Famiglia Giovani Anziani

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Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:31

DIRITTI E DESIDERI DEI DISABILI

 DIRITTI E DESIDERI DEI DISABILI

Il seguente manifesto è stato realizzato con l’aiuto degli ospiti dell’ Istituto Sacra Famiglia. Attraverso un questionario compilato insieme agli operatori, 58 ospiti interni hanno saputo mostrare quale sia la realtà dei loro bisogni. È stato chiesto loro, inoltre, di scrivere una "lettera aperta" al ministro Maroni chiedendo aiuti per migliorare la propria condizione di vita. Il decalogo, composto da 5 diritti e 5 desideri, è il sunto di quanto emerso dalle loro parole e dai loro pensieri.

Il seguente manifesto è stato realizzato con l’aiuto degli ospiti dell’ Istituto Sacra Famiglia. Attraverso un questionario compilato insieme agli operatori, 58 ospiti interni hanno saputo mostrare quale sia la realtà dei loro bisogni. È stato chiesto loro, inoltre, di scrivere una "lettera aperta" al ministro Maroni chiedendo aiuti per migliorare la propria condizione di vita. Il decalogo, composto da 5 diritti e 5 desideri, è il sunto di quanto emerso dalle loro parole e dai loro pensieri.

  1. il diritto ad essere quello che sono.
  2. il diritto ad essere salutato come gli altri.
  3. il diritto ad andare a scuola e ad imparare le cose che conoscono gli altri.
  4. il diritto ad essere malato.
  5. il diritto a vivere bene anche se sono disabile.
  6. desidero viaggiare e girare il mondo.
  7. desidero avere una famiglia, dei bambini, tornare a casa e abbracciarli.
  8. desidero essere più istruito, vorrei andare a scuola.
  9. desidero che la gente pensi di me che sono buona, simpatica, intelligente.
  10. desidero avere sempre amici, persone che mi vogliono bene anche se non sono come tutti gli altri.

Tratto da "Famiglia Oggi 10 ¡ ottobre 2003"

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:30

INDIRIZZI PER INFORMARSI SULLA DISABILITA’

 INDIRIZZI PER INFORMARSI SULLA DISABILITA’

Per maggiore documentazione dei lettori forniamo altre segnalazioni utili sul lavoro e disabilità.

www.spazio-lavoro.it

("newsletter" sull’ art.14 Legge Biagi, con prese di posizione delle cooperative sociali e associazioni disabili).

www.coinsociale.it

sito del consorzio delle cooperative sociali Co. In. — forum sulle tematiche del lavoro e della disabilità).

www.cnca.it

(sito del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, Cnca).

www.capodarco.it

(sito della comunità di Capodarco di Roma — "The non discriminatine firm", progetto europeo sulla responsabilità sociale delle imprese).

Michele Smergiassi, "i down alla conquista del lavoro", in La Repubblica, 4 agosto 2003, articolo sulle esperienze di lavoro delle persone down.

Agli operatori sociali si consiglia la lettura del manuale curato da Gabriella Fabrizi e Paola Vulterinia "Orientamento e inserimento al lavoro di persone in condizioni di svantaggio" (Franco Angeli 2000).

Tratto da "Famiglia Oggi 10 — ottobre 2003"

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:24

UNA FESTA PER CELEBRARE LA VITA

 UNA FESTA PER CELEBRARE LA VITA

Momento di incontro, talora trasgressivo, sempre straordinario, la festa celebra la gioia e l'accoglienza dell'altro • Incontro in profondità, presenza ritrovata, come quella del figlio con il padre nella parabola del Vangelo.

  1. La festa, interpretazione antropologica

    La festa è stata sempre per l'uomo una reazione vitale all'avvenimento che l'oltrepassa. Un modo per placare o incanalare le angosce di fronte all'incertezza e ai cambiamenti della vita, dall'alternarsi delle stagioni, ai passaggi esistenziali - nascita, entrata nell'età adulta, matrimonio, morte... -. Un modo per riscattare le tensioni della vita comune, delle disuguaglianze sociali, per riconquistare la dimensione umana perduta nel prevalere dell'economico, per sottrarsi alla pesantezza del quotidiano, per riacquistare la sicurezza di essere.

    È un periodo di intensificazione della vita collettiva, in cui si interrompe la normale attività produttiva, utile, per realizzare una tensione emozionale unificante intorno a schemi riconosciuti come comuni. Il centro della festa è sentirsi uniti e una certa ritualità lo favorisce, non solo nelle feste collettive -religiose o laiche - ma anche in quelle familiari, amicali, personali: si mangiano certi cibi, si fanno determinate cose...

    È in un certo senso una ricerca di salvezza che si può manifestare sotto molti aspetti, da una semplice fuga nel tempo libero, per sottrarsi a condizioni di vita sentite come alienanti, fino a un'apertura al divino.

    Sovente comporta una trasgressione delle regole, che però non vuole distruggere, quanto riaffermare e rinnovare.

    Suoi elementi sono la straordinarietà, che fa uscire dalla abitudinarietà della vita di tutti i giorni, la gratuità, in contrapposizione all'utilitarismo, lo stare insieme, che libera dall'isolamento.

  2. Che cosa si festeggia?

    In realtà spesso le nostre feste non sono tali perché riproducono ancora i modelli della vita produttiva. Incapaci di meraviglia non sappiamo uscire dall'ovvio e dal consueto. E non abbiamo ancora imparato a stare veramente insieme. Vediamo per esempio come abbiamo ridotto il Natale a una frenetica corsa al consumo...

    Forse questo dipende da una carenza di motivi per far festa.

    Paradossalmente sono i più poveri ad avere voglia di festeggiare. Nelle nostre vite sazie e viziate c'è posto più per la noia che per la festa...

    I giorni liberi sono più di evasione, che di incontro.

    I doni che riceviamo, li diamo per scontati. .

    Che cosa dunque celebrare?

  3. Un padre che ci sembra un po' folle...

    Prigionieri come siamo di una mentalità meritocratica, la cosa che ci colpisce, nella parabola del figliol prodigo, non è tanto che il padre riaccolga il figlio minore, quanto che gli faccia anche festa: lo riveste a nuovo, fa preparare il banchetto ordinando di uccidere il vitello grasso, organizza la musica e le danze...

    Per noi, come per il figlio maggiore, sarebbe già stato abbastanza, forse anche troppo, fare come se niente fosse, dire "Ti perdono! Non pensiamoci più". Al massimo possiamo ammettere un po' di commozione, ma ogni altra manifestazione di gioia ci sembra diseducativa: una ricompensa per chi ha peccato, anche se pentito, che esempio può dare?

  4. Un rapporto difficile con la gioia

    Credo che questo nostro atteggiamento dipenda dall'incapacità di accogliere la gioia, di condividerla con gli altri.

    Mentre sappiamo, più o meno, stare vicino a qualcuno nel momento della pena, anche se è stato lui stesso a procurarsela, spesso ci troviamo ad abbandonarlo quando questa finisce, non abbiamo sufficiente disinteresse, delicatezza di cuore, distacco da noi stessi per condividere la gioia di un altro, rallegrarci della sua felicità: se è contento, che bisogno ha ancora di noi? Il suo dolore ci aveva fatto sentire importanti per lui, la sua gioia invece ci ridimensiona, quando addirittura non suscita la nostra invidia...

    E poi forse abbiamo paura in prima persona di aprirci alla gioia che ci è donata...

    Anzitutto perché ci fondiamo su noi stessi, su quello che possiamo conquistare, e non sappiamo accogliere il dono.

    Poi perché temiamo la delusione: sarà bello finché dura l'attesa, ma la realizzazione sarà all'altezza? Viene in mente la poesia di Leopardi "II sabato nel villaggio"...

    Infine perché la gioia è disarmante, forse in quanto è tutt'uno con l'amore, ci espone alle ferite, ci mette nelle mani di un altro, ci impedisce di ripiegarci su noi stessi, di farci riparo della nostra infelicità e ci costringe a uscire, ad andare incontro agli altri, a donarci...

  5. Sollecitazione alla gratuità

    Che cosa avrebbe impedito al fratello maggiore di far festa, lui che era sempre col padre? Ma non aveva mai avuto l'impressione di aver qualcosa da festeggiare...

    E forse non sapeva nemmeno far festa, si aspettava che fosse il padre a offrirgliela, come noi ci aspettiamo spesso che siano gli altri a darcela, magari le istituzioni, invece di imparare a costruirla.

    Diamo troppa importanza alle condizioni della festa, mentre ce ne manca lo spirito.

    Il padre dei due fratelli, invece va oltre, non si limita a provare gioia dentro di sé. Va verso i figli per sollecitarli a entrare pure loro in questa dimensione.

    Essi in fondo non sono poi così diversi l'uno dall'altro: entrambi pensano che chi ha peccato debba pagare e non possa essere riammesso nella condizione di figlio. Nella loro concezione di dare-avere ("dammi quello che mi spetta...", "non mi hai dato neanche un capretto...") non c'è posto per la gratuità, per la ri-creazione - di vita nuova, di rapporti veri, di speranza -.

    Il padre deve andare loro incontro per convincerli a partecipare alla sua gioia: non può festeggiare da solo, la festa ha bisogno di condivisione...

    Così corre verso il figlio prodigo che intravede di lontano e lo coinvolge nei festeggiamenti prima ancora che abbia finito il discorsetto di pentimento che si era preparato, lo riveste a nuovo per fargli capire che lui è di più del suo peccato, che può ricominciare.

    Poi deve uscire ancora per convincere l'altro che offeso non vuole entrare, e lo prega, lo supplica, senza imporre la sua autorità di capofamiglia, ma cercando di far entrare nella sua logica questo figlio che era rimasto sì accanto a lui, senza tuttavia curarsi di capirlo. Cerca di convincerlo ad aprirsi alla gioia di una presenza ritrovata.

