Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LA PRESENZA DIVINA (SHEKHINÀ)

(I - la)

Rabbi Chizkiya inizio a dire: “Come rosa tra le spine, così è la mia amica tra le fanciulle” (Cant. II, 2). Chi è la rosa? E' la comunità di Israele. Come la rosa, che si trova tra le spine, ha in sé i colori rosso e bianco, così la comunità di Israele ha in sé il giudizio e la pietà. Come la rosa ha tredici petali, così la comunità di Israele ha tredici attributi di pietà, che la circondano da ogni parte. Anche Dio dal momento che fu ricordato per la prima volta fece scaturire tredici parole che ricordassero le comunità di Israele e la proteggessero: poi fu ricordato per la seconda volta. Perché il nome di Dio fu ricordato per la seconda volta? Per far scaturire le cinque foglie forti che circondano la rosa, che sono chiamate salvezze e costituiscono cinque porte. Di tale mistero è scritto: “Solleverò il calice delle salvezze”(Sal. CXVI, 13). Questo è il calice della benedizione, che deve essere poggiato sulle cinque dita, e non di più, come la rosa che si trova sulle cinque foglie forti, paragonate alle cinque dita. La rosa è dunque il calice della benedizione.

(I - 221a)

Rabbi Shim'on iniziò a dire: “Io sono il giglio dello Sharon, la rosa delle valli profonde” (Cant. II, 1). Come è cara la comunità di Israele al Santo, che benedetto egli sia, perché egli sempre la loda ed essa loda lui. Beato il possesso di Israele, che essi tengono in lui, nello speciale santo retaggio, come è scritto: “Poiché possesso del Signore è il suo popolo, Giacobbe è il suo speciale retaggio” (Deut. XXXII, 9).

“Io sono il giglio dello Sharon”. Questa è la comunità di Israele che sta come bellezza ed ornamento nel giardino dell'Eden. “Dello Sharon”, perché canta e loda il re eccelso.

Un'altra interpretazione dell'espressione “Io sono il giglio dello Sharon”. La comunità di Israele è il giglio che vuole abbeverarsi alle acque del torrente profondo, sorgente dei torrenti, come è scritto: “Ed il luogo arido diverrà un lago” (Is. XXXV, 7), “La rosa delle valli profonde”, perché si trova nel luogo più profondo di tutti. Cosa sono i luoghi profondi? E ciò che è detto a proposito del verso: “Dalle profondità io ti invoco, o Signore” (Sal. CXXX, 1). “Il giglio dello Sharon” è il giglio di quel luogo irrigato, dal quale sgorgano i torrenti che non interrompono mai il loro flusso. “La rosa delle valli profonde” è la rosa di quel luogo che è chiamato il luogo più profondo di tutti ed è chiuso da ogni lato.

Considera dunque. All'inizio essa è verde come il giglio, che ha le foglie verdi. Poi è “rosa”, cioè rossa con tonalità bianche; è “rosa” con sei foglie; è “rosa” che si trasforma di colore in colore e muta i propri colori. “Rosa” - all'inizio è giglio, cioè quando desidera unirsi al re; quando poi si è unita al re, mediante il bacio, si chiama rosa, secondo ciò che è scritto: “le sue labbra sono rose” (Cant. V, 13). “Rosa delle valli profonde”, perché muta i propri colori, talvolta per il bene, talvolta per il male; talvolta per la pietà, talvolta per il giudizio.

(I - 103b)

Rabbi Shim'on disse: “Considerato nelle porte della città è suo marito” (Prov. XXXI, 23). Cosa sono le porte? E quel che è scritto: “Sollevate i vostri stipiti, o porte, e sollevatevi voi stesse, o porte eterne, in modo che il Re glorioso possa entrare”(Sal. XXIV, 7). Attraverso quelle porte, che sono gli attributi superiori, il Santo, che benedetto egli sia, si fa conoscere. Altrimenti non si può raggiungere l'adesione a Dio (debequth).

Considera dunque. L'anima dell'uomo non c'è chi possa conoscerla, se non attraverso le membra del corpo, che costituiscono gli strumenti che compiono il lavoro dell'anima. Perciò l'anima si conosce e non si conosce. Così anche il Santo, che benedetto egli sia, si conosce e non si conosce; egli è infatti l'anima dell'anima, lo spirito dello spirito, nascosto e segreto a tutti. Però attraverso quelle porte, che sono le porte dell'anima, egli si fa conoscere. Considera dunque. Esiste una porta della porta ed un attributo dell'attributo ed attraverso di essi si conosce la gloria del Santo, che benedetto egli sia. “L’ingresso della tenda” (Gen. XVIII, 10) - questa è la porta della giustizia; secondo quanto è detto: “Apritemi le porte della giustizia, entrerò per esse, celebrerò il Signore. Questa è la porta del Signore, per cui entrano i giusti” (Sal. XVIII, 19-20).

Questa è la prima porta per la quale si entra ed in essa appaiono tutte le altre porte superiori. Chi riesce a giungere ad essa, ottiene di conoscerla insieme alle altre porte, che tutte dipendono da questa. Ma adesso, che questa porta non si fa più conoscere, perché il popolo di Israele è in esilio, tutte le altre porte si sono allontanate da essa. L'uomo non può più conoscerla né raggiungere l'adesione a Dio (debequth). Però, quando il popolo di Israele ritornerà dall'esilio, tutti gli attributi superiori torneranno a dipendere da essa, come si conviene. Allora la gente del mondo conoscerà la sapienza eccelsa e sommamente valida, che non conoscevano precedentemente, come è scritto: “Si poserà su di lui lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor di Dio” (Is. XI, 2). Tutte quelle porte allora dipenderanno da quella prima porta inferiore, che costituisce “l'ingresso della tenda”. Infine esse sono destinate a dipendere dal re, il messia, affinché giudichi il mondo, secondo quanto è scritto: “Egli giudicherà con giustizia z mtseri, e deciderà con dirittura a favore degli umili della terra, colpirà la terra con la verga della sua bocca e con il soffio delle sue labbra farà morire l'empio. Sarà la giustizia cintura dei suoi lombi e la rettitudine cintura dei suoi fianchi” (Is. XI, 4-5).

