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Domenica, 10 Luglio 2011 11:34

Letio Divina sulla parola carità

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 Testi I Cor 13,1-13-At 4,32-37

Dott. Rosanna Virgili, Docente di Esegesi Biblica presso l'Istituto Teologico Marchigiano

Santa Teresa d'Avila considerava la verginità l'avere «molto cuore».

Essa, la verginità, rendeva visibile, per la grande mistica e Dottore della Chiesa, la qualità pura, assoluta, di ogni cristiano: egli ha «molto cuore», cioè un cuore aperto, esposto, nudo, catturato nella rete amorosa della comunione.

Un cuore gonfio e operoso, con gli occhi di fronte, pieno di sillabe in dialogo, di parole in corrispondenza, morbido e sensibile alle passioni umane e divine, sempre in tensione, in ascolto verso ciò che batte, che pulsa, che si muove, che lotta per nascere. Cristallino di cielo e sporco di terra. «Molto cuore» vuol dire, allora, un cuore indiviso, integro, unico, attraversato e compiuto, in tutto il suo essere, dal corpo stesso dell'altro, del fratello e di Dio. Sono le parole di Luca negli Atti degli Apostoli: «La moltitudine dei credenti aveva un cuore e un 'anima sola» (At 4,32). Un cuore integro è il segno di una vita trasformata, diversa, una vita che emerge dalla impermeabilità, dall'isolamento, dalla reciproca indifferenza tra gli uomini e realizza il miracolo dello sconfinamento degli uni verso gli altri: rivela non solo il sentirsi parte, ma l'essere parte di una comunità, di una terra, di un mondo, di un corpo che ha un cuore ed un'anima sola. Non solo il sentirsi coinvolti, ma anche l'essere convinti che «la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro» (Gn 44,30). Questo autentico miracolo è l'opera dello Spirito, frutto e dono del mattino di Pasqua, che la Chiesa riceve a Pentecoste. Da Lui il flusso liquido che apre le nostre individualità chiuse e piccine e le sconcerta innestandole in un luogo spazioso di Amicizia: il Corpo aperto dell'Uomo risorto, sulla Croce. Nome dell'amico e del nemico, del lontano e del vicino, del nero e del bianco. Viso che trascolora, sangue che si scioglie. Un volto intimo ed estraneo, un odore irresistibile e insopportabile: il corpo dell'altro, un corpo «altro». Membra di amante, tatto amato e negato. Nel Suo Corpo che si stende nell'abbraccio, l'attesa di braccia che avvolgano il riposo. La via migliore di tutte - dice Paolo - è la carità: il grido ed il sorriso dell'abbraccio. Per cedervi occorre «molto cuore» cioè molta vera intelligenza e molta fede, molta libertà e molta compassione, la passione per la giustizia e lo scotto della pace, l'impegno forte e la lungimiranza. L'amore, infatti, è l'unica eredità che avrà la terra, l'unico superstite della storia dell'umanità, sempre secondo le promesse di Paolo. Ma solo un «cuore indiviso» può comprenderlo, sceglierlo, credervi, amarlo, impastarsi, senza finzione, nell'abbraccio.

1. Carità, solidarietà, amicizia in At 4,32-36

«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era tra loro comune.

Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù Cristo e godevano di grande stima.

Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano e portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35)

La carità, anima del cuore indiviso, viene presentata, nel testo di Atti, come segno dell'amicizia autentica e concreta che lega i componenti della comunità cristiana. Essa è un circuito di vita, paragonabile al «sangue» che unisce in una alleanza inscindibile coloro che sono venuti alla fede. Fluido liquido e spirituale che ispira lo stile della Chiesa e introduce una sensibilità nuova e nobile, fino a rendersi vetro che lascia trasparire la testimonianza di un mondo diverso, alto, liberato. In quella vita condivisa, in quell'amore vero e puro, è la fede dei cristiani; ed è attraverso, essa che «tutti» vedranno il Volto di un Dio vero e incarnato: il Volto del Signore Risorto.

Questo splendido quadro è, pertanto, il cuore del Vangelo della Chiesa. Per sottolinearne l'importanza Luca lo incastona tra due esempi, due esperienze di vita, fatte da persone che già appartenevano alla comunità apostolica. Il primo esempio segue subito il nostro testo ed è quello di Barnaba; il secondo viene subito dopo ed è quello di Anania e Saffira. Iniziamo da quest'ultimo.

