutto questo sarà unito a tribolazioni. Sono intrecciate di spine queste rose, però sono rose, sono rose autentiche.

E’ veramente bello e dà gioia poter abitare insieme; la gioia di essere comunità, la gioia di essere famiglia, la gioia anche di utilizzare con spontaneità i beni senza attaccarvisi, ovviamente; la gioia di usufruire dei campi e delle case senza idolatrarli, senza metterli al primo posto che spetta soltanto a lui. Perché non godere? adesso in questo tempo che è il tempo della chiesa, e il tempo della nostra vita, è questo tempo qui.

La gioia è grande perché non ci mancherà il sostegno umano, che ogni uomo può desiderare e legittimamente desiderare; eppure tutto questo ci prepara, quasi ci fa pregustare quella vita qualitativamente diversa, verso la quale tutti noi siamo orientati.

Gioie certamente intrecciate con la tribolazione, con le sofferenze che poi in fondo sono le sofferenze della vita.

Da qui può nascere la nostra oratio, la nostra preghiera. Una preghiera anzitutto di compunzione: tutte le pretese di Pietro:

«ma noi abbiamo lasciato tutto».

Ma cosa ha lasciato? Non avrebbe lasciato se qualcuno non lo avesse tirato fuori. C'e molta densità in queste parole.

Una preghiera di petizione: una richiesta di unità della chiesa, unità del popolo di Israele, del popolo dei credenti in Gesù, unità di tutti i popoli del mondo ; ma una richiesta di unità, fatta in timore e tremore, con profondo senso di rispetto per i progetti misteriosi di Dio che non sono i nostri, un progetto che prevede la salvezza di tutti, nonostante, direi quasi attraverso, il rifiuto di alcuni.

C'e una grossa paradossalità in tutto questo; la nostra preghiera, la preghiera che nasce da questa pagina, non può non essere preghiera ecumenica, ma una preghiera fiduciosa, radicata sull'onnipotenza di Dio.

Ciò che è impossibile all'uomo è possibile a Dio.

L'unità delle chiese è impossibile all'uomo.

L'unità fra le diverse religioni è impossibile all'uomo; eppure nulla è impossibile a Dio. Noi, fidando su questa possibilità radicale dovuta all'onnipotenza del Signore, possiamo ancora chiedere ed essere certi di essere esauditi. E questo vale soprattutto per chi fra di noi lavora in situazioni molto difficili dal punto di vista non più semplicemente sociale, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista religioso.

Le cosiddette grandi religioni che adesso scoprono la forza del proselitismo. Ci interroghiamo sempre: dove si andrà a finire? Eppure fidandoci di questa parola di Gesù possiamo già essere certi dell'esaudimento.

E poi una preghiera di rendimento di grazie. Ciascuno può ritrovarsi in Pietro e tutti non possiamo non ringraziare il Signore perché ci ha chiamati; perché ha chiamato noi e non altri?

Tante volte mi sono chiesto: e se io fossi nato in uno di quei paesi in cui non si conosce nemmeno l'esistenza del Vangelo? E’ una cosa seria.

Abbiamo di che rendere grazie al Signore per aver ricevuto questo dono. Abbiamo di che rendere grazie al Signore perché abbiamo tanti fratelli, tante sorelle, tanti amici che ci permettono di godere poi della nostra realtà umana, semplicemente umana.

Quindi può esserci anche spazio per una preghiera laudativa, una preghiera cioè cosìi piena di ringraziamento da non riuscire a fare a meno di esprimersi in canto.

Nella misura in cui ci lasciamo davvero prendere da questa parola fino al punto che questo modo di essere di Gesù diventa anche il nostro modo di essere nei confronti dei cosiddetti «lontani» che sono fuori delle mura visibili della chiesa, possiamo finalmente cominciare a sperimentare perfino il dono della contemplazione.

P. Innocenzo Gargano O.S.B. Cam.

Lectio Divina su

Il Vangelo di Marco

EDB 1989

 

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Letto 6296 volte Ultima modifica il Sabato, 21 Maggio 2011 21:40

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