Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 31 Agosto 2005 21:03

Conclusione (Renzo Bertalot)

L’ecumenismo è ormai “irreversibile”; oggi si trova rafforzato da una metodologia robusta che favorisce sia il confronto sia le convergenze. Dio ci ha fatto dono del dialogo, nella sua qualità di strumento, affinché chiunque crede intenda.

Le Chiese dell'oriente cristiano
VII. La Chiesa Ortodossa Eritrea
di Mervyn Duffy


 

Il cristianesimo in Eritrea, regione situata lungo il litorale di sud-ovest del Mar Rosso, data almeno dal quarto secolo  periodo in cui fiorì  il regno cristiano antico di Aksum.  Questo regno cominciò a declinare  nel settimo secolo come conseguenza delle invasioni musulmane, ed il nuovo regno si stabilì e si consolidò all’interno, nell’altipiano etiopico.  La regione tuttavia mantenne una certa indipendenza finchè cadde sotto la dominazione musulmana  nel sedicesimo secolo. L’Eritrea  fu  una colonia italiana da 1890 a 1941, quando questa fu presa dagli Inglesi. Ha formato una federazione con l'Etiopia nel 1952 ed è stata annessa come provincia etiopica  nel 1962.  La lunga lotta per l’autogoverno culminò con la dichiarazione di indipendenza il 24 maggio 1993.  In quel tempo la popolazione ortodossa del paese  era, come circoscrizione religiosa, all'interno della chiesa ortodossa etiopica.

Nel mese di luglio del 1993, con il supporto del governo, i vescovi della regione chiesero al Papa Shenouda III della Chiesa Ortodossa Copta  la separazione dalla Chiesa Ortodossa Etiopica ed il riconoscimento dello status di autocefalia.  Il 28 settembre 1993  il Santo Sinodo Copto rispose favorevolmente alla richiesta ed autorizzò la formazione, nei monasteri copti, di circa dieci vescovi per l’Eritrea. Il 19 giugno 1994 il Papa Shenouda, al Cairo ne ordinò cinque come nuovi vescovi.

Il processo di costituzione di una Chiesa Ortodossa Eritrea si è avviato e stabilizzato in accordo con la Chiesa Ortodossa Etiopica

 All'inizio di settembre del 1993  il patriarca etiopico Paulos  ed l’arcivescovo Philippos di Asmara, vescovo dell’Eritrea,  firmarono l’accordo che sanzionava  la separazione delle loro chiese, mentre  affermava  il loro desiderio di lavorare sempre  e  molto attentamente insieme. Il 28 settembre 1993. Nel febbraio del 1994  le due Chiese, eritrea ed etiopica, hanno firmato ad Addis Ababa  un  accordo che  riafferma lo status di autocefalia  per entrambe le chiese e riconosce alla Chiesa Copta un Primato di Onore fra le chiese ortodosse orientali in Africa.

Dopo  intense discussioni tra il governo civile ed i capi della Chiesa eritrea nel mese di aprile del 1998  l’Arcivescovo di Asmara  Philippos è stato scelto come  primo patriarca della Chiesa Ortodossa  Eritrea. È stato installato come patriarca dal papa Shenouda III al Cairo il giorno 8  maggio del 1998.  Un protocollo fu firmato in tale occasione tra i due Santi Sonodi, eritreo ed etiopico.

In  esso si prevede una stretta collaborazione tra le due Chiese, la memoria dei due Patriarchi nella liturgia di entrambe le chiese, la convocazione, almeno ogni tre anni, di un Sinodo generale comune, la formazione di una comune commissione teologica per il dialogo con le altre Chiese, l'istituzione di un comitato permanente dei due sinodi per promuovere la cooperazione in  alcuni settori come la formazione teological, i servizi sociali ed i progetti di sviluppo.

 Su una popolazione di circa  3.500.000 gli ortodossi  sono circa il 40% , il 50% sono musulmani  sunniti, il  5%  sono cattolici ed i protestanti il 2%. La maggior parte  degli ortodossi sono membri del gruppo etnico di Tigrinya che risiede per la maggior parte sugli altopiani centrali e del sud. Oggi la chiesa ortodossa di Eritrea ha circa 1.500 chiesa, 22 monasteri e 15.000 preti.

I fedeli ortodossi  eritrei in Gran Bretagna sono sotto la cura pastorale del  vescovo Markos, che ha responsabilità della diaspora. Il vescovo Bishop Makarios un eritreo etnico e membro del Santo Sinodo Copto, è responsabile dei fedeli eritrei ortodossi  negli Stati Uniti.

 


TERRITORIO: Eritrea e diaspora
GUIDA: Patriarca Antonios I ( eletto nel 2004)
TITOLO: Patriarca dell’ Eritrea
RESIDENZA: Asmara, Eritrea
INSIEME DEI MEMBRI: 1.400.000

La musica e la morte
Commento a Blok
di Vladimir Zelinskij

I

La presenza di Blok dentro di me prende le mosse da una fortuita nota puškiniana, dall'eco di un “nome lieto” (1) o dal ritmo che casualmente si ridesta nella memoria e nel respiro. L'armonia, in ciò che ha di fondamentale, sembra essere elastica e inscindibile, e ciò che in essa è più arcano è sempre ciò che è poi più vicino. Il destino e il motivo di un poeta possono rifrangersi nelle risonanze di un altro, come se riemergessero dalle profondità dell'armonia. Spesso tento di sorprenderli in qualche motivo che mi investe.

“Non voglia Iddio ch'io perda la ragione.
No, meglio la bisaccia ed il bordone,
la fatica e la fame.
Non perch'io faccia un alto apprezzamento
della ragione e non sarei contento
di spezzarne il legame:
se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!
E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante turbina nella testa.
Oppure presterei ascolto all'onda
e volgerei lo sguardo alla profonda
e vuota volta del cielo.
Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano
portando lo sfacelo.
Ma, ahi, se un dì perdessi la ragione,
come la peste orribile, in prigione
sarei, stolto, rinchiuso,
e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso.
E non udrei dell'usignolo il lieto
gorgheggio nella notte e del querceto
il brusio sordo e iene,
ma il grido disperato degli insani
miei compagni e le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene”. (2)

Nella poesia di Puškin e forse solo in essa sussiste questa compiuta, indivisibile armonia degli elementi che l'hanno generata. Tra quella regione dove i versi permangono ancora allo stadio di magma, non ancora dischiusi, e quella dove essi s'incarnano nel fluire della parola, dove l'arte li erige perché si cementino nella cultura, non solo non ci sono opposizioni, ma neppure crepe e connessure. Non si ritroveranno qui dei limiti che conducono all'intangibile, o all'opera di mano umana; e, ovunque si vada, al cosmo o al logos, incontreremo piuttosto ciò che si chiama armonia e che è segno dell'umanità incarnata. Nel pensiero di Blok l'armonia raccoglie in sé elementi eterogenei - parole e suoni - che solo per un miracolo possono fondersi totalmente. Ma il miracolo resta comunque un fatto unico; più spesso le onde sonore non trovano le parole giuste, alle parole manca la linfa sonora, pare che radici e significati non sappiano attingere alla corrente sotterranea della musica; la loro stessa perfezione risulta tediosa e muta. In Blok non è così: i suoi versi sono ancora fin troppo aderenti al “fiammeggiante delirio”, sembra non si siano ancora del tutto staccati da quella musica che li ha condotti alla parola; portano ancora incrostate inflessioni di un linguaggio non terreno, sono popolati da quegli esseri nebbiosi-palustri-antelucani che così strani appaiono nel mondo umano. Cukovskij, nel Libro su Aleksandr Blok, dice: “Il suo verso non fu un macigno ma la scorrevole fluidità di vocali”. E lo stesso critico non può che riprendere le parole di Shakespeare: i versi “son di quella stessa materia di cui son fatti i sogni”.

Questi sogni sono fissati dal poeta nell'istante della loro massima luminosità, quando è assoluto il loro potere sull'anima. Essi vengono svelati ed espressi nel verso, in questo asilo della lingua russa la cui protezione ci siamo ormai abituati a utilizzare, casualmente, sentimentalmente, senza il benché minimo pensiero di ringraziamento. La stessa vita del poeta è uno di questi asili, reso abitabile, così, alla buona, nella fantasia dei vari lettori. La vita e la poesia di Blok stanno spalancate di fronte a noi:

“Qui il ristorante è chiaro come i templi,
e il tempio è aperto come un ristorante”. (3)

La vita di ogni poesia è sempre accessibile e nello stesso tempo inattingibile, “come il mistero di una porta socchiusa, nel tempio di un sogno dorato”(4). Tentiamo, seguendo gli sfaccendati, i pellegrini, i solerti impiegati dei musei poetici, di accostarci ancora una volta a questo mistero, di trovare i suoi riflessi nella parola puškiniana...

Il Blok che più mi è caro non è assolutamente il Blok mistico, ricercato, pietroburghese, il Blok dei ristoranti e dei violini o, come diceva Bunin, il Blok “col volto statuario del bell'uomo e del poeta”, ma quello che sembra ormai trapassato: “il Blok che ha dimenticato come si scrive in versi”, che ha già scritto tutto quello che era essenziale, che ha già capito ogni cosa, il Blok condannato, stordito, incatenato alla “assurdità delle riunioni”, “imprigionato in una ragnatela” (come affermano i testimoni oculari), il Blok che desidera soltanto la morte e che ha esitato di fronte a essa solo per potersi liberamente accomiatare, alla fine, dall'arte, da Puškin, dalla Russia e da se stesso.

Ed è proprio con questo famoso addio che vogliamo iniziare il nostro cammino verso Blok.

II

Il suo discorso su “La missione del poeta”, che venne pronunciato nell'ultimo anno di vita e fu dedicato a Puškin, è evidentemente pieno di nostalgia. Già tempo addietro Blok aveva presentito la rovina del suo universo patrio. Questo presentimento si avvera: in lui va ormai morendo la sua patria sonora. Sempre gli stessi abissi e gli stessi spettri sono evocati da questo discorso (il caos, il cosmo, l'anarchica nebbia, l'ordinata armonia) e ancora la stessa aspra schiettezza blokiana nel modo di raccontare. Ma Blok non è più là. Egli vede il proprio mondo come se stesse già su un'altra riva, per contrasto con ciò che ormai e abbandonato. E le sue parole sono chiare e coraggiose.

“Nelle profondità insondabili dello spirito, là dove l'uomo cessa d'essere uomo, nelle profondità inaccessibili allo stato e alla società, creati dalla civiltà, si susseguono le onde dei suoni, simili alle onde dell'etere che abbracciano l'universo; si succedono ritmiche oscillazioni, simili ai processi che formano le montagne, i venti, le correnti marine, il mondo vegetale e animale.

“Questa profondità dello spirito è nascosta dai fenomeni del mondo esterno. Puškin dice che, forse, più che agli altri uomini è nascosta al poeta [...]. (5)

E ora questa profondità è nascosta anche a lui.

“Una pessima fisica, ma che audace poesia”, dice Puškin: “essa ha le sue scaturigini proprio in quelle onde che abbracciano l'universo, innalzano i monti, governano la vita del mondo che “consiste in una incessante creazione di nuove specie, di nuove razze [...]”. (6)

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale. A lui sono affidati tre compiti: anzitutto liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi; in secondo luogo condurre quei suoni all'armonia, dar loro forma; in terzo luogo, portare quell'armonia nel mondo esterno.” (7)

Nel suo primo compito il poeta è un medium, un veggente;
nel secondo è l'artista, l'artigiano del proprio talento;
nel terzo è il letterato, circondato dalla plebe.

La plebe infatti domina questo mondo esterno nel quale si inserisce l'armonia. Essa, come è ovvio, si preoccupa solo di ciò che è utile. Raramente il discorso sulla poesia può esser fatto salvo dagli insulti contro una certa plebe. Essa viene disprezzata secondo lo spirito del classicismo: il poeta suona distrattamente sulla propria lira, ma l'ottuso volgo pretende da lui solo ciò che gli può essere utile e può fargli da ammaestramento. Essa è sprezzata dal punto di vista romantico: l'anima, affascinata dalle stelle, non desidera sapere quello che tutt'intorno “sull'auro o sul pane gridano possenti le masse”(8). Essa ancora viene sferzata da un punto di vista sociologico e morale, e per Blok, che segue ormai una tradizione democratica ben collaudata e disinteressata, qualsiasi plebe è necessariamente “mondana”: è fatta a esempio di “buontemponi coi tubini”, di “stalloni della guardia”, di burocrati di un qualche organo poliziesco censorio. Ma comunque veda il poeta la sua plebe e dovunque la collochi, egli la intende sempre come qualcosa di opposto alla poesia. Il mondo esterno, nel quale il poeta, in base ai compiti che gli sono affidati dalla plebe, deve “illuminare i cuori dei confratelli” o “spazzare le strade” (9), è sempre infinitamente lontano dall'anarchico “caos nativo” dal quale gli vengono le onde sonore...

“se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!” (10)

Ma il poeta non si limita allo struggente progetto di una fuga simbolica dalla plebe e non sempre si strappa via da essa. Di quando in quando, quando monta l'ebbrezza della terra, quando si scatenano le razze, quando le ritmiche oscillazioni, che vengono dalle viscere oscure, si trasmettono alla società e allo stato, al poeta sembra che dalle profondità del caos sia zampillata la poesia stessa. E allora, tra l'orrore degli amici e di chi era iniziato al mistero della sua arte anteriore, egli fraternizza inaspettatamente con la plebe e cerca di condividere con essa i suoi tre compiti fondamentali. Adesso i visibili interpreti delle forze della natura non sono né il bosco né il vento che batte le pianure, ma le strade che la tormenta ha sepolto sotto la neve e gli uomini che le percorrono. Da qui il poeta attinge suoni e parole per trasformarli in armonia.

“L'armonia è accordo delle forze del mondo, ordine della vita del mondo”(11). Per far nascere l'armonia è necessario “racchiudere il suono, estraneo al mondo esterno e suscitato dal profondo, nella forma tangibile e salda della parola”. (12)

Poi l'ebbrezza scema., e il poeta, in modo ancor più netto di prima, comincia a staccarsi dalla plebe che lo circonda. Ma l'armonia, creata in un momento di breve e inebriante fraternità con le forze della natura, resta.

Conosce forse il poeta una qualche misura comune tra la vita delle forze naturali, i suoni che vengono dal profondo e il discorso umano plasmato dall'arte? È proprio un'armonia, un rivestire di carne, con parole, con suoni, con tinte di qualcosa di caotico che ci viene dalla profondità delle onde? Abbiamo il diritto di supporre, seguendo le meditazioni di Blok, che l'orecchio del poeta possa discernere, in queste recondite forze dell'universo, un sistema musicale da noi percepibile e rivolto al mondo umano, e inoltre un qualche progetto che è racchiuso in queste forze della natura e che forse fa loro da guida. Probabilmente, un uomo con il cuore meno musicale, più solidamente preservato dall'influsso delle forze naturali, ma maggiormente sensibile al progetto da loro dettato, sarebbe più preoccupato della sua veridicità, della sua conformità all'Archetipo di ogni senso, ma il poeta è interamente assorbito dalla “tensione dell'ascolto”, dalla sua mediazione tra il caos e il cosmo da esso scaturito. La forza d'attrazione del caos è ineluttabile, il suo potere musicale affascinante, e a chi l'ha provato dentro di sé non deve essere estranea neppure la tentazione di restare con esso per sempre, di dissolversi nelle beate forze della natura, nascosto agli occhi della plebe grazie ai “fenomeni del mondo esterno”.

“E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante
turbina nella testa.” (13)

Il poeta è pronto a riconoscere la seducente lontananza del delirio come proprio paese. La tentazione di tornare là per sempre non lo abbandona mai. Perché solo là egli può pienamente realizzare la sua vocazione. Qui, invece, essa è raggiunta il più delle volte a dispetto della plebe, attraverso la rinunzia alla mediocrità del mondo umano con la sua “utilità” e con la sua volgarità, ed è raggiunta segretamente.

“Segretamente anela alla morte il cuore, vola via, cuore leggero [...]. (14)

Perché “segretamente”? Perché ciò che è più segreto e ineffabile e questo evidentemente il poeta non può non ammetterlo e cioè le forze naturali dei sogni, dei “fiammeggiante delirio”, delle “onde sonore” che si gettano l'una sull'altra, dell'anarchico “caos nativo”, sono forze fatali che attraggono non solo con la musica ma anche con la morte e che inoltre rendono sia l'una che l'altra, la musica e la morte, ugualmente responsabili della nascita dell'armonia...

III

Ogni poeta si volge e guata incessantemente a ciò che fa. Blok, con tutta la sua medianica predisposizione alla percezione delle luci e dei suoni che vengono “di là” (15) (da un paese che per ora resta non detto), era più di ogni altro affascinato dalla fonte della propria poesia. La più precisa, ripetuta e persistente indicazione a proposito di questa fonte fu, nel suo vocabolario, la parola “musica”.

“La musica è la più perfetta di tutte le arti perché essa sa meglio esprimere e riflettere il progetto dell'Architetto[...] Ogni momento orchestrale è la rappresentazione del sistema dei sistemi stellari, con tutta la sua istantanea e fluente varietà [...]

“La musica crea il mondo. Essa è il corpo spirituale del mondo [...] Raggiungendo il proprio culmine, la poesia, probabilmente, si perde nella musica.”

Questi pensieri vennero suscitati dalle riflessioni su un melodramma di Wagner. Un'annotazione del Diario (1909) comincia con le parole: “Wagner a Näuheim: qualcosa di assolutamente indicibile: ricorda l'anamnésis”.

Anamnesis è la parola con cui Platone indica la reminiscenza della verità, di cui un tempo l'uomo era partecipe ma che ha poi perduto. La reminiscenza è data dalla morte, ma può essere data anche dalla filosofia, il cui compito è appunto quello di insegnare a morire. Proprio ciò che Platone intese per filosofia è vicino a quello che noi intendiamo per poesia. Egli annovera la filosofia tra le “arti delle Muse” e nel Fedone chiama i filosofi “baccanti”. La verità si manifesta definitivamente solo nella morte e perciò morire e abbandonarsi alla reminiscenza e alla conoscenza - nella sua sorgente “musica” e musicale - non sono forse una sola e identica cosa?

Una reminiscenza musicale è sottesa dai versi di molte poesie di Blok. Il ritmo che vi è insito raggiunge a pieno la sua forza ammaliante perché porta sino a noi la voce delle forze naturali che ci circondano e che non sono percepite dal nostro udito ma sono sparse dovunque nello spazio. Il poeta, sottomettendovisi, ci mette in comunicazione con loro. Ed è proprio questa sottomissione che crea una benedetta volontà, la sua “segreta libertà”.Egli riveste il “corpo spirituale del mondo” con una armonia tangibile, visibile, sonora. Solo nella “segreta libertà”, (16) che esprime contemporaneamente tanto la sottomissione alle oscure forze naturali quanto la benedetta attuazione dei “progetti dell'Architetto”, si realizza quello che è il suo primo misterioso compito, lo scioglimento dei veli e la liberazione dei suoni, Il disegno ritmico della poesia, quindi, predetermina anche la maturazione dei significati. Il ritmo e il significato in Blok sono i due poli di un unico campo sonoro. Ogni poesia, per lui, dice il Mos'ulskij, “è un velo gettato sulle lame di alcune parole. Queste parole brillano come stelle. Proprio per esse esiste la poesia. Tanto più essa è oscura, tanto più queste parole sono lontane dal testo. Nella poesia più oscura non brillano queste oscure parole, essa non ne è imbevuta, ma è nutrita e saziata da una musica oscura”. (17)

Ma anche là dove le parole sono luminose, dove i loro significati sono solidi e trasparenti, dove essi sono fortificati dalla forza delle realtà terrene, anche là, dietro il testo visibile della poesia, si fa sentire la vicina risacca della “musica oscura”, delle “deliranti” forze della natura, e lo stesso testo e l'opera diffondono le sue onde. E questo non è semplicemente un significato recondito, è quell'intimo sistema sonoro - anamnesis - che ricaccia in superficie i suoi significati, le sue immagini o costringe, inquietamente e imperiosamente, a riconoscerli. Le ispirazioni di Blok, sia quelle che passano di sfuggita, sia quelle che sono portate da qualcuno, pare che chiamino alla luce una remota e segreta musica del mondo, liberandola dalle catene, in modo da esprimere il subitaneo passaggio dal caos all'armonia, e dall'armonia alla catastrofe nel grembo nativo... Ed è proprio per questo che nei versi di Blok il movimento non si inaridisce mai, non tacciono i venti, non scemano le tormente, e nei suoi ristoranti

“i violini, struggendosi e infiacchendosi,
si abbandonano ai furiosi archetti”, (18)

Anche nella lontananza storica - di fronte alla reminiscenza della battaglia contro i tatari sul campo di Kulikovo, reminiscenza che prende lo spunto dal fiume che si distende lentamente e dai tristi pagliai - dal flusso ritmico, dai recessi musicali della poesia scaturisce improvvisamente, balenando fra il sangue e la polvere, “la giumenta delle steppe”(19), e questa sua antica fuga trasmette tutta l'inquietudine, tutto il sistema e lo spirito della memoria sonora blokiana...

Sul campo di Kulikovo Blok è portato dalla memoria musicale della Russia. Ma nel contatto con la storia essa diventa profetica, poiché è rivolta al futuro. Nella battaglia, il cui fragore si è perso nel passato, egli ode l'eco della futura battaglia. Ma già là, nella “Russia lontana” (20), nel profondo della memoria, comincia per Blok a sdoppiarsi l'immagine della Russia, e le sue due diverse voci ora si soffocano a vicenda, ora si fondono in una sola. La patria lo chiama dalla lontananza, “oltre il fiume nebbioso”(21), ma “la freccia tatara dell'antica libertà” (22) ha trapassato la sua anima ed essa soffre per la singolare forza dell'incendio e della catastrofe. Musica e morte, un fuoco opaco e la preghiera si confondono nei suoi versi, e l'urlo dell'“angoscia secolare” (23) soffoca la chiara voce della “lontananza”. Dice Fedotov: “II poeta ha già solidamente unito lo spirito dell'agitazione e della rivolta alle forze tatare. Contro di ciò egli lancia il suo ultimo esorcismo: "Mettiti a pregare! ". Ma sino alla fine resta oscuro: quando giunge l'ora dell'ultima battaglia [...] quale sarà il suo campo, quello russo o quello tataro?”. (24)

Ma ecco un'altra Russia e un altro paesaggio, brutalmente prosastico. I sobborghi di Pietroburgo, l'ippodromo, “la turba delle dame e dei perdigiorno” (25) e, nei loro occhi, l'improvvisa morte del fantino. Un altro ritmo, un altro stile, un'altra corsa, ma lo spirito della musica, l'eco nella memoria del poeta sono gli stessi di prima, antichi. La contiguità di significato tra libertà e morte, la comprensione ritmica delle forze della natura e della catastrofe, la loro unione musicale.

“E’ così bello e facile morire.
Tutta la vita aveva corso, sempre
ansioso di passar primo la meta.
Nel galoppo affannoso la cavalla
era inciampata, senza ormai più forza
di reggere la sella: le leggere
staffe avevan tremato, ed il fantino
rimbalzò nella scarica dell'urto.
La nuca stramazzò sulla nativa,
primaverile ed accogliente terra:
nel cervello in un attimo passarono
gli unici indispensabili pensieri,
poi con gli occhi si spensero. È così bello e facile.”(26).

Blok non guarda a questa morte come uno spettatore disinteressato. Egli vi si sente misteriosamente e appassionatamente coinvolto. Comincia a vedervi l'improvvisa conquista del ritmo che aveva sempre cercato, quel ritmo cui aveva anelato per tutta la vita, e vi vede ancora la luce benedetta portata dalla verità - l'anamnesis - e la repentina fine. E si intuisce - anche se attraverso pensieri sobri e versi misurati - come lo attiri questo abisso che si infiamma per un istante e subito si spegne, come il morirvi musicalmente possa essere “così bello e facile”. E i repentini pensieri, gli “unici indispensabili”, sono forse per Blok il pegno e l'ispirazione della sua ultima poesia, la poesia-morte. E tuttavia, per ora, egli è solo spettatore, sognatore, poeta. La morte-musica fugge via da qualche parte. Egli può solo guardarla da lontano con un “savio sorriso” (27). Finché non sia giunto il tempo, egli può solo aspirare nostalgicamente a essa, vagare e sorridendo struggersi nelle sue prossimità poetiche, “e sciogliere canti! Ed ascoltare il vento nella quiete!” (28)

“Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano [...]” (29)

“Io amo soltanto l'arte, i bambini e la morte”, dice Blok in una lettera alla madre del 1909.

Due anni prima egli scriveva ad Andrej Belyj, dopo il loro mancato duello: “Il dramma della mia concezione del mondo (non sono arrivato fino alla tragedia) sta nel fatto che io sono un lirico. Essere lirico è piacevole e terribile insieme. Dietro l'orrore e la gioia si nasconde un abisso, nel quale si può precipitare senza lasciar traccia. La gioia e l'orrore sono come un velo di sonno. Se non portassi sugli occhi questo velo, non sarei guidato dal Terribile Ignoto, da cui solo mi salva la mia anima, non avrei scritto neppure una poesia di quelle che a voi sembrano valide”.

IV

La critica blokiana raramente ha gettato uno sguardo nell'abisso del poeta: pare che in campo critico non si usi arrischiarsi a viaggi del genere. Ma se, facendo nostra l'ipotesi di Paolo sull'uomo, cercassimo di discernere anche nella produzione artistica un corpo, un'anima e uno spirito, ci accorgeremmo che i nostri comuni giudizi raramente vanno al di là dell'aspetto corporeo dell'opera, al di là della sua carne. Quanto al resto, di solito riusciamo a esprimere, in modo circostanziato o lapidario che sia, solo una verità risaputa, anche se non ancora sbiadita, e cioè che l'anima altrui è tenebra. Sullo spirito, poi, non osiamo neppure azzardare un giudizio, mai. Questa indecisione, però, non esclude certo che si sia liricamente pronti a perdersi in pure chiacchiere su temi mistici, facendo ricorso a tutto l'armamentario del soprannaturale: demoni, serafini ecc. Ma noi, di regola, ci scherniamo di fronte alle parole che implicano una responsabilità, quelle che definiscono in modo preciso la sostanza spirituale delle opere d'arte, e il loro rapporto con la realtà che sta al di là di esse e le supera.

Ecco perché suonano così ardite e graffianti le parole di colui che “ha il potere” di discernere gli spiriti. Ed è questo ciò che risentiamo nella conferenza di padre Pavel Florenskij su Blok, pubblicata in tempi relativamente recenti (30) in forma un po' improvvisata. Nella sostanza questa conferenza è stata un primo tentativo, e quanto radicale, di quella che potremmo definire “teologia dell'arte” applicata a un terreno russo. Ma in questo caso parlare di teologia significa parlare di giudizio. Il sacerdote giudica il poeta, l'uomo di cultura a partire dal culto. E il suo è un giudizio equo, rapido e impietoso. Il suo presupposto è semplice e inflessibile: la cultura può essere rettamente intesa solo nell'ambito di un sistema rigorosamente monistico, competente a valutare la cultura stessa. “Il mondo è scisso dal principio religioso: l'antitesi al marxismo è solo il cristianesimo (cioè l'ortodossia), alla religione dell'uomo-dio si contrappone la religione della divinoumanità.”

Dal punto di vista ortodosso la fonte dei temi culturali va rintracciata nella tematica del culto, cioè nella liturgia. “La creazione di una cultura distaccata dal culto è sostanzialmente parodistica.

“La parodisticità presuppone un mutamento di segni, ferma restando l'identità dei temi.”

“Parodia” dunque: ecco la parola che farà da chiave a tutta la poesia di Blok. Blok è un grande poeta in quanto mistico autentico, giacché è della realtà autentica che egli parla. Perché anche chi “di parole sacrileghe è creatore” è un poeta di valore, giacché le parole sacrileghe sono la non-verità detta a proposito della Verità; il “sacrilegio serio” obbliga a partecipare della profondità, presuppone un radicamento nelle profondità sataniche.

Non resta quindi che scegliere gli esempi.

“C'è nelle tue segrete melodie
un'infausta notizia di rovina.
C'è l'anatema dei precetti sacri,
c'è l'oltraggio della felicità.” (31)

Ciò che un tempo poteva apparire una rivelazione, oggi si riduce spontaneamente quasi a un luogo comune. Così la poesia “Alla Musa” era giudicata condannabile anche nell'articolo di Naum Koržavin “Gioco col diavolo” (32). Ma s'intuisce qui, al di là di un processo in cui si dà la parola al solo pubblico ministero, un'interna lite: tu, sembra dire, mi hai insegnato il male, e io ero giovane, nei dolci suoni bevevo il contenuto venefico. Del resto, in fin dei conti, ogni poeta, per diventare se stesso, deve liberarsi dalla magia dell'altro. E lo può anche fare in modo brusco, ma restano pur sempre anche “le ragioni del cuore”. La condanna di Koržavin è quasi stizzosa, quella di Florenskij quasi gelida. Blok sarebbe l'ambasciatore del diavolo nella poesia russa.