Il racconto, che ha come protagonisti Pietro, Anania e Saffira (At 5,lss.), viene avvertito dai lettori di tutti i tempi come un esempio di durezza da parte degli Apostoli verso l'infelice coppia. L'epilogo della storia che accosta la stessa al genere drammatico della tragedia, ci lascia ammutoliti.

L'intervento terribile di Pietro sembra sproporzionato di fronte al gesto dei due coniugi e - inoltre - l'Apostolo non lascia loro alcuno spazio al ravvedimento e al pentimento. La morte repentina sembra una punizione davvero troppo severa; ci sembrerebbe più civile, più «umano» che Pietro provasse a dialogare con Anania e si dimostrasse pronto - allorquando costui avesse espresso resipiscenza - a perdonarlo, insieme a sua moglie.

Ma per capire la gravità del gesto di Anania e Saffìra occorre tener conto innanzitutto della finalità del racconto: esso vuole esprimere una pedagogia, impartire una catechesi, un insegnamento sulla vita cristiana. Quindi è necessario collocarlo nel contesto e quindi accanto al caso che Luca riferisce subito prima: quello di Barnaba. Esso - come già abbiamo detto - segue la descrizione magnifica della comunità cristiana, quella immagine potremmo dire da sogno, e costituisce - al contrario di quello di Anania e Saffira - una obbedienza a quel modello. Dice infatti Luca:

«Così Giuseppe, soprannominato dagli Apostoli Barnaba che significa "figlio dell'esortazione", un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi degli apostoli»

Barnaba con la sua coerenza luminosa, rivela l'ipocrisia di Anania e Saffira, che fanno il contrario di Barnaba. Mentre Barnaba vende il suo campo e consegna alla comunità tutto il ricavato, Anania e Saffira, tengono una parte del ricavato per sé. Anania e Saffira non entrano nello stile della comunità cristiana: dove tutto veniva condiviso. Ma perché il loro gesto è tanto grave? Che cosa in quel poco denaro che avevano trattenuto poteva nuocere loro in modo così grave? Occorre tornare ancora al senso che la «consegna dei beni» aveva nella comunità. Esaminiamo i verbi che vengono usati per Barnaba:

«possedere»

«vendere»

«portare/consegnare»

«deporre»

I primi due verbi indicano una economia di scambio, gli ultimi due di dono. Barnaba che «possedeva» un campo poteva venderlo ...naturalmente per denaro. In questa prima fase Barnaba appare coinvolto in una economia che è quella - diremmo oggi noi - «capitalistica», in cui le cose, i beni, le ricchezze si comprano, si possiedono, si vendono. Il rapporto con le cose, con i beni materiali, da cui dipende la vita «fisica» dell'uomo, sono regolati dal denaro ed anche finalizzati ad esso e dal rapporto con esso in base ai diritti di proprietà individuali.

Gli ultimi due verbi fanno uscire Barnaba da questa «economia». Egli porta/consegna il denaro - ottenuto con il «suo» campo -e lo depone ai piedi degli apostoli. Ciò che il diritto di proprietà stabiliva come «suo» Barnaba «consegna» e «depone».

Bello questo verbo: «deporre» inteso come «metter giù» non portare più con sé, liberarsene... È una azione che introduce Barnaba in una economia di povertà e di libertà allo stesso tempo, Barnaba diventa «colui che lascia tutto per qualcosa di più»: per la nudità dei figli di Dio!!

«Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio» dice Gesù (Lc 6,20),

II suo gesto risuona come la risposta all'esortazione di Gesù nel Vangelo:

«Chi non lascia campi e casa e figli, non è degno di me... riceverà il centuplo in case, campi... ».

Se Barnaba infatti depone, si libera dei suoi diritti di proprietà è perché vuole affermare ed aderire ad un diritto ben più grande: il diritto comune alla vita, alla vita come grazia, come dono che viene dall'Altro e dagli altri, come atto di amore cui ci si consegna e da cui si guadagna ogni bene di autentica sussistenza.

