Famiglia Giovani Anziani

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Domenica, 20 Febbraio 2005 17:14

Fecondità fuori tempo massimo

Fecondità fuori tempo massimo

Oggi nella classifica, tristissima, degli
interessi prevalenti di tante giovani coppie compaiono troppo spesso
carrierismo esasperato, viaggi esotici e divertimento esclusivo. Fino
ai quarant’anni ormai non si pensa quasi ad altro. Poi, quando
l’orologio biologico manda i suoi misteriosi avvertimenti, ecco
rispuntare la voglia di avere un figlio.

Senza un progetto di fecondità una coppia si avvia
ad arenarsi nelle secche dei miseri orizzonti quotidiani, rischiando di
fallire. Così ecco rispuntare l’immagine di quel bambino a lungo
rimossa per lasciare spazio ad "altro". Ma, in qualche caso, si tratta
di un auspicio fuori tempo massimo perché, a una certa età, anche
qualche meccanismo biologico comincia a risultare meno efficiente. E
poi ci sono il peso dello stress, gli effetti negativi di una vita
spesso sregolata, ecc. Non c’è da stupirsi allora se cresce il numero
delle coppie sterili.

La soluzione è facile: basta rivolgersi agli
apprendisti stregoni della provetta, sborsare qualche milione, e tutto
si risolve. Tanto la logica è quella dell’efficientismo, del risultato
ad ogni costo, dell’interesse personale che annulla qualsiasi
considerazione etica.

Ma come si può pensare che un figlio ad ogni costo e
comunque ottenuto, possa risolvere i problemi di identità di una
famiglia dove, troppo a lungo, la capacità di donare è stata lasciata
in un secondo

piano?

"GRUPPI FAMIGLIA" n° 41 /dicembre 2001

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:13

Il permissivismo inopportuno - Parte 2

 EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Seconda parte)

Naturalmente è sempre possibile esprimere un
giudizio antitetico ai molti che vengono espressi in senso negativo nei
confronti del "permissivismo", a cominciare da certi fatali confronti
con il passato, ad esempio con l’educazione impartita a suon di
cinghiate paterne, che spesso otteneva l’effetto contrario. Freud ci ha
spiegato l’origine di tante nevrosi e di tanti disturbi psichici con i
ricordi di infanzie trascorse nel terrore di stanze buie comminate per
punizione, e il complesso di Edipo non è stato scoperto ieri mattina.
Anche se il dottor Spok non avesse concorso a mettere al mondo almeno
due generazioni di disadattati e impreparati alle difficoltà della vita
con l’invito ai genitori a farsi amici dei loro figli, abdicando
praticamente ai loro doveri di educatori, il proibizionismo non è mai
stato un efficace antidoto al permissivismo.

Il difficile è trovare la via di mezzo. L’esperienza
degli altri, degli stessi genitori e nonni, aiuta, ma non del tutto. I
luoghi comuni spesso ingannano, come è nella loro natura. Chi dice che
i bambini caratterialmente più inclini a irrigidirsi di fronte a
qualsiasi ostacolo sono i figli unici, ai quali troppo facilmente "si
concede tutto", fino a viziarli, non ha mai assistito a certe furiose
liti tra fratelli e sorelle, segnali originari di gelosia destinate a
durare tutta la vita, ben oltre la morte dei genitori che senza volerlo
le hanno suscitate con i loro comportamenti, con le loro vere o
presunte preferenze. Ma detto questo, è pur vero che la socializzazione
è una componente essenziale nella formazione di adulti responsabili.

La misura utile e necessaria è frutto di un
difficile esercizio di diverse virtù incrociate fra loro: la prudenza
nel concedere e nel negare, la fortezza nel mantenere certe decisioni
che si sanno giuste, la comprensione di momenti particolari nella
crescita dei caratteri e delle intelligenze, la pazienza nel sopportare
pianti e capricci senza abbandonarsi all’ira, il coraggio certe volte
indispensabile per dire i "no", evitando di farli apparire immotivati e
soltanto punitivi. E la temperanza, utile a far capire che certi
oggetti del desiderio sono in realtà spese inutili, che offendono la
povertà della maggioranza delle persone e mortificano la consapevolezza
della dannosità individuale e sociale dello spreco. Anche se sullo
spreco è fondata gran parte della società moderna occidentale.

Tipico è il caso della sovrabbondanza di giocattoli
con cui molti bambini vengono illusi sul loro steso futuro: la vita non
sarà mai altrettanto generosa. Del resto, basta osservarli proprio
mentre giocano: bambole, automobiline, giochini elettronici, simil
computer, ministrumenti musicali, libri oggetto scomponibili, tutto un
micromondo che viene rapidamente a noia, buttato alla rinfusa in un
angolo, ma nello stesso tempo occasione di litigi furibondi tra
fratelli o compagni di gioco perché uno vuole esattamente quello che ha
in quel momento in mano l’altro.