  6. La festa, incontro in profondità

Questa parabola quindi ci fa capire che cos'è la festa per Dio. Non evasione, ma condivisione, reciproca presenza, incontro in profondità.

Non è solo però un contemplarsi l'un l'altro, possedersi reciprocamente, ma è aprirsi a un oltre.

Si fa festa intorno a un mistero: il mistero dell'altro che non si esaurisce nelle azioni che ha commesso; il mistero di Dio che supera con la sua misericordia la nostra immaginazione; il mistero anche di noi stessi, perché non ci conosciamo fino in fondo, del resto non ci siamo costruiti da soli, ma ci riceviamo come dono dagli altri - tutti coloro che hanno contribuito a quello che siamo - e da Dio.

Lo specifico della festa cristiana è la gioia della salvezza: non c'è peccato che non possa essere perdonato, Dio è più grande del nostro cuore.

Gioia della salvezza che è di ritrovarsi fratelli, gioia di "essere" insieme, senza paure, a proprio agio.

Ogni festa, anche la più umana, fa saltare le barriere, abbassa le difese...

La festa aperta a Dio ci rende meno opachi gli uni agli altri e permette uno scambio più vero.

La festa si celebra con un banchetto perché spezzare il pane insieme è simbolo di condivisione concreta, di farsi nutrimento gli uni per gli altri, bere insieme è fare insieme spazio alla gioia. La festa sfama il nostro bisogno di presenza umana, placa la nostra sete di Dio, ma nello stesso tempo ravviva la fame, riacutizza la sete, perché più sperimentiamo la gioia dell'amicizia, più ne sentiamo il desiderio.

Vengono in mente le parole di Gesù: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi" (Le 22,15). Alla tavola dell'amicizia si trova la forza di offrire la propria vita...

Maria Pia Cavalieri

Tratto da "Famiglia Domani £ aprile 2002"

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:17

Storie di discepoli (1)

 Storie di discepoli (1)

"Allora entrarono nella tomba. Piene di spavento videro, a destra, un giovane seduto, vestito di una veste bianca. Ma il giovane disse: "Non spaventatevi. Voi cercate Gesù di Nazareth, quello che hanno crocifisso. È resuscitato, non è qui. Ecco, questo è il posto dove lo avevano messo. Ora andate e dite ai suoi discepoli e a Pietro che Gesù vi aspetta in Galilea. Là, lo vedrete come vi aveva detto lui stesso". Le donne uscirono dalla tomba e scapparono via di corsa, tremanti di paura. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura". (Mc16,5-8)

"Allora entrarono nella tomba. Piene di spavento videro, a destra, un giovane seduto, vestito di una veste bianca. Ma il giovane disse: "Non spaventatevi. Voi cercate Gesù di Nazareth, quello che hanno crocifisso. È resuscitato, non è qui. Ecco, questo è il posto dove lo avevano messo. Ora andate e dite ai suoi discepoli e a Pietro che Gesù vi aspetta in Galilea. Là, lo vedrete come vi aveva detto lui stesso". Le donne uscirono dalla tomba e scapparono via di corsa, tremanti di paura. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura". (Mc16,5-8)

ELENA

Chiudo il libro, qualche frase per aprire la riflessione, un po’ di musica. Ognuno dice qualcosa, a turno. Elena prende la parola e dice, dolcemente: "Perché avere paura? Amici, nella mia vita ho sofferto molto, eccoli i miei tre figli, su una sedia a rotelle, vivo solo per loro, mi sono quasi consumata per loro, ma non ho più paura... ora. Avevo due possibilità di fronte a me: la disperazione o la vita. Ho scelta la vita. Sono diventata forte. Scusatemi, non penso molto all'aldilà, alla vita dopo la morte, credo che si debba vivere da risorti, qui, ora, vivere in quanto persone pasquali, saper riconoscere la vita in mezzo a tutto questo, vedere la vita dietro e nelle membra di Fabio, Elenio, Alfonso, i miei figli". No, non dobbiamo avere paura, siamo forti! Distribuisce dei ramoscelli d'ulivo e una poesia di Gandhi. Cantiamo, ed usciamo dalla sua casa con l'impressione che quel messaggio strano e straordinario ci riguardasse... che fosse lì il cuore della nostra fede... così grande eppure così fragile, stupefacente...

ANNA

"Che senso ha tutto questo?", urla Anna, "non ci capisco più nulla!". Lei, passa le giornate in mezzo alla gente del quartiere, il Quartiere Spagnolo, non ha più un momento per sé, verrebbe da dire che la vita di ognuna dì quelle persone stia per consumarla, a poco a poco, come un cero che, bruciando, diventa sempre più piccolo… diffondendo luce. Antonio è un ragazzo meraviglioso, ma oggi sembra un altro, non vuole più continuare ad andare a scuola, sbatte la porta e se ne va. Anna si lascia cadere sulla sedia: "Dimmi, A..., che senso ha tutto questo? Dover sempre ricominciare da capo?". Sì. ricominciare sempre da capo, come ogni primavera dopo che l'inverno finisce, come un chicco di grano che è gettato nella terra e muore... sempre ricominciare, come se fosse il primo giorno, il giorno della creazione che inizia sempre, che non ha mai termine. Anna si alza dalla sedia, sorride, prende la "moka" e ci prepara un caffè; il suo caffè non è mai uguale, ogni volta ha un sapore diverso. Ci alziamo, usciamo dal "basso" e ci avviamo verso il quartiere...

ANNA

Con una certa emozione busso alla porta dello "scantinato" di Anna (un’altra Anna), nel nostro quartiere Traiano: da un po' di tempo non ci si vede. Suo figlio Toni è stato operato, gli è stata fatta la rotazione dei femori. Un'operazione difficile, ma soprattutto una lunga e dolorosa rieducazione. Apre la porta, un bel sorriso in volto. "Che piacere che tu sia venuto, preparo il caffè. Lo sai, siamo dovuti andare fino a Milano, dove c'è uno specialista, ci sono anche dei medici americani; sono stati molto gentili. Ma il viaggio in auto è stato duro...". Toni è a letto, coperto da un lenzuolo bianco. Mi chiede, sorridendo: "Hai portato qualche carta telefonica? Lo sai che ho una collezione fantastica!". Anna racconta, sempre sorridendo: "Qualche volta è molto pesante. Deve rimanere sempre a letto, si annoia, non lo puoi lasciare un attimo, sono distrutta… eppure questa operazione potrà cambiargli la vita, potrà alzarsi, camminare… ecco, il caffè è pronto". Di fuori, entra un raggio di sole ed illumina il suo viso, quello di Toni, la camera, l'umidità dei muri, ed è un po' come se la luce entrasse dalle vetrate di Notre-Dame. Mi alzo, esco, e porto con me il sorriso di questa donna coraggiosa, ma vado a lavorare un po' turbato: avrò altrettanto coraggio, e altrettanta forza?

GIULIANA

Al levar del sole Giuliana esce dalla baracca col più piccolo dei suoi figli e va a chiedere l'elemosina alla stazione del metrò, viene dalla Macedonia. Quando mi vede passare mi chiama con un bel sorriso: "Ciao. Ascolta... come mai non ti sei più atto vivo?". Le chiedo: "Hai notizie di tua madre, a Skopie? Che cosa succede laggiù con la guerra?". "Sì, ho chiamato, sono preoccupata. Laggiù hanno molta paura. Per di più la mamma è malata, lo sai. Non posso andare a trovarla, non ho soldi, e poi è troppo pericoloso. I miei fratellini rischiano d'essere arruolati per andare in guerra. E io sono qui, impotente, col cuore spezzato. Spesso, di notte, a letto piango". Suo figlio, Michele, mi dice che ora va a scuola, e recita una poesia di Pasqua... Giuliana riprende, un po' timida: "Ho dimenticato di dirti una cosa, aspetto un bambino, sono al quarto mese…".

"Mentre andavano dicevano tra loro: "Chi ci farà rotolar via la pietra che è davanti alla porta?". Ma quando arrivarono, guardarono, e videro che la grossa pietra, molto pesante, era stata già spostata... " (Mc 16,3-4).

A…

Piccolo fratello del Vangelo - Napoli

Storie di discepoli (2)

Yves ha trascorso in Nicaragua alcuni mesi del suo anno sabbatico. Cautelino, "delegato della parola" (diacono) in una piccola comunità cristiana di montagna, lo ha invitato a trascorrere la settimana santa in quella frazione…

Il vento fresco del mattino che penetra dal soffitto spalancato della casa mi sveglia. Apro dolcemente gli occhi. Una testa riccioluta, bruna e completamente rotonda è china su di me. Due occhi neri mi osservano… non c'è alcun turbamento in quello sguardo di bambino… magari una domanda: "Chi sei tu, tu così bianco, che sei venuto a passare la settimana santa con noi?" - "Signore, fammi la grazia di lasciarmi toccare"... Provo a sorridere e tendo la mano… la mia visione mattutina si volta e s'allontana, quasi a dirmi: "Non toccarmi. Potrai abbracciarmi, ma più tardi".

Giovedì Santo. Che buon profumo il caffè fresco! Mi attende un piatto di riso e "frijol" (fagioli). È necessario mangiare prima di prendere la strada della montagna. Arriviamo verso mezzogiorno. Alle due del pomeriggio il luogo della celebrazione incomincia a riempirsi: uomini, ma soprattutto donne con bambini. C. accenna a qualche nota di chitarra… il canto ha inizio… i bambini cantano a squarciagola. I delegati della parola hanno preparato una piccola rappresentazione del vangelo del giorno: lavanda dei piedi con i dodici. Nessuno accetta di fare Giuda. Gentilmente, una donna mi chiede di rappresentarlo!... Al momento di mettere la mano nel piatto col campesino che è Gesù, sento come sia facile che la mia mano bianca possa tradire la sua, e imploro il Signore che bruci il mio cuore di passione per la giustizia. Poi, la lavanda dei piedi. Gesù mi chiede:

- "Vuoi che ti lavi i piedi?". - "Oh, sì!".

Gesù campesino del Nicaragua, in ginocchio di fronte a me, il bianco francese, che mi lava la polvere dei piedi... ecco ho vissuto il sacramento del Giovedì Santo, l’accoglienza nella sua tenerezza, della sua compassione... la domanda della mia fiducia... e l'invito a seguirlo.

Venerdì Santo. Oggi niente chitarra. Ecco gli occhi neri che accompagnano il mio risveglio. Partiamo per la Strada della Croce. Ora so di accompagnare Gesù nei suoi poveri. Sono venuti dalla montagna, dalle loro povere case affumicate, per la "Via Crucis"; con le loro pene e le loro speranze, le loro fragilità e la loro fiducia in Dio. Camminano e cantano; "Reconozsco Señor que soy culpable (riconosco, Signore, d'essere colpevole)".

Sono davvero commosso: "colpevoli, ma di che cosa, Signore! Loro che portano il peso dell'ingiustizia del mondo...!". Faccio fatica a trattenere le lacrime.

Pasqua. La veglia pasquale iniziata alle 5 del pomeriggio si è prolungata fino a mezzanotte. Le voci urlanti dei bambini non hanno smesso dì cantare se non con le ultime note suonate in coro dalle viruelas, dal mandolino, dalla chitarra, sostenuti dai suoni gravi del chitarron.

Sveglia alle cinque e mezza, come ogni mattina, sollecitati dal sole nascente. GESÙ È RISORTO! "Feliz Pascua! Hermano, como amanecio?". Per un istante posso stringere a me il piccolo corpo morbido, la testa riccia appoggiata al mio petto. Dopo essermi lavato, i due piccoli vogliono pettinarmi i capelli e la barba. Un piatto di riso e fagioli con una frittata, e via, si parte.

Prima tappa, la casa del nonno un po’ più in alto. Saluto perché parto... "Quando regresa?" - "Dios sabe!". Ci abbracciamo... una testa riccioluta e completamente rotonda mi osserva tranquilla, con i suoi occhi neri, e sparisce…

"Era questo il senso dei discorsi... Vi dissi chiaramente che doveva accadere tutto quel che di me era stato scritto nella legge di Mosè, negli scritti dei profeti e nei Salmi… Voi sarete testimoni di tutto ciò..." (Lc 24,44-48).

Yves M.

Piccolo Fratello del Vangelo - Nicaragua

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:10

Partecipazione. Una parola fuori moda

 Partecipazione. Una parola fuori moda

In prima battuta, e forse un po' brutalmente: "partecipazione" è oggi diventata una parola desueta, scarsamente frequentata nel dibattito politico e addirittura datata. Non sentendosi parte di un "tutto" condiviso, in una stagione di grave crisi della memoria collettiva, gli italiani appaiono appassionarsi e prendere parte attivamente solo al campionato di calcio, e a poco altro. Non si tratta di una boutade, ma di una semplice constatazione: ben lungi dall'infervorarci per l'agone politico, non ci resta che l'identità di tifosi della Juventus o dell'Inter, e le discussioni sulla correttezza o meno degli arbitri sono quelle che maggiormente fanno fremere il nostro connazionale medio… È trascorso meno di un quarto di secolo, ma sembrano invece passati diversi anni luce, da quando Giorgio Gaber proclamava in una sua canzone-simbolo che "libertà è partecipazione"

1 - Per un cristiano "partecipare alla cosa pubblica" è la forma più alta della carità

"Ci troviamo oggi, probabilmente - ha scritto giustamente Remo Bodei - alla conclusione di un ciclo bicentenario che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli, a classi o a "razze" la felicità attraverso un innesto della politica nel corso della storia". Personalmente, appartengo ad una generazione che è cresciuta nella convinzione generalizzata che la politica e la partecipazione alla "cosa pubblica" fosse, dal punto di vista di un cristiano, la forma più alta ed esigente della carità. Convinto assertore del pluralismo politico e culturale dei cattolici, ho creduto possibile far coincidere la lotta per una maggior giustizia e la testimonianza, la fede cristiana e l'impegno quotidiano per gli "altri" senza mai farmi tentare dal rassicurante recinto dell'unità in un unico partito. Opzioni rispetto alle quali, per quanto mi riguarda, non mi dichiaro in alcun modo un "pentito": anzi... In tale chiave ho vissuto, per parecchi anni, un'esperienza di volontariato sociale, fondando sul piano nazionale il movimento del Tribunale per i diritti del malato, e operando poi nel campo della promozione culturale dirigendo il Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo di Modena.

Oggi sto svolgendo, ormai da quattro anni, il lavoro di amministratore della mia città, Carpi, come assessore delle politiche culturali e giovanili. Ricordo che quando accettai la sorprendente proposta di quello che sarebbe diventato il mio sindaco, decisi di inviare tramite un giornale locale una sorta di "lettera aperta ai miei concittadini, per spiegare il senso che aveva per me quella scelta, per nulla scontata, anche perché in quel momento non stavo facendo, come si dice, "vita di partito", né appartenevo ad una determinata forza politica. Scrissi, fra l'altro, che intendevo quel passo "in spirito di servizio" rispetto alla mia città, nella quale ho sempre abitato, perché la amo profondamente, e, mentre scrivevo quelle parole, per me assolutamente ovvie ancorché tutte da dimostrare, mi rendevo conto di quanto esse rischiassero di suonare agli eventuali lettori, oltre che ipocrite addirittura vuote di senso, prive di qualsiasi significato, dato che l’opinione comune, largamente suffragata dai media e ormai assolutamente incontrastata, è che la politica è "altro".. tutta la politica, dall'impegno nel quartiere a quello presso il parlamento europeo! Coi naturali rischi di qualunquismo generalizzato, disimpegno ad ogni livello, abulia etica, e così via. Soltanto la mia "beata ingenuità" poteva condurmi su quella strada! Eppure, stando a Gaudium et Spes, "tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica: essi devono essere di esempio sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune"; e ancora: "bisogna curare assiduamente l'educazione sociale e politica, oggi tanto necessaria, sia per l'insieme del popolo, sia soprattutto per i giovani, affinché tutti i cittadini possano svolgere il loro ruolo nella comunità politica" (n. 75). Come ha sintetizzato bene Luigi Ciotti: "Occuparsi di politica, per i cattolici, ultimi è un optional, ma un preciso diritto e dovere che scaturisce dal comandamento della carità. È servizio di giustizia perché il bene comune abbia il volto umano dell’uguaglianza, del rispetto della dignità di ciascuno e della reale tutela dei diritti di ogni persona. Questo bene comune si traduce e articola entro un pluralismo di culture e di scelte che va inteso come ricchezza e non come limite: purché la ricerca di verità e di maggiore giustizia stano sempre libere, non strumentalizzate da condizionamenti diversi dalla propria coscienza, quale che sia il governo in carica".

La realtà, in ogni caso, è che la partecipazione e la politica, soprattutto nel nostro paese, non è oggi considerato un argomento di moda. Per larghe fasce degli italiani si tratta ormai di temi tabù, e per moltissimi giovani, cresciuti alla vita sociale e all'impegno lavorativo nella stagione consegnata alla storia come il passaggio dal cupo tempo del Terrorismo all'amara stagione di Tangentopoli, essi appaiono irrimediabilmente relitti deteriori di un passato sepolto, mero affarismo giocabile solo in chiave di tornaconto individuale, incapaci di produrre passioni autentiche e di collegarsi sia pur lontanamente ad una dimensione etica. Non solo la "politica dei partiti", chiusa in un linguaggio incomprensibile ai più, ma anche il volontariato (o una parte di esso): basti pensare al crollo d'immagine degli ultimi mesi della Missione Arcobaleno a meno di un anno dalla spinta di partecipazione popolare avvenute durante la guerra del Kosovo!

2 - Tra utilità e gratuità

Si badi: sarebbe stupido, oltre che sbagliato, gettare la causa di tale situazione sui cittadini. Occorre ammettere, se si vuole invertire la tendenza o almeno provarci, che la politica da tempo non fa motivi per farsi amare e spesso sì è ridotta a pura politica-spettacolo, e che in un clima di individualismo diffuso la partecipazione ha smarrito parecchio del suo tradizionale appeal. Occorre ammettere una profonda sfasatura fra i processi di sviluppo della nostra società e la mediazione che di essi tenta faticosamente di offrire la politica. Occorre riscoprire lo spazio positivo di una socialità che non si identifichi necessariamente con le chiacchiere televisive o col piccolo cabotaggio. Occorre cambiare rotta. Ma come? Lungi dal risolvere il problema, naturalmente, vorrei offrire qualche pista di riflessione a tale proposito.

Ha scritto il cardinal Martini: "Mi diceva qualche giorno fa un politico molto attento, con cui si stava commentando Agostino e si parlava della opposizione agostiniana tra "uti" e "frui", che è poi ciò che fa la differenza fra le due città: noi politici non siamo più credibili; il discorso dell'utilità dell'"uti", ha ucciso la credibilità o occorre qualcuno, non politico, che faccia ritornare in onore il discorso della gratuità, del "frui" agostiniano. La politica si salva e diviene vero servizio alla pubblica utilità uscendo dalla logica perversa dell'"uti" per accettare anche i ritmi e le logiche del gratuito" Appare davvero illusorio rassegnarsi all'insignificanza della politica, o ad una sua rappresentazione puramente virtuale, quando la logica dominante della storia è quella di un mercato globalizzato e delle sue regole ferree e chi rischia di più sono i "poveri" (è ancora possibile ricorrere a tale termine?), cosa che dovrebbe preoccupare il mondo delle chiese non meno che gli stessi attori della politica. Certo, è indispensabile affrancarsi dalla dimensione totalizzante di essa, lasciarsi alle spalle ogni dimensione "mitica" o "assolutistica", verificarne e accettarne serenamente i limiti oggettivi. Armarsi del "piccolo bagaglio" suggerito da Norberto Bobbio all'autentico democratico: "l'inquietudine nella ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare".