(I - 210a - 210b)

Rabbi Chiyà cominciò a dire: “Rallegratevi con Gerusalemme e giubilate in essa, o voi tutti che per essa avete fatto lutto” (Is. LXVI, 10). Considera dunque. Quando fu distrutto il Tempio di Gerusalemme a causa dei peccati ed il popolo di Israele se ne andò in esilio, il Santo, che benedetto egli sia, si allontanò sempre più in alto e non volle guardare la rovina del Tempio ed il suo popolo che se ne andava in esilio. Allora la presenza di Dio (Shekhinà) andò in esilio insieme ad esso. Quando il Santo, che benedetto egli sia, ridiscese, guardò il suo Santuario ed era stato incendiato; andò in cerca del suo popolo ed era andato in esilio; ricercò la Shekhinà ed era anch'essa andata in esilio. Allora subito: “Chiamò il Signore Dio delle schiere in quel giorno al pianto ed al lutto, alla rasatura ed a cingere il sacco” (Is. XXII, 12). E quanto ad essa, cos'è scritto 16? “Gemi come vergine, vestita di sacco, per la morte del marito della sua giovinezza” (Gioel. I, 8), come è detto: “poiché egli non c'è più” (Ger. XXXI, 14). Egli infatti si è allontanato da lei e si è prodotta una separazione. Anche il cielo e la terra, insieme fecero lutto come è scritto: “Rivesto i cieli di bruno e dò loro per vestito il sacco” (Is. L, III). Gli angeli superiori fecero tutti lutto per lei, come è scritto: “Ecco i loro prodi gridano fuori, i messaggeri di pace amaramente piangono” (Is. XXXIII, 7). Il sole e la luna fecero lutto e si oscurò la loro luce, secondo quanto è scritto: “Si oscurò il sole nel suo sorgere e la luna non fece risplendere il proprio chiarore”(Is. XIII, 7). I mondi superiori e quelli inferiori piansero per essa e fecero lutto. E tutto questo perché? Perché su di essa, sulla terra santa, dominava adesso il male.

(III - 42a - 42b)

Rabbi Eliezer prese a dire: “Sopra il mio letto, durante la notte, cercai colui che l'anima mia ama, lo cercai e non lo trovai” (Cant. III; 1). “Sopra il mio letto”? Avrebbe dovuto invece dire “nel mio letto”. Allora “sopra il mio letto” che vuol dire? Invero la comunità di Israele parlò dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, chiedendogli dall'esilio, perché essa se ne stava con i suoi figli presso altri popoli e giaceva nella polvere. Proprio perché giaceva in terra straniera e impura, così disse: “Sopra il mio letto” io cerco, perché io giaccio in esilio. Perciò, “cercai colui che l'anima mia ama affinché mi traesse dall'esilio”. “Lo cercai e non lo trovai”, perché egli non è solito unirsi a me, se non nel suo Santuario. “Lo chiamai ma non mi rispose” (Cant. V, 6), perché io me ne sto in mezzo ad altri popoli, mentre la sua voce non si fa udire se non ai suoi figli, come è scritto: “ha mai sentito un popolo la voce di Dio che parlava in mezzo al fuoco, come hai sentito tu?”(Deut. IV, 33).

Rabbi Izchaq disse: “Sopra il mio letto, durante la notte”. Disse la comunità di Israele: Sul mio letto gemevo dinanzi a lui, affinché si unisse a me per farmi gioire e per benedirmi con completa allegrezza. Infatti abbiamo appreso che quando il re si unisce alla comunità di Israele, i giusti ricevono in eredità il santo retaggio e le benedizioni si realizzano nel mondo.

(I - 202b - 203a)

Rabbi Chizkiyà prese a dire: “Profezia sulla valle della visione. Che cosa hai dunque, che sei salita tutta sui tetti” (Is. XXII, 1). Considera dunque. Hanno interpretato questo verso riferendolo al tempo in cui fu distrutto il Tempio di Gerusalemme e venne arso nel fuoco. Allora tutti i sacerdoti salirono sui tetti del santuario con le chiavi del Tempio nelle loro mani e dissero: Fino a questo momento noi siamo stati i tuoi tesorieri ma d'ora in poi prendi ciò che è tuo.

Considera dunque. La “valle della visione” è la presenza divina (Shekhinà), che si trovava nel Tempio di Gerusalemme e dalla quale tutta la gente del mondo suggeva il succo della profezia. Infatti nonostante che tutti i profeti profetizzassero da un altro luogo, era dall'interno di essa che suggevano la loro profezia. Perciò la Shekhinà è chiamata “valle della visione”. “Visione”. Abbiamo già spiegato che si tratta della visione delle immagini superiori.

“Che cosa hai dunque che sei salita tutta sui tetti”. Infatti quando fu distrutto il Tempio, la Shekhinà risalì a quei luoghi dove aveva soggiornato all'inizio, piangendo sulla sua dimora, sul popolo di Israele che se ne andava in esilio e su tutti quei giusti e quei pii che si erano trovati laggiù e che erano periti. Da dove lo sappiamo? Dal verso: “Così dice il Signore: s'ode una voce da Ramà, un lamento, un pianto amaro: Rachele piange per i suoi figli”(Ger. XXXI, 14). Allora il Santo, che benedetto egli sia, chiese alla Shekhinà: “Che cosa hai dunque, che sei salita tutta sui tetti?”. Che significa “tutta”? Una volta che ha detto “che sei salita” che senso ha il termine “tutta”? Per accomunare ad essa tutte le schiere celesti e gli altri carri divini che piansero insieme per la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Perciò: “Che cosa hai dunque”. La Shekhinà disse al Signore: i miei figli sono andati in esilio ed il Santuario è stato incendiato, ed io che rimango a fare qui? Infatti tu hai detto: “O piena di grida città allegra; i tuoi caduti non son caduti per la spada, né morti per la guerra” (Is. XXII, 2); “perciò io ho detto: distogliete lo sguardo da me, mi amareggerò nel pianto, non insistete a consolarmi, per la cattura della figlia del mio popolo” (Is. XXII, 4). Allora il Santo, che benedetto egli sia, così le rispose: “Così dice il Signore: Trattieni la tua voce dal pianto ed i tuoi occhi dal versar lagrime, perché le tue pene saranno ricompensate, dice il Signore, essi torneranno dalla terra del nemico” (Ger. XXXI, 15).

Considera dunque. Dal giorno in cui fu distrutto il Tempio di Gerusalemme non vi fu giorno, senza che si verificassero delle maledizioni. Infatti quando il Tempio di Gerusalemme era in piedi i figli di Israele vi prestavano il loro culto e sacrificavano olocausti ed altri sacrifici, la Shekhinà aleggiava su di essi nel Tempio, come una madre coricata presso i suoi figli. Tutti i volti erano illuminati, sicché la benedizione si trovava in alto ed in basso e non passava giorno, senza che in esso non si verificassero benedizioni e gioie. I figli di Israele risiedevano in pace nella loro terra e tutto il mondo riceveva alimento in grazia loro. Ora invece che il Tempio è stato distrutto e la Shekhinà è andata in esilio insieme ai figli di Israele, non c'è giorno in cui non si verifichino maledizioni, il mondo viene maledetto, e la gioia non si trova in alto ed in basso. Ma in futuro il Santo, che benedetto egli sia, risolleverà dalla polvere la comunità di Israele e rallegrerà il mondo di ogni bene, come è detto: “Io li farò venire al monte a me consacrato, li rallegrerò nella casa in cui mi rivolgono le preghiere” (Is. XLVI, 7).

E scritto: “Verranno piangendo ed io li condurrò consolandoli” (Ger. XXXI, 8). Come, riguardo alla situazione precedente, è scritto: “La notte non fa che piangere e le lagrime scorrono sulle sue guance” (Tr. I, 2), così anche successivamente, ritorneranno piangendo, come è scritto: “Verranno piangendo ed io li condurrò consolandoli”.

Ireneo difende l'integrità della rivelazione perché avverte la gravità del pericolo di isolare elementi del messaggio evangelico o della Scrittura in genere, e di elaborare sulla parzialità qualche dottrina che alla fine non ha più niente di cristiano riguardo all'insieme della salvezza.

Una terapia d'amore
per una terra sofferente
di Marcelo Barros

L'ONU ha stabilito il 22 aprile come Giorno della Terra. E' il compleanno della Terra. La Terra "nacque" da una esplosione cosmica 4,45 milioni di anni fa. Allora, perché dedichiamo un giorno di venerazione in questi tempi? Perché il nostro pianeta soffre. Proprio l'ONU è garante di questa situazione: se la gente continua a vivere in questo modo da predatori, la vita sulla terra nei prossimi 25 anni sarà sotto rischio. Tutto indica che saranno solo alcuni animali molto resistenti a restare con vita.

E' questo il tempo di salvare la Terra? Come? Prima di tutto conviene curare l'essere più a rischio: l'uomo. In questi ultimi anni, Brasile che aveva 32 milioni di persone sotto il livello della povertà, adesso ha 52 milioni di affamati. Come possiamo preservare la vita se i poveri vedono la loro vita a repentaglio, sotto il peso della fame e della sofferenza provocate dalla miseria?

Certo che di fronte a quest'argomento un indigeno reagirebbe spaventato: "Per amare la Terra, curare le piante, gli animali, non è necessario fare un appello di dovere. La civilizzazione occidentale è arrivata ad un punto in cui per stabilire un rapporto di rispetto con la Terra, c'è bisogno di minacciare! Se uccidete la Terra morirete anche voi! L'umanità dovrebbe curare la natura solo per piacere e per amore. Forse è vero che in campagna un bocciolo non ci commuove ? Forse non ci motiva un bell'albero fiorito piuttosto che degli arbusti secchi! Quand'è stata l'ultima volta che ci siamo fermato davanti ad un fiore, ad un campagna fiorita, ad un cielo stellato, ad un tramonto?

Per la religione degli indigeni e degli afro-brasiliani, ogni essere dell'universo ha una sua particolare energia ed è segno di presenza di Dio. Perciò tutto è sacro, merita rispetto e deve essere trattato con venerazione e con amore. Gli indigeni dicono: tutto ha uno spirito. Gli afro-brasialiani: tutto ha anima.

Chi crede trova Dio in un rapporto amorevole che, come dice la Biblia, Lui fece e si mantiene nel potere della Sua Parola (Eb 1, 1-3). Il salmo 19 canta: "I cieli cantano la presenza di Dio. L'universo esplicita che è stato Dio il suo creatore". Quando si dice che Dio ha creato il mondo si riconosce che Lui è all'inizio di tutto è il principio, il fondamento primogenito, presente in ogni essere dell'universo, in ogni momento della storia. Nell'intimo di ogni essere c'è l'energia creativa come atto d'amore sempre in vigore. Il giudaismo ed il cristianesimo affermano che l'essere umano è stato creato per sorvegliare la Terra e per dare testimonianza di questa presenza amorosa di Dio: nella bellezza dei fiori ad esempio, nei ruscelli, nel suono del vento, ma soprattutto nel volto delle persone, fatto ad immagine e somiglianza divina.

Un documento cristiano del secondo secolo dice: cogli una pietra e lì sotto c'è Dio. Guarda gli altri come fratelli. Lì stai guardando Dio!

Il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello ?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn. 4, 9-10)

Domenica, 07 Agosto 2005 21:47

La luce e le tenebre (Giovanni Vannucci)

La luce
e le tenebre
di Giovanni Vannucci




Le parole: "Dio ha così amato il mondo da inviare il Figlio unigenito, non perché giudichi il mondo ma perché sia salvo" (Gv 3, 16-17); "La luce venne nel mondo e gli uomini amarono più le tenebre che la luce" (Gv 1, 5-11), rivelano l'immenso amore di Dio e la tragica presenza nella coscienza umana di una possibilità di rifiuto. Amore sconfinato da una parte, possibilità di non accoglierlo dall'altra: tra questi due poli si svolge la dolorosa vicenda dell'umanità; la via della liberazione è nell'accettare la luce riaccesa dal Figlio nel cuore dell'uomo.

C'è il mondo, c'è Dio; dopo Cristo, il mondo non è più abbandonato a se stesso, nel suo profondo opera l'energia salvifica del Figlio come presenza che plasma e guida la materia amorfa verso le sue origini divine. Quando una coscienza umana l'accoglie, comincia ad amare e a sognare; ad amare le realtà non sottoposte al disfacimento e alla corruzione, a sognare la casa del Padre dalla quale viene e verso la quale è in cammino, e così ritrova la sua vera natura di figlia regale.

Il primo incontro con la luce di Cristo rende consapevole l'anima che la sua avventura, nella carne e nel sangue, è decisiva e definitiva. O riuscirà a fissare in se stessa la luce divina, divenendo in tal modo il veicolo della presenza redentiva del Cristo eterno e immanente; o rifiuterà di lasciarsi fecondare dalla luce, e, allora, si spegnerà come scintilla caduta nel fango. Se accoglierà la luce, sarà nell'onda dello spirito vivente e la sua vicenda nel mondo, pur incontrando un termine nella morte fisica, non si concluderà per questo, ma di ciclo in ciclo continuerà la sua corsa nell'infinito, verso la meta unica e suprema che è Dio stesso. La sua vita nel mondo, nella vita terrena e fisica, assumerà per lei il significato di una necessaria esperienza, che non si conclude nel giro angusto di una vita terrena, in un corpo di carne. «Dio amò il mondo tanto da dargli il Figlio unigenito, perché chi l'accoglie non perisca, ma abbia l’infinita vita". La vita nel mondo è, per ogni anima, determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonistica; essa decide la vita e la morte, poiché le permette la valutazione esatta di tutte le sue possibilità. Se essa, durante l'avventura terrena, si mantiene unita alla sua vera luce mentale, se non perde per sua colpa il contatto con Cristo, luce del mondo, vivrà perché Cristo è infinita vita. Chi invece, con la volontaria ignoranza, con la volontaria adesione alle tenebre del mondo, rifiuta la luce rimane nella morte, non essendo in lui comunicazione di vita e di grazia.