L'altro verbo è «consegnare», anch'esso di grande spessore teologico: Barnaba consegna il suo piccolo reddito alla comunità affinchè venga distribuito tra tutti. Non si tratta di una virtuosa, nobile rinuncia, si tratta di condividere con tutti quanto rimarrà anche suo. Si tratta di uscire da un certo modo di concepire i beni materiali: essi non sono fatti per arricchire qualcuno, ma per sfamare tutti, non sono fatti per creare fratture, ostilità, divisioni fra gli uomini, ma per creare comunione, per fare da ponti, per servire una gioia comune.

Con queste due azioni Barnaba annuncia un mondo nuovo, un mondo liberato dalle fratture tra poveri e ricchi e «consegnato» all'unica economia ragionevole: quella della condivisione e della pace.

È il capovolgimento della mentalità del mondo, è una radicale, letterale, autentica rivoluzione. Con queste azioni Barnaba dimostra di credere in un modo nuovo di vivere il rapporto con il denaro: esso non serve una logica di marketing, di do ut des, ma una logica di gratuità: il miracolo è avvenuto. Ecco perché erano proprio le scelte di Barnaba, condivise da tutta la comunità, che avevano la forza di una incredibile testimonianza: quella della resurrezione di Cristo:

Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù Cristo e godevano di grande stima.

Con questo «portare», con questo «donare», con questo «condividere» i cristiani diventavano autentici evangelisti, testimoni della resurrezione di Cristo. Di Colui che nel vangelo di Luca, al cap. IV, aveva annunciato il suo programma evangelico dicendo:

«Lo Spirito del Signore è su di me (...)

mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio» (v. 18),

annunciando con le parole di Isaia un anno di grazia del Signore. Ora, dopo la sua morte e resurrezione, tutto ciò è diventato realtà e la Chiesa ne è testimone proprio nel suo condividere una terra giusta e libera. Dove i frutti son di tutti e ogni cosa viene a tutti come il diritto di un dono.

Non bastano le parole a rendere credibile la fede cristiana, a rendere visibile il Cristo risorto, occorre quello stile di vita, quella testimonianza concreta che già si assapora in un pezzetto di mondo risorto dalla violenza e dalla ostilità, dagli steccati di ciò che è «mio» e ciò che è «tuo».

Quanti porranno tutti i loro averi, tutto se stessi, cioè, come terreno di Dio, spazio libero dalla violenza e dalla tentazione del dominio, a vantaggio della solidarietà e dalla compassione degli uni verso gli altri, questi incarneranno il volto del Signore risorto nelle pagine inquiete e insanguinate della storia. La testimonianza dei cristiani sarà specchio del Cristo risorto, poiché la vergogna della indigenza, di chi ha troppo e di chi non ha nulla, viene tolta dalle nostre strade e dal nostro globo:

Nessuno, infatti, tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Queste immagini sembrano smentire perfino le parole di Gesù che aveva detto: «i poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8); la vita delle comunità cristiane, ormai «risorte» con Cristo, anticipano la carezza di un tempo escatologico, ancora da venire, ma già aleggiante in mezzo agli uomini. Anania e Saffira non riescono a far ciò. Non riescono ad uscire dalla mentalità «del secolo». Si perdono, per così dire, in un bicchier d'acqua. Non riescono ad abbracciare la bellezza di una dimensione dilatata della vita. A credere che tutto possa essere a loro disposizione, che nulla mancherà loro nella comunità dei credenti; non riescono ad uscire dalla paura dell'insicurezza che sembra generare il non poter disporre autonomamente di nulla. Dalla paura di perdere quasi una identità nel momento in cui venisse meno una pur piccola proprietà, di mettersi in balìa del rischio della gratuità. È una fatica che noi capiamo, perché ci appartiene: noi abbiamo compassione di Anania e Saffira.

Essi, in fondo, erano buoni cristiani. Davano la loro parte, credevano di far abbastanza per la Chiesa degli apostoli. Pensavano che il loro contributo fosse più che onorevole. Che male c'era a tenere solo una piccola percentuale per i bisogni personali, magari con la scusa di non dover poi chiedere agli altri quando avessero avuto bisogno.

Forte è la domanda di Pietro:

«Prima di vendere (il tuo podere) non era forse tua proprietà e anche venduto il ricavato non era forse sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a questa azione?» (5,4);

« Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio»;

conclude l'Apostolo Pietro. Sì, in fondo Anania e Saffira non avevano mentito agli uomini, nel senso che quel loro gesto non avrebbe portato gran danno alla comunità che già aveva ricevuto molto da loro; ma essi avevano mentito a Dio, non avevano, cioè, recepito il dono di Dio, il messaggio di Gesù, il quale consisteva nella proposta di un rapporto, di un legame di assoluta libertà.

Non erano entrati in un rapporto di vera comunione con Dio rifiutando di esporsi ai «rischi» di un cuore indiviso... il rapporto con Dio non è una agenzia di assicurazione... è piuttosto l'avventura inestimabile della vita nella grazia, dell'avere, cioè, «molto cuore».

È proprio in quel «sottrarre», in quel «trattenere una piccola parte per sé» che si

consuma una specie di maledizione per Anania e Saffira.

Senza rendersene pienamente conto, essi barattano infatti il fior fiore del bene che possono ricevere dalla comunità, con quella «piccola parte» segretamente sottratta. Essi perdono, così la «parte migliore»: quel vantaggio, quel guadagno che solo la vita di comunione concede ed è descritta ancora in At 4 così:

«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo ed un'anima sola».

Ciò che Anania e Saffira hanno perduto per quella stupida tentazione di tenere qualcosa per sé, è il cuore pieno, indiviso, integro, felice. Dove sarà, infatti, il loro cuore? In quella parte «sottratta» dove nessuno deve entrare, o dentro la comunità umana e cristiana di cui fanno parte?

«Dove è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore».

È per questo che gli esegeti considerano quello di Anania e Saffira il «peccato originale» della Chiesa. In questa vicenda e'è una nuova edizione della storia di Adamo ed Eva che mentirono a Dio, staccando il loro cuore dal loro Creatore, sottraendo, rubando la loro parte.

«Non si può servire a due padroni... « dice ancora Gesù. O si perde l'uno o si perde l'altro... Anania e Saffira hanno perso la parte «migliore»: il cuore. La malattia del cuore è la doppiezza. Il cuore malato spegne la vita di tutto il corpo. È forse per questo che Anania e Saffira cadono a terra come cadaveri. Ci piace pensare come la loro «morte» fosse solo il simbolo di una «morte inferiore» dovuta a quel loro insipiente «sottrarre» il proprio cuore, la propria anima dal circolo della vera vita, della libertà, della comunione indivisa nella comunità dei risorti.

La domanda che affiora alle labbra a questo punto è però questa: come è possibile non essere come Anania e Saffira, come è possibile non aver paura di fondersi, non avere un cuore indiviso, come è possibile raggiungere la libertà e l'intelligenza di Barnaba?

2. Carità e Corpo di Comunione: penetrando nel cuore indiviso

«Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona e un cembalo che tintinna; e se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla»;

«la carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si compiace della verità».

Parlare in così tanta luce e libertà di amore fraterno, di umiltà, di pazienza, di verità, di speranza è una prerogativa di pochi. E l'Apostolo ha saputo egregiamente compiere quest'opera. Tanto che nemmeno uno «iota», nemmeno una sillaba, vorremmo cambiare.

Cosa potremmo, pertanto, aggiungere o spiegare senza correre il rischio di impoverire, appesantire, involgarire? Sono pagine che si comprendono con quella intuizione che deriva dalla sintonia dello sguardo dell'anima, degli affetti, della fede. È necessario soltanto che noi ci si acclimati a una temperie tanto particolare e distante dalla nostra cultura occidentale, quella di una comunione che è adesione ad un unico sentire, ad un unico essere, ad un unico amore. Fatto di tanti toni e tanti timbri e tante voci che si levano e si cercano per vibrare nell'assonanza, per trasformare le note di ciascuno in armonia di coro, tra esse anche le nostre.

«(La carità) tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta... le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà, la scienza svanirà: la carità non avrà mai fine».

Ciò che soltanto si può fare è sedersi e contemplare tanto splendore, tanta bellezza, un sogno siffatto. In fondo Paolo ci conduce in un mondo ancora da venire, in una visione «faccia a faccia», in una condizione di perfezione che adesso possiamo percepire solo attraverso una conoscenza manchevole, in maniera confusa, come in uno specchio (cf 13,12).

Tanto meno sarebbe adibita a parlarne una donna, che piuttosto, dirà Paolo proprio in queste pagine;

« taccia nella assemblea, perché non è permesso ad essa parlare; se vuole sapere qualche cosa interroghi a casa il proprio marito, perché è sconveniente per una donna parlare in una assemblea» (cf 14,34-35).