Ha ragioni da vendere il filosofo Pietro Barcellona nel suo appassionato inno alla "necessità" della politica: "La politica è visibilità delle opposte "ragioni", trasparenza del conflitto e delle necessarie mediazioni. La mediazione politica non è un patteggiamento occulto, patto di sindacato con il quale gli azionisti di comando delle diverse società dispongono segretamente della vita di tutti. La politica è ricerca di punti di equilibrio a partire dalla limpida esplicitazione delle differenze. È costruzione di uni "contenitore", di uno spazio dove il conflitto delle ragioni possa dispiegarsi senza rischi di distruzione reciproca. La politica costringe a trasformare le pulsioni e le emozioni in pensieri e argomentazioni comunicabili e rappresentabili. Senza la politica l'intera società precipita in una lotta oscura e priva di obiettivi chiari e distinti...". In questo senso, la partecipazione e la politica sono ancor oggi - nonostante tutte le ipocrisie e le miserie che vi sono connesse - dimensioni necessarie all'umanità postmoderna. L'economia e la borsa non sono sufficienti, come il senso comune attualmente vorrebbe invece farci credere! E qualsiasi auspicabile riforma statuale dovrebbe rispondere in primo luogo all'istanza di ripristinare la comunicazione tra le istituzioni e i cittadini: se essa non costituisce un'autentica risposta al problema del senso, tenderà inevitabilmente a scadere a ingegneria sociale e tecnicismo istituzionale.

3 - Cambiare se stessi per cambiare la politica e per un nuovo modello di partecipazione

La questione tuttora aperta è come ridar loro slancio e passione, come restituire loro un fondamento etico, come renderle consapevoli del proprio "limite": cominciando con il porre loro le domande corrette, adeguate, a metà strada fra la storia e l'utopia, che le rendano davvero capaci - secondo uno slogan felice - di "agire localmente e pensare mondialisticamente". Le domande "laiche legate alla promozione di un senso di responsabilità collettiva reciproca, alla gestione più razionale ed equa della città terrena, alla migliore distribuzione dei beni comuni, alla promozione umana, sociale e culturale dei cittadini. Le domande planetarie della pace, della giustizia, della necessaria "convivialità delle differenze" (don Tonino Bello), di quella che è forse la questione più decisiva per la politica odierna, la questione del rapporto con "l’altro": nel complesso, quelle che interconnettono - superando sia il puro pragmatismo sia la paura di "sporcarsi le mani" - per dirla con il linguaggio di Dietrich Bonhoeffer, la fedeltà alla terra e le realtà ultime. Che mantengono al credente quella che la teologia politica ha definito la "riserva escatologica", l'istanza critica del Vangelo, ma sempre nell'umiltà della compagnia degli uomini. E che ci permettono di dubitare della sentenza qoheletica per cui "non c'è nulla di nuovo sotto il sole". "Non si cambia la politica - come ha scritto Luigi Manconi del suo amico Alex Langer, il "viaggiatore leggero", tragicamente scomparso tre anni or sono - se ognuno non cambia se stesso: questo ci diceva Langer, così caparbiamente e splendidamente fuori moda rispetto a quando quella formula fu elaborata e venne usurpata e dissipata. Non si cambia la politica se si rinuncia a dire e a praticare, già a partire da sé, già nel piccolo del proprio esistere e agire politicamente, quella speranza collettiva, se si rinuncia a portarne il carico di responsabilità. Dunque, Langer liberava quel messaggio da ogni velleità catartica e da ogni ingenuità redentrice, per tradirlo, piuttosto, in un impegno rigoroso e severo di autoformazione e di consapevolezza dei propri limiti e delle proprie responsabilità".

Brunetto Salvarani

Da "Famiglia domani" 3/2000

Giovedì, 30 Dicembre 2004 21:01

C'era una volta Socrate - Francesco e Guido Ghia -

  C’era una volta Socrate…

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tutto con un’ immagine, l’invocazione e la domanda che salgono dall’interiorità dell’uomo verso questa Trascendenza, ritornano a lui, per così dire, sotto forma di ispirazione, quella ispirazione che non solo si rivela negli impulsi geniali delle grandi personalità artistiche o negli slanci mistici delle grandi personalità religiose, bensì anche nella determinazione quotidiana con la quale ciascuno di noi affronta e risolve le questioni della vita.

Grazie all’ispirazione, il senso religioso, vale a dire la capacità umana di percepire nella propria interiorità questa dinamica della Trascendenza, può dunque finalmente dischiudere anche la possibilità di articolare una risposta alla domanda sul senso della vita.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quarta parte

TRA SECOLARIZZAZIONE E CRISI DI SENSO

Le due diagnosi qui sommariamente presentate, applicate ai giorni nostri, ci rendono evidente un dato: che il processo di secolarizzazione della società, per quanto diffuso, non è però riuscito a trovare un sostituto adeguato della religione.

Tale processo ha infatti riguardato le strutture sociali e istituzionali della religione (è una realtà sotto gli occhi di tutti, per esempio, che le chiese progressivamente si svuotano e che, con l’emergere di una maggiore concorrenzialità nelle proposte di stili di vita diversi, diminuisce la pratica consapevole dei sacramenti), tuttavia l’elemento religioso, ossia la religione intesa come un modo e una struttura autonoma della coscienza (A.Caracciolo), non è scomparso, ma persiste proprio nella forma dell’invocazione e della domanda di senso ¡ pur se è innegabile che la crisi delle forme tradizionali e storiche di articolazione sociale della religione porta insieme con sé, come già abbiamo accennato, un maggiore smarrimento di fronte a questa domanda.

Nondimeno, è proprio una simile domanda a qualificare lo spazio della religione, o, per meglio dire, del religioso: è infatti esperienza comune che la domanda sul senso della vita può essere sì rimossa ¡ si può cioè, intenzionalmente, ignorarla, non volerne sapere -, tuttavia non può essere soppressa , e prima o poi, per esempio nell’esperienza dell’angoscia, del dubbio, delle notti insonni, essa torna prepotentemente ad esigere e riprendersi il suo spazio.

Ed è appunto questo spazio, che è universale, perché si dischiude strutturalmente e autonomamente in ogni uomo, indipendentemente dalla sua posizione intellettuale nei confronti del problema "fede", a poter e dover essere denominato come religioso. La religione è cioè lo spazio nel quale si articolano le domande e le inquietudini relative al senso ultimo da attribuire all’origine, alla finalità e alla destinazione dell’esistenza del singolo e del mondo.

Ora, l’idea ottimistica che la scienza, le nuove tecnologie, il processo di costante razionalizzazione del contesto sociale, potessero da soli dare risposta a tutti i bisogni dell’uomo e soddisfare così tutte le sue domande e i suoi interrogativi esistenziali, si è rivelata, come già abbiamo anticipato, una drammatica illusione.

La società della comunicazione avanzata si dimostra sempre più, infatti, come una società in cui dominano le solitudini e l’incomunicabilità, poiché alla possibilità di comunicazione, apparentemente sempre più vasta, non sembra far adeguatamente seguito un’autentica condivisione di esperienze esistenziali significative. D’altro canto, al dovere della felicità predicato senza posa dai messaggi pubblicitari sembra fare da contrappunto il diffondersi della depressione, che molti medici non esitano a definire il vero male del nostro tempo.

Da una parte quindi la società, anche grazie al processo di secolarizzazione, sembra fornire all’uomo d’oggi strumenti razionali e tecnici sempre più sofisticati che dovrebbero essere in grado di aiutarlo ad affrontare e dominare anche le situazioni più difficili dell’esistenza: dall’altra, però, ciò avviene in maniera insoddisfacente, giacchè il singolo avverte , nella propria coscienza, che c’è un ambito ¡ costituito per esempio proprio dalle sue domande ed inquietudini esistenziali ¡ che quegli strumenti razionali e tecnici non riescono a soddisfare pienamente o, anzi, trascurano del tutto.

Una conseguenza di questa odierna scissione tra le aspirazioni della società e i bisogni del singolo si mostra poi chiaramente in quel fenomeno della fuga nell’ irrazionalità che è indubbiamente un dato caratteristico del nostro tempo.

L’attenzione talvolta addirittura morbosa riservata agli oroscopi o alle previsioni del futuro, il proliferare di maghi, guaritori, visionari e sensitivi di ogni specie, il ricorso crescente alle cosiddette "medicine alternative" che, pur prive spesso di plausibilità scientifica, si impongono però in nome di una presunta armonia con l’ordine cosmico dell’universo, le pratiche salutiste e "neo-mistiche " dei movimenti religiosi facenti capo alla cosiddetta "new age" e il riporre speranze di benessere e di guadagno nelle lotterie o nei giochi di casualità, sono tutti ¡ ciascuno a suo modo ¡ segnali evidenti di un’irrazionalità che si afferma ormai come l’autentico volto di Giano della odierna civiltà tecnologica.

La secolarizzazione si fondava allora sul presupposto del disincanto, della liberazione dalla magia, il suo imporsi non è però riuscito a evitare che l’uomo, per trovare risposta alla propria insoddisfazione, faccia oggi ancora ricorso, in ultima istanza, a forme di irrazionalità talora ammantate di un alone magico-esoterico.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Quinta parte

L’ESPERIENZA DEL SACRO E DELL’IRRAZIONALE

 D’altronde, a confermare la constatazione che l’elemento irrazionale gioca comunque un ruolo di primo piano nella determinazione del religioso, basterebbe ricordare le fortunate e classiche ricerche sulla fenomenologia del sacro del teologo tedesco Rudolf Otto, che infatti dava al suo libro del 1917 "Il sacro" il sottotitolo : "Sull’irrazionale nell’idea del divino e sul suo rapporto con il razionale".

Certo, per Otto, irrazionale significava in prima battuta non qualcosa di necessariamente antitetico alla ragione e alla logica, bensì l’eccedenza di questo elemento rispetto al razionale, e con ciò egli segnalava anche che, tra le esperienze umane, non tutto può essere ricondotto a un rigido schema di razionalità. I vari movimenti dell’esperienza del sacro rivelano infatti alla ragione dell’uomo un sentimento di creaturalità, cioè il fatto che la nostra vita, posta di fronte agli abissi del mistero e della trascendenza, che atterriscono e affascinano a un tempo, fa l’esperienza della propria incompiutezza e, conseguentemente, della incomparabile maestà e radicale diversità (inafferrabile con i mezzi limitati della ragione) di questa stessa trascendenza.

L’analisi di Rudolf Otto è ancora oggi di attualità nella misura in cui questa dimensione del sacro non viene identificata tout court con la religione, ma, a ben guardare, ne costituisce solo un primo elemento: la religione infatti non si accontenta soltanto del momento psicologico del terrore e del fascino di fronte al mistero e quindi del sentimento di piccolezza e timidezza dell’uomo avvertito al cospetto della trascendenza, bensì vuole già anche contenere in sé il momento attivo della assunzione di responsabilità nei confronti della trascendenza e del mondo.

La religione implica cioè anche e sempre la dimensione della fede, quale che sia la figura storica e concreta che a questa dimensione si vorrà attribuire (e ciò vale, si badi bene, anche per l’ateo, giacchè l’ateo che abbia seriamente affrontato nella sua cosienza il problema religioso, ha pur dovuto assumere alla fine una decisione rispetto a tale problema e risolversi così, magari, per una fede "politica" o "antropologica" o "filosofica", che, certamente diverse dalla fede "religiosa", restano comunque una figura della fede).

Con ciò, ci pare si possa cominciare a delineare un quadro più preciso per tentare di affrontare la fuga nell’irrazionalità e la crisi di senso della società odierna.

Ne va cioè della ricerca di una via per riconciliare il momento della razionalità con quello del sentimento, le due dimensioni che, come abbiamo visto fin qui, paiono essere le "colonne d’Ercole" della riflessione sul senso della vita.

Due termini, oggi molto in voga, assumono in questo contesto un significato pregnante: discorso e esperienza. Al di là della banalizzazione di cui essi sono spesso fatti oggetto nel linguaggio quotidiano (oggi tutto finisce per essere "discorso" ed "esperienza", anche ciò che, in verità, non è né oggetto di dialogo, né frutto di esperienza vissuta!), si tratta in realtà di due termini molto importanti che, concretamente, rimandano a una realtà fondamentale: in ogni discorso autentico viene cioè sempre presupposto l’incontro tra qualcuno che parla, e presenta così una sua esperienza di vita, e qualcuno che ascolta, e che, nell’ascolto, traduce nel proprio linguaggio l’esperienza di vita che gli viene comunicata. E tradurre nel proprio linguaggio significa: mettere a confronto quell’esperienza con la propria.

Ora è precisamente in questa dinamica del dialogo che può emergere lo spazio anche per una risposta individuale alla domanda sul senso.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Sesta parte

L’ARTE DI ASCOLTARE E DIALOGARE

A ben guardare, però, la dinamica del dialogo qui descritta non è nulla di diverso da ciò che già faceva il "nostro" Socrate, il quale, con la tecnica della cosiddetta "maieutica", aiutava l’interlocutore a trovare in se stesso le risposte ai quesiti che gli formulava.

Ora tutto ciò contiene anche per noi, oggi, un profondo insegnamento: se si vogliono davvero trovare gli strumenti per una risposta all’odierna crisi di senso, occorre recuperare la disponibilità al dialogo, all’ascolto e alla condivisione delle esperienze che sorgono nell’interiorità dell’uomo. E nessuno può negare ¡ crediamo ¡ che la religione resta in questo contesto una dimensione insostituibile. Infatti, la religione, in quanto sorge dal sentimento, ha a che fare, come suo luogo rivelativo, con l’interiorità del singolo e, al tempo stesso, traducendosi nelle forme sociali del rito e del culto, vuole comunicare e condividere, nell’assemblea e nella festa comunitaria, i contenuti esperiti e vissuti in questa stessa interiorità.

Ci sia però consentito, al termine di queste riflessioni, chiudere con un dubbio: non sarà che, a fronte della sopravvivenza del fenomeno religioso nel quadro di una società secolarizzata, le forme tradizionali di aggregazione ecclesiale vivono invece una profonda crisi, anche perché al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

Riflessioni su secolarizzazione e problemi del senso

Prima parte

- La domanda sul senso della vita viene spesso rimossa con fastidio; eppure, questa domanda, che è "religiosa", è tutt’altro che inattuale.

- L’esperienza dello smarrimento nella società secolarizzata, quale si è sviluppata con la genesi del del mondo moderno.

- La scissione tra ragione e sentimento e il nuovo ruolo della religione nel contesto delle difficoltà delle fedi storiche.

- La percezione del sacro e la fuga nell’irrazionale.

- L’arte dell’ascolto e del dialogo come strumento per affrontare l’odierna crisi di senso.

- Una domanda per concludere: causa della crisi delle chiese non sarà anche, in parte, che al loro interno si è da tempo imparata e messa a frutto l’arte di pontificare, ma è assai meno praticata quella di ascoltare e dialogare?

C’era una volta un uomo di nome Socrate. Andava in giro per le strade della sua città, Atene, poneva domande ai passanti e volentieri si lasciava, a sua volta, interrogare. Nei suoi dialoghi parlava del bene e del male, dell’amore, del bello, in ultima istanza del senso della vita e di come aiutare gli uomini a scoprirlo. Era un uomo "scomodo"; fece, come si suol dire, una brutta fine.

Troverebbe oggi persone più tolleranti con lui? C’è di che dubitarne. In fondo, presi come siamo dalla convulsione dei giorni, pensiamo tutti di avere cose più serie e più importanti da fare che stare a dialogare sul senso della vita. Anzi forse lo stesso signor Socrate si cercherebbe oggi un’ occupazione più utile e produttiva e eviterebbe di "bighellonare" tutto il giorno, facendo "cricca" con gli amici e importunando i malcapitati passanti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Seconda parte

LA SECOLARIZZAZIONE COME DATO CULTURALE

La domanda sul senso della vita viene dunque, da molti nostri contemporanei, rimossa con malcelato fastidio. Eppure l’inquietudine e l’insoddisfazione che ciascuno di noi avverte presente negli ambienti in cui vive dimostrano che quella domanda è tutt’altro che inattuale. Sorge quindi il sospetto che tale domanda venga rimossa non perché non interessi, ma perché si prova angoscia di fronte all’incapacità di darvi risposta. Ci si sente infatti smarriti, si brancola letteralmente nel buio.

Si avverte il bisogno di un orientamento. Forse è meglio rettificare: in questo caso, un Socrate servirebbe!

A complicare ulteriormente le cose, c’è poi il fatto che, come ci dicono i sociologi, viviamo oggi in una società frammentata, iperspecializzata nelle suddivisioni delle competenze sociali e lavorative, in una parola individualistica. Una società che, insomma, ha perso i suoi punti di riferimento unificanti. Un tempo, questi punti di riferimento venivano, tra gli altri, assicurati dalla religione, la quale, con i suoi riti e le sue proposizioni di fede, forniva a tutti, indistintamente, dall’uomo più colto a quello più umile, un "ombrello" sufficiente per ripararsi dalle tempeste della vita.

In questo contesto, anche la domanda sul senso della vita, che è poi la domanda religiosa per eccellenza, anzi, come vedremo, la domanda stessa a partire dalla quale sorge il bisogno di una religione, trovava un rifugio sicuro.

L’uomo però che grazie all’Illuminismo, si è scoperto "maggiorenne" e quindi in grado di confidare nelle possibilità più o meno illimitate della propria ragione, non ha disdegnato di relegare spesso la religione nello spazio della superstizione, della magia e ha così potuto credere di riuscire meglio a rispondere a quella domanda con i mezzi positivi e tangibili della scienza e della tecnica che non con quelli astratti della religione. Il mondo si è così, per usare l’espressione di Max Weber, "disincantato", è uscito cioè dall’incanto della magia nella quale l’aveva fatto cadere la religione, e la società si è "secolarizzata", si è profilata cioè in un orizzonte non più trascendente, bensì totalmente intramondano.

Naturalmente, non si vuol dire, con questa diagnosi, che il processo di secolarizzazione sia, in sé e per sé, qualcosa di negativo. Non va dimenticato, infatti, che è anche grazie alla secolarizzazione che hanno potuto svilupparsi alcuni principi del mondo moderno che la nostra cultura ritiene oggi fondanti e irrinunciabili.

L’inalienabilità dei diritti umani, fondata sul riconoscimento della libertà e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente da qualsiasi appartenenza di razza, casta, chiesa, ecc., la chiara distinzione dei compiti e delle sfere di influenza tra lo stato e la chiesa, e quindi la nascita dello stato moderno sulla base della aconfessionalità, del pluralismo e della tolleranza (quella multiculturalità che nel contesto odierno è diventata quasi una parola d’ordine) lo sviluppo di una cultura democratica e della partecipazione politica alla vita pubblica, il riconoscimento della reciproca autonomia tra la sfera etica e la sfera religiosa, sono tutti in qualche modo effetti tangibili e positivi di quel processo di secolarizzazione avviatosi con la genesi del mondo moderno.

Su questo punto conviene essere chiari: la nostalgia di un mondo pre-secolarizzato reca in sé il rischio del fondamentalismo, di una visione "teocratica" e medievale del mondo che al pluralismo dei valori sostituisce l’assolutezza di un’unica verità che deve essere imposta a tutti.