Esiste nell'uomo una presenza di luce che continuamente parla, ammonisce, guida, conforta, illumina, esorta: la cosiddetta voce della coscienza, che è in realtà l'interiore rapporto spirituale che, trasformato in azione psichica, si contrappone a quanto nella materia vorrebbero arrestarne il volo. L'uomo sa ciò che è bene e ciò che è male, nel suo interiore è più che convinto della necessità di non fermare la sua marcia ascensionale. Nel mondo delle forme, nel piano dell'esistenza, niente è così sicuro, così fermo, così stabile come egli sa e sente che sarebbe necessario per rispondere alla sua vera natura. L'uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili e queste realtà labili e perenni cercano in mille modi di fermare, trattenere quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle.

La lotta tra le tenebre e la luce è tutta qui: o l'uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia, allora verrà assunto dalla luce del Figlio donato al mondo da Dio, e in lui sarà confermato illuminandosi, conservando, nella suprema illuminazione, qualcosa di peculiarmente suo: l'individualità; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni e agli inganni della tenebra, allora morirà, disperso nei mille suoi principi costitutivi, distrutto nella sua individuale sostanza, e questa è la permanenza nella tenebra, opposta alla luminosa certezza del possesso interiore del regno di Dio. «Questo è il giudizio: chiunque fa cose vili odia la luce, chi opera nella verità va nella luce".

L'incontro con la luce del Figlio che Dio ha donato per la salvezza del mondo è un evento interiore che si effettua nella carne e che mediante il tempo si afferma nell'eternità. L'uomo da solo ben difficilmente potrebbe riuscirvi, per questo il Figlio è stato mandato, "perché non uno solo si perda di quanti a lui furono dati dal Padre". Gli ostacoli che le tenebre oppongono alla luce sono principalmente tre e tutti di natura mentali: orgoglio e presunzione di sé, in quanto io separato; chiusura egoistica a ogni altra espressione di vita; rifiuto di aderire alla verità conosciuta, in quanto implica una necessità di sacrificio. Su questi tre cardini della cattiva volontà, il potere delle tenebre cerca di agire continuamente per impedire alla luce di manifestarsi nella coscienza, cosicché venga rifiutata dalla sua dimora e l'anima rimanga in balia delle forze nemiche. Quando l'uomo, attraverso lo sforzo di ascesa, l'esercizio affinante della meditazione, perviene a eliminare questi tre ostacoli, la luce si spande liberamente in lui, gli si manifesta in pienezza di conoscimento; alla mente rapita si rivelano le cose occulte; i misteri si schiariscono; si placano, trovandosi risolti, tutti i dubbi.

Quando l'uomo capisce di avere in se stesso la luce divina, viene rivestito da essa, le sue opere diventano luminose, perché "in Dio sono compiute". Sia tale uomo colto o incolto, comunicativo o introverso, abbia in sé la forza che trascina o ne sia privo, quando parlerà tutti lo capiranno, quando tacerà il suo silenzio sarà più forte e più vero delle parole. Chi si abbandona alla luce che è in lui, con umiltà profonda, vive nell'amore col quale Dio ha amato il mondo, non perirà nelle tenebre e vivrà la vita eterna, l'infinita vita divina.

(da Adista, 7 maggio 2005)


Domenica, 07 Agosto 2005 21:34

I farisei. Scheda storica (Mauro Orsatti)

I farisei
Scheda storica
di Mauro Orsatti


 


I semi remoti del fariseismo furono posti al tempo dell'esilio, allorché gli ebrei, privati del tempio e del suo culto, trovarono luce e conforto nella Legge. Più difficile stabilire con precisione un inizio storico: certo è che a partire dal secondo secolo a.C. un gruppo di laici, che faceva dello studio e dell'osservanza della Legge un ideale, si affaccia alla ribalta della vita pubblica di Israele e finisce per condizionarla. Accanto alla classe sacerdotale e all'aristocrazia si collocano anche questi pii che prendono il nome di farisei. Si fa derivare tale nome dall'ebraico parash (aramaico perash) con il senso di «separato». Non si sa esattamente da chi o da cosa fossero separati: se dal gruppo sacerdotale che osteggiavano per la sua commistione con il mondo politico o se da uno stato di impurità, per ottemperare alla Legge, secondo quanto esprime un commento rabbinico (Sifre) a Lv 11 ,44 - 45, dove compare lo stesso nome da cui deriva «fariseo»: «Come io sono separato (parush), così anche voi dovete essere separati (perushim)». Accettando tale interpretazione, la separazione avrebbe un significato che si avvicina molto a quello di santità

Dottrina e prassi

La caratteristica più vistosa della religiosità farisaica era - a detta di Giuseppe Flavio - il rigorismo legalistico che si traduceva in una stretta interpretazione della legge e in una scrupolosa osservanza della medesima. Dall'attenzione interpretativa nasce quel sistema conosciuto e tramandato come «tradizione dei padri»: si tratta di una normativa orale che ha lo stesso valore di quella scritta (cf Mc 7, 1-13), creando però il contraccolpo di un complicato sistema di osservanze, quei «pesanti fardelli» (Mt 23,4) che Gesù cita come capo di accusa.

Nel loro credo religioso figurava una fede incrollabile nella divina provvidenza che guida la storia, una prospettiva escatologica che includeva la certezza della risurrezione, la credenza nell'esistenza degli angeli (cf At 23,8) e la viva attesa del Messia. La loro dottrina si presentava molto più sostanziosa e più profonda di quella dei sadducei (cf Mc 12, 18-27).

Il ritratto poco lusinghiero dei farisei che compare nel Vangelo deve essere integrato con quello degli altri scritti del NT: ne viene un'immagine più veritiera. Basti citare due figure illustri: Gamaliele (cf At 5,34) e lo stesso Paolo che si definisce «fariseo quanto alla legge»

(FiI 3,5). Se superiamo un poco il confine del NT, incontriamo la nobile figura di Rabbi Aqiba, morto martire verso il 125 d.C. per non tradire la sua fede.

I farisei e il giudaismo

l gruppo dei farisei (6.000 persone al tempo di Gesù, secondo il numero riferito da Giuseppe Flavio) ha un duplice merito: il primo sta nell'aver cambiato un orientamento poco lusinghiero assunto al tempo dei Maccabei, richiedendo un impegno di fedeltà a Dio che si manifestava primariamente nella scrupolosa osservanza della Legge; un secondo merito sta nell'aver permesso al giudaismo di sopravvivere dopo la catastrofe del 70 d.C. allorché Gerusalemme viene distrutta, il popolo disperso e il mondo sacerdotale scompare. Forti del loro unico tesoro, la Legge, continuano l'amoroso studio che produrrà il suo primo frutto visibile nella raccolta della Mishna verso il 200 d.C. Si fissa così un'ancora che permette ai farisei di aggrapparsi e di sopravvivere; con loro continua il giudaismo che, passando per molte traversie, è giunto fino ai nostri giorni.