Ma non fu lui stesso a parlare del “nero inferno dell'arte”(33), della “lirica agile, maligna, infida”? (34) Non fu lui a subire gli accessi “di un riso snervante, che inizia con un diabolico, beffardo sorriso provocatore, per finire nella violenza e nel sacrilegio”? (35) Non fu lui a percepire in sé il “trasfondersi di quelle forze demoniache che spiano il poeta per scagliarsi improvvise contro di lui”? (36) E non è forse per questo che è irrealizzabile il sogno di fuggire dall'arte, e di rinunciare del tutto a ogni guadagno letterario? “No, meglio la fatica e la fame [...]”

La condanna, stizzosa o gelida che sia, è dunque giusta al fondo? E la musica che si percepisce nelle abissali profondità dello spirito non sarebbe che una volontà di morte trasformata in armonia? E le onde sonore non portano allora che tentazioni? E la profondità “dove l'uomo cessa d'essere uomo” non sarebbe che un abisso satanico, dove il poeta che sfugge la plebe sprofonda? E lo “spirito della musica”, che con così insolita tenacia Blok invocava negli ultimi anni di vita, non sarebbe che il semplice demone della poesia? Non possiamo trascurare queste considerazioni nel riflettere a fondo sulle idee di padre Florenskij. “Al mondo tutto è ordinato perché è pari.” Il poeta è il sovvertitore del culto, l'istrione, il profanatore. Il messaggero degli inferi. E nient'altro.

La teologia cerca la comprensione dell'uomo e di tutto l'umano alla luce del pensiero religioso, della “preghiera dell'intelligenza”, la teologia pensa secondo le parole di Paolo: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza”(1 Cor. 14, 15); la teologia, ancora, rintraccia la giusta parola su Dio a partire da quanto Egli ha creato, a partire dalla Parola di Dio sugli uomini e le loro opere.

Questo era anche il modo di vedere di Pavel Florenskij. Come mistico ha ragione, e la sua visione e nitida. La cultura è nata dal culto, e il sacerdote, il prete-pensatore aveva non solo il diritto, ma anche la missione di giudicare i frutti della cultura. Tuttavia, nella sua comprensione di Blok, nella sua condanna, ci sono due sostanziali omissioni. Al suo sistema (giacché, nonostante la frammentarietà, la conferenza offre uno sviluppo sistematico del pensiero di padre Pavel) sono sfuggite soprattutto la natura specifica della poesia, e in parte anche la natura degli spiriti cui la poesia blokiana permette piena espressione. Ed è per questo che, per descrivere il fenomeno e persino in parte la sostanza della poesia di Blok, egli ricorre a una citazione di san Massimo:

“Quando lo spirito malvagio della seduzione si accosta all'uomo, disturba la sua mente rendendola selvaggia, inasprisce il suo cuore e lo oscura, ispira timore, paura, orgoglio, corrompe gli occhi, agita il cervello, dà trepidazione a tutto il corpo, pone dinanzi agli occhi una luce illusoria non luminosa e pura ma rosseggiante, rende la mente frenetica e ossessa, le labbra proferiscono parole ribelli e blasfeme”.

Dove e come può sottrarsi alla sfera di queste parole la poesia di Blok, con la sua musica di morte, con la sua vocazione alla rovina? E queste parole avranno almeno pietà di noi, lettori di Blok?

8, 44). Il male, fino a che non è forte abbastanza, si copre con l'inganno. E questa non è una forma ma la sostanza sua stessa. La menzogna e il pathos omicida sono fino a oggi inconfondibile segno della diabolicità. Per questo, dunque, veridico e demoniaco non possono assolutamente convivere tranquillamente nella stessa anima. Come potrebbe infatti un'anima che sfiora i tizzoni infernali conservare in sé la comune onestà e la schiettezza umane?

“Sembra che egli veda il mondo e se stesso in una nudità e semplicità tragiche. Sincerità e semplicità sono per sempre legate in me al ricordo di Blok.” (37) Il tratto fondamentale della sua personalità era uno straordinario coraggio della verità”, dice C'ukovskij. E le testimonianze di questo tipo non si contano.

Non basta: dietro al coraggio pienamente umano si nascondeva dell'altro: ciò che potremmo definire “integrità della parola”, la sincerità del suo stesso linguaggio. La parola blokiana, sia in prosa sia in poesia, non è astuta né teatrale né piena di fronzoli. Essa è estranea persino a quel gioco disinvolto che è tanto naturale nei poeti, soprattutto nei poeti della sua generazione. Scriveva di maschere, ma non nascose mai il proprio volto. Oggi può sembrar strano che un tempo lo si sia definito un decadente anzi, il corifeo dei decadenti: infatti manca in lui ogni stortura decadente. C'era qualcosa di distorto nel periodo blokiano, ma non in Blok stesso. E se i suoi versi ci sono incomprensibili, significa che siamo al di fuori dell'esperienza che narrano. Ma possiamo esser certi che si tratta di un'esperienza autentica, non surrogata da qualche ingenua simulazione mistica o poetica. In un'epoca tanto ricca di finzioni e sostituzioni d'ogni tipo, Blok rimase fedele alla verità che gli perveniva attraverso la musica. Mai ci fu in lui la più innocente bugia, la minima concessione al pittorico.

Alla superficie della vita noi tutti percepiamo le cose in modo distinto: il poeta, il politico, il mistico, l'innamorato. Ma nel profondo sono tutt'uno. Uno “straordinario coraggio della verità” non può fondersi nello stesso cuore né con la falsità poetica né con la malizia artistica. Questo coraggio è inscindibile dalla sincerità e dal coraggio d'ogni singola parola che fa parte della poesia, è inscindibile dall'autenticità di ciò che il poeta serve, dalla veridicità di questo stesso servizio. Il poeta è “l'uomo che chiama tutto per nome”, poiché i nomi veri delle cose sembrano esser celati a noi; è colui che “sottrae l'aroma al vivo fiore” poiché deve trasfonderlo nella. parola e renderlo così eternamente fragrante. Il “coraggio della verità”, la non-malizia della parola, l'autenticità dei nomi di cui il poeta fa dono: tutto ciò è indivisibile e musicale, fragrante e ineguagliabilmente unito.

“[...] forse solo il genio dice il vero; e solo la verità, pur nella sua grevità, è lieve, un "dolce giogo"” (dal Diario).

Questo è il dolce giogo che la poesia blokiana si è assunta; la sua musica è dolce, la sua verità musicale. Solo con la verità e un cuore inerme il poeta può rispondere al giudizio teologico, e a ogni altro giudizio umano. “Restituire la verità, che va scomparendo dalla vita russa, questo è il nostro compito”, annota Blok nello stesso Diario. Questo compito costituisce appunto la sua vocazione, e compone nell'unità lo “scioglimento dei veli”, “l'accoglimento dei suoni nell'anima”, “l'introduzione dell'armonia nel mondo”. Ricondurre la verità al mondo: questa è la missione del poeta.


(continua)


 

1) L'espressione “nome lieto” si trova nella prima frase del discorso di Blok “La missione del poeta”, pronunciato nel febbraio del 1921 in occasione dell' LXXXIVanniversario della morte di Puškin: “La nostra memoria serba fin dalla prima infanzia un nome lieto: Puškin” (tr. it. in A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 151).

2) A. Puškin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (1833) (tr. it. in A. Puškin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968, pp. 417-418).

3) A. Blok, “Guardi negli occhi i limpidi crepuscoli” (1906), poesia del ciclo “Gorod” (La città) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 146-147).

4) A. Blok, “Anima mia! Quando ti stancherai di credere?” (1908), poesia del ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini).

5) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 155.

6) Ibid., p. 153.

7) Ibid.

8) A. Blok, “Tace l'anima. Nel freddo cielo” (1901), poesia del ciclo “Stichi o Prekrasnoj Dame” (Versi sulla Bellissima Dama).

9) “La plebe esige che il poeta serva ciò che essa stessa serve: il mondo esterno; esige da lui "l'utilità", come dice, semplicemente, Puškin; esige che il poeta “spazzi le strade", "illumini i cuori dei confratelli" ecc.” (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 157).

10) Cfr. n. 2.

11) A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 152.

12) Ibid., p. 156

13) Cfr. n. 2.

14) A. Blok, “La maschera di neve” (1907).

15) “Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s'impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento,
perché i raggi vengono dal cielo.”
Questi versi di Blok si trovano nella poesia “Tutto muore al mondo, madre e giovinezza” (1909), inserita nel ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini) (tr. it. in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Mondadori, Milano 1968, p. 334; l'espressione che il Poggioli traduce con “cielo” (ottuda), è stata da noi resa con “di là” per mantenere l'indefinitezza su cui insiste Zelinskij). Ndt

16) “Segreta libertà” è una delle espressioni chiave dell'ultimo vocabolario blokiano, presa a prestito da Puškin:
“Amore e segreta libertà
al cuore dettano un inno schietto”.
(Cfr. A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p 159).

17) K. Mos'ulskij, Aleksandr Blok.

18) A. Blok, “Là dove echeggia nelle lunghe sale” (1910) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 302-303).

19) A. Blok, “Sul campo di Kulikovo” (1908) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit. pp. 190-191, ecc.).

20) Ibid., pp. 196-197.

21) Ibid.

22) Ibid., pp. 190-191.

23) Ibid., pp. 196-197.

24) G. Fedotov, Na pole Kulikovom (Sul campo di Kulikovo).

25) A Block, “Morte”, poesia del ciclo “Vol'nye mysli” (Liberi pensieri) (tr. it. in R. Poggioli, op. cit., p. 299).

26) Ibid., pp. 300-301.

27) Ibid., pp. 299.

28) Ibid., p. 303.

29) Cfr. n. 2.

30) “Vestnik russkogo christianskogo dviženija” (Messaggero del movimento cristiano russo), n. 114, Parigi.

31) A. Blok, “Alla Musa” (1912) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 346-347).

32) N. Koržavin, “Igra s d'javolom”, in “Grani” (Confini).

33) A. Blok, “O sovremennom sostojanii russkogo simvolizma” (Lo stato attuale del simbolismo russo) (1910).

34) A. Blok, “O drame” (Il dramma).

35) A. Blok, “Ironija” (L'ironia).

36) A. Blok, “Sud'ba Apollona Grigor'eva” (Il destino di Apollon Grigor'ev) (1915).

37) V. F. Chodasevi…, Nekropol’.


(Questo testo è stato pubblicato in Russia Cristiana, VI, 1981, 2 (176), pp. 18-33)

 

L’educazione religiosa
nella famiglia ortodossa
di P. Vladimir Zelinskij


Direi che il mio compito abbia due risvolti: raccontare la situazione della famiglia ortodossa in Europa Occidentale e dare qualche indicazione sull’educazione religiosa familiare nei paesi di tradizione ortodossa.

Quando parliamo della presenza delle comunità ortodosse in occidente e soprattutto in Italia, dove sono abbastanza numerose, segnaliamo subito una contraddizione fra la presenza fisica delle persone, la loro presenza culturale e la coscienza religiosa. E’ difficile rispondere alla domanda quanti veramente siano gli ortodossi presenti sul territorio italiano, ma se tutti gli immigrati, regolari o clandestini, provenienti dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Romania, dalla Moldavia, dalla Bielorussia, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, dall’Albania, dalla Georgia fossero davvero ortodossi, si potrebbe parlare della terza comunità religiosa in Italia dopo il cattolicesimo e l’islam. Ma per la maggior parte di questi immigrati si tratta dei cosiddetti ortodossi anonimi. Non si trovano su una terra piena di memorie storico-religiose, come i cattolici in Italia; non portano sulle spalle tradizioni solide e plurisecolari come i valdesi od i battisti; non hanno comunità compatte e ben strutturate come i musulmani; ma provengono da paesi dove (ad eccezione della Grecia) qualsiasi vita religiosa è stata perseguitata, soffocata o, nel miglior dei casi, emarginata per ben 70 anni (od almeno 50). All’estero, sradicati dal loro ambiente, dalla madrelingua, dall’aria stessa della loro patria, sono anche divisi fra loro per il principio etnico. Una cosa che sembra strana, ma che è abbastanza caratteristica: proprio i greci, che non hanno subito una persecuzione particolare della fede nel XX secolo, sono i meno praticanti fra gli ortodossi. Forse questo è avvenuto perché Chiesa e patria sono, presso di loro, strettamente uniti. I più praticanti, i più attivi ed i meglio organizzati, almeno in Italia, sono i rumeni.

Tenendo conto di questa situazione e del numero crescente di immigrati dai paesi dell’Europa dell’Est, possiamo dire che l’educazione religiosa nella famiglia ortodossa in Italia è un problema che si farà vivo nella prossima generazione. Anzi, questo problema non sarà solo quello degli emigranti, perché anche l’ortodossia italiana pian piano cresce. Grazie all’emigrazione massiccia dell’inizio del secolo scorso, si è formata già l’ortodossia francese, inglese, tedesca, americana, canadese, ecc. che celebra nelle proprie lingue d’origine, che ha le proprie strutture ecclesiali, propri istituti teologici, propri teologi, proprie tradizioni e anche i propri santi. Questa nuova ortodossia occidentale da tempo non dipende in nessun modo dai cosiddetti popoli ortodossi. Nello stesso tempo “les enclaves” della vecchia emigrazione rimangono ancora; in Francia e negli Stati Uniti, per ricordare solo questi due paesi. Con la prima ondata dell’emigrazione russa, chi riuscì a scappare dopo la Rivoluzione Russa del 1917 e dal sanguinoso potere bolscevico (si tratta in totale di due milioni di persone) ha potuto conservare in alcune famiglie fino alla quarta, quinta generazione, la lingua (anche più “pulita”, quella del secolo XIX), la fede, l’ambiente culturale. E’ questo un esempio promettente di conservazione creativa e di vitalità dell’ortodossia. Un altro esempio: l’emigrazione greca dopo l’espulsione dei greci dall’Asia Minore all’inizio del XX secolo. Al momento, la Metropolia Greca che si trova sotto il Patriarcato di Costantinopoli, è una delle più numerose fra le diaspore ortodosse. In totale negli Stati Uniti vivono oggi 6 o 7 milioni di ortodossi di appartenenze e giurisdizioni diverse. A differenza dell’Europa, in America sono riusciti a creare numerose e vive comunità di lingua e tradizione greca.

