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Venerdì, 01 Luglio 2011 15:58

«Ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore»

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                                                   (Fil 2,5-11)

                                           di Sr. Teresa Maria Ragusa o.cist.
                                         Monaca del Monastero Cistercense
                                               di Santo Spirito, Agrigento.

Il celebre inno della lettera ai Filippesi offre una meditazione profonda del Mistero di Cristo e si presta bene ad accompagnare il nostro cammino quaresimale in preparazione alla Pasqua. La liturgia inserisce questo brano tra le letture della domenica delle Palme.

 

 

Per gli studiosi sembra si tratti di un inno prepaolino da annoverare tra gli scritti che circolavano nelle comunità delle origini, e difatti si stacca stilisticamente dal genere epistolare del contesto in cui è inserito per l'andatura ritmata ed il linguaggio elevato. L'apostolo Paolo vi ritrova i contenuti essenziali della propria cristologia, pertanto non esita a farlo proprio integrandolo nella lettera che indirizza ai Filippesi (1).

 

 

 

Sacra Pagina

5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù
6i1 quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
7ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,
8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
9Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome;
10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Fil 2,6-11).

La struttura

L'inno si compone di due strofe, di cui la prima racconta l'abbassamento (vv. 6-8) di Cristo Gesù, la seconda la sua esaltazione (vv. 9-11). Questo schema a due tempi, abbassamento/esaltazione, saldati insieme dal «per questo» del v. 9, serve ad illuminare il significato profondo dell'inno: la prima strofa motiva la seconda, l'abbassamento è la ragione dell'esaltazione. Gesù è entrato pienamente nella nostra umanità senza far valere la propria uguaglianza con Dio come motivo di prestigio (v. 6), ha scelto la Kenosis, cioè l'abbassamento assoluto, che qui si esprime con cinque verbi di umiliazione: «Spogliò se stesso», «assunse la condizione di servo», «divenne simile agli uomini» (v. 7), «umiliò se stesso», «si fece obbediente» (v. 8). Proprio come il servo sofferente di Isaia, Cristo ha toccato l'abisso dell'annientamento più totale affrontando l'esperienza della morte più infamante: la croce. Questa tuttavia non è stata l'ultima parola sulla propria vicenda terrena, perché Dio ha esaltato il suo Servo obbediente, glorificandolo con il nome di Signore (v. 9), nome con il quale la comunità Lo crede e Lo confessa a gloria di Dio Padre (vv. 10-11).