(da Il Mondo della Bibbia)

Mercoledì, 27 Luglio 2005 02:23

Il suicidio (Maria Domenica Ferrari)

Il suicidio
di Maria Domenica Ferrari


Dio è il creatore, la vita è un suo dono e nessuno ha il diritto di interromperla. Il suicidio è proibito nell'islam”.

Nel Corano non ci sono passaggi che proibiscono formalmente il suicidio e i versetti che spesso sono citati a tale riguardo (IV 29; II 85) in realtà esprimono un senso di reciprocità (1).

La parola araba usata: intihâr significa uccidersi sgozzandosi; col tempo si è estesa a tutti i tipi di suicidio e con questo senso è usato in arabo moderno, turco e persiano.

Gli hadîth riportano la condanna di Muhammad: il suicida sarà escluso dal Paradiso e all'Inferno avrà come castigo la ripetizione del suo gesto (2). Muhammad inoltre avrebbe rifiutato di pronunciare le orazioni funebri per un suicida.

Per questo motivo dal punto di vista giuridico i dotti musulmani dovettero esprimersi in caso di suicidio sull'ammissibilità delle preghiere funebri, e l'opinione più caritatevole fu quella che prevalse.

Il suicidio è considerato un peccato grave, talvolta è sentito più dell'omicidio.

I problemi coniugali sono poco presenti come motivo di suicidio, non si sa se per mancaza di informazioni o per il clima sociale. Vero è che un suicidio nella vita di tutti i giorni era ed è camuffato per non farlo apparire tale.

Dall'analisi delle fonti storiche a disposizione pare che il numero sia stato scarso.

Nei paesi musulmani, tranne Giordania e Turchia, non vengono riportati nelle statistiche i dati relativi al numero dei suicidi.

La sensazione, però, è che nell'ultimo decennio il numero sia aumentato tra i musulmani che vivono in paesi non-musulmani come Gran Bretagna e Nord America.

La riprobazione che accompagna questo gesto, tuttavia, non fa del suicidio un argomento proibito, nelle fonti storiche e in letteratura è presente.

L'intenzione di suicidarsi può essere usata come arma psicologica come dal celebre sûfî Abû al-yasan al-Nûri per costrigere Dio a confermare la sua santità con un piccolo miracolo, il fatto provocò la forte riprovazione di al-Junayd (3).

In senso figurato è molto usato per indicare comportamenti volontari che espongono al pericolo come nel caso di una guerra o di digiuno. Sotto forma di metafora indica uno sforzo straordinario.

Talvolta sono citati i suicidi dell'epoca pre-islamica più celebri come re Saul, Giuda Iscariota, Cleopatra. Il costume indiano del sacrificio delle vedove è visto come una propensione di questo popolo.

I casi di non-musulmani che per rimanere fedeli alle proprie opinioni scelgono il suicidio sono riportati tra il disgusto e l'ammirazione.

Nelle opere di adab (4) è la “giusta” conclusione di una storia d'amore non corrisposta o illecita. Nel romanzo Vìs u-Râmîn (5) per l'eroina è naturale giungere al suicidio.

Il sostrato filosofico-popolare ellenico aiutò l'accettazione dell'idea che la morte è preferibile a una vita senza amore o insopportabile, opinione inconcepibile per i dotti musulmani.

Nella seconda parte dell'articolo verrà trattato il concetto di martirio nell'Islam e il rapporto tra martirio e suicidio.

Note

(1) Bausani, traduce “ non uccidersi” ma mette in nota che dal contesto sarebbe più esatto tradurre “non uccidetevi tra voi”. I commentatori musulmani accettano entrambe. La traduzione francese di D. Masson sceglie la seconda e non parla della prima possibilità.

(2) Bukhârî Sahih, hadîth 2245-2246

(3) Celebri sûfî al-Nûri (m. 907) Junayd (m.910) fu maestro di Hallâg; quasi tutte le confraternite lo includono nella loro catena di origine.

(4) Genere letterario adab è una parola che indica buone maniere, raffinatezza di pensiero, buon gusto. Testi tipici sono i manuali destinati all'educazione dei giovani di ceto elevato.

(5)
Primo poema cortese della letteratura persiana di circa 9000 versi scritto da Gurgâni (m. 1055 circa), godette di ampia popolarità influenzando l'epica cavalleresca giorgiana. Assomiglia al romanzo Tristano e Isotta.

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole e assennate, senza alzare la voce…

Disarmare il terrorismo. Ma come?
di Giuseppe Scattolin


 



La questione "terrorismo" è complessa e nessuno ha in mano la soluzione pronta. Su questo non ci piove. Occorre, quindi, diffidare di tutti coloro che si presentano come "i risolutori del problema", di qualunque estrazione politica essi siano. Spero di non aver dato, nei miei interventi passati, l'impressione di avere la soluzione in tasca. Non è stata questa la mia intenzione.

Credo, però, che la violenza non faccia che esasperare le situazioni, e sono convinto che, se si vuole una soluzione a lungo termine, occorre operare in profondità per cambiare la mentalità delle persone e prevenire lo scatenarsi della violenza stessa.

Hitler, in ultima analisi, ha rappresentato un fenomeno molto limitato di esasperazione del nazionalismo tedesco... e che danni ha prodotto! Noi, oggi, abbiamo a che fare con un mondo islamico di più di un miliardo di persone e in grande espansione. Gli interventi vanno ben calcolati e non fatti all'avventura, come in Iraq, esasperando le situazioni.

Il problema di fondo è come fare perché il mondo islamico divenga parte positiva del mondo globalizzato, e non rimanga invece ostaggio delle correnti più chiuse ed estremiste. È a questo livello che va impostato un discorso culturale serio, soprattutto con i responsabili di quel mondo. Sono questi, infatti, che formano le coscienze della gente e possono, pertanto, contribuire a creare una visione nuova all'interno dell'universo musulmano, aprendolo positivamente alla collaborazione con il resto dell'umanità.

È proprio a livello di discorso culturale che noto una grande e grave mancanza da parte sia delle nostre società occidentali sia dei responsabili del mondo islamico, intellettuali in primo piano. Per evidenti interessi economici, la politica delle nostre società occidentali ha favorito i regimi e le correnti più fondamentaliste islamiche, lasciando il mondo musulmano in balia di una propaganda sempre più militante e ostile al resto del mondo. Pochi poi sono stati gli intellettuali musulmani che si sono impegnati seriamente a liberare le loro società dalla presa di tali correnti fondamentaliste (ben manovrate politicamente), disposti anche a pagare con la propria vita questo impegno per la libertà della persona umana, diventando così non "martiri di Dio" (i shuhada' di una certa tradizione islamica, in realtà martiri di un Dio assai tribale), ma "martiri per la libertà della persona umana" (salvando, in tal modo, l'immagine di Dio impressa in essa e rendendo il vero culto al Dio unico, che è il Dio di tutti).