C’è anche un’altra cosa che gioca un ruolo di primo piano nell’educazione ortodossa in famiglia: la presenza del tempio, del luogo di culto, della celebrazione liturgica. Se possiamo dire – cum grano salis, naturalmente, - che la fede cattolica ha la sua magistranell’istituzione che funziona come magistero nei confronti di tutti gli aspetti della vita; se possiamo dire che maestra della fede protestante rimane la Sacra Scrittura, percepita come un testo che deve essere interpretato alla luce delle moderne ermeneutiche, la fede ortodossa è la fede della liturgia e della tradizione che non ha mai avuto né reinterpetretazione né aggiornamento. La fede ortodossa - celebrata nell’assemblea ecclesiale o nella cella solitaria - comunque è sempre pregata e vissuta nella preghiera, cioè, non tenuta come una somma di dottrine da credere o precetti da seguire. Questo connotato dell’ortodossia è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Forza, perché l’intensità della fede, che è inseparabile dalla preghiera, può essere molto profonda e autentica. Debolezza, perché la sua dipendenza dal culto, dal luogo di culto e dal ministro del culto, la fa più vulnerabile delle altre fedi. Basti ricordare che la persecuzione e la distruzione o la profanazione di tante, tante chiese nell’Unione Sovietica, nella prima metà del XX secolo, è stata accompagnata dell’apostasia di massa. Per tantissimi ortodossi “formali”, quando sparisce la chiesa, può sparire anche la fede che è fondata sull’identità pubblica della preghiera in comune.

In occidente, soprattutto in Italia, sorgono oggi ovunque luoghi di culto ortodosso che diventano anche piccole scuole di educazione alla fede. Un noto teologo ortodosso della scuola di Parigi (p. Ciprian Kern) ha detto che il coro delle chiese è la migliore cattedra di teologia perché il contenuto è così ricco e ampio, così antico, patristico, che si può sapere tutto della fede ortodossa anche soltanto ascoltando il coro. Per la maggior parte degli ortodossi praticamente non esiste nessun altro tipo di magistero. Naturalmente, il canto non è testo che deve “entrare nel cervello” (tenendo conto che solo una piccolissima parte del grande tesoro liturgico è cantata in un giorno, durante la celebrazione della Divina Liturgia o dei Vespri e che questa parte cantata, spesso, almeno nell’ambito russo, è in lingua solenne - ma arcaica). Il canto entra nel cuore, in tutto in nostro essere e rimane lì come un deposito della fede vissuta, cantata, poco pensata, però, o meglio, poco ripensata in relazione alla modernità nella quale viviamo. Dunque, il compito dell’educazione religiosa nel paese d’origine, ma anche all’estero, è prima di tutto di iniziare un bambino (a volte anche un adulto, perché nel mondo ortodosso ci sono tanti adulti che scoprono la fede nell’età matura) al mondo della preghiera liturgica e personale.

Nella scuola dell’educazione ortodossa, l’elemento più importante è la preghiera domestica, la preghiera della o nella famiglia. Le nostre preghiere possono sembrare lunghe, antiche e ripetitive. Tuttavia anche questa ripetitività ha il suo senso: il cuore umano si scalda lentamente, non subito, non con le prime parole. Così, con gli adulti o con la comunità ecclesiale il bambino entra in questo spazio sacro della preghiera. Se il bambino impara a pregare ogni mattina e ogni sera, si abitua a vivere da ortodosso e questo ritmo si conserva per tutta la vita. Il primo compito dei genitori è di essere fedeli a questa pratica delle preghiere quotidiane. L’abitudine di pregare il mattino e la sera prima con i genitori, poi da solo, va insieme con il ritmo liturgico che abbraccia tutto il suo cammino, vale a dire l’alternarsi delle feste e i periodi dei digiuni e delle astinenze.

La Chiesa ortodossa ha salvaguardato la pratica dell’ascetismo antico con digiuni abbastanza lunghi (tutta la Quaresima, l’Avvento, qualche settimane prima della festa dei santi Pietro e Paolo, due settimane prima della Dormizione della Madre di Dio, tutti i mercoledì e i venerdì) perché riconosce all’astinenza dal cibo ricco di proteine e da tutti i piaceri carnali (spettacoli e televisione compresi) un senso pedagogico ed ontologico. Il senso pedagogico consiste nell’educazione al dominio sul proprio corpo, sui desideri egoistici, sulla legge del mondo: “io voglio e il mio volere di quell’istante diventa la cosa più importante dell’universo”. Il senso ontologico, mistico, sacramentale, consiste nel ritmare l’esistenza umana con gli avvenimenti più importanti della vita di Cristo, della Sua Madre, dei Suoi servi che chiamiamo santi, commemorati e celebrati liturgicamente. In breve: il ciclo annuale dell’uomo e il ciclo liturgico ecclesiale hanno un unico respiro. Nelle famiglie davvero credenti i bambini entrano in questo ritmo dei digiuni e delle feste a circa 7 anni, a volte più tardi, spesso anche prima. La prima pratica del digiuno è la comunione a stomaco vuoto (cioè senza bere e mangiare niente dopo la mezzanotte), pratica alla quale anche i bambini più piccoli si abituano molto presto. Ma i neonati, che assumono il latte materno, i bambini, e anche adulti malati, sono liberi da questo obbligo.

Il senso dell’educazione religiosa nella famiglia non è l’imporre, ma il risvegliare qualcosa che già esiste. Questo noi crediamo, come tutti i cristiani: portiamo una scintilla di Dio dentro di noi e questa scintilla può essere spenta, oppure può dare un grande fuoco. Allora il compito dell’educazione è quello di accendere questa scintilla, con le preghiere e con l’obbedienza al ritmo liturgico. “Santo è il tempio di Dio che siete voi” – dice san Paolo (1Cor 3,17) e ogni cristiano deve costruire questo tempio con le proprie forze. L’educatore può risvegliare la coscienza della santità che abita nel cuore umano, ma costruire il tempio della fede è compito dello stesso giovane fedele.

Gli ortodossi praticanti (ma questo credo valga anche per i cattolici, o comunque, valeva prima della secolarizzazione occidentale) vivono secondo la tradizione della Chiesa, seguendo il ritmo liturgico che misura non solo l’anno e la settimana, ma tutti giorni della vita. Al centro di questo ritmo liturgico si trova sempre il mistero eucaristico. Questo mistero rimane anche come nucleo della spiritualità, come lo spazio e il luogo del vero incontro con Cristo. Se un giovane cristiano riesce a salvaguardare in sé questo senso religioso che i genitori gli hanno insegnato, può rispondere anche alle sfide del mondo contemporaneo. Nel mondo ortodosso, come nel mondo cattolico e protestante, le sfide della secolarizzazione sono enormi, ma nell’ambiente ortodosso sono percepite in modo più acuto, a volte anche drammatico, perché cattolici e protestanti hanno già qualche esperienza nel resistere ad esse, mentre gli ortodossi erano abituati a vivere in paesi confessionali, come 100 anni fa, e poi in paesi di persecuzione… Adesso che sono liberi quasi dappertutto, gli ortodossi non sanno sempre bene come reggere questa libertà che esiste non solo per loro, ma anche per gli altri. Non intendo con ciò riferirmi agli scontri fra le civiltà e le religioni, ma al clima culturale del mondo laico che è, apertamente o implicitamente, ostile a qualsiasi dimensione dell’aldilà. Per vincere questo conflitto il bambino deve essere educato alla vita spirituale, al centro della quale si trova il controllo su se stesso (il cosiddetto combattimento interiore), che è un altro concetto importante: il combattimento con le proprie passioni e tentazioni, la scuola ascetica non solo del corpo, ma del pensiero e dei sentimenti. Certo, solo veramente pochi sono in grado di raggiungere questo livello interiore, ma tutti i fedeli sono chiamati alla vittoria sulla loro vecchia natura, al controllo interiore, a vedersi sotto l’occhio del Cristo che guarda dentro il proprio cuore.

La differenza profonda ed essenziale tra ortodossi e cattolici non è tanto nella dogmatica, quanto nella tonalità, negli accenti. E’ una differenza abbastanza importante perché riguarda l’orientamento della fede. Vediamo infatti che la fede cattolica si orienta più verso il pratico, l’etico, in altre parole, il concreto della vita. L’orientamento della fede ortodossa è più concentrato su tutto ciò che è sacro (il concreto interiore): il dogma, la tradizione, la celebrazione. Insomma, sulla presenza reale, non in senso strettamente liturgico, ma nel senso ampio della presenza reale del mistero nella fede stessa e nella sua pratica. Da qui proviene anche il culto delle immagini che ha una parte importantissima dell’educazione religiosa. L’icona è un messaggio a colori o una contemplazione a colori, come disse un pensatore russo, oppure, direi, un ritratto del sacro, una visione del Regno che è già venuto...

Un’altra cosa essenziale per l’educazione ortodossa nella famiglia è l’inserimento del bambino nei sacramenti: dopo il battesimo, il bambino ha pieno diritto (e solo lui) a tutti i sacramenti (naturalmente, tranne il matrimonio e il sacerdozio). Ho detto “solo lui”, perché il concetto del “diritto” non è applicabile ai sacramenti ortodossi: gli adulti partecipano alla comunione non per diritto, ma per perdono. Solo un “uomo piccolo”, un bambino, non ha bisogno del perdono o del pentimento. Subito dopo il battesimo, secondo la tradizione antica, il bambino è già “degno” di partecipare alla comunione eucaristica. Il problema della confessione non si pone neanche. Anzi, il battesimo è sempre accompagnato dagli altri due sacramenti: la cresima e la comunione che, secondo la fede ortodossa, hanno carattere ontologico ed oggettivo e non chiedono necessariamente la partecipazione della mente. Nelle famiglie devote, il bambino cresce nella comunione settimanale (ciò che non è un fatto comune per gli adulti). Ma a sette anni – l’età del risveglio della ragione e del senso di responsabilità - la confessione prima della comunione diventa obbligatoria. I bambini portano il frutto del loro crescita spirituale, fino a sette anni, e poi l’offrono alla Chiesa. Dopo, il lavoro diventa doppio: del confessore, del direttore spirituale e del padre e della madre naturali. La confessione a sette anni è una cosa molto importante per i il risveglio spirituale dei bambini ed essi sono tenuti, a differenza degli adulti, a confessarsi sempre, nonostante che i loro peccati facciano sorridere gli adulti… Ma i sacerdoti dicono spesso che non esistono peccati piccoli perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16, 10).

Lo scopo principale dell’educazione di un cristiano ortodosso è creare un’armonia della lex credendi con la lex orandi. Esse poivanno accordate alla coerenza della vita. Si tratta di questa vitache nell’ortodossia è vista sempre sotto il profilo escatologico. La dimensione dell’“aldilà” occupa, nel quadro del mondo orientale, un posto molto più importante che nelle altre confessioni cristiane. Si tratta non tanto della dottrina quanto della mentalità, la quale, per ora, non ha subito “smitizzazioni” e ancora crede che la promessa della salvezza eterna non equivalga per niente ad una garanzia. Perciò l’educazione ortodossa è anche educazione al timore di Dio, che è l’inizio della sapienza. Senza questo timore, nessuna fede può avere profondità e pienezza. La vita su questa terra è vista come preparazione ad un’altra, che è nelle mani del Signore. “Dio è amore”, ma Dio è anche la libertà dell’uomo e il rifiuto dell’amore da parte dell’uomo fa parte inalienabile della libertà umana. Perciò la vita spirituale è innanzitutto un cammino, non facile e mai concluso, di liberazione dal male che ci portiamo dentro.

Il concetto di peccato – parola che, pronunciata poco tempo fa da Rocco Buttiglione, ha spaventato e indignato l’Europa – è più che vivo nella Chiesa ortodossa, che lo prende molto sul serio. Se fosse nel Parlamento Europeo, l’ortodossia sarebbe subito cacciata via perché vede l’uomo come peccatore che si salva per l’immeritata grazia di Dio, ma anche per la sua libertà e il suo pentimento. La grazia e il pentimento vanno sempre insieme, perciò per fare la comunione, nella Chiesa ortodossa occorre ogni volta accedere alla confessione dei peccati. Il Padre accetta solo i figli prodighi che tornano. E tornano ogni volta con i vecchi peccati (che si ripetono infinitamente) e con nuove lacrime. Anche un piccolo peccato – parliamo del mondo del bambino – disubbidienza, inganno, furto di una caramella… può essere visto come segno dell’infedeltà all’amore del Padre celeste. Aggiungo che non tutti sacerdoti sono veramente capaci di ricevere la confessione dei bambini: trovare un contatto con loro, conquistare la loro fiducia chiede un talento educativo che è visto nella Chiesa ortodossa come un dono raro e speciale.

Non si tratta dell’intimidazione e delle minacce del castigo eterno – questo tipo di educazione non è praticato nella Chiesa ortodossa, soprattutto nei confronti dei bambini. L’anima del cristiano va formata per poter sentire ogni sua debolezza, ogni violazione dei comandamenti come un tradimento nei confronti dell’amore di Dio crocifisso. La percezione del peccato non è quindi moralistica, ma piuttosto mistica, cosa che si può percepire nelle lunghe celebrazioni della Settimana Santa. La Chiesa ortodossa crede che dentro di noi esista un’indescrivibile presenza di Dio, ma che esistano anche le forze del male. L’educazione religiosa consiste proprio nella preparazione al combattimento contro queste forze: l’uomo nasce innocente – e in questo siamo in contrasto con la teologia di sant’Agostino – ma poi sceglie il peccato, il suo peccato personale. La vittoria sul peccato significa la riconquista della libertà interiore il cui culmine è lasciar agire Dio stesso nell’anima e nel corpo. Teologicamente lo scopo della vita cristiana si trova proprio nel ritorno alla nostra vera natura iniziale, senza peccato, creata da Dio. Questo dà un grande senso di responsabilità a tutte le nostre azioni, i nostri sentimenti e pensieri. Anche il bambino può essere responsabile e la buona educazione religiosa consiste anche nel risveglio del senso della responsabilità personale.

Una fase più alta dell’educazione è la direzione spirituale, che esiste per gli adulti, come per i bambini. Anche il padre naturale può diventare padre spirituale. L’uomo, il bambino che si sente peccatore e sa che non può non peccare, offre la sua libera volontà ad un’altra persona degna di fiducia ma, soprattutto, ad una persona che rappresenta la presenza reale dello Spirito di Dio. Il vero educatore deve diventare per gli altri un’icona di Cristo. Questo naturalmente può essere pericoloso e, in effetti, gli abusi morali ci sono, ma quando la paternità spirituale mostra la sua forza, il Cristo stesso diventa il vero educatore e gli adulti si sentono bambini che tornano nel Regno del Padre...

Nella visione ortodossa la famiglia ha una grandissima responsabilità davanti a Dio per l’educazione religiosa dei figli: se il figlio non è credente, la scelta è sua, ma la colpa è dei genitori e nessuno può liberarli da questa colpa. Oggi, purtroppo, la maggior parte dei genitori commettono questo peccato per omissione, per negligenza, per pigrizia, per indifferenza, per codardia, per la mancanza totale del senso del dovere, ma sono tenuti a confessare sempre il peccato di non essere riusciti a portare il figlio alla fede. Il sacerdote invita i genitori alla preghiera, ad assumere il compito speciale della preghiera. Soprattutto la preghiera della madre per i figli ha una grazia speciale davanti a Dio. Il padre, però, è ritenuto più colpevole.

Un’altra cosa mi ha colpito: il pastore Paolo Ricca ha ricordato che nella celebrazione della pasqua ebraica c’è una forte attualizzazione dell’uscita dall’Egitto che è attribuita direttamente ai partecipanti: “io sono uscito dall’Egitto…”.

Noi ortodossi viviamo la stessa cosa nelle nostre celebrazioni, particolarmente in quelle del Giovedì santo: “sei tu che hai crocifisso Gesù, sei tu che hai rinnegato e tradito...”. L’uomo deve vivere anche questo, dopo i sette anni: la difficile vita adulta. La stessa cosa so che avviene nella via crucis cattolica del venerdì santo, almeno nella sua versione più tradizionale.

Per finire questa breve esposizione, vorrei ricordare il bellissimo versetto di san Paolo nella Lettera ai Galati, dove esprime la filosofia, il mistero, il messaggio dell’educazione cristiana: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). Questo è il ruolo del padre, della madre, della Chiesa, della società, di tutti noi.

«Formare Cristo dentro di noi». A questo scopo servono la preghiera individuale ed ecclesiale, la confessione dei peccati, i sacramenti, la lettura della Santa Scrittura, la contemplazione della bellezza nelle immagini. Ma anche, soprattutto, la vocazione alla carità come risposta umana all’amore di Dio.

Maria secondo Matteo e Luca
di Èlian Cuvillier


 

I racconti dei quattro evangelisti, Marco, Matteo , Luca e Giovanni, sono le prime fonti storiche che fanno menzione della donna presentata come la madre del Messia. Matteo e Luca, i cui Vangeli sono stati redatti in greco a partire dal 70, sono i soli a riportare il racconto del concepimento verginale di Gesù da parte di Maria. In quale contesto storico è nato questo tema e quale senso gli si deve attribuire?

Vangelo di Matteo:
Maria e le donne della genealogia (M t 1,1-17)

Nel racconto dell' infanzia secondo Matteo, Maria è citata nella genealogia di Gesù: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (v. 16). In questa lunga lista genealogica di oltre quaranta antenati maschi, Maria è la quinta donna nominata dopo Tamar (v. 3), Raab e Rut (v. 5) e «la moglie di Uria» (v. 6). All'epoca,pur non essendo eccezionale, la presenza di donne non era molto comune nelle liste genealogiche. Così Luca, peraltro molto interessato in altre parti del suo Vangelo ai personaggi femminili, non ne cita alcuna nella sua genealogia (cf Lc 3,23-38).

La storia di Tamar è nota (cf Gn 38): maritata ai due primi figli di Giuda, si ritrova vedova senza discendenza e Giuda, il suocero, le rifiuta il suo terzo figlio. Lei ricorre allora a uno stratagemma, facendosi passare per una prostituta, per assicurarsi, con Giuda stesso, una discendenza. Perez e Zerach sono i due figli che ella ha avuto con Giuda. Accusata di adulterio, essa è alla fine dichiarata innocente da Giuda stesso che afferma: «Essa è più giusta di me, perchè io non l'ho data a mio figlio Sela» (Gn 38,26). La tradizione ebraica abbonda in questo senso: Tamar appare come colei che, a costo di applicare in modo irregolare la Legge, assicura una discendenza a Israele.

Raab è comunemente identificata con la prostituta di Gerico (Gs 2 e 6). Se si tratta proprio di lei, bisogna sottolineare che questa donna è trattata in modo molto positivo nelle tradizioni ebraica e cristiana. I rabbini lodano la sua bellezza, la considerano come una proselita e una profetessa. Rut la moabita (originaria del paese di Moab, ad est del Mar Morto) è straniera e ha sedotto Booz per farsi sposare. La tradizione biblica vede in lei il modello della proselita (cf Rt 2,12 come indicazione della sua conversione al giudaismo). La genealogia della fine del libro di Rut inoltre fa di lei una delle antenate di Davide. Nella stessa direzione un midraš ricorda che i re Messia è disceso da Rut la moabita.

La quarta donna citata è «la moglie di Uria», Betsabea (cf 2 Sam 11,26; 12,10.1.5; 1 Cr 3,5). Nel caso dell'uccisione di Uria l'Ittita (2 Sam 11-12), essa non appare come la colpevole, ma come l' oggetto che ha spinto al delitto. La vera responsabilità è di Davide (cosa che a suo modo conferma i Salmo 51 ). Perchè parlare di Betsabea senza nominarla e designandola attraverso il suo legame con Uria? Per ricordare il peccato di Davide e l' irregolarità della linea di discendenza?

Di Maria, si tratta di sottolineare semplicemente il carattere illecito del concepimento di Gesù. L'atteggiamento del giusto Giuseppe che progetta di ripudiarla (Mt 1,19) lo conferma: solo coloro che ricevono da Dio una rivelazione possono vedervi una colpa, ma l'intervento decisivo di Dio nella storia del suo popolo e del mondo. L' unione irregolare tra Tamar e Giuda che fa correre a Tamar un rischio, non può non rievocare la storia di Maria che corre il rischio di essere accusata di adulterio. Come Rut mette al mondo un antenato del Messia, Maria mette al mondo Gesù in circostanze che non sono quelle correnti. Raab e la moglie di Uria evocano, anch' esse, l' irregolarità e i cammini distorti della filiazione davidica. Forse è anche un' indiretta evocazione della reputazione incerta di Maria: come Raab, non potrebbe essere una prostituta? Così, scandalosi o no, gli esempi anteriori a Maria mostrano che Dio è capace di vincere tutti gli ostacoli, siano essi di ordine legale o biologico, quando si tratta di realizzare il disegno che deve portare al Messia.

È verosimile che Matteo abbia voluto sottolineare questo punto con una certa enfasi. Messi insieme, questi cinque nomi di donna evocano le circostanze particolari, e, dal punto di vista umano, dubbie, che circondano la nascita di Gesù.

Maria, ci dice l'evangelista Matteo, è, all'inizio, Maria la giustificata. Maria che tutto condanna, Maria rifiutata dalla società perchè, compromessa da Dio, non è più in regola con la Legge dei suoi Padri (Mt 1,18-25). Maria è, come le sue sorelle Tamar (M t 1,2), Raab (Mt 1,5), Rut (Mt 1,5) e Betsabea (Mt 1,6), integrata nella linea del Messia per pura grazia: con loro, essa diventa parte necessaria del progetto di salvezza di Dio. Con le sue antenate, essa diventa colei attraverso la quale l'Incarnazione è resa possibile.

Il concepimento verginale: origine e attualità

Matteo sottolinea il concepimento di Gesù «per opera dello Spirito Santo» (vv. 18 e 20) da una vergine (cf in M t 1,23, la ripresa del termine parthénos del testo della traduzione greca di Is 7,14, termine che designa chiaramente una vergine), cosa che presuppone la passività di Giuseppe ( confermata esplicitamente nel racconto di Matteo, cf vv. 16 e 18).

Anche supponendo, dietro il racconto di Matteo, l'eco di una polemica giudaica legata all'origine illegittima di Gesù contro la quale Matteo prenderebbe posizione (un' ipotesi in ogni caso non verificabile), l'evangelista sviluppa l' idea di un concepimento verginale di Maria (tesi chiaramente confermata da Luca, cf Lc 1,26-38). Si pongono allora due questioni: di dove Matteo ricava questo tema e che significato gli attribuisce? Alla prima domanda si può rispondere che il concepimento del Messia per opera dello Spirito divino è uno sviluppo, influenzato da apporti estranei, del messianismo giudaico e della cristologia della Chiesa primitiva. Le influenze delle religioni pagane non possono in realtà essere escluse. Il bacino del Mediterraneo è, alla fine del I secolo, il luogo di un vero crogiolo culturale e religioso. Nè il giudaismo nè il cristianesimo nascenti sono sfuggiti, poco o molto, all'influsso di altre correnti religiose. Così alI' epoca è molto diffuso il motivo della nascita di un bambino provvidenziale: «Nel giorno del solstizio d' inverno, Elios si è impadronito del potere e sotto il suo regno avviene sulla terra la nascita di un bimbo maschio e di un' era nuova» (Testo egizio legato al culto del Sole e al culto di Iside). Che le tradizioni giudaiche non siano estranee a questo tipo di influsso, lo mostrano i Targumim (versioni aramaiche) o lo Pseudo-Filone (nome attribuito allo sconosciuto autore delle Antichità bibliche) attraverso le leggende che riferiscono a proposito della nascita miracolosa di Isacco o di Mosè. In Filone, la nascita di Isacco è intesa come una nascita verginale e la LXX (versione greca dei «Settanta», prima traduzione dell' Antico Testamento in greco) intravede probabilmente una tale ipotesi in Is 7,14. A Qumrân, si conosce il concepimento di uomini da parte degli angeli e forse del Messia da parte di Dio. Rimane il fatto che non è necessario postulare una diretta influenza delle religioni pagane su Matteo. Il Vangelo di Matteo si colloca nella linea del giudeo-cristianesimo primitivo che interpretava le profezie di Isaia in senso cristologico. Egli inserisce la sua interpretazione sullo sfondo di un messianismo già impregnato di influenze pagane.

La risposta alla seconda domanda discende logicamente dalle osservazioni precedenti: Matteo amplia il tema del concepimento verginale per dire alcune cose di Gesù. Sotto forma narrativa, egli sviluppa un discorso cristologico: Gesù è non soltanto l'inviato di Dio nel senso del messianismo cristologico, ma proprio il «Figlio di Dio» in una relazione unica di fili azione.

Vangelo di Luca
Maria la credente

Il Vangelo di Luca sconvolge la vita dell' individuo e lo mette in cammino su nuove vie, la cui proprietà è di seguire sentieri già tracciati per camminarvi in modo diverso: è in qualche modo il messaggio che l' evangelista vuole trasmettere attraverso la sua costruzione del personaggio di Maria.

L’Annunciazione (Lc 1,26-38)

Nel racconto dell' Annunciazione, Maria è descritta come un' adolescente di un' oscura regione della Galilea, la cui storia è delle più banali: data in matrimonio dalla sua famiglia ad un uomo, la sua esistenza è già interamente tracciata, senza sorprese. Il suo solo onore sarà di dare la vita ad una discendenza maschile evitando così il disonore che fu a lungo quello di Elisabetta, «la sterile» (Lc 1,25). L'espressione «vergine, promessa sposa di un uomo» (Lc 1,27) indica in realtà che Maria ha raggiunto I' età di dodici anni e che, secondo l'uso del tempo, è stata data in sposa senza che sia stato richiesto il suo parere. Il destino di Maria è inscritto in un contesto storico e culturale che non lascia alcuno spazio all' immaginazione pia: il cammino di questa giovane è già tracciato da coloro che l'hanno preceduta, e prima di tutto dai suoi genitori. Nessuno spazio di libertà nella vita futura di questa donna: fidanzata a Giuseppe, ella conosce già la vita che I' aspetta guardando vivere intorno a lei le donne del suo villaggio. Per esprimerci con le nostre categorie moderne, Maria è l'esatto contrario di una donna «libera».

In questa storia determinata, senza sbocco e senza sorpresa, Dio, ci dice Luca, interviene. Interviene attraverso una parola per mezzo della quale fa irruzione nella vita di Maria, nella sua storia, per orientarla in modo nuovo. Quello che le tradizioni più tenaci, il patriarcalismo più pesante o la volontà dei genitori hanno previsto per Maria - tutte queste parole che la precedono e che costruiscono inesorabilmente la sua esistenza -, di tutto questo Dio, attraverso la parola che rivolge a Maria, si fa carico e lo dispone diversamente. Maria sente e comprende che Dio si interessa, o meglio, si inserisce nella sua storia. E in questa storia in cui nessuno le aveva mai dato la parola, Dio è il primo a entrare in dialogo con Maria! Così Dio fa di Maria una donna libera. Non nel senso attuale di questo termine, cioè come un individuo che costruirebbe da solo la propria esistenza, nell' illusione di un' autonomia che esiste solo nel sogno. Dio fa di Maria una donna libera dandole la parola, invitandola ad accogliere il progetto che Lui ha per lei, un progetto che s'inserisce nel cuore stesso della sua storia e dei suoi determinismi.

Madre o credente?

L'agire di Dio è così, secondo Luca, doppiamente diverso dall' agire degli uomini. Prima di tutto perchè consiste in un progetto di grazia, che bandisce la paura e invita alla gioia: «Rallegrati» (v. 28), «Non temere [...] perchè hai trovato grazia presso Dio» (v. 30). In secondo luogo perchè è un agire che presuppone una risposta da parte dell'uomo, una parola di ritorno (cf v. 38). Maria probabilmente non si aspettava tanto, condannata, senza averlo scelto e senza poterlo rifiutare, ad un quotidiano senza sorpresa. Un quotidiano nel quale si vorrà chiuderla per sempre, sia pur con le migliori intenzioni del mondo. Ne è testimonianza, già nel Vangelo di Luca, un testo che si colloca oltre nella narrazione: «Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". Ma egli disse: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!"» (Lc 11,27-28).

Questo passo riecheggia i Vangeli dell' infanzia: ancora una volta qualcuno vuole chiudere Maria nel suo ruolo di donna ebrea; ecco Maria imprigionata in ciò che identifica una donna (la maternità) e che le rende onore (mettere al mondo un figlio maschio). Come nel racconto dell' Annunciazione, una parola irrompe - questa volta quella di Gesù - che eleva Maria al rango di un essere libero perchè obbedisce non più alle regole degli uomini, ma alla parola di Dio: ciò che fa la beatitudine di Maria non è più la sua maternità, ma la sua fedeltà a questa parola a cui si è sottomessa nel primo incontro (1,37), benchè non senza difficoltà ed ulteriori prove (2,35.48).

Quello che è vicino resta sem pre vicino e, proprio per questo, è reale, esiste. Quello che è lon tano, proprio perché è tale, ci ap pare spesso irreale e insignificante. È terribilmente più fastidioso un vicino di casa che batte sul muro di notte, della notizia di un terre moto o di un'alluvione in qualche Paese lontano.

Marta e Maria di Betania
L'integralità incompiuta
di Lilia Sebastiani

 

Occupano un posto di rilievo tra le discepole di Gesù (chi scrive tenderebbe a collocarle subito dopo Maria di Magdala, se mai tali graduatorie fossero possibili), un posto di genere particolare, perché chiaramente non appartengono al gruppo itinerante, e tuttavia sono discepole a pieno titolo. Anche loro, come altre donne più vicine a Gesù, nella tradizione cristiana hanno subito un processo di stilizzazione deformante. Una sorte simile pur nella diversità è toccata a Maria di Magdala - la quale, del resto, per circa millecinquecento anni è stata identificata con Maria di Betania -; o a Giovanna moglie di Cusa, ricordata (quando poi qualcuno la ricordava) come una brava vedova dedita all'assistenza materiale degli uomini di Dio.

Dati evangelici

Marta e Maria di Betania sono ricordate da Luca (10,38-42) e, con intenzione teologica diversa, anche dal quarto evangelista (Gv 11,1-44; 12,1-8). Qui seguiremo il racconto di Luca, non però in modo esclusivo: quantunque infatti sia esegeticamente scorretto integrare un evangelista con un altro, sappiamo come, in una riflessione di ordine spirituale, affinità e differenze possono aprire orizzonti ulteriori di senso.

Secondo il quarto evangelista le due sorelle risiedono a Betania, che è praticamente un sobborgo di Gerusalemme. Se si disponesse solo della testimonianza di Luca, si sarebbe indotti invece a considerarle galilee, anche se ciò non viene specificato: l'episodio che le riguarda è collocato dall'evangelista all'inizio della sezione del viaggio verso Gerusalemme, che costituisce il fulcro anche teologico della narrazione lucana. Il quarto evangelista parla del loro fratello Lazzaro come di una persona cara a Gesù, quantunque l'unico protagonismo effettivo nella vicenda sia quello di Marta e Maria; Luca invece, che ignora Lazzaro, mostra le due sorelle come donne sole e, si direbbe, autonome (ma lo stesso vale per le altre discepole): un 'immagine abbastanza insolita nell'ambiente storico di Gesù.

La tradizione cristiana poi ha sempre attribuito alle due sorelle un ceto sociale ed economico elevato: non che ci siano indizi in proposito nella stringatissima narrazione di Luca, ma si supponeva che costituisse un onere non trascurabile accogliere in casa Gesù e tutto il gruppo dei discepoli che lo seguiva. Inoltre le donne di condizione elevata che si fanno seguaci di Gesù, mettendo anche i loro beni materiali al servizio della causa del Regno, costituiscono quasi un topos ricorrente nell'opera lucana (Vangelo e Atti), fin dalla pericope relativa alle discepole galilee (Lc 8,1-3).

Allora: in un villaggio di cui non si dice il nome, «una donna di nome Marta lo accolse...» (1). Marta è stata spesso considerata la maggiore delle due, la più autorevole, perché sua sembra l'iniziativa di ospitare, sue le responsabilità materiali connesse. Naturalmente questo non vuol dire nulla dal punto di vista storico, e l'evangelista non si dà molto pensiero della precisione ambientale e biografica di quanto racconta.

Importante è la differenza di atteggiamento delle due sorelle, che Luca interpreta o elabora, e comunque utilizza in funzione ecclesiale: Marta è tutta presa dai molti servizi («intorno al molto servire»: peri pollèn diakonìan), mentre Maria è seduta ai piedi di Gesù e intenta ad ascoltare la sua parola. Marta si lamenta dell'assoluta indifferenza della sorella nei confronti del proprio affannarsi, e Gesù le risponde che una sola cosa è necessaria, e Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta.

Maria, o l’ambigua predilezione

Per molti secoli Maria è stata vista come simbolo della vita spirituale. La spiritualità è la «parte buona», nei termini del vangelo di Luca, a patto che non venga resa sinonimo di non-concretezza, disimpegno, evanescenza, fuga (in alto o in fuori o in dentro); a patto che lo spirito non diventi il pretesto per separare, ritagliare, rifiutare... La mentalità religiosa patriarcale è costantemente esposta a questi rischi, e la consuetudine religiosa non aiuta la crescita della fede. Risultato, in questo caso: Maria di Betania è stata ristretta, irrigidita, dimenticata come discepola di Gesù, ciò che sempre avviene quando l'infinito di una persona viene limitato nel senso unico di un simbolo, quale che sia l'importanza del simbolo. Maria si trova così a essere un personaggio molto amato e rispettato e tuttavia evanescente, senza volto, senza carattere, senza autorevolezza..., attraente ma latitante, come lo Spirito.

Tra l'altro, abbiamo già accennato che nella tradizione d'Occidente è stata confusa con un'altra Maria anche più famosa di lei: Maria di Magdala, discepola prediletta e apostola della Risurrezione, ciononostante entrata nella tradizione cristiana e nell'immaginario religioso come peccatrice pentita. Sulla base dell'identità del nome, tanto diffuso in Israele in epoca neotestamentaria, e di qualche incertezza (sovrapposizione o fusione o sdoppiamento) in cui incorrono gli evangelisti, narrando tutti e quattro ma in diverso modo l'episodio in cui Gesù viene unto con olio profumato da una donna, per l'Occidente cristiano Maria di Betania diventò, almeno da Gregorio Magno in poi, Maria di Magdala «dopo la cura». Le eventuali isolate perplessità che si incontrano nella storia della tradizione a questo riguardo sono di ordine geografico - come faceva a essere «di Magdala», ovvero Galilea, una che era di Betania? - , e tanti predicatori attraverso i secoli sprecarono fiumi di non disinteressata eloquenza per commentare il preteso passaggio: peccatrice prima, poi contemplatrice-mistica («Quale stato, e quale stato!», esclamava Bossuet). Il passaggio sarebbe comunque meno strano di quanto sembri, perché ad accomunare peccatore e mistico vi è una certa idea di irregolarità, di extra-istituzionale, di fuori schema, che si accentua quando peccatore e mistico sono declinati al femminile.

Maria, dice Luca, «seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola». Questa notazione è sempre piaciuta molto nel corso di una tradizione cristiana tutta elaborata da uomini chierici: suona infatti così affettuosa e devota, così sottomessa... Tanto che, nell'impatto istintivo sul lettore-ascoltatore, il fatto di essere ai piedi, insomma l'abbassamento, finisce col predominare rispetto all'ascolto e alla Parola.

In realtà questa notazione affettuosa e devota costituisce nel suo contesto una trasgressiva novità. Stare «ai piedi di» qualcuno, nella lingua ebraica del tempo di Gesù, è espressione quasi tecnica che indica la situazione del discepolo rispetto al maestro, e qui Maria è riconosciuta come discepola - per di più con accenti solennemente positivi -, in un'epoca che escludeva le donne dallo studio della Legge, raccomandato invece e quasi prescritto a ogni uomo. Nella lingua ebraica e aramaica del tempo, la parola «discepolo» non aveva il femminile. Lo stesso Luca, che tra gli evangelisti è probabilmente il più aperto alle donne (anche perché scrive rivolgendosi a cristiani di cultura ellenistica e non provenienti dal giudaismo), alle donne accorda indirettamente il discepolato e l'apostolato, anche usando a loro riguardo certi termini chiave come «seguire» e «servire»; ma non usa nel suo vangelo il termine «discepola» (2).

In questo passo Gesù, lodando Maria che trascura i suoi doveri casalinghi, a preferenza della sorella che ad essi invece si immola, rigetta in modo solenne e definitivo gli schemi patriarcali, apre anche alle donne, nella logica del Regno, gli spazi dello studio e della riflessione spirituale.

«Maria, il silente sogno degli uomini, contiene dinamite», dice Elisabeth Moltmann-Wendel (3).

La sorella esemplare e squalificata

Nel vangelo di Luca, sia che questo fosse o non fosse esplicitamente nelle intenzioni dell'evangelista, Marta «tutta presa dai molti servizi» si conforma all'atteggiamento femminile tradizionale. Certo per noi sarebbe necessario distinguere tra femminile nel senso di «proprio delle donne» - per natura, quindi? - e femminile nel senso di «raccomandato alle donne», quindi culturalmente indotto.

Non vi è dubbio che, secondo l'evangelista, anche Marta ama moltissimo Gesù ed è felice della sua presenza; ma il suo amore e la sua gioia si esprimono col moltiplicare i servizi e preoccuparsi in primo luogo per questioni connesse con la vita materiale. Non si vorrebbe psicologizzare a oltranza, procedimento anacronistico e scorretto che i Vangeli non supportano quasi mai; eppure non possiamo fare a meno di rilevare che la frase di Marta - «Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata da sola a servire? Dille che mi aiuti...» -, quand'anche semplicemente fabbricata dall'evangelista allo scopo di creare un contesto all'importante detto di Gesù sull'unica cosa di cui c'è bisogno, rifletterebbe una costante del vissuto femminile. Sì, come tante altre donne qui Marta sembra compiere i suoi pretesi doveri domestici con efficienza e dedizione, ma anche con segreta sofferenza e comunque, a un certo punto, con insofferenza palese.

Non certo Marta donna del vangelo, ma il personaggio-Marta, il simbolo di Marta è una creazione della società patriarcale, con un fenomeno del tutto analogo a quello che si verifica per Maria: l'una e l'altra sorella sono ridotte a una sola dimensione e artificiosamente contrapposte. Tra l'altro contrapporre le donne l'una all'altra, creare o enfatizzare conflitti femminili - sempre intorno a un uomo, o a valori maschili, siano essi la fecondità fisica o il denaro o il potere o altro... - è un modo di neutralizzarne la possibile autorevolezza. Ispirano oggi tristi riflessioni certi dipinti sacri che, soprattutto dal Quattrocento in poi, raffigurano Marta vestita da ricca massaia (cioè, metà da signora e metà da domestica), sempre con qualche utensile domestico in mano e con grossi mazzi di chiavi alla cintura, illuminata da uno sguardo che molto ottimisticamente potremmo definire «corrucciato», se non proprio obliquo e invidioso.

Marta è stata patrona attraverso i secoli del personale di servizio domestico, soprattutto femminile, degli ospizi, degli infermieri e, più recentemente, delle collaboratrici domestiche dei preti. Ancora oggi in America si richiamano a santa Marta certi gruppi femminili ipertradizionalisti che vorrebbero per la donna l'esclusività del ruolo familiare e casalingo.

A partire dal tardo Medioevo Marta viene anche elogiata dai predicatori, che sviluppano la sua fisionomia prendendo in prestito i tratti della «donna perfetta» di cui si legge nel libro dei Proverbi (31,l0ss.). La cura della casa, i molti servizi, sono oggetto non solo di lode ma di raccomandazione, di imposizione: insieme alla maternità sembrano la vocazione femminile per eccellenza, a cui si sottraggono solo le vergini consacrate. Eppure nella tradizione che risale ai Padri della chiesa, a cui si rifanno più o meno direttamente tutti i predicatori successivi, le parole di Gesù relative all'unica cosa che conta, parole di solenne rivelazione, venivano caricate in senso sprezzante e de-qualificante, e andavano oltre la figura evangelica di Marta per ricadere su tutte le donne «normali»; anche se queste incorrevano nel biasimo più accorato quando rifiutavano il loro ruolo di addette alla vita materiale per cercare altre vie di realizzazione di sé.

Dai servizi al servizio

Il fatto è che i molti servizi (lo si vorrebbe dire senza man­care di rispetto alla generosità e all'abnegazione di tante donne che la storia ha dimenticato) non sono ancora «il servizio»: quello che è vocazione comune per uomini e donne se vogliono essere discepoli e discepole di Gesù «venuto per servire» (Mc 10,45), in mezzo ai suoi «come colui che serve» (Lc 22,26), quel servizio che non somiglia per niente a qualsivoglia servitù - ché anzi solo dopo essersi liberati dalle varie servitù vi si può giungere davvero.

Per ragioni non troppo misteriose, nella tradizione cristiana la pur dequalificata Marta di Luca veniva preferita a quella giovannea: infatti nel cap. 11 del quarto vangelo (racconto della risurrezione di Lazzaro), Marta non appare in faccende ma parla, eccome; è l'interlocutrice di Gesù, innegabilmente più importante della sorella, in un colloquio di grande spessore teologico che costituisce un evento progressivo di rivelazione ed è uno dei più lunghi colloqui che i vangeli ricordino (4).

Confrontandosi in un colloquio alla pari con Gesù, per di più in un momento drammatico, sia per lei (ha appena perduto il fratello) sia per Gesù (dinanzi a opposizioni accentuate e a un più deciso tentativo di eliminarlo, che sarà coronato da successo nel giro di pochi giorni), Marta, non più presa dai molti servizi, è ancora «attiva» in senso forte, in quanto si pone come soggetto e rivendica la parola. In questo senso è certo significativo, al di là del puro dettaglio narrativo, che sia Marta a mediare per sua sorella l'appello di Gesù (il quale rimane inespresso nel racconto giovanneo): «il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28).

La cultura patriarcale è stata sempre restia ad accordare alle donne «la parola». La parola, s'intende, autorevole e dialogica: ben altra cosa rispetto alla disimpegnata loquacità - alias chiacchiera -, che alle donne è stata invece sempre attribuita, fino a diventare un luogo comune, ingiusto spesso come tutti i luoghi comuni. Anche rivendicare la parola, e assumerla per comunicare, è un modo di esercitare il servizio; ma anche aprirsi all'ascolto della Parola è pane del servizio.

La «parte migliore»: considerazioni patristiche

L'interpretazione tradizionale di Marta e Maria come simbolo rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, che poi resterà dominante anche se in termini scritturistici è impropria, risale in sostanza a Basilio di Cesarea e viene poi ripresa, approfondita e consolidata da Gregorio Magno.

Basilio, nella raccolta di scritti comunemente conosciuta come Esercizio di ascesi, e in particolare nelle cosiddette Regole ampie, rispondendo a una domanda relativa alla mente non dissipata, afferma: «Quell'esercizio per piacere a Dio che è secondo il vangelo di Cristo, si attua per noi con l'allontanarci dalle cure mondane e con l'estraniarci assolutamente dalle distrazioni che causano affanno» Si ha qui una citazione implicita dell'episodio di Marta e Maria: il termine che indica le distrazioni affannose infatti è perispasmon, lo stesso adoperato in Lc 10,39 (5).

Anche in un altro punto delle stesse Regole, condannando le raffinatezze della mensa particolarmente sconvenienti per coloro che fanno esercizio di ascesi, Basilio squalifica e limita la figura di Marta, e in modo veramente un po' banale, come se la sollecitudine di lei fosse di ordine gastronomico.

In modo più significativo riprende il tema di Marta e Maria nelle Costituzioni asceticheAsketikài Diatàxeis) rivolte agli «asceti che vivono solitari oppure in comune». Proprio nel cap. I, dove si afferma che la preghiera dev'essere anteposta ad ogni altra occupazione, porta l'esempio evangelico delle sorelle di Betania, ammettendo che in tutt'e due vi era un desiderio buono – kalé prothymìa -, ma di diverso valore:

«L’una ristorava la parte visibile, ma l’altra rendeva servizio all'invisibile. Infatti non per questo scopo siamo venuti, sdraiarci su letti, nutrire il ventre..., ma siamo qui per pascerci con la parola di verità e la contemplazione dei divini misteri. Gesù in verità non disse a quella di smettere quanto aveva intrapreso; ma lodò questa per la sua attenzione.
Allora, stammi bene a sentire: per mezzo di due donne si intende parlare di due stati di vita, l'uno però inferiore, perché riguarda più il servizio corporale (quantunque molto utile anch'esso), l'altro migliore perché, innalzandosi alla contemplazione dei misteri, è più spirituale. Tu che mi ascolti, intendi queste cose nel senso spirituale e scegli delle due quella che vuoi».

