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Martedì, 01 Dicembre 2020 09:59

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LA COLLABORAZIONE FEMMINILE

NELLA PRASSI APOSTOLICA DI PAOLO

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2 - DONNE NELLA LETTERA DI PAOLO AI ROMANI

IL CAPITOLO 16

La lettera di Paolo ai cristiani di Roma fu scritta, secondo l’opinione maggioritaria tra gli studiosi, a Corinto in un anno tra il 56 e il 58 d.C. Nel capitolo conclusivo (Rm 16) Paolo porge i suoi saluti a diversi componenti della comunità dei cristiani di Roma, saluti che testimoniano un profondo legame tra l’apostolo e i suoi collaboratori. Nel gruppo di questi ci sono numerose donne.

Tra tutti gli scritti del Nuovo Testamento, Rm 16 è quello che più offre riferimenti a donne protagoniste nell’apostolato; ad esse Paolo rivolge saluti e apprezzamenti, e, da come ne parla, mostra di conoscerne di persona almeno alcune. Il brano apre uno squarcio interessante sulla vita delle comunità cristiane delle origini, in particolare sul ruolo dei laici e delle coppie nell’annuncio missionario.

Rm 16,1-16 (testo CEI 2008):

1 Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: 2accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso.

3Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. 4Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano.

5Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.

Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia.

6Salutate Maria, che ha faticato molto per voi.

7Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me.

8Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore.

9Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi.

10Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. 11Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. 12Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore.

13Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me.

14Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro.

15Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. 16Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo.

Qui Paolo cita 29 persone (19 uomini e 10 donne), riportando il nome di 27 di loro, tra cui 8 donne (più due senza nome). Molti di questi nomi sono greci. Paolo offre qualche indicazione specifica su 11 uomini e 8 donne.

Le donne menzionate sono: Febe, Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia, la madre di Rufo e la sorella di Nereo.

Sono circa un terzo degli uomini, e tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, in quanto sappiamo che Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, scrive ad una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo o in generale in quanto “hanno faticato per il Signore”.

Rm 16 dunque, come affermò un tempo un commentatore, può davvero essere intesa come “la più gloriosa attestazione di onore per l’apostolato della donna nella chiesa primitiva”.

FEBE

La prima persona che Paolo cita in Rm 16 è una donna di nome Febe: l’apostolo chiede alla comunità cristiana di Roma di riservarle un’accoglienza calorosa per il suo impegno. Il suo nome greco significa “brillante”, “luminosa”, da cui si deduce che il suo retroterra era greco-romano e non ebraico (se no, ben difficilmente il suo nome sarebbe stato preso dalla tradizione culturale pagana). Il riferimento di Paolo a lei è fatto con parole e allusioni che le conferiscono una statura eminente tra i cristiani delle comunità di quel tempo. Di lei Paolo dice:

1 Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio [ma il testo più specificamente usa il termine διάκονος, “diacono”] della Chiesa di Cencre: 2accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto [Paolo usa il termine προστάτις = “patrona”] molti e anche me stesso.

Si tratta di una donna di Cencre, uno dei due porti della città di Corinto, situata nella parte orientale dell’istmo (sul lato occidentale c’era l’altro porto, quello di Lecheo), la cui comunità cristiana deve essere nata dall’attività missionaria di Paolo, che arrivò a Corinto nell’anno 50 d.C. e vi restò per un anno e mezzo. Di lei Paolo non cita legami famigliari, il che fa supporre che fosse una donna che non dipendeva da un marito o da un padre.


Le credenziali di questa donna contengono tre titoli:

ἀδελφὴ (adelphè) = sorella, διάκονος (diàkonos) = diacono, προστάτις (prostàtis) = patrona.