Analisi del brano

Pur essendo di natura divina (v. 6): l'inno inizia con un verbo che, nella lingua originale, copre una vasta gamma di significati, tra i quali quello di esistere, trovarsi, esserci, con una nota di stabilità e appartenenza che lo rafforza. Cristo nella sua preesistenza condivideva le modalità dell'esistenza di Dio, cioè un'esistenza gloriosa, sottratta a limiti e condizionamenti, e questa esistenza gli spettava di diritto, essendo Dio egli stesso.
Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio: di questo versetto sono state date due interpretazioni; alcuni interpreti antichi vi scorgevano il rovescio dell'arroganza di Adamo: questi, semplice uomo, tenta scioccamente di innalzarsi fino a Dio e di «rapire» le sue prerogative divine (Gn 3,5), il Figlio di Dio e Dio Egli stesso umilmente discende fra gli uomini, spogliandosi delle sue prerogative.
La seconda interpretazione pone maggiormente l'accento sull'atteggiamento solidale del Signore Gesù: Egli non ha tenuto gelosamente per sé non soltanto la propria esistenza d'uomo, ma anche la condizione divina, ragionando in termini di solidarietà, condivisione e donazione.
Questo ci rivela un dato molto importante: il modo di esistere di Dio è il dono di sé, e l'esistenza donata dell'uomo Gesù lo specchio di tale «ragionare» divino.
Ma spogliò se stesso (v. 7): in lingua originale il verbo è Kenòo, verbo molto forte che evoca l'idea indica una spoliazione o rinuncia totale, come quando si fa il vuoto; si potrebbe tradurre anche: «spogliò completamente se stesso».
«Assumendo»: è il verbo usato per indicare la realtà dell'incarnazione, ma ciò che qui viene posto in rilievo non è l'evento dell'incarnazione in quanto tale, ma la «modalità concreta» in cui è stata realizzata, che è appunto quella dello svuotamento, dello spogliamento totale da parte di Cristo delle proprie prerogative divine (ad esempio, l'esistenza gloriosa, senza debolezza, sofferenza, morte) che lo avrebbero reso un uomo «diverso», non in tutto uguale agli altri.
Anche le espressioni seguenti «divenuto uguale agli uomini» e «apparso in forma umana» intendono sottolineare ancora questa realtà. Particolarmente significativo è che i due estremi dell'incarnazione non sono «condizione di Dio» e «condizione di uomo», bensì «condizione di Dio» e «condizione di servo». Così il paradosso dell'incarnazione è presentato in tutta la sua profondità: da Dio a servo, il modo d'esser uomo scelto da Gesù è l'esser servo.
Umiliò se stesso (v. 8): l'umiltà nel giudaismo esprime la giusta posizione di fronte a Dio e agli uomini; nei confronti di Dio è l'atteggiamento di chi si sente bisognoso e non sa a chi altri appoggiarsi, nei confronti degli uomini manifesta la volontà di stare con gli altri, mettersi al loro livello, servendo anziché dominando.
Facendosi obbediente: l'etimologia greca indica che l'obbediente è l'uomo in ascolto: Gesù ha condotto un'esistenza in ascolto di Dio, sottomesso alla sua volontà.
Ecco le tre parole chiave che esprimono la verità di Gesù che risalta in quest'inno: servo - umile - obbediente.
Fino alla morte, e precisamente alla morte di croce: «fino a» può significare sia estensione sia intensità: Gesù fu obbediente per tutta la vita (estensione) e fino al punto di dare la vita (intensità), non ritraendosi neppure di fronte all'ignominia della croce.
Per questo Dio lo ha esaltato (v. 9): la traduzione più aderente all'originale è «super esaltò». Come l'abbassamento di Cristo ha toccato il punto più basso che si possa immaginare, così è stato innalzato nel punto più alto che si possa immaginare; naturalmente non si tratta di un luogo ma di una condizione: una condizione «esasperatamente alta», oltre ogni grado che a noi sia dato di intendere.
La croce non è l'ultima parola di Dio: l'ultimo atto della storia di Cristo è la glorificazione, descritta qui in termini grandiosi.
E gli diede un nome al di sopra di ogni altro nome: «esaltare» e «dare il nome» sono un'unica azione, dunque «lo ha esaltato dandogli un nome». Il verbo «diede» si traduce in greco con echarisato, che ha la stessa radice del vocabolo charis, che significa grazia, dono, per cui bisogna intendere il dono del nome nel suo senso di gratuità piena: «gli regalò».
Ci troviamo dinanzi ad una combinazione di significati di straordinaria ricchezza e profondità: da una parte il «per questo» del v. 9 pone un legame di causa/effetto tra l'obbedienza della croce e la gloria dell'esaltazione, dall'altra il verbo echarisato (gli regalò) suppone la gratuità.
La gloria di Gesù è contemporaneamente frutto dell'obbedienza della croce e dono gratuito del Padre.
Affinché ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore (v. 11): il «nome» di cui si parla è «Gesù Cristo Signore» (Kyrios). Il verbo «confessare» indica la professione di fede, una proclamazione ferma, pubblica, ad alta voce. Soltanto davanti a chi è riconosciuto come Kyrios, Signore, ci si prostra e si esprime con coraggio, anche a rischio della vita, la propria professione di fede.
La formula «Gesù Signore» è considerata la confessione più antica e sintetica della fede cristiana: il dato stupefacente è che la si trova in un inno composto soltanto una decina d'anni dopo la morte di Gesù, il che lascia concludere che molto presto la comunità delle origini aveva maturato la fede nella sua divinità.
Kyrios è il titolo conferito a Dio nell'AT per tradurre in greco il tetragramma YHWH: attribuirlo a Cristo significa dire che egli partecipa della stessa signoria di Dio e che ora manifesta la sua presenza autorevole (la signoria, appunto) nella comunità.
La signoria di Gesù non va intesa però come indipendente o esteriore rispetto a quella di Dio, ma è riflesso dell'unica signoria di Dio: Gesù è «Signore a gloria di Dio Padre» (v. 11). È qui che tutta la vicenda raccontata trova veramente il suo approdo finale e la sua ultima ragione.
Il termine gloria ha due significati: «lode», ma anche «manifestazione». Da una parte Dio manifesta nell'evento della croce il proprio Volto (gloria come manifestazione), dall'altra l'uomo non può che stupirsi, al colmo della riconoscenza e della lode, scorgendo Chi è Dio (gloria come lode).