Ricorda poi che rendere servizio agli altri, anche nelle necessità materiali, è un agire raccomandato da Cristo, e aggiunge:

«Se poi desideri servire, servi nel nome di Cristo. (...) Sia che tu accolga i forestieri, sia che ristori i mendicanti, sia che abbia pietà di chi soffre, sia che stenda la mano per aiuto a coloro che si trovano nel bisogno e nella sventura, sia che renda servizio agli ammalati, Cristo riceve tutte queste cose in se stesso».

Ma subito dopo questa sottolineatura quasi d'obbligo, torna con fervore al suo tema preferito:

«Se invece vuoi imitare Maria, la quale - lasciato il servizio del corpo - si innalza alla contemplazione delle meraviglie celesti, svolgi questa attività in modo avveduto [gnésiòs mètelthe to pràgma]. Lascia andare il corpo, abbandona la coltivazione dei campi e la preparazione e l'abbondanza delle vivande, e siediti ai piedi del Signore, ascolta la sua parola per diventare partecipe dei segreti delle cose divine. Infatti la contemplazione [theorìa] degli insegnamenti di Gesù supera il servizio reso al suo corpo. (...) Al primo posto è la parola spirituale, tutte le altre cose sono secondarie» (6) (traduzione nostra).

Sarà però Gregorio Magno, in diversi scritti e soprattutto nelle Homiliae in Hiezechielem, a codificare e consegnare ai secoli futuri la valenza simbolica delle due sorelle di Betania. Nella terza omelia del libro I, Marta e Maria esprimono le due scelte di vita possibili per un operaio della Parola, tra cui Gregorio si sente diviso: predicare (ciò che può essere di maggiore utilità per gli altri ma implica sempre un rischio di esteriorità e dissipazione), oppure meditare e pregare in solitudine?

«Due sono poi le forme di vita dei santi predicatori, cioè l'attiva e la contemplativa; ma l'attiva precede nel tempo la contemplativa, perché dall'operare il bene tende alla contemplazione. Quella contemplativa poi è superiore all'attiva quanto al merito, perché questa si affatica per l'utilità del lavoro presente, quella invece già assaggia nell'intimo sapore il riposo che verrà. (...) Lo esprimono bene nell'Evangelo quelle due donne, Marta e Maria. Marta infatti era occupata dai molti servizi; invece Maria sedeva ai piedi del Signore e ascoltava le sue parole. Dunque l'una era intenta al lavoro, l'altra alla contemplazione. L'una coltivava la vita attiva attraverso il servizio esteriore, l'altra quella contemplativa attraverso la tensione del cuore alla Parola. E quantunque l'attiva sia buona, tuttavia migliore è la contemplativa, perché quella viene meno insieme con la vita mortale, invece questa nella vita immortale cresce a maggiore pienezza. Perciò si dice: Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta. (...) Infatti, anche se realizziamo qualcosa di buono per mezzo della vita attiva, per mezzo della contemplativa voliamo alla nostalgia del cielo» (7) (traduzione nostra).

Nella seconda omelia del libro II l'argomentazione viene ripresa in termini quasi identici, all'inizio, ma poi con maggiore approfondimento.

«Ci hanno espresso bene entrambe queste forme di vita quelle due donne, Marta e Maria: di loro una era occupata dai molti servizi, l'altra invece sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la parola dalla sua bocca. E lamentandosi Marta di sua sorella perché trascurava di aiutarla, il Signore le rispose dicendo: Marta, ti affatichi e ti occupi di tante cose, ma una sola è necessaria. Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.che non le sarà tolta». Infatti la vita attiva viene meno insieme al corpo. Chi può offrire del pane all'affamato nella patria eterna, dove nessuno ha fame? Chi dar da bere all'assetato, dove nessuno ha sete? Chi seppellire un morto, dove non muore nessuno? La vita attiva ci viene tolta insieme al mondo presente, invece quella contemplativa viene iniziata qui per essere portata a compimento nella patria celeste; perché il fuoco dell'amore che qui comincia ad ardere, quando avrà visto colui che ama, divamperà con più forza. La vita contemplativa dunque non viene tolta, perché, una volta allontanata la luce del mondo presente, diviene perfetta» (8) (traduzione nostra). Ecco, la parte di Marta non viene biasimata, ma si loda quella di Maria. Infatti non è detto che Maria ha scelto «la parte buona», ma «la migliore», affinché anche la parte di Marta fosse giudicata buona. Perché poi la parte di Maria sia la migliore, si deduce quando viene detto: «

Di grande interesse il paragrafo successivo della stessa omelia, nel quale viene introdotta in funzione simbolica l'altra coppia di sorelle bibliche, Lia e Rachele:

«Tutt'e due queste forme di vita, come è stato detto anche prima di noi*, furono espresse in figura dalle due spose del beato Giacobbe, cioè Lia e Rachele».

Vi è un 'intuizione importante: così come avvenne a Giacobbe per volere di Dio, l'uomo di Dio deve prendere in moglie entrambe le sorelle,

«perché chiunque si rivolge al Signore aspira alla vita contemplativa, desidera la quiete della patria eterna, ma prima è necessario che nella notte della vita presente operi il bene che può, che sudi nella fatica, cioè che sposi Lia, affinché dopo, per “vedere il principio”**, si riposi nell'abbraccio di Rachele. Infatti Rachele aveva buona vista, ma era sterile, Lia invece aveva gli occhi malati, ma era feconda; Rachele era bella e infeconda, perché la vita contemplativa è affascinante nell'animo, ma, siccome desidera star quieta nel silenzio, non genera figli dalla predicazione» (9) (traduzione nostra).

Il parallelo tra Rachele contrapposta a Lia e Maria contrapposta a Marta appariva anche in una lettera indirizzata alla principessa Teoctisto (sorella dell'imperatore d'Oriente Maurizio): qui Gregorio esprime il proprio rammarico per essere stato strappato alla quiete della contemplazione dal servizio pontificale, da lui non ricercato e nemmeno desiderato, accettato però per obbedire a Dio.

«Ero innamorato del fascino della vita contemplativa, come di Rachele, sterile ma di buona vista, e bella (Gen 29); essa, quantunque nella sua inerzia generi meno figli, tuttavia vede la luce con più acutezza. Ma, non so per quale ragione, nella notte è stata fatta congiungere con me ha, cioè la vita attiva, feconda ma dagli occhi malati; Lia che ci vede di meno, anche se fa più figli. Mi affrettavo a sedere ai piedi del Signore con Maria, ad assorbire le parole della Sua bocca, ed ecco che sono sospinto con Marta a servire in ciò che è esteriore, a far fronte a tante cose (Lc 10,39 ss)» (10) (traduzione nostra).

Gregorio riprende il tema di Marta e Maria in un'altra lettera indirizzata a una nobildonna della corte di Bisanzio, ma in modo molto diverso: concentra l'attenzione su Maria, che però identifica (come anche in alcune omelie sui Vangeli) con l'anonima peccatrice Galilea e con Maria di Magdala. Ratifica con il suggello della sua autorità e del suo prestigio una confusione che ammiccava da tempo ma, dopo di lui, sarà stabile e indiscussa in Occidente per quasi quindici secoli. Nel commentare le parole di Gesù, «le sono rimessi i suoi molti peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47), aggiunge:

«Come poi le siano stati rimessi ci viene mostrato anche in ciò che avvenne dopo, perché sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la Parola dalla sua bocca (Lc 10,39). Infatti, rapita nella vita contemplativa, aveva ormai oltrepassato quella attiva che ancora conduceva Marta sua sorella (ivi, 40). Con grande slancio andò anche a cercare il Signore dopo che era stato sepolto» (11) (traduzione nostra).

Servizio di mensa, servizio della Parola

Occorre sempre tener presente che, come si accennava, il terzo evangelista, quando contrappone le figure così stilizzate delle due sorelle di Betania, non intende affatto ragguagliare sul loro temperamento - per noi irraggiungibile - o sulle loro abitudini. È probabile invece che abbia in mente due diversi tipi di convertito, due diversi tipi di impegno nella chiesa. Diciamo «convertito» e «impegno nella chiesa», sottolineando che non si tratta qui di decidersi per Dio o contro Dio, di dare o non dare l'assenso al messaggio di Gesù: le persone di cui si parla qui hanno già fatto un'opzione cristiana, anzi sono fedeli convinti e di prima linea, e forse proprio per questo la riflessione ecclesiale dell'evangelista risulta più delicata e complicata.

Una specie di illuminazione aggiuntiva, se non del tutto perspicua, potrebbe venirci dal cap. 6 degli Atti, là dove si parla dell'istituzione dei Sette (abitualmente chiamati «diaconi», benché nel testo il termine non si trovi).

Al di là della notazione sul malcontento dei cristiani ellenisti verso quelli provenienti dal giudaismo, qui ci interessano le parole dei Dodici: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (At 6,2). Evidentemente era un'antitesi ben presente alla mente di Luca e alla sua sollecitudine pastorale: non certo l'antitesi tra azione e contemplazione, che si sarebbe diffusa più tardi soprattutto per impulso monastico, ma quella tra servizio di mensa e servizio della Parola - quantunque sentiti l'uno e l'altro, e giustamente, come «servizio» (12). È evidente che Luca attribuisce un'importanza molto maggiore al servizio della Parola: oggi intuiamo che anche il concetto di «mensa» potrebbe e deve essere dilatato, ben oltre il senso puramente assistenzialistico.

Per sentirsi provocare a fondo dalle due sorelle di Betania, occorre affrancarsi il più possibile dall'antitesi tradizionale azione-contemplazione: in primo luogo, perché i due poli si tradiscono a vicenda se assolutizzati e non integrati; in secondo luogo, perché né Gesù né gli evangelisti pensavano in questi termini. La contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa è di remota origine classica, successivamente intrecciata con preoccupazioni ascetiche e contemptus mundi, ma rimane abbastanza estranea alla mentalità biblica.

Non si tratta nemmeno della moderna riedizione dell'antitesi in termini di preghiera/impegno, diffusa negli anni Sessanta e Settanta, assai meno oggi perché avvertita, pur nella generosità dei presupposti, come semplicistica e insoddisfacente. Si tratta piuttosto di due diverse linee di impegno: da un lato, quella che mette in primo piano l'annuncio del Vangelo e della vita nuova in Cristo, dall'altro, quella che privilegia l'assistenza caritativa e la sollecitudine nei confronti dei più deboli.

Le due sorelle sono state spesso lette anche, ed è giusto, come paradigma dell'ospitalità; e questa è una declinazione specifica dell'accoglienza. L'una e l'altra sorella hanno un atteggiamento e un intenzione di accoglienza: sono indiscutibilmente felici di accogliere Gesù in casa, ma differiscono nelle priorità. Marta tende soprattutto a fare qualcosa per lui, Maria ha intuito che c'è qualcosa di più: aprirsi al dono di Dio che viene attraverso lui. Ciò potrebbe riferirsi anche ai casi in cui l'ospite non è Gesù e la sua «parola» è tutta diversa, talvolta parola senza parole, talvolta senza nulla di affascinante, come è spesso il messaggio della povertà e del bisogno. Entrambi gli atteggiamenti (darsi da fare per l'altro affinché stia bene; aprirsi al dono recato dall'altro) hanno una loro intrinseca dignità, e il «fare qualcosa per» non è affatto inferiore: anzi m certi casi risulta urgente e non trascurabile.

Naturalmente né sul terzo né sul quarto vangelo ci si può appoggiare per capire qualcosa di più, biograficamente parlando, su Marta e Maria. Le lettura dei due passi che le riguardano, soprattutto di quello di Luca, nel corso dei secoli è stata alquanto ideologica. E gli stessi evangelisti sono un po' ideologici (inconsapevolmente?), nella trasmissione dei fatti e dei detti di Gesù e nella selezione dei materiali di cui dispongono; quanto meno, sono condizionati dai propri schemi mentali e da considerazioni di opportunità pastorale, tanto più quando si parla di donne.

L'uno e l'altro vangelo non riportano di Maria nemmeno una parola (13); forse non occorreva, e tuttavia di quella parola in qualche modo sentiamo oggi la mancanza.

Oggi sappiamo che azione e contemplazione non sono ambiti contrapposti che si escludono a vicenda, ma due accentuazioni nello stesso progetto di esistenza redenta: non tanto nel senso di «fare un po' tutt'e due le cose», ma nel senso unitario, più profondamente cristiano, di trasformare il mondo con la propria preghiera e di pregare con il proprio lavoro.

Azione e contemplazione sono strade di salvezza; non però al punto di non poter essere cammini perversi, quando agire e contemplare isolati e assolutizzati diventano modi opposti e pure affini di generare divisione e sospetto nell'esperienza umana. La contemplazione non vale più nulla se assomiglia a un'evasione; l'azione non vale più nulla se priva di anima, di profondità e di autocoscienza.

Lo stesso Gesù ha offerto anche in questo un esempio di magnifica integrazione: sarebbe difficile dire, senza forzature, se nella sua vicenda di uomo dominassero la dimensione attiva o quella contemplativa. E nella sequela autentica di Gesù, nel discepolato che egli può chiedere o accettare, le due dimensioni convergono.

Un commento spirituale senza parole

Nel chiostro di San Marco a Firenze, l'affresco del Beato Angelico che raffigura la preghiera di Gesù nel Getsemani rivela una scelta singolare e importante rispetto all'iconografia consueta. Come in tanti altri dipinti sullo stesso tema, Gesù è raffigurato in alto, isolato in una drammatica solitudine; nella parte centrale campeggiano le figure piuttosto pesanti (più per l'atteggiamento che per le dimensioni) di Pietro,

Giacomo e Giovanni, immersi nel sonno. Il fatto nuovo è che in primo piano nell'affresco si trovano Marta e Maria, inequivocabili perché i nomi sancta Maria e sancta Martha sono iscritti in cerchio nell'aureola. Proprio la presenza delle due sorelle, in quanto si discosta da ciò che narrano i Vangeli, è chiaramente intenzionale e trasmette un messaggio teologico più preciso.