Non parleremo, allora, ma ascolteremo il «sussurro» dello Spirito che si agita nelle parole della Scrittura ai Corinti.

Del resto l'argomento ci obbliga. Il cap. 12 si apre con la intenzione di Paolo di «spiegare»; «peri de ton pneumatikon»: circa «i doni dello Spirito». Ora, in Corinto, i doni dello Spirito erano molti, forse troppi. Le comunità pativano di quella che - con una infelice traduzione in italiano - si chiama «enfiagione spirituale». Le chiese erano ricche di carismi e di carismatici. Ma - per assurdo - questa ricchezza faceva impoverire la Chiesa nel suo insieme e promuoveva, invece della comunione, la divisione (schismata), le fratture, l'ostilità, la competizione (11,27-34).

Tanto ricchi di spirito erano i Corinti che - ahimè! - essi non sapevano resistere alle sollecitazioni del corpo: e nelle agapi fraterne cedevano ad una ingordigia tutta di stomaco e si avventavano sulla mensa sfogando una fame selvaggia, senza pensare neppure ad aspettare i fratelli.

Questi istintivi comportamenti mettono Paolo dinanzi all'urgenza di dare spiegazioni chiare e dettagliate a proposito, appunto, dello Spirito. C'è qualcosa che non è stato capito dalle sofisticate comunità di Corinto che si vantavano di essere campionesse di «spiritualità». E credevano di farlo dimostrando rapimenti estatici sovrannaturali, profondendosi in performances spettacolari. La Chiesa di Corinto era popolata di efficienti e di vincenti, in cui grande era l'orgoglio dei credenti innestati nelle floride congiunture di un mondo ricco e liberale, che si consideravano i più bravi nella fede, i più potenti nella comunità cristiana e i più snob nella società civile.

Una Chiesa dove ciò che contava erano i titoli, le cariche, e per poter ricevere legittimazione all'annuncio del Vangelo erano richieste autorevoli garanzie e protezioni, nonché sfoggio di retorica e di sofìa e prove di potere. Ma era la celebrazione della «cena» del Signore che faceva «cadere l'asino», che smascherava miseramente la consistenza di quegli strabilianti doni spirituali che i cristiani si vantavano di possedere. Essi non si traducevano, infatti, in autentica fraternità, in solidarietà profonda alla fame degli uni con gli altri, non era celebrazione del sacramento dell'eucaristia inaugurato da Gesù. Perciò lo Spirito vi rimaneva bandito, impotente, inattivo.

Cosa sono, infatti, «i doni dello Spirito» se non paragonabili ai nervi che fanno muovere il corpo materiale della comunità cristiana, guidati dal capo di quel corpo che è il Cristo?

Il corpo

«Ci siamo abbeverati a un solo spirito» (12,13);

«Tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano, infatti, da una roccic. spirituale che seguiva: ora la roccia era il Cristo» (1Cor 10,4)

Dunque lo spirito si beve alla «roccia» che è il corpo di Cristo. Come gli antichi Ebrei bevvero alla roccia da cui Mosè fece scaturire l'acqua nel deserto così i cristiani bevono alla roccia che è Cristo l'acqua dello Spirito. La roccia è il «Suo» corpo. Proprio quel corpo che la sensibilità gnostica, largamente diffusa a Corinto, non accettava, rigettando, con esso, anche la storicità di Gesù e la sua passione e morte, a favore di una «spiritualità» disincarnata.

Ma come mai Paolo per spiegare lo Spirito viene a parlare del corpo?

«Come, infatti, il corpo pur essendo uno ha molte membra, e tutte le membra pur essendo molte, sono un corpo solo...» (12,12).

Paolo presenta il corpo, innanzitutto, come la pluralità delle membra. Le membra sono il corpo, non solo appartengono al corpo. La distinzione e la relazionalità delle membra tra loro manifestano la realtà del corpo (cf 12,14-20):

«Se tutto il corpo - infatti - fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato? » (v. 17).

Non è un membro solo, ma l'insieme delle membra nella loro articolazione e reciprocità che qualifica la realtà del corpo.