 Francesco e Guido Ghia

Dottorandi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bochum (Germania)

da "Famiglia domani" Aprile-Giugno n°2/2000

 

Terza parte

L’AMBIVALENZA DELLA SOCIETÀ SECOLARIZZATA

Tuttavia, se anche si sottolineano gli aspetti innovativi, dal punto di vista culturale, del processo di secolarizzazione, non si può comunque tacere il risvolto della medaglia.

La grande opportunità offerta dalla "scoperta" del principio moderno di individualità si è infatti molto spesso tradotta in un imperante individualismo; la conquista della libertà e la progressiva emancipazione della scienza hanno portato non di rado a deliri di onnipotenza; il pluralismo dei valori si è talvolta tradotto in un sostanziale relativismo o indifferentismo, dando così ospitalità anche alla presenza inquietante del nichilismo, della negazione cioè della stessa realtà del valore in sé. Da questo ultimo versante, il novecento appena conclusosi non è stato certo avaro di tragici esempi!

Sono, questi, aspetti reali del processo di secolarizzazione che non vanno trascurati, e nei quali invero ci si imbatte, come sfida, ogniqualvolta si affronta la domanda del senso; sono anzi proprio tali aspetti a rendere così problematica una simile domanda nel contesto della società attuale.

Ora però, l’ambivalenza della società odierna esaminata sotto il profilo della secolarizzazione non fa in fondo che rispecchiare la diagnosi che già nel diciannovesimo secolo il filosofo Hegel formulava a proposito dell’Illuminismo: quest’epoca storica, egli diceva, è caratterizzata da una scissione, dalla divisione tra il sentimento, cioè il dominio dell’interiorità , e l’intelletto, cioè il dominio della ragione comprendente e calcolante.

L’unica realtà in grado di risanare e conciliare questa scissione è per Hegel la filosofia, che infatti contiene e supera entrambi gli ambiti, e cioè sia interiorità che ragione.

Per il nostro tema, però, ancora più interessante è la disamina di un contemporaneo di Hagel, Schleiermacher, il quale, assumendo per buona una diagnosi per molti versi analoga, perveniva a trovare una riconciliazione tra questi due ambiti non nella filosofia, ma in un nuovo concetto di religione.

Vale allora la pena provare brevemente ad attualizzare la sua analisi, perché ci pare che oggi possa essere ancora di qualche utilità.

Che cos’è infatti la religione? Schleiermacher dà al proposito una duplice risposta: da un lato, essa è l’intuizione immediata dell’Universo, cioè di una realtà immensa che sovrasta e trascende la finitezza dell’uomo: dall’altro, è il sentimento, che l’uomo avverte nella sua coscienza, di una dipendenza assoluta da questa realtà trascendente, per cui l’uomo, che con la sua sola ragione non riesce ad afferrare e comprendere quella Trascendenza, può però "sentirla", percepirla e intuirla come intimamente presente nell’intimo della propria coscienza.

In questo modo, per esemplificare il tu

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:54

MEDIA: "Contro la guerra senza se e senza ma"

 MEDIA

"Contro la guerra senza se e senza ma"

"Contro la guerra senza se e senza ma"

(Articolo di Cristina Beffa su "Famiglia Oggi" 3/2003 pp.68-72)

report a cura di SIMONA CUDINI - Psicologa

La decisione della RAI di non mandare in oda la diretta della manifestazione pacifista organizzata a Roma dal Social Forum il 15 febbraio "contro la guerra senza se e senza ma", è uno degli episodi recenti che , da un lato dimostra quanto la televisione abbia il potere rifiltrare e censurare la realtà (semplicemente non facendola apparire o dandole un’attenzione maggiore o minore, in questo caso a secondo delle richieste del governo), dall’altra testimonia la qualità del servizio pubblico televisivo, sempre più asservito a interessi di parte.

Contemporaneamente il CENSIS (centro studi investimenti sociali) nel suo ultimo rapporto, sottolinea l’importanza dei media nella vita culturale e politica del nostro Paese, e invita a non sottovalutare gli effetti, soprattutto della televisione, unica fonte di informazione e crescita culturale per un largo strato della popolazione, composto prevalentemente da persone a bassa scolarità. Snobbare e demonizzare la televisione non aiuta quindi ad arginare un fenomeno che, se pur criticabile per la bassa a qualità del prodotto offerto, ha però una penetrazione praticamente totale nella nostra società, e quindi non può essere ignorata: il suo potere va però contrastato affiancandole altri media capaci di integrare sia l’aspetto informativo che quello culturale. La televisione, ormai, ha perso la possibilità di istruire, creare opinioni attraverso il confronto e il dibattito: con l’avvento delle televisioni commerciali l’obiettivo, anche della tv pubblica, si è spostato sul piano della vendita degli spazi pubblicitari, che implica la necessità di catturare l’attenzione di un pubblico più vasto possibile con programmi di intrattenimento in una competizione dove qualità dei programmi e quantità di ascolti sembrano essere irrimediabilmente antitetici. Il compito di accrescere e vagliare le informazione, e da queste crearsi delle opinioni, diventa quindi responsabilità di altri media, e in primo luogo della stampa quotidiana e dei libri. Se infatti internet e i canali informativi ad essa collegati permettono di acquisire in tempi brevissimi un’enorme mole di informazioni, solo la lettura, come sostiene Umberto Eco, dà la "possibilità di filtrare l’infinità di informazioni che oggi ci arrivano…soltanto grazie ai libri ognuno di noi avrà strumenti per scegliere e crearsi una propria identità culturale" (Corriere della Sera, 31 gennaio 2003). La lettura però, ancora oggi, appare appannaggio delle classi sociali a più alto livello di istruzione, sia fra gli adulti che fra i giovani: necessitano quindi delle azioni che avvicinino maggiormente tutti gli strati sociali a queste fonti di sapere, alternative all’omologazione di pensiero che la televisione, nel nostro Paese più che in altri, persegue come strumento di consenso e di controllo sociale.

Simona Cudini

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:51

La violenza dell'ingiustizia - Ettore Masina -

 La violenza dell’ingiustizia

· È possibile definire "civiltà" un mondo in cui i diritti umani vengono sempre più scandalosamente calpestati e negati? · Scelte planetarie sbagliate e fonte di infelicità per tutti · Un orizzonte che si fa sempre più oscuro anche per la società del benessere · È necessario cambiare… ma serve coraggio!

Prima Parte

Un miliardo e 200 milioni di persone nostre contemporanee non dispongono di un dollaro al giorno: cioè non possono nutrirsi a sufficienza, non possono curarsi adeguatamente, sono analfabete. Nel cinquantesimo anniversario della solenne Dichiarazione dei diritti umani proclamata dalle Nazioni Unite, queste creature, se anche vivessero in nazioni perfettamente democratiche, sarebbero pur sempre inchiodate alla schiavitù di chi non ha forza nè parole per rivendicare il primo e più basilare diritto: quello alla sopravvivenza. È molto bello e assolutamente necessario che vi siano su tutta la terra grandi movimenti popolari contro la pena di morte o attenti alla mancanza di libertà di stampa, di religione, di organizzazione politica e via dicendo in paesi anche geograficamente vicini o che ci sono accanto nella NATO: e anzi questi movimenti andrebbero assai più sostenuti di quanto oggi avvenga; e però, mentre le condanne a morte assommano alla spaventosa cifra di 30 mila casi all'anno, ogni giorno muore un numero anche maggiore di bambini, condannati a morte da denutrizione, polmonite o dissenteria anche se vaccinare un piccino contro le sei principali malattie killer della miseria costa 14 mila lire. È ben giusto - e anzi: doveroso - esprimere solidarietà ai "dissidenti" perseguitati da governi illiberali: ma quale dignità riconosciamo a creature (ne ho viste a migliaia a Bombay, a Hong Kong, a Montevideo e in Brasile) costrette a vivere (cioè ad abitare, a cercare cibo e vestiti) nei grandi mondezzai che contornano le metropoli del cosiddetto Terzo Mondo? Noi che - dice una statistica che riguarda i paesi dell'OCSE. dunque l'arca geografica ed economica della quale facciamo parte - produciamo 500 chili a testa di rifiuti ogni anno: il 20% e più ancora commestibili?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

Seconda Parte

Lo scandalo di una "civiltà"

Ci si vergogna persino a citare queste cifre, tanto sono risapute; e però esse rappresentano lo scandalo di una civiltà nella quale siamo, tutto sommato, bene inseriti, noi, gente del Nord; e questo scandalo che dovrebbe orientare la nostra vita (soprattutto quella di chi crede in un Cristo che ha voluto identificarsi nei poveri e ha annunziato che è sull'amore portato ai poveri che pronuncerà il giudizio dell'Ultimo Giorno) viene invece sospinto ai margini delle riflessioni e dei comportamenti della nostra vita quotidiana: e difatti accettiamo senza obiezione di coscienza (e senza opposizione politica) che economisti di grande nome sostengano che una quota di disoccupazione, di aree sottosviluppate, di "cantoni neri", di immensi gruppi umani considerati "esuberi" sono disgraziatamente "fisiologici", cioè inevitabili (dunque voluti dal Creatore?). Il progresso, l'espansione dei mercati - si spinge a dire più caritatevolmente il Fondo Monetario Internazionale, "potere forte" della politica mondiale sistemerà le cose: in tempi luoghi naturalmente; il che vuol dire che intanto, per generazioni, i poveri continueranno a fiorire. "Avevo fame e tu non mi hai nutrito".

Come sempre? Può darsi; ma è vicenda planetaria che oggi si riveste di responsabilità nuove..

Primo: abbiamo elaborato negli ultimi due secoli consapevolezze sulla dignità dell'uomo, ma le applichiamo, in pratica, soltanto a noi e ai nostri condomini di un'area di privilegi.