Marta e Maria, in abito bigio di terziarie domenicane, sono separate e raccordate da un muro rispetto al resto della scena. Evidentemente l'artista vuole sottolineare che si tratta di una presenza spirituale: possono ben trovarsi a Betania, in casa loro, ma sono lì, e ben sveglie e presenti a quanto accade; invece i tre discepoli maschi sono riusciti a rimanere svegli poiché non comprendono. Sono sedute accanto, in atteggiamento consapevole, corrispondente ma non speculare, serio ma non drammatico, concentrato ma non intimistico. Maria è immersa nella lettura di un libro (ciò significa, secondo la convenzione pittorica del tempo, che sta meditando), mentre Marta fissa lo sguardo pieno di affetto e di attenzione sulla sorella che legge: nulla di più lontano da quella specie di rivalità velata - gelosia femminile, sotterranea lotta per la predilezione - che è stata fatta emergere dal vangelo di Luca. Qui Marta e Maria simboleggiano non solo il discepolato intrepido, fedele e veggente, ma anche l'integrale, riconciliata solidarietà in cui esso si incarna.

Note

1. «Nella sua casa» è aggiunta di alcuni codici antichi.

2. Lo usa invece, quantunque in modo più generico, nel libro degli Atti: «A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità...» (At 9,36).

3. E. MOLTMANN-WENDEL, Le donne che Gesù incontrò, Queriniana, Brescia 1989, p. 66.

4. Valutando a occhio, ovvero senza andare a contare le righe, abbiano l'impressione che in tutto l’insieme dei vangeli ci sia un solo colloquio più lungo di questo: quello con la Samaritana, nel cap. 4 dello stesso vangelo. Notiamo di passaggio che anche qui l'interlocutrice di Gesù è una donna, e per di più, sono diversi aspetti, irregolare.

5. He Màrtha de periespato peri pollen diakonian. C’è anche un riferimento a 1 Cor 7,35, in cui Paolo affermava che la vergine, a differenza della donna sposata, può servire il signore senza preoccupazioni (aperispàstôs).

6. PG XXXI, 1326-1327

7. GREGORIO MAGNO, In Hiezechielem I, hom. III, 9: Due autem sunt sanctorun praedicatorum vitae, activa scilicet, et contemplativa, sed activa prior est tempore quam contemplativa, quia ex bono opere tendit ad contemplationem. Contemplativa autem maior est merito quam activa, quia haec in usu praesentis operis labor, illa vero sapore intimo ventura iam requiem degustat. (...) Quod bene in Evangelio duae illae mulieres designant, Martha scilicet et Maria. Martha enim satagebat circa frequens ministerium; Maria autem sedebat ad pedes Domini et verba sua audiebat. Erat ergo una intenta operi, altera contemplationi. Una activae serviebat per exterius ministerium, altera contemplativae, qui ista cum mortali vita deficit, illa vero in immortali vita plenius excrescit. Unde dicitur: Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea (...) Nam etsi per activam boni aliquid agimus, ad caeleste tamen desiderium quam contemplativam volamus. (Corpus Christianorum – series Latina CXLII, Brepols, Turnholti MCMLXXXII, 37-38; cfr PL CX,809).

8. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 9: Bene has atrasque vitas duae illae mulieres signaverunt, Martha videlicet e Maria, quarum una satagebat circa frequens ministerium, alia vero sedebat ad pedes Domini et audiebat verbum de ore eius. Cumque contra sororem Martha quereretur quod se adiuvare negligeret, respondit Dominus dicens: Martha, occuparis et satagis circa multa, porro unum est necesarium. Maria autem optimum partem elegit, quae non auferetur ab ea. Ecce pars Marthae non reprebenditur, sed Maria laudatur. Neque enim bonam partemm elegisse Maram dicit, sed optimum, ut etiam pars Marthae iudicaretur bona. Quare autem pars Mariam sit optima, subinfertur, cum dicitur: Quae non auferetur ab ea. Activa enim vita cum corpore deficit. Quis enim in aeterna patria panem esaurienti porrigat, ubi nemo esurit? Quis potum tribuat sitienti, ubi nemo sitit? Quis mortuum sepeliat, ubi nemo moritur? Cum presenti ergo saeculo vita aufertur activa, contemplativa autem hic incipitur, ut in celesti patria perficiatur quia amoris ignis qui hic ardere inchoat, cum ipsum quem amat viderit, in amore ipsius amplius ignescet. Contemplativa ergo vita minime aufertur, quia subtracta saeculi luce perficitur. (CC-SL CXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

* [Citazione implicita da AGOSTINO, Contra Faustum manichaeum XXII, pp. 52 ss.].

** [Gregorio si riferisce all'etimologia corrente, accettata anche da Agostino, secondo cui il nome Rachele significa «principio di visione» e Lia “laboriosa”]

9. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 10: Has utrasqae vitas, sicur et ante nos dictum est,, duae beati Iacobi mulieres signaverunt, Lia videlicer et Rachel. (...) Quia videlicet omnis qui ad Dominum convertitur contemplativat vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit, sed prius necesse est ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ur postea ad videndum princium in Rachei amplexibus requiescat. Erat autem Rachel videns, et sterilis, Lia vero lippa, sed fecunda, Rachel pulchra et infecunda, quia contemplativa vita speciosa est in animo, sed dum quiescere in silentio appetit, filios non generat ex praedicatione... (CC-SLCXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).

10. GREGORIO MAGNO, Epist. I ad Theoctistum, 5: ...Contemplativae vitae pulchritudinem velut Rachelem dilexi, sterilem, sed videntem e pulchram (Gen 29); quae etsi per quietem suam minus generat, lucem tamen subtilius, videt. Sed, quo iudicio nescio, Lia mihi in nocte coniuncta est, activa videlicet vita; feconda, sed lippa; minus videns, quamvis amplius parens. Sedere ad pedes Domini cum Maria festinavi, verba oris eius percipere; et ecce, cum Martha compellor in exterioribus ministrare, erga multa satagere (Lc 10,39 ss.). (CC - SL CXL, 6).

11. GREGORIO MAGNO, Epist. VII ad Gregoriam, 22: ... Quomodo antem fuerint dimissa, in hoc etiam monstratum est, quoci postmodum est secutum, quia ad pedes Domini sedebat et verbum ex ore illius audiebat (Lc 10,39). In contemplativa enim vita suspensa, iam activa transcenderat, quama adhuc Martha illius soror tenebat (ibid., 40). Sepultum quoque Dominun studiose conquisivit... (CC - SL CXL, 54).

12. Tra parentesi, stando al racconto di Luca, i Sette vengono eletti in modo specifico per il Servizio delle mense, ma forse le cose non stavano esattamente così: gli unici due, di quei sette di cui sappiamo qualcosa, vengono presentati (Stefano nei capp. 6-7, Filippo nei cap. 8) in atto di predicare, e degli altri servizi che pure potevano esercitare non viene detto nulla, evidentemente perché considerati meno caratterizzanti.

13. Vi è l'eccezione apparente di Gv 11,32 («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!») ma, qualunque che sia l'intenzione dell'evangelista, è semplice duplicato della frase attribuita a Marta (Gv 11,21).

(da Vita Monastica, n. 229, ottobre/dicembre 2004)


Giovedì, 25 Agosto 2005 02:46

Non passare oltre (Timothy Radcliffe op)

«Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico»

Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


Piccola introduzione
alla teologia dell'icona
di Olivier Clément




Nella tradizione "ortodossa", l'icona fa parte integrante della celebrazione. Si tratta di un'arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto ecclesiale: la Scrittura e il suo ampio commentario innografico, ricco di dottrina e di spiritualità.

Le immagini (icona, eikônin greco, significa immagine) sono apparse molto presto nel mondo cristiano: si conosce l'arte delle catacombe, arte funeraria piena della gioia della risurrezione. Ma quest'arte riprende la sua tecnica dall'arte romana o ellenistica del suo tempo e si limita a cristianizzarla tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e dal V secolo appare l'icona che include i simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l'essere nella comunione.

Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge argomenti di interdizione nell'Antico Testamento e nella paura (talvolta giustificata) dell'idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: Altro argomento contro le immagini è il carattere pan-umano di Cristo, da cui l'impossibilità di rappresentarlo.

La crisi esplode intorno al 726 e va avanti fino all'843. Alcuni imperatori energici, strappando lo Stato dal caos che si era creato. ingaggiano una lotta contro il monachesimo il quale, di fatto, limita il loro potere e sembra compromettere la vita sociale. Profezia del Regno di Dio, testimonianza di un Signore crocifisso, l'ideale monastico si inscrive nell'icona. Un'ampia politica di secolarizzazione appoggiata dall'esercito e dai teologi spiritualisti diventa allora iconoclasmo.

La crisi ha permesso di fondare e di purificare la venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente trascende la sua stessa trascendenza per rivelarsi in un volto d'uomo. L'icona per eccellenza, quella di Cristo, si giustifica con l'Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola, ma anche l'Immagine (consustanziale) del Padre, "fonte della divinità". «Nei tempi antichi - scrive san Giovanni Damasceno - Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45). Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è fatta Verbo. Il Damasceno respinge l'obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale sacramentalità. «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina» (Ibid. pp. 45-46).

Così, «quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo... riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto. Di lui riproduci l'inesprimibile condiscendenza…» (Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37).

Questo è l'argomento fondamentale da Dionigi l'Areopagita a Teodoro Studita: in Cristo l'invisibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che doveva sistematizzare nel XIV secolo san Gregorio Palamas, per il quale Dio è totalmente inaccessibile - essenza o sovraessenza - eppure si rende totalmente partecipabile nelle sue "energie".

Da qui l'importanza nella teologia dell'icona del tema della trasfigurazione e dell'immagine "non fatta da mano d'uomo".

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor). « E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce ». Una variante dice: «come la neve» (Mt 17,1-2). Luca precisa: «candida e sfolgorante» (9,29).

Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di iconografo, il sacerdote recita su di lui l'essenziale dell'ufficio della Trasfigurazione. I teologi dell'icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: «Cosa c'è di più sconvolgente di vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radiante più del sole?» (Omelia sulla Trasfigurazione, PG 84, 1376).

In Cristo, d'altra parte, il tempo è ricapitolato e l'icona implica memoria e anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell'artista. "Cristo stesso ha trasmesso la sua immagine alla Chiesa", scriveva all'inizio della crisi iconoclasta Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo volto - il Santo Volto - è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, "immagine", in greco) avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion, un velo anch'esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato. Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire esattamente che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, "non fatto da mano d'uomo", così come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell'artista, se questi si è preparato con la preghiera e il digiuno, è guidata miracolosamente dallo Spirito (cfr Giorgio di Pisidia, Poemi, in «Studia Patristica et Byzantina», 1960, p, 91).

La proibizione di rappresentare Dio (nell'Esodo e nel Deuteronomio) non vale più non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra dei suo Corpo sacramentale. L'uomo creato "ad immagine" di Dio è predestinato a diventare «conforme all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), «trasformato in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre «ll'immagine del suo Creatore» (Col 3,10). Fondata nell'incarnazione del Figlio eterno, l'icona si moltiplica tramite la santificazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi anticipano la trasfigurazione finale: «quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

È quanto riassunte meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della Domenica dell'Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini nel 843: «L'incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato circoscritto, e, riportata all'antica forma l'immagine deturpata (cioè l'uomo), l'ha fusa con la divina bellezza» (tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596).

I teologi dell'icona hanno chiaramente distinto l'icona dall'idolo, sottolineando che l'icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: "immagine artificiale", l'icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all'ordine magico del possesso, ma all'ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l'umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell'immagine che rappresenta la sua "somiglianza". La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell'ipostasi» (Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1), cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L'icona permette l'incontro degli sguardi (da cui l'importanza della pupilla dell'occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: «Pupilla, Cristo dell'occhio»] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l'immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all'amore.

L'iscrizione del Nome sull'icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappresentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l'icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: «l'immagine di Cristo secondo la relazione» (Antirrheticus I, 11).

L'icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni "caratteri" concreti che distinguono tale individuo «dagli altri individui della stessa specie» (Antirrheticus III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è «composta di alcune proprietà» (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l'umanità; eppure la sua umanità d'altra parte sussiste, si lascia vedere «in un individuo preciso» (atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco per ché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall'altra l'ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d'uomo. L'arte dell'icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l'identità dell'umiliazione e dell'elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.

Nell'essenziale, questa teologia dell'icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l'horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il "modello rappresentato" deve accordarsi con il Vangelo e l'icona per eccellenza, quella di Cristo, «serve a confermate l'Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio». Così Scrittura e icona «rimandano l'una all'altra». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce - sempre, contro l'idolo, questa identità della gloria e della Croce - e di tutto l'insieme del culto di cui l'icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l'icona - il bacio, l'inchino, la candela e l'incenso - non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l'horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che «coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e che «l'onore reso all'icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina davanti all'icona lo fa davanti all'ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato».

Attraverso la crisi iconoclasta, l'arte dell'icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell'uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.

Questa luce è l'essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un' "energia" tramite la quale Dio si "estasia" nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della "scelta della fede" da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più - dicevano - se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell'esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l'essere ha la sua fonte nella comunione, L'iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l'intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l'incontro con colui o colei che sta per rappresentare sull'icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.

Tutto nell'atteggiamento e nell'espressione del personaggio rappresentato deve indicare la sua intima partecipazione alla "luce taborica". Il corpo, esageratamente lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto simultaneamente a Dio e al prossimo. E il volto stesso diventa «tutto sguardo» (Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2). Il più delle volte la rappresentazione frontale, in segno di presenza e di accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggeriscono il deserto di questo mondo, ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell'arte celtica o in quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.

Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è l'originalità di quest'arte che il simbolo si incorpori al volto e che l'eternità si inserisca all'infinito nella comunione delle persone senza spersonalizzare. Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della prima arte cristiana (l'Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].

La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l'icona, «non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Nell'icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, «di gloria in gloria».

Quando l'icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari momenti spesso lontani nel tempo. Nell'icona della Natività, ad esempio, si vede come in un'armonia gioiosa l'annuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei re Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato santo) e in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale.

L'icona non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche "misterico", dischiude una benedizione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a quella del concetto.

L'arte dell'icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al Trecento. Dopo, l'occidente che scopre esplora e libera l'umano, preferisce a quest'arte della trasfigurazione ciò che chiamerei un'arte dell'esodo in cui si esprimono le ricerche, le angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell'umanità, intuizioni che a volte ritrovano spontaneamente lo spirito dell'icona, da Fra' Angelico a Rembrandt e Rouault. Oggi il fallimento a una certa arte "religiosa", sentimentalista e pietista, apre all'icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L'icona allo stesso tempo corrisponde alla cultura dell'immagine e la esorcizza («guardare un icona è un digiuno degli occhi»). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.


(da "Contacts" n. 181, 1998, pp. 25-32)


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