1) Per quanto riguarda il primo, l’uso dell’espressione “nostra sorella” segnala che Febe è un membro della comunità dei seguaci di Gesù (i termini “fratello” e “sorella” sono una metafora primaria per caratterizzare le relazioni tra i seguaci di Gesù nel NT, in base all’idea che questi fratelli e sorelle sono figli dello stesso Padre che è Dio e che hanno tutti la sessa posizione nella casa di Dio). Tuttavia, quando Paolo usa questi termini in riferimento a un individuo specifico, egli intende riferirsi a uno/una che gli è collega nel ministero o è una figura eminente di cristiano (così, ad esempio, Tito in 2Cor 2,13 e Apfia in Flm 1,2).

2) Febe è “diacono” della chiesa di Cencre. Questo secondo titolo (διάκονος) è un sostantivo che serve invariato sia al maschile che al femminile (perciò non è pienamente corretto tradurlo con “diaconessa”, come fanno alcune Bibbie). E’ un termine che compare ben 100 volte negli scritti del NT, di cui 35 nelle lettere originali di Paolo. Di solito ha il significato di “servitore”, “aiutante”, “intermediario”. Ma bisogna tener presente due cose: a) con questo termine Paolo solitamente designa se stesso o i suoi collaboratori nell’esercizio del ministero apostolico; b) qui in Rm16 è usato in diretto collegamento con una comunità locale (“Febe, diàkonos della Chiesa di Cencre”); il che indica che non si deve pensare a un generico “servizio”, ma che – come afferma la maggior parte degli studiosi – Febe aveva un ruolo di guida a Cencre. Doveva essere quello che oggi si potrebbe chiamare un “operatore pastorale” nella comunità a cui provvedeva con i suoi interventi, che non consistevano solo in aiuti materiali ma anche nello svolgere un ruolo ufficiale di guida di quel gruppo di cristiani.

A questo proposito, c’è un’interessante testimonianza letteraria, successiva di poco più di mezzo secolo alla lettera di Paolo ai Romani: lo scrittore romano Plinio il Giovane, che fu governatore della Bitinia (regione del nord-ovest dell’odierna Turchia), in una celebre lettera inviata all’imperatore Traiano nel 112 d.C., racconta che nel corso di un’inchiesta da lui condotta su una comunità di cristiani di quella regione (che egli definisce aderenti a una “perversa e smodata superstizione”), per avere informazioni sui loro comportamenti interrogò e fece torturare due schiave che erano chiamate “ministrae”. Poiché il termine latino “ministra” equivale al greco “diàkonos”, è probabile che quelle due donne svolgessero nella loro comunità cristiana un ruolo di guida se Plinio ritenne così importante farle arrestare e torturare per averne informazioni e citò il loro titolo nella lettera all’imperatore.

E’ poi interessante che il Padre della Chiesa che scrisse il più antico commento alla lettera di Paolo ai Romani, cioè Origene (che scrisse intorno al 245 d.C.), credeva che Febe fosse stata designata ad un ministero ufficiale nella Chiesa. In riferimento a Rm 16,1-2, egli scriveva:

Questo passo insegna con autorità apostolica che anche delle donne venivano designate al ministero ecclesiale, ufficio in cui Febe fu posta nella chiesa di Cencre (…) E perciò questo passo sta a significare che anche delle donne erano considerate ministri nella Chiesa”.

E Origene non è certo sospettabile di grande apertura verso le donne…

Un’altra importante testimonianza in questo senso, di un secolo successiva allo scritto di Origene, è un’iscrizione su una lapide funeraria proveniente dalla Palestina (trovata nel 1903 a Gerusalemme e databile alla seconda metà del IV secolo) che dice:

Qui giace la schiava e sposa di Cristo,il diacono Sofia, la seconda Febe, che si è addormentata nella pace”.

Essere citata come “la seconda Febe” – e per di più in Palestina, terra altamente significativa per la tradizione cristiana – era chiaramente un onore per il diacono Sofia ricordata nella stele (e citata col termine maschile “diàkonos”, come Febe in Rm 16).