Tale meravigliosa armonia viene fatta risalire alla sapiente estetica divina che ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le membra «come ha voluto» (cfv. 18). La preferenza data ad un solo membro entra in contraddizione con il principio stesso dell'entità «corpo». Esso è, infatti, distinzione per creare un insieme organico e armonico. E proprio per questa sua vocazione, iscritta nella sua stessa natura, Paolo usa questo simbolo. Il corpo, infatti, dice la necessità del legame tra le parti. Nel corpo il segno dell'altro, nella ricerca di un più pieno, più felice se stessi. È nel luogo dell'incontro il luogo dell'io/noi.

L'io del corpo non è single, ma è insonnia, rincorsa di un altro, è voce che chiama alterità a corrispondere, a completare, a far gioire. È esporsi, è rischio, inermità, allorquando esso rivela il suo bisogno profondo di amore. Ogni creatura - alla stregua di ogni membro di un corpo - ha bisogno dell'altro, va per sua natura incontro all'altro e pertanto si allaccia con esso con legami di solidarietà.

Non solo il debole (l'asthenes) ha bisogno del forte (cf i vv. 23-24), ma anche, viceversa, il forte del debole, anzi ai più deboli deve essere riservata una maggiore attenzione, come si fa con le parti più delicate di un corpo ed ai più vili e manchevoli un riguardo maggiore, come si fa con le parti più indecorose del corpo. Occorre aiutarsi, avere cura gli uni degli altri [merimnan allelon], condividere la pena e la gioia.

La complessità della Chiesa è esemplificata attraverso il paradigma dell'alterità, attraverso le categorie distanti tra loro di giudei e greci, di schiavi e liberi, persone differenti per cultura e stato sociale, che possono tuttavia intersecarsi in virtù di una unica anima spirituale.

Paolo mette in parallelo la realtà del corpo umano con quella del corpo di Cristo. Il corpo di Cristo è la realtà totale della chiesa nata dallo Spirito nel Battesimo. Per l'azione dello Spirito, nel battesimo è generato il corpo che appartiene al Cristo (12,12-13).

«Aspirate - perciò - ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia» ( 14,1 ).

L'agape eucaristica

Quando quella «Parola» si fa carne, si fa sacramento, allora essa viene vissuta pienamente: la «via» di ogni parola carismatica dice, ora, Paolo è l'agape. Perciò l'amore è il linguaggio della Chiesa, la sua stessa carne che si fa testimonianza della carne di Dio per il mondo. È quel «corpo» che si fa Parola. La lingua del Corpo del Figlio di Dio nel mondo è l'amore:

«se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità... ».

Ancora una volta è il tema della parola che viene toccato: quell'ansia che vibra in tutti i carismi, che anima tutta la profezia, che interpreta ogni lingua diventa vera, tangibile, effettiva, immortale solo quando prende la via dell'amore. Quando fa dell'amore la sua sostanza, la sua dottrina, il suo vocabolario vivente. Poiché:

«...sono come un bronzo che risuona e come un cembalo che tintinna»

inutili e logore diventano le parole se non sono vivificate

«se non ho la carità... ».

Posso parlare le lingue celesti, ma se non ho amore il mio parlare è un vuoto e insulso rumore (13,1) come le parole dei retori. Così posso avere il carisma della profezia se fossi capace di operare prodigi, ma senza amore «nulla sono».

L'agape è la rivelazione della verità delle parole. È la rivelazione del linguaggio carismatico come sostanzialmente amore: esso infatti rende ragione al «corpo» poiché lo lega, lo cementa, lo fa sviluppare, lo rende perfetto. È l'unica verità. La verità è, infatti, una ricerca dialogata. E l'amore è ricerca, rincorsa, espressione di desiderio in un dialogo senza confini. E ciò è il cemento della Chiesa. Non è possibile edificare, consolidare e far crescere la Chiesa senza lo spirito dell'amore. Senza quella voce che si fa richiamo di un membro verso l'altro, Che fi fa insonnia di corrispondenza. Che si lascia attrarre in una estasi di fusione in cui ogni membro è trasformato e trasfigurato.

Reso «corpo» fecondo, capace, a sua volta di trasformare. Allora le parole sono quelle del dono, di una consacrazione vitale, del consegnare se stessi. E solo in questo corpo sarà possibile celebrare degnamente l'eucaristia, la cena del Signore.

 

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Letto 10179 volte Ultima modifica il Martedì, 05 Novembre 2013 22:06

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