Il dialogo interreligioso e interculturale va sviluppato a tutti i livelli: dall'impegno pratico per opere di cooperazione fra popoli e società (in questo campo esistono molte iniziative valide) fino a uno scambio culturale più profondo, in cui si è pronti a mutare la visione che si ha di se stessi e degli altri. Si deve essere pronti a fare un'autocritica della propria storia e a vedere il positivo che c'è negli altri, a comprenderli e rispettarli nella loro differenza. Solo così si potranno trovare campi di collaborazione e convivenza, basati su una nuova coscienza della persona umana, dei suoi diritti e dei suoi doveri - diritti e doveri che devono essere universali e eguali per tutti.

Dopo una storia di guerre e stragi immani, il mondo occidentale sembra essersi definitivamente avviato su una strada diversa (anche se non mancano problemi e riflussi). Oggi, esso dovrebbe (e potrebbe) aiutare gli altri popoli a porsi nella medesima direzione, per evitare gli errori da noi commessi e per dare vita, insieme, a un vero umanesimo universale.

Questa è la grande sfida del nostro secolo. Spetta a tutti raccoglierla. Soprattutto ai credenti in un Dio che è Amore e, quindi, un Dio di tutti.

(da Nigrizia, novembre 2004)

L’uomo nuovo nell'epistolario paolino
di Ettore Franco

In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in "novità" risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo. Per quanto velata di scetticismo, resta profondamente saggia, perché inverata dall'esperienza, l'antica affermazione: "Quel che è stato sarà / Quel che si è fatto si farà ancora / Niente è nuovo di quel che è sotto il sole / Di certe cose si dice - Guarda / Questa mai vista cosa - / E sono cose che già sono state / Nei tempi stati prima di noi" (Qo 1,9s).

Le affermazioni paoline sulla "novità" dell'essere dell'uomo, pur in scrivendosi nell'anelito profondo e perenne verso un cambiamento positivo, non si collocano su un piano emotivo o sociologico; non rispondono a un "prurito" per qualcosa di diverso (cf 2 Tm 4,3). Si fondano invece sulla consapevolezza di una trasformazione comunitaria e personale, già avvenuta e insieme tendente a una piena realizzazione, a partire da un evento decisivo, che ha segnato la vita dell'apostolo e di altri con lui, ovvero la "novità", il senso nuovo eppure antico e futuro della vita, della storia e del mondo. In questa prospettiva vogliamo leggere le poche espressioni paoline sull'"uomo nuovo", cercando di puntualizzare quale sia e come sia stata compresa l' esperienza che ha segnato la "novità" della vita di Paolo; come e in quali contesti la sua comprensione di fede sia diventata annuncio ed esortazione a camminare "in novità di vita"; come infine ciascuno di noi sia oggi chiamato a vivere e riproporre lo stesso "annuncio di novità".

1. Paolo "nuova creatura"

Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo scrive: "Se uno [è] in Cristo, [è] nuova creatura" (2 Cor 5,17). L'espressione dipende dall'affermazione principale, che, con formulazione concisa, presenta l'evento del Cristo per noi e la nostra nuova relazione vitale con lui: "Uno è morto per tutti: dunque tutti sono morti; ed egli per tutti è morto, affinché quelli che vivono, non più per se stessi vivano, ma per colui che per loro è morto ed è risorto" (5,14s). Il senso è poi ripreso ed esplicitato nell'affermazione finale: "Colui che non aveva conosciuto peccato, per noi peccato [Dio] lo rese, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui" (5,21). In una sola parola l'evento Cristo è "riconciliazione" (5,19s), passaggio dalla schiavitù del peccato e della morte, cioè dalla non-relazione con Dio, alla libertà dei figli, cioè alla relazione con Dio. In Cristo morto e risorto si è manifestata la giustizia di Dio che, chiamando alla comunione col Figlio (cf 1 Cor 1,9), fa diventare ciascuno quello che deve essere in relazione a Dio e agli altri, già ora in questo mondo e per sempre alla fine.

Firmando la lettera ai Galati, Paolo, riprende concisamente l'argomento centrale del dibattito: "Quanto a me non sia mai che mi vanti se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, attraverso il quale per me il mondo è stato crocifisso e io per il mondo. Né la circoncisione infatti vale qualcosa, né l'incirconcisione, ma [l'essere] nuova creatura (o creazione)" (Gal 6,14s). In termini personali Paolo pone al centro della sua esistenza, come segno discriminante tempo e spazio, la croce di Cristo. Prima di questo evento il mondo è diviso tra circoncisi e incirconcisi, dopo non più. Coloro che pretendono fermarsi al "prima" e imporre il segno esteriore della circoncisione sono schiavi della legge, del peccato e della morte, e vanificano così la croce di Cristo, perché cercano di riportare sotto la schiavitù dalla quale Cristo ci ha liberati (cf GaI5,1). Questo "mondo di prima" non esiste più per Paolo e Paolo non esiste più per questo mondo. Nella croce di Cristo ogni cristiano è diventato "creatura nuova": "lo infatti attraverso la legge alla legge sono morto affinché per Dio viva. Con Cristo sono stato insieme crocifisso: vivo ma non più io, vive in me Cristo. La vita che ora continuo a vivere nella carne, la vivo nella fede, quella nel Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,19s).

Il tema della "nuova creazione" - già presente nell'AT ("il Signore crea una realtà nuova [bara' lhwh hadashâ]", Ger 31,22; cf ls 43,18s; 65,17) e ripreso negli scritti rabbinici per designare sia il proselita che entra a far parte della comunità d'Israele, sia l'israelita rinnovato dal perdono nella festa di capodanno - acquista per il fariseo Paolo una portata unica che illumina la comprensione della sua vita intera a partire dall'incontro con Cristo. Il passato con tutti i suoi titoli di vanto (FiI 3,5s; cf Gal 1,13s) è diventato senza valore, perdita e spazzatura (FiI 3, 7s); il presente è trasfigurato dall'intima relazione personale con il Cristo crocifisso e risorto (FiI 3, 7-11; cf Gal 1,15s), che attraverso il suo Spirito vivificante (cf 1 Cor 15,45) ha reso Paolo "figlio" col Figlio (cf Gal 4,4-6; Rm 8,15-17), "servo" libero col Servo liberatore (1 Cor 9,1.19; cf 2 Cor 4,5; Gal 1,10; Rm 1,1), "nuova creatura" (2 Cor 5,17; Gal 6,15) e "apostolo dei pagani" (Rm 11,13; cf 1,5; Gal 2,8); il futuro orienta e anima tutta la sua esistenza come corsa e lotta (cf Gal 2,2; FiI 2,16; 3,12), come quotidiano con-morire con Cristo (2 Cor 4,10s; cf FiI 3,10) per essere degno della definitiva conformazione a lui (Fil 3,21; cf Rm 8,29).