Naturalmente occorre evitare l’anacronismo di attribuire a questo termine il significato che assumerà nei secoli successivi. Al tempo di Paolo (in questo caso siamo negli anni 56-58 d. C.) il ruolo e i compiti di tipo ministeriale-gerarchico abbinati ai singoli titoli erano in piena evoluzione e non avevano ancora raggiunto una sufficiente comune comprensione (una prima istituzionalizzazione la si fa normalmente risalire al tempo delle “lettere pastorali”, cioè 1 e 2 Tm e Tt); quindi anche la portata di quel ministero designato con la parola “diacono” dipendeva dai contesti locali e dalle necessità delle singole chiese. Comunque sia, Febe rimane la prima donna “diacono” di cui si viene a conoscenza nella storia del cristianesimo, e in lei possiamo vedere gli inizi dello sviluppo dell’ufficio di diacono e nello stesso tempo un importante indizio del ruolo centrale di molte donne nel più antico movimento missionario cristiano.

3) L’ultimo titolo, προστάτις (prostàtis) è un termine derivato dal verbo προιστημι (proìstemi), che in senso transitivo significa “porre come patrono, capo” e all’intransitivo significa “porsi davanti (come difensore)”; nelle due occasioni in cui ricorre in Paolo (Rm 12,8; 1Ts 5,12), questo verbo è usato a indicare un ruolo di guida e presidenza.

Nella letteratura greca l’equivalente maschile (προστάτης, prostàtes) è ben attestato e indica il ruolo di persona benestante e influente, protettore legale, patrono e leader di gruppi religiosi. Per il femminile, le attestazioni sono meno numerose ma hanno lo stesso significato del maschile.

Questo significato rimanda al sistema del patronato, una realtà importante nelle relazioni sociali ed economiche del mondo greco-romano. La società era una rete complessa di “patroni” e “clienti”: i patroni si assumevano il ruolo di protettori e benefattori sia verso singoli individui che verso gruppi e organizzazioni, offrendo opportunità economiche e sociali ai loro clienti, e questi si sentivano in obbligo di sostenere i patroni; più un patrono aveva clienti, più saliva in onore nella società.

Nel caso di Febe in Rm 16, bisogna dunque intendere il senso di “donna posta sopra altri”, e normalmente andrebbe tradotto con “protettrice, patrona”. E questa interpretazione è avvalorata dal fatto che, al contrario di quando si riteneva nel passato, il ritrovamento e lo studio recente di papiri e iscrizioni, fa registrare una discreta presenza nel mondo greco-romano di donne che detenevano ruoli da leader anche in gruppi religiosi.

Dunque, Febe era una donna che a Cencre aveva un ruolo influente e probabilmente di guida del gruppo di cristiani che viveva là.

Il fatto che Paolo affermi che Febe è stata patrona di molti e anche di lui stesso, lascia supporre che ella fosse benestante e altolocata socialmente. Probabilmente la sua casa era adatta ad ospitare la comunità cristiana di Cencre, della quale in quanto diacono era anche una guida. Inoltre nella sua generosità non mancava di offrire ospitalità e protezione ai missionari itineranti, come Paolo e collaboratori. Ciò che Paolo chiede ai romani in termini di accoglienza e assistenza nei riguardi di Febe (accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi: 16,2) deve riflettere ciò che anche lei ha fatto nei confronti di fratelli e sorelle in Cristo, sia quelli appartenenti a quella comunità locale, che quelli di fuori che si trovavano a passare nella sua casa.

Insomma, i cristiani di Roma, nel ricevere e leggere la lettera di Paolo a loro destinata, si trovavano in presenza di una donna (probabilmente latrice dello scritto) di grande prestigio umano e cristiano, sorella nella fede, ministro della sua comunità di Cencre, benefattrice generosa e patrona per chiunque dei fratelli si fosse trovato a passare nella sua casa.

Può anche darsi che Febe fosse andata a Roma per suoi affari privati, comunque sembra che proprio a lei Paolo abbia affidato il compito di portare a Roma e consegnare ai cristiani di Roma una copia della sua lettera scritta per loro. Il testo non lo dice esplicitamente, ma Rm 16,1-2 funge da messaggio di raccomandazione per Febe – che probabilmente non era conosciuta dai cristiani di Roma – nel suo ruolo di portatrice della lettera di Paolo.

Un indizio di carattere filologico su Febe come latrice di Rm viene dalla subscriptio (nota finale o indicazione di una specie di titolo, posta dallo scriba) di alcuni antichi manoscritti di questa lettera: in alcuni si legge che la lettera fu inviata “da Corinto” e “per mezzo del diacono Febe”, in altri che fu “scritta per mezzo di Terzio” (lo scriba) e mandata “per mezzo di Febe”. L’annotazione è importante perché questi copisti non avevano motivo di citare una donna altrimenti sconosciuta se il suo ruolo non fosse stato loro chiaro dal contenuto del testo che copiavano (in fin dei conti non erano certo femministi…).

E’ interessante allora cercare di capire in che modo, con quali responsabilità e a chi per primo Febe doveva portare la lettera.

A quel tempo c’erano 3 modi con cui una lettera poteva essere mandata a destinazione: 1) il servizio postale di stato (cursus publicus), che era però riservato alla spedizione di materiale ufficiale di istituzioni dello stato romano; 2) servirsi di uno schiavo latore di lettere (tabellarius), mezzo usato da persone benestanti, che potevano permettersi uno schiavo addetto solo a quel compito; 3) affidare la lettera a qualcuno che accettasse di portarla con sé, cercare il destinatario e consegnarla, che era la via scelta dalla maggior parte. Non era raro, in queste condizioni, che una lettera non arrivasse a destinazione: anche un latore responsabile poteva non riuscite a trovare il destinatario, un latore poco affidabile poteva anche non sforzarsi troppo in questo senso o perdere la lettera, il documento poteva andare distrutto durante il viaggio, ecc. Per ovvie ragioni, era opportuno affidare la lettera a qualcuno che il mittente conosceva di persona e di cui aveva fiducia (come Paolo nel caso di Febe).

Vista l’importanza che Paolo attribuiva alla lettera, nell’affidarla a Febe egli dava alla donna una notevole responsabilità. Intanto si doveva affrontare il viaggio. E’ ragionevole pensare che Febe abbia viaggiato via mare (nonostante i rischi legati alle condizioni del tempo), per risparmiare tempo, fatica e rischi: il tragitto via mare da Corinto a Roma richiedeva da 5 a 10 giorni a seconda delle condizioni climatiche e del porto di sbarco (una cosa era sbarcare a Ostia, un’altra fare scalo a Napoli e di qui cercare una nave per Ostia oppure impiegare qualche altro giorno per andare via terra da Napoli a Roma); il tragitto via terra, con attraversamento dell’Adriatico a Brindisi, richiedeva da 3 a 4 settimane e implicava i disagi della percorrenza delle strade, la scomodità e la cattiva reputazione delle locande di sosta e il pericolo dei briganti.

In quanto persona che era stata “patrona” per Paolo e per molti altri, Febe era probabilmente abbastanza benestante, in grado perciò di affrontare i costi del viaggio per sé e per dei compagni (a seconda della grossezza della nave, ci si poteva sistemare in cabine o in ripari con tende sopra il ponte; Febe verosimilmente poteva permettersi una cabina) e avere una provvista di alimenti. Quanto alla lettera, probabilmente scritta su papiro e perciò delicata, andava custodita per evitare che si danneggiasse, tenendola in una borsa o in una scatola o in un involucro di pergamena.

Una volta giunta a Roma, Febe doveva cercare la comunità cristiana e consegnare la lettera: cosa significava in pratica questo?

