Usare per la cura delle persone il linguaggio militare è da folli. Sottintende sì che la malattia è il nemico da sconfiggere, ma il portatore della malattia (il paziente infetto da coronavirus) corre il pericolo di non essere più una persona da curare, ma un corpo estraneo da combattere.
Che conseguenze produrrà lo stato d'eccezione generato dall'epidemia del coronavirus? Giungeremo ad adeguarci, ritenendo ormai normale e socialmente accettato questo modo di morire?
È un'occasione unica che ci viene offerta per iniziare a sperimentarci su nuove vie per vivere la nostra comune fede cristiana. In questo stato d'eccezione.
Questo virus microscopico ci obbliga a riconsiderare la nostra responsabilità personale. Non si diffonde a suo capriccio, ma tramite un nostro coinvolgimento. I nostri corpi ne sono il veicolo.
Invocare l'onnipotenza di Dio per essere liberati dall'epidemia, senza tener alcun conto delle più banali regole per limitare il diffondersi dell'epidemia stessa significa tentare Dio. È l'orgoglio umano di poter disporre di Dio a proprio piacimento.
Sofferenza e morte, in Gesù, non sono esperienze umane negate o sottratte, ma condivise. Mentre il Risorto si rivela ai suoi discepoli con il segno delle ferite.
Tutte e cinque le immagini sono valide ed interessanti. Da un punto di vista spirituale, di solito, finiamo con lo sceglierne una. Inevitabilmente, nel nostro essere in rapporto con Dio ci collochiamo in un’immagine spaziale.
Perché un presepe di belle statuine sono capaci tutti ad allestirlo, ma accogliere Dio che viene con il volto sconosciuto del prossimo inatteso – questo è solo di chi apre il proprio cuore all’imprevisto.
Forse molti saranno portati a ritenerlo un documento minore. Mi sembra che la forza del testo stia proprio nella sua consistente dimensione spirituale.