Secondo: abbiamo accumulato cognizioni scientifiche che ci consentirebbero di trasformare la Terra in un pianeta sul quale un'umanità solidale potrebbe vivere in serenità; ma preferiamo investire su un progresso che aumenti la nostra ricchezza: non ci sembra ferocemente assurdo che mentre una sonda spaziale corre verso i confini dell'universo e i ricercatori indagano l'infinitamente piccolo vi siano popoli a cui è negato il diritto all'esistenza. Né possiamo dire, come invece si dice, che mancano i mezzi finanziari: con quanto gli Stati Uniti e i loro alleati (italiani compresi) hanno speso nella prima guerra del Golfo (per non parlare della seconda, ormai cronica) si sarebbe potuto redimere la condizione economica di un continente come l'Africa...

Terzo: mai la porzione ricca dell'umanità è stata tanto ricca e le differenze economiche fra popolo e popolo sono state così grandi. Credo che a tutti noi capiti di pensare almeno qualche volta, che accanto alla fame del Sud ci sia, altrettanto triste, una obesità di cose che stravolge ml Nord. Due auto, due o tre televisori per famiglia, elettrodomestici che invece di liberare la donna dai lavori casalinghi le propongono sempre nuovi obiettivi consumistici, "tenute" per il tempo libero che costano milioni e, a guardarle bene, sono del tutto superflue, sussiegosi status-symbols.

E fossimo almeno felici! Ma come esserlo se, volenti o nolenti, ci raggiunge inevitabilmente il pensiero che, mentre in tutta buona fede giuriamo di amare i nostri bambini, permettiamo che essi siano rapinati delle risorse che la natura ha preparato per loro? Quale vita dovranno affrontare nel 2025? Quali condizioni ambientali del globo? Quale acqua, quale ossigeno, quale pace? Nei paesi del Sud è già visibile quale può essere il futuro dei nostri figli. Mi limito alle mie esperienze personali: voli sull'Amazzonia e vedi i pennacchi di fumo di cinquanta, cento incendi che bruciano il polmone verde della Terra per creare nuovi pascoli per le bestie da fast-food; aree che in pochi anni saranno del tutto sterili, e per sempre, voli sull’Africa e per ore non vedi un albero là dove milioni di profughi hanno cercato scampo da guerre sostenute dai nostri mercanti d'armi o dove immensi foreste sono state disboscate da nostri mercanti del legno; in luoghi di addensamenti umani e miserabili, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, vedi i misfatti di un'industria ad altissimi rischi ambientali, i cui stabilimenti, cacciati dalla protesta "verde" europea o nordamericana, sono stati portati là dove è facile corrompere i governanti e schiacciare i sindacati; vi nascono bambini deformi e anche mostruosi o tarati per sempre. E i salari che vi vengono pagati ai lavoratori costituiscono una minaccia non soltanto per la salute loro e delle loro famiglie costrette a vivere in miserabili favelas ma anche per l'occupazione dei lavoratori del Nord: per capirlo basta paragonare il reddito di un metalmeccanico della FIAT italiana con quello di un metalmeccanico della Fiat Betim, a Belo Horizonte, Brasile: dieci volte minore. E ancora: ho visto curare nell'Ogaden, da meravigliosi medici italiani bambini saltati su mine di fabbricazione italiana, imparziabilmente vendute alla Somalia e all'Etiopia quando le due nazioni erano in guerra... Ho letto le statistiche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’uso di pesticidi cancerogeni o castranti nelle grandi piantagioni delle multinazionali; ho visto al lavoro piccoli schiavi che fabbricavano generi di abbigliamento per famose "griffe" italiane.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Terza Parte

Terza Parte

Terza Parte

Un panorama di alienazioni o di sconfitte

Tale è il panorama del Sud della terra, all'inizio del Terzo Millennio cristiano, con l'aggiunta che il sistemi in ciu viviamo genera inevitabilmente sacche di miseria anche nel Nord. Per esempio: in nome di una razionalità che è soltanto astrattamente tale e calunniosa delle reali radici e dimensioni della povertà, si demolisce ovunque io stato sociale; i risultati cominciano a essere inequivocabili. Il panorama che ne consegue - cito da un recente rapporto dell'OECD (Organization for Economie Cooperation and Development) cioè dell'organizzazione che riunisce i 29 paesi più industrializzati del nostro pianeta -. è impressionante. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica della miseria con il 17,1% di cittadini nella condizione di "più che poveri"; al secondo posto c'è l'Italia con il 14,2. Queste percentuali riguardano l'anno 1993 e segnano, per l'Italia, un impressionante aumento del 3,9% nei confronti del decennio precedente. Il trend non è mutato negli anni seguenti secondo i rapporti della Commissione della presidenza del Consiglio dei ministri per la lotta alla miseria.

Ma se si vuole tenere aperti gli occhi davanti alle storture del mondo che il neoliberismo va costruendo per noi e per i nostri figli bisogna contemplare anche fenomeni meno evidenti. Per esempio; Marx denunziò più di cento anni fa le alienazioni prodotte da un lavoro servile cui l'operaio veniva sottoposto senza possibilità di esercitare creatività e di maturare libertà. Oggi le caratteristiche del lavoro sono, dal punto dì vista psichico, psicologico e culturale peggiorate non soltanto perché gli strumenti di difesa dei lavoratori (i sindacati…) sono in crisi di fronte a un progresso tecnologico che taglia drasticamente l'occupazione, non soltanto perché l'organizzazione transnazionale delle maggiori imprese sposta dall'uno all’altro paese, secondo rigidi criteri di guadagno, finanziamenti e occasioni di lavoro. Il fatto è che oggi un prodotto è molto spesso un assemblaggio di parti anche minuscole fabbricate in stabilimenti diversi fra loro: l'operaio (e spesso anche il tecnico) non è in grado di conoscere, tanto meno di comprendere, il progetto per il quale lavora. E la "flessibilità" non accompagnata da un' adeguata cultura finisce per rendere anche più nebulose e minimali le competenze del lavoratore, la sua stessa identità.

Infine (ma soltanto perché lo spazio per questo intervento è quasi esaurito) non si può tacere la questione dell'uomo-oggetto a tutti i livelli, l'uomo-esubero, il cinquantenne prepensionato o posto in cassa integrazione. Il miglioramento delle tecniche mediche gli allunga la vita, il sistema produttivistico e la riduzione del welfare gliel'avvelena.

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove sono finite le speranze?

I giovani guardano e sono spaventati. O, anche, la paura impedisce loro di guardare. È stato pubblicato l'anno scorso il IV Rapporto ASPER, Istituto di formazione e ricerca, e da esso risulta che oltre il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà una società più egoista, più razzista e più violenta di quella di oggi. Quasi il 50% dei giovani pensa che la società prossima futura sarà meno democratica, meno solidaristica, meno allegra di quella d'oggi. A pensare che la società futura possa essere meno razzista, meno egoista, meno illegale, meno violenta di quella di oggi sono soltanto 20 giovani su 100 o anche meno. Lo psicologo Massimo Ammaniti, il quale stilla crisi giovanile ha scritto pagine penetranti, si chiede: "Dove sono finiti i giovani che rifiutano le prospettive del mondo adulto, che contestano una società che non investe sulle nuove generazioni, che sognano mondi e frontiere diverse? È più facile vedere quelli che si tormentano nell'opaca insoddisfazione quotidiana, tempestando il proprio corpo di tatuaggi e orecchini". Che equivale a chiedere: dove sono finite le speranze dei giovani?

Che fare? È possibile cambiare? Io credo di si. Ma il discorso, allora, deve continuare coraggiosamente. Ci ricordiamo ancora che lo sviluppo della Creazione ci è stato affidato?

Ettore Masina

Giornalista ¡ Roma

Da "Famiglia domani" 3/99

 NUOVI PERCORSI E POSSIBILITÀ DIDATTICHE

GIOVANI CONSAPEVOLI

GIOVANI CONSAPEVOLI

Riuniti a Napoli gli alunni di alcune scuole campane hanno ascoltato gli esperti e presentato i loro lavori relativi alla bioetica. Ne è emersa l’importanza di questo tema nella vita di ciascuno e la necessità di farne materia di studio.

"Bioetica e intercultura": con questo tema l'istituto italiano dì Bioetica Campania - costituito a Napoli nel 1994 come sezione dell'istituto italiano di Bioetica fondato a Genova e di cui è direttore scientifico Luisella Battaglia - ha inaugurato il primo "Convegno regionale di bioetica per la scuola" che si è tenuto il 6 novembre scorso nell'aula Romolo Cerra dell'istituto nazionale tumori di Napoli.

Centottanta i partecipanti tra alunni e docenti provenienti dal liceo classico "Umberto I" di Napoli. dall'Iti "Giordani" di Napoli, dal Liceo psico-socio-pedagogico "Lorenzo Valla" di Castellammare di Stabia (Napoli), dal Liceo scientifico di san Giorgio a Cremano (Napoli), dal Liceo scientifico "Amaldi" di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dal Liceo "Medi" di san Bartolomeo in Galdo (Benevento). Si tratta di istituti che, prevalentemente, hanno già avuto scambi e collaborazioni con l'istituto di Bioetica Campania, che hanno lavorato, e tuttora lavorano, a progetti educativi sui temi della bioetica e che, in questa occasione, hanno presentato le risultanze di particolari itinerari tracciati all'interno dei curricula scolastici: prodotti culturali, che i ragazzi hanno illustrato servendosi degli strumenti offerti dalle tecnologie multimediali anche con l'intento di entrare in rete con altre scuole, creare momenti di dibattito critico e di approfondimento e allargare, così, il confronto su tali problematiche. Va, in questo senso, segnalata l'iniziativa degli studenti del Liceo scientifico di S. Giorgio a Cremano, che hanno realizzato un cd-rom dal titolo "Bioetica... verso nuovi orizzonti": quella, cioè, di costituire un gruppo di studio stabile, una sorta di osservatorio, che segua gli sviluppi, le evoluzioni delle questioni bioetiche, ma che poi, attraverso i percorsi rivolti immediatamente alla conoscenza dei progressi scientifici e sui più o meno comprensibili e accettabili avanzamenti della scienza e della medicina, abbia come obiettivo la crescita personale, l'arricchimento di sé come persona, la visione di sé stessi come individui in cammino e in evoluzione, come esseri umani globali consapevoli dei propri diritti, della propria dignità e libertà di determinazione.