Avendo sperimentato la trasformazione radicale che l'incontro con Cristo e la conseguente intima relazione vitale con Lui hanno operato nella sua persona, Paolo può dire di se con piena consapevolezza: "Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo" (1 Cor 11,1; cf 4,16; Fil 3,17). Si presenta dunque come un esempio vivente di quella "nuova creatura" che tutti sono chiamati ad essere e a vivere già ora, per diventarlo poi in pienezza alla fine.

2. Cristo e l'uomo nuovo

Ciò che è avvenuto in Paolo sulla via di Damasco (cf At 9,3-18) avviene in ogni credente attraverso l'adesione di fede e il battesimo.

In Rm 6,1-11 non c'è l'espressione "uomo nuovo", ma una equivalente ("camminare in novità di vita" en kainóteti zoês peripateîn, 6,4) e il suo opposto ("il nostro uomo vecchio" ho palaiòs hëmon ánthropos, 6,6). Accomunandosi ai destinatari, Paolo dice: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato" (6,6). Nell'affermazione traspare l'esperienza di un'esistenza inautentica, quella di Paolo e di ogni cristiano prima dell'incontro con Cristo.

L'uomo vecchio è il giudeo reso schiavo dalle pretese della legge (cf Rm 7,75), il pagano schiavo di questo mondo (cf Rm 1,225), l'uomo in genere soggetto alle insidie della "carne" (cf Rm 8,75), sottomesso alla potenza del "peccato" e alla conseguente inevitabilità della "morte" ( cf Rm 5,12). Questo "uomo vecchio" è stato "crocifisso con Cristo" quando, attraverso il rito del battesimo, è stato associato all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo: "O ignorate che quanti fummo battezzati in relazione a Cristo Gesù fummo battezzati in relazione alla sua morte? Fummo dunque sepolti con lui attraverso il battesimo in relazione alla sua morte, in modo che, come risuscitò Cristo dai morti in forza della gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Se infatti diventammo e rimaniamo dinamicamente uniti a lui in forza dell'espressione percettibile della sua morte, ma allora lo saremo anche della sua risurrezione" (Rm 6,3-5). Sulla croce, attraverso il battesimo, l'uomo vecchio, schiavo del peccato, è crocifisso, morto e sepolto con Cristo e, nella risurrezione di Cristo, grazie alla comunione interpersonale, ricevuta e accolta nell'adesione di fede, il cristiano è già partecipe della vita nuova, anche se lo sarà pienamente con la risurrezione corporea. Ecco l'uomo nuovo, che, partecipe della vita del Risorto, è "morto al peccato e vivente per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6, 11).

Concludendo il paragone con la donna che alla morte del marito è libera di passare a un altro legame (Rm 7,2s), Paolo afferma che i cristiani, morti a ciò che li teneva legati, appartengono a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti (7,4), e con lui sono servi liberi " nella novità dello Spirito e non nel vecchiume della legge" (en kainótoti pneúmatos kaì ou palaióteti grámmatos, 7,6). Il passaggio è reale per quanto misterioso: la novità dello Spirito, comunicata una volta per sempre nel Crocifisso-Risorto e partecipata attraverso il battesimo e l'adesione di fede, trasforma i peccatori in giusti e santi, i nemici e lontani in familiari di Dio come figli e figlie nel Figlio, l'umanità egoista e dispersa nel corpo di Cristo e nella nuova creazione di Dio.

La trasformazione, avvenuta una volta per sempre sulla croce e applicata al cristiano in forza dell'adesione di fede e del battesimo, è così espressa in GaI 3,26s: "Tutti, infatti, siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in relazione a Cristo, vi siete rivestiti di Cristo". La fede, come adesione personale al Cristo morto e risorto, e il battesimo, come partecipazione sacramentale all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo, comunicano il dono della figliolanza, cioè stabiliscono il credente nella nuova relazione filiale col Padre nel Figlio attraverso lo Spirito (cf GaI 4,4- 7; Rm 8,14-17). Non si tratta solo di un passaggio di proprietà/appartenenza dal potere della legge, del peccato e della morte alla potenza della fede, della giustizia e della grazia, ma di una trasformazione dell'essere. L'essere "nuova creatura" è espresso qui con "rivestirsi di Cristo". L'espressione è all'indicativo, non all'imperativo; non implica cioè l'esortazione a un rivestimento esterno e superficiale come imitare o riprodurre gli atteggiamenti o i sentimenti di Cristo, ma l'accoglienza dell'atto gratuito di Dio che comunica in Cristo il nuovo principio vitale di tutta l'esistenza, il punto di riferimento unico che trasforma tutta la vita.

Rivestirsi di Cristo è essere ri-creati in Cristo, essere figli nel Figlio unico, essere già ora incorporati al Risorto. Ed è proprio la relazione vitale col Risorto che fonda l'unità dei credenti e qualifica l'umanità nuova, nella quale le differenze - sul piano religioso tra Giudei e Greci, sul piano civile tra schiavi e liberi e sul piano sessuale tra maschio e femmina - vengono semplicemente negate: "Non c'è Giudeo ne Greco, non c'è schiavo né libero, non c'e maschio e femmina: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,38). Tutti i battezzati, incorporati a Cristo in forza dell'adesione di fede in Lui, formano quindi un solo "uomo nuovo" in Cristo (cf Ef 2,15), l'umanità nuova inseparabile dal Risorto.

La lettera agli Efesini così ricapitola e sviluppa in una mirabile sintesi teologica l'evento che rivela la "creazione dell'uomo nuovo" (Ef 2,14-18):

" Proprio lui infatti è la nostra pace;

egli che ha fatto dei due uno, abbattendo il muro di separazione, l'inimicizia, nella sua carne, abolendo la legge dei precetti [espressi] in prescrizioni, per creare entrambi in se stesso in relazione a un solo uomo nuovo, facendo pace, e per riconciliare con Dio ambedue in un solo corpo attraverso la croce, uccidendo in se stesso l'inimicizia.

Egli venendo annunciò pace a voi i lontani e pace ai vicini, poiché attraverso di lui e gli uni e gli altri possiamo avere accesso in un solo Spirito presso il Padre".