Per una meditazione

La consegna dell'Obbediente
Quest'inno ci dice non soltanto che cosa Gesù ha fatto, ma anche Chi Egli sia, e mostra che svuotarsi fino al limite estremo della croce non è contro Dio, ma «fa parte di un disegno del Padre», tutto improntato alla gratuità dell'amore espresso nel dono di sé. La vicenda di Cristo Gesù manifesta un Dio del tutto insospettato, la cui accoglienza esige un capovolgi mento delle nostre abituali concezioni: all'idea di un Dio di potenza, dobbiamo sostituire l'idea di un Dio di condivisione e di solidarietà.
La croce appare come l'atto culminante dell'obbedienza di Gesù, il gesto della sua suprema autoconsegna piena d'amore al Padre. Essa, ancor prima di essere considerata in rapporto a noi, cioè nel suo valore salvifico, deve essere contemplata nel suo valore religioso, cioè come gesto che Gesù pone nei confronti del Padre, come atto di totale fiducia e abbandono filiale.
Mentre Adamo, mancando di fiducia in Dio, ha attuato una chiusura nei confronti del suo disegno con il no del peccato, l'uomo Gesù con il sì pieno della sua obbedienza, ha ristabilito la creatura nel corretto rapporto con Dio, manifestando fino a che punto l'uomo deve sottomettersi e fidarsi incondizionatamente del Padre.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. " cristiano: un vocato all'obbedienza.
L'inno si inserisce in un discorso esortatorio (2,1-5a; 2,12-16a), in cui San Paolo raccomanda ai cristiani di Filippi di avere in sé gli stessi sentimenti del Signore Gesù; l'inserzione di questo inno serve all'Apostolo anche per giustificare la propria esortazione, offrendone la ragione ed il modello.
La vocazione cristiana è, come quella di Gesù, una vocazione all'obbedienza, cioè una chiamata a fare propri i sentimenti del Figlio. Gesù ha vissuto tutto il suo cammino come Obbediente, Servo e Umile, anche il cristiano deve vivere questi atteggiamenti come espressione del proprio «modo di essere» davanti a Dio e tra gli uomini.
Alla luce della croce, interpretata come gesto supremo della consegna di Cristo al Padre, tutto nell'uomo viene risignificato, anche il «negativo» (la debolezza, la fragilità creaturale, il mistero del dolore ... ) acquista valore, perché il credente scopre, nel suo Signore Crocifisso, la misteriosa fecondità della Sua redenzione.

                                                                                                                                                                                                                                                di Sr. Teresa Maria Ragusa o.cist.
                                                                                                                                                                                                                                                Monaca del Monastero Cistercense
                                                                                                                                                                                                                                                  di Santo Spirito, Agrigento.
1) Bibliografia: MAGGIONI B., Il Dio di Paolo e il Vangelo della Grazia, Paoline 1996, pp. 60-83.

 

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Letto 8144 volte Ultima modifica il Martedì, 19 Luglio 2011 13:57

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