Quattro temi a confronto

Nella prima parte della giornata, i ragazzi sono stati coinvolti a partecipare, sulla spinta del lavoro fatto a scuola e/o sulla base dei propri interessi, a quattro tavoli di dibattito e confronto: bioetica e intercultura; bioetica di inizio vita e fecondazione assistita; bioetica di fine vita e rapporto medico-paziente; bioetica, ambiente, biotecnologie. Nella seconda parte, invece, hanno avuto spazio le sintesi degli studenti sulle conclusioni della discussione orientata nell'ambito dei forum e sulle attività svolte nelle scuole, che hanno trovato nel convegno uno spazio più ampio per essere comunicate al le altre collettività scolastiche intervenute. Il primo dato emerso in tutta evidenza è l'interesse vivo dei giovani partecipanti al convegno per i temi bioetici, dibattuti con sincero coinvolgimento e coscienza della loro stessa problematicità dai ragazzi portatori di un proprio personale quadro di valori di riferimento e di un forte senso della vita. Nella consapevolezza di trovarsi su un terreno complesso, spinoso, spesso drammatico, gli studenti hanno parlato con disinvoltura di temi come la fecondazione assistita, l'eutanasia, il malato terminale e la terapia del dolore, il consenso informato, l'accanimento terapeutico e il testamento biologico, la clonazione, l'embrione e le cellule staminali, gli organismi geneticamente modificati.

Dietro i temi portati ormai quotidianamente dai media nelle case e nelle famiglie, sono anche emerse le grandi questioni che sottendono ai casi pratici della bioetica, le grandi domande, i grandi enigmi. Stiamo parlando di cultura e rappresentazione della vita e cultura della morte; nascita e fine dell'esistenza terrena; rapporto tra individuo e società, tra norma etica e norma giuridica; diritti dell’uomo, solidarietà e cura a fronte di economia, finanza, mercato; qualità della vita e mera sopravvivenza, diritto alla diversità e all'identità biologica, globalizzazione ed eugenetica.

La giornata si è conclusa con una relazione sul tema "La bioetica nelle scuole: percorsi e possibilità didattiche" tenuta da Antonio Ianniello, (docente di Filosofia delle religioni dell'istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli) e Carmine Matarazzo (docente di Filosofia delta Facoltà teologica dell'Italia meridionale "Sezione san Tommaso d'Aquino" di Napoli), che hanno organizzato i loro interventi su una griglia di problematiche.

Un percorso produttivo

Ianniello e Matarazzo hanno toccato questioni generali, come la bioetica a scuola, l'organizzazione scolastica e la formazione degli insegnanti, i percorsi didattici e questioni particolari, sui "nuclei fondanti" della bioetica tra curricoli e discipline, offrendo spunti di riflessione per una didattica della bioetica e per la costruzione di percorsi formativi che ricostruiscano la storia stessa della bioetica, che documentino le varie posizioni e impostazioni di pensiero, che, tenendo conto dei contesti problematici e dei nuclei fondanti, superino il riferimento, troppo spesso, generico al tema.

"A scuola bisogna parlare di bioetica come unità tematica, prescindendo dalla programmazione lineare - ha sostenuto in particolare Antonio Ianniello-. Nel gruppo di docenti c'è, in fatti, bisogno dell'idea di una programmazione reticolare, ossia di un progetto, dell'individuazione, all'interno del gruppo che programma, di un modulo di ricerca che attraversi ogni disciplina, al di là di quella che può essere la scelta del singolo docente a focalizzare dei nodi concettuali per poi svilupparli nell'ambito della propria materia".

Di bioetica a scuola si deve, dunque, parlare in un contesto multidisciplinare puntando alla "praticabilità di un percorso di studio produttivo", non meramente teorico e organizzato esclusivamente sulla relazione frontale, ma creativo e partecipativo, nell'impostazione e nei contenuti.

È necessario un percorso che evidenzi opportunamente le convergenze delle singole materie sull'argomento (programmazione reticolare) e offra "un panorama di informazioni e di collegamenti ed una pluralità di prospettive di studio".

Clotilde Punzo

Da "Famiglia oggi" 3/2003

Giovedì, 30 Dicembre 2004 20:34

LA CONDIZIONE GIOVANILE IN EUROPA

LA CONDIZIONE GIOVANILE IN EUROPA

Istruzioni, lavoro, benessere, salute, valori, partecipazione politica sono alcuni dei temi presentati l’11 dicembre 2002 a Milano in un convegno organizzato da Assolombarda e dallo Iard dal titolo: "I giovani in Europa: dal Libro bianco alle politiche locali".

La pubblicazione del Libro bianco sui giovani dell'Unione europea, ha preso le mosse dalla precedente ricerca transnazionale dell'Istituto di ricerca Iard sulla condizione giovanile e sulle politiche che alcuni Paesi europei hanno elaborato nei loro confronti. Questo studio ha visto coinvolti 18 Paesi europei e ha fornito importanti linee guida per definire e attuare nuove politiche sociali a favore dei giovani.

La permanenza dei giovani nei canali educativi è sempre più lunga e sempre minore è la percentuale di coloro che lasciano precocemente la scuola. L'interconnessione tra l'età giovanile e lo status di studente è talmente forte che quando le due condizioni non convergono, questo viene ritenuto problematico. Anche se la maggior parte dei Paesi ha attuato riforme per aumentare la frequenza scolastica, vi sono notevoli differenze nei modelli formativi, nella partecipazione, nelle opportunità e nei risultati educativi (la scuola dell'obbligò ha un'età variabile dai 14 ai 18 anni e variabili sono anche il tasso per l'istruzione secondaria superiore: 70%-100%). Questo innalzamento dell'età di istruzione ha prodotto una riduzione del numero dei giovani nella coorte dei lavoratori, provocando la necessità di integrare il percorso formativo sempre più qualificato con l'esigenza di anticipare l'ingresso nel mondo del lavoro.

Gli "imperativi" individuati per l'attuazione di una politica educativa che possa ridurre le disuguaglianze sociali, sono diversi. Il primo consiste nel limitare l'uscita precoce dalla scuola e i comportamenti dei giovani che impediscono il conseguimento di qualifiche formative di base; infatti, mai come oggi, i giovani con bassa istruzione sono ad alto rischio di disoccupazione. Il secondo è incoraggiare nei giovani l'acquisizione di competenze avanzate; il terzo è migliorare la relazione tra credenziali educative e opportunità del mercato del lavoro, mediante un forte legame tra istruzione e lavoro, ripensando la scuola e i percorsi formativi.

Avere buone opportunità di occupazione, è un aspetto indispensabile per la transizione all'età adulta ma, negli ultimi vent'anni, la condizione lavorativa ha subito un peggioramento: i tassi di occupazione dei giovani di 15-24 anni sono mollo più bassi mentre aumentano quelli della disoccupazione dei giovani tra 15-24, rispetto ai 25-64 anni; se, infatti, nel 2000 il tasso di disoccupazione nei Paesi europei era dell'8,4%, quello dei giovani al di sotto dei 25 anni era del 16,1%. Nei Paesi mediterranei, e soprattutto in Italia, le credenziali educative hanno una minore rilevanza nel determinare la rapidità nel trovare la prima occupazione; avere delle buone qualifiche non garantisce infatti un'occupazione. È aumentata tra i giovani la percentuale di quelli che lavorano con contratti atipici (contratti formazione lavoro, lavoro interinale), e i loro guadagni all'inizio di carriera stanno sempre più diminuendo, rispetto agli adulti.

Le disuguaglianze intergenerazionali, sempre più manifeste, rendono più fragile la solidarietà facendo diventare i giovani sempre meno disponibili a favorire l'integrazione sociale e il benessere delle generazioni precedenti.

Tra le misure attuate per aumentare i tassi di occupazione giovanile c'è la riduzione del costo del lavoro, il sostegno all'auto-imprenditorialità promuovendo corsi per sviluppare le capacità imprenditoriali e fornendo prestiti agevolati per iniziare le attività di produzione. Rendere più agevole la transizione scuola-lavoro è un altro obiettivo non trascurabile.

È utile rilevare che la fonte principale di reddito per i giovani è diversa nei differenti Paesi europei. In Austria, Germania, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca e Regno Unito, il mercato del lavoro rappresenta la fonte più importante di reddito per i giovani, mentre in Belgio, Spagna, Grecia e Italia, è la famiglia la fonte economica principale. Questa spaccatura può essere ricondotta ai diversi modelli di formazione delle nuove famiglie. Infatti in Spagna, Italia e Grecia è più probabile che i giovani vivano all'interno della fa miglia d'origine, visto che è il matrimonio l'occasione per costruire una nuova famiglia. Nei Paesi protestanti del Nord Europa, invece, lasciare la famiglia d’origine è considerato un aspetto fisiologico della transizione all'età adulta.

Quello che accomuna tutti i Paesi europei è la diminuzione del tasso di fertilità che vede nella Spagna e nell'Italia i Paesi dove questo decremento è particolarmente accentuato. Per quanto riguarda i valori, si delinea la tendenza dei giovani a essere più interessati a valori che riguardano la qualità della vita piuttosto che quelli legati al benessere economico. La famiglia è considerata importante dalla maggior parte dei giovani; il lavoro è più importante in Norvegia, Regno Unito, Irlanda e Italia e meno importante in Finlandia e Germania; gli amici, infine, sono importanti nei Paesi dove i giovani godono maggiore indipendenza dalla famiglia (Svezia, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi).

Per affrontare il problema del calo della natalità risulta decisivo fornire un sostegno ai nuovi nuclei familiari, incentivando le nascite e tutelando le giovani madri.

Emanuela di Gesù

Da "Famiglia oggi" 2/2003