Intanto bisogna tener presente che la comunità cristiana di Roma consisteva di diverse “chiese domestiche”. Ad almeno 4 di queste si riferiscono gli accenni di Rm 16: la comunità che si riunisce nella casa di Prisca e Aquila, quelli della casa di Aristòbulo, quelli della casa di Narciso che credono nel Signore, e forse i gruppi citati ai vv. 14-15. Secondo alcuni studiosi, difficilmente questi gruppi avevano un’organizzazione centrale o assemblee plenarie (ne sarebbe indizio il fatto che Rm non è indirizzata alla “Chiesa che è in Roma”, ma semplicemente “a tutti quelli che sono in Roma, amati da Dio e santi per chiamata”: Rm 1,7; diversamente, ad esempio, dalla “Chiesa di Dio che è in Corinto”: 1Cor 1,2 e 2Cor 1,1), o perché non avevano una sede abbastanza grande per riunirsi tutti insieme o perché dopo le misure di Claudio contro la comunità giudaica poteva essere rischioso riunirsi in troppi insieme o semplicemente perché ogni gruppo tendeva a procedere autonomamente. Secondo altri studiosi, non dovevano invece mancare occasioni di riunione dei vari gruppi: se la lettera è indirizzata a tutti i membri della comunità cristiana di Roma, i saluti e le raccomandazioni di Rm 16 presuppongono la possibilità di un incontro di tutta la comunità; inoltre, se la lettera doveva raggiungere tutte le “chiese domestiche”, queste dovevano avere contatti e scambi reciproci, come doveva essere naturale per dei credenti che sentivano legami di fraternità; e ancora, se, solo 7 o 8 anni dopo, la persecuzione di Nerone nel 64 d.C. colpì numerosi cristiani (come attesta Tacito), la comunità doveva essere già piuttosto numerosa e abituata a incontrarsi in grossi gruppi, così da essere identificabile agli occhi di molta gente e diventare oggetto di odio.

In Rm 16 Paolo mette al primo posto nella lista dei saluti Prisca e Aquila: forse perché questa coppia stava assumendo un ruolo di guida tra i cristiani dopo il suo ritorno a Roma? Forse perché avevano preceduto Paolo per fornire supporto alla sua venuta e al suo progetto missionario? Forse perché Paolo li voleva indicare come modelli nell’impegno missionario, visto ciò che avevano già fatto e rischiato con lui e per lui? Ma forse il motivo più logico sta nell’ordine di ciò che Paolo dice in Rm 16: se 16,1-2 permette di identificare in Febe la portatrice della lettera, 16,3-5 può identificare i primi destinatari di essa. Insomma, Prisca e Aquila potevano essere i primi a cui Febe doveva consegnare la lettera, forse perché erano loro meglio di altri a poter prendere l’iniziativa di radunare la comunità e leggere la lettera.

Ma forse i compiti di Febe in ordine alla lettera non si esaurivano qui.

Siccome è probabile che Paolo ci tenesse a che diversi gruppi di cristiani di Roma avesse copia della sua lettera, Febe doveva provvedere a far fare delle copie; cosa per la quale Prisca e Aquila potevano aiutarla: la loro conoscenza della città di Roma e la loro pratica negli affari potevano permettere loro di sapere dove assumere un bravo librarius, un copista competente. Quanto al costo di questa operazione (bisogna tener presente che far copiare dei testi era costoso: alcuni studiosi hanno calcolato che far fare copia di un testo come Rm potesse equivalere al salario di 6 settimane di un lavoratore a giornata), sia Febe che Prisca e Aquila erano le persone che meglio potevano assumersene l’onere.

Ma Febe aveva probabilmente anche un ulteriore responsabilità: consegnare la lettera significava anche leggerla alla comunità; cosa che implicava la capacità di comunicare bene oralmente un testo e, per fare questo, conoscerne e averne capito bene il contenuto, anche per saper rispondere a eventuali richieste di chiarimenti. Inoltre, conoscendo di persona Paolo, ella poteva fornire ai cristiani di Roma informazioni riguardo a lui e ai suoi ulteriori progetti missionari.

Insomma, Febe era veramente una donna in prima fila nella Chiesa.


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