Il contesto richiama la divisione religiosa esistente prima di Cristo tra giudei e pagani (Ef 2,11s); "ora, in Cristo" (nynì dè en Christôi, 2,13) ogni divisione è superata in una "comunione nuova" che non mortifica nessuno, ma valorizza tutti. Non si tratta di giudaizzare i pagani odi paganizzare i giudei, ma di "creare" un nuovo modo di essere, una umanità nuova, al di là di ogni diversità. Questa è l'opera di Cristo, qualificata non solo negativamente ("abbattere", "abolire", "uccidere"), ma molto più positivamente ("fare uno", "creare", "riconciliare", "fare/annunciare pace", "diventare via d'accesso", "essere pace") .Questo è il "mistero" di Dio che si attua in Cristo e mediante Cristo. li, C'è chi riferisce " uomo nuovo " a Cristo, nuovo Adamo, capo dell'umanità nuova; ma ritengo che non si debba ridurre la pregnanza dell'espressione. Sottolineando il senso dinamico della preposizione eis "in relazione a", sembra emergere un significato più profondo. Certo, Cristo è l'uomo nuovo, perché egli ri-crea "in se stesso" coloro che rende partecipi della sua vita di Risorto; ma i riconciliati nel suo corpo dato sulla croce, pur diventando il suo corpo ecclesiale, non si confondono con lui e tra di loro, anzi, proprio per la nuova relazione ricevuta, ciascuno diventa sempre più se stesso a partire dall'unità già donata e ancora da realizzare. L'intima profonda e vitale comunione, partecipata dal Crocifisso-Risorto a chiunque aderisce a lui nella fede, è il segno distintivo della "umanità nuova" già presente storicamente nella comunità del Risorto, ma è destinata ad abbracciare e rinnovare il mondo intero in Cristo. L'uomo nuovo non è solo Cristo e non sono solo i suoi, ma Cristo con i suoi, anzi Cristo tutto in tutti (cf Col 3, 11), attraverso lo Spirito, in relazione con l'unico Padre.

3. La nuova esistenza nel Signore

Tra l'essere già "nuova creatura" e il diventarlo completamente e definitivamente, c'è tutta la responsabilità personale e comunitaria dell'esistenza in questo mondo. Il dono di Dio, comunicato una volta per sempre nell'evento della croce e partecipato a ciascuno attraverso l'adesione di fede e il battesimo, esige l'impegno a vivere nella libertà dei figli e nella fedeltà al dono ricevuto. L'indicativo dell'agire salvifico di Dio per noi fonda l'imperativo della nostra risposta coinvolgente, della nostra partecipazione all'unica opera del Cristo, alla realizzazione dell'umanità nuova. Perciò l'Apostolo esorta: "Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi nella novità (têi anakainosei) della mente, per poter discernere qual è la volontà di Dio" (Rm 12,2).

La "novità della mente" implica la "nuova mentalità" del cristiano in forza della sua relazione interpersonale con Cristo: "Noi abbiamo la mente di Cristo" (1 Cor 2,16). La conformazione alla "mentalità" di Cristo continua a operare il rinnovamento dell'esistenza cristiana in questo mondo, sotto la guida dello Spirito. Nella lettera ai Galati così si conclude l'esortazione a "camminare secondo lo Spirito" (Gal 5,16): "Coloro che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo secondo lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (GaI 5,24s).

Il cammino nello Spirito segna la nuova esistenza in Cristo. Pur rimanendo esposto all'ambiguità di questo mondo e alla precarietà di un'esistenza sempre minacciata dalla debolezza individuale e sociale delle persone e delle strutture, il cristiano, già "nuova creatura" e già "ri-creato in Cristo", deve lasciarsi conformare sempre più dallo Spirito a immagine di Colui che è e deve essere "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29; cf 12,2; 2 Cor 3,18; GaI 4,19; FiI 3,10.21), vivendo le relazioni autentiche proprie dell'"uomo nuovo".

È quanto emerge in tutte le esortazioni, ma particolarmente in quelle della lettera ai Colossesi, dove troviamo l'espressione "svestirsi dell'uomo vecchio per rivestirsi del nuovo" (CoI 3,9s).

Per la nuova relazione vitale con Cristo, il crocifisso Risorto, lo sguardo del credente è rivolto alla nuova dimensione, al senso nuovo che la realtà acquista dall'alto, cioè dal modo con cui Dio vede e provvede a partire dalla risurrezione. La vita dei cristiani partecipa già di questa realtà nuova (3,1.2), ma è ancora "nascosta con Cristo in Dio" (3,3). Sarà manifestata visibilmente alla fine, "quando si manifesterà Cristo, la vita nostra" (3,4). Nel frattempo spetta ai cristiani far vedere nella contingenza storica la novità di vita di cui sono già partecipi. Perciò le esortazioni negative "fate morire... deponete... non mentitevi" (3,5.8.9), con due cataloghi di vizi della condotta di una volta (3,5.8), e la serie di quelle positive introdotte da "rivestitevi" (3,12-17), con il catalogo delle virtù, orientate e animate dal vertice dell'"amore, che è il vincolo della perfezione/compimento" (3,14).

Il passaggio dalle relazioni negative a quelle positive è fondato sulla trasformazione già avvenuta e tendente al suo pieno compimento: "vi siete svestiti dell'uomo vecchio con le sue azioni evi siete rivestiti del nuovo, quello che si rinnova in rapporto alla conoscenza secondo l'immagine di colui che lo ha creato" (3,9s). La trasformazione già donata implica l'impegno di un passaggio quotidiano dal vecchio al nuovo e una crescita continua nella conoscenza che conforma all'immagine del Cristo e attraverso Cristo all'immagine di Dio.

Come ha scritto R. Schnackenburg, l'uomo nuovo è l'uomo intimamente chiamato alla comunità, l'uomo che esercita e irradia l'amore comunicativo di Dio, che si pone a disposizione anche della "edificazione della società umana" non soltanto in un significato esteriore, ma edificando e consolidando dall'interno i gruppi umani e le strutture sociali. Egli non può abbandonarsi, a causa di una responsabilità morale, a nessun egoismo, a nessuna particolaristica tendenza al potere, a nessun desiderio di un proprio arricchimento a danno degli altri; in breve, egli è I'uomo sociale che, tuttavia, non perde mai di vista la sua dignità personale".

Volendo formulare in annuncio per l'uomo d'oggi il messaggio di Paolo, possiamo dire con le parole di un altro grande teologo: "Come a nessuno è permesso di sfuggire all'umanità, per rivendicare un destino speciale, così anche tutta I 'umanità deve morire in ogni suo membro per vivere - trasformata - in Dio. Questo è l'inizio e la fine dell'annuncio cristiano. Questa è la legge che è stata data all'umanità in ciascun singolo uomo, poiché ciascuno è responsabile per tutti e porta, secondo la sua parte, il destino di tutti".

(da Parole di Vita)

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