Ma nel giudizio complessivo e finale sul
permissivismo ci sembra che sia inconfutabile un argomento: il genitore
permissivo, pur pensandoci comprensivo e premuroso nel non far mancare
nulla al suo tesoro, è molto spesso soltanto un genitore indifferente,
che non vuole fastidi, che delega ad altri la parte fondamentale dei
suoi doveri: l’educazione dei figli. Fino al punto da negare talvolta
clamorosamente anche agli insegnanti il diritto a esercitare il loro
mestiere con la necessaria severità: il bambino "ha sempre ragione".

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:12

Il permissivismo inopportuno - Parte 1

EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Prima parte)

Come ci ricorda il filosofo spagnolo Fernando Savater nel libro A mia madre mia prima maestra,
"Kant dice che uno dei primi e nient’affatto trascurabili risultati
della scuola è insegnare ai bambini a rimanere seduti, cosa che, in
effetti, non fanno mai volontariamente a lungo, se non quando si
racconta loro una bella storia (è chiaro che al tempo di Kant non c’era
ancora la televisione…). In una parola, non si può educare il bambino
senza contrariarlo, in un modo o in un altro. Per poter illuminare il
suo spirito bisogna prima formarne la volontà, e questo è sempre
piuttosto doloroso".

Possiamo dirlo in tanti modi: "Non bisogna farlo
piangere"; "piuttosto che faccia un capriccio…"; "prima che cominci a
odiarmi"; "quel giocattolo ce l’hanno tutti" e così via, elencando gli
atteggiamenti che consideriamo nel termine del "permissivismo".
Tuttavia proprio il permissivismo viene sempre più spesso portato al
centro delle discussioni che riguardano l’educazione dei bambini in un
mondo che nel prevedibile futuro chiederà loro, diventati adulti, ben
altra preparazione alla vita di quella richiesta da alcuni decenni
nella cosiddetta civiltà dei consumi.

Da alcune inchieste a raggio internazionale
risulterebbe che i bambini e gli adolescenti italiani sono i peggio
educati di tutto l’Occidente. Ciò avverrebbe anche a causa di un
sistema televisivo nazionale che lungi dal concorrere a educarli,
costringendoli a stare seduti come chiedeva Kant, "propina cartoni
animati o telefilm di qualità mediocre, spesso infima, che inducono gli
scolari a sprecare tante ore della giornata. Domina l’attrazione
morbosa d’ogni trivialità o spettacolare violenza". Ben detto: è
l’esatta descrizione di molti spettacoli televisivi e di molte
videocassette destinate al pubblico infantile, che già a tre-quattro
anni è in grado di proiettarsi da solo, in assenza di adulti o nella
loro più completa indifferenza (quando non con l’esplicita
approvazione, "pur che stiano tranquilli e non diano fastidio").

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:11

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

La domanda di liberazione dai conflitti non dovrebbe
contenere quella della liberazione dalla conflittualità della vita
stessa, ossia dalla sana tensione inerente alla polifonia della forma
umana dell'esistere. Se, dunque, marito e moglie litigano perché non
sono d'accordo su una serie di decisioni pratiche da prendere, fanno
bene a farsi aiutare per individuare le forze psicologiche in atto
nella contesa: capire ad esempio che il litigio rientra nel loro stile
relazionale di lotta per il potere, per cui nelle decisioni concrete
ognuno, a turno, tende a dominare l'altro o a fare resistenza passiva
per non essere dominato.

Giustamente devono pretendere di essere aiutati a trovare processi
comunicativi più maturi per contenere e superare non solo l'episodio,
ma lo stile di lotta. Ma per non cadere in false aspettative, devono
riconoscere che quel conflitto , anche se superato positivamente,
ricorda la non superabile ambivalenza della relazione d'amore che deve
conciliare il desiderio di incontrarsi e la voglia di conservarsi,
l'amore per l'altro e l'amore per se stessi. Il conflitto di
dominazione /passività va risolto, ma quello ontologico
sull'ambivalenza dell'amore maturo va accettato. Il che significa che
l'amore umano non è quello delle bestie né quello degli angeli, ma,
semplicemente, umano, fatto di sublimi altezze e infime cadute.
Polifonico, appunto.

A un livello immediato è il conflitto caratteriologico a farci paura
("non voglio più lottare con mia moglie"), ma a un livello più radicale
è il mistero dell'amore umano a farci problema ("non voglio provare la
polifonia dell'amore"). Preferiamo ridurre la vita al suo polo sublime
("voglio amare come un angelo!") e se quello umiliante si affaccia,
diciamo che la vita si è spenta ("le voglio bene , ma non l'amo più"),
anziché a questo polo togliere il suo pungiglione di morte e lasciarlo
come parte di un vivere finalmente realista. I temi universali come
intimità, benessere comunicazione, identità sono stati resi patologici
dalla fantasia distruttiva che la vita debba essere sempre indolore.

Alessandro Manenti

(Famiglia Oggi n° 3/2002)

PSICOTERAPIA E MATRIMONI IN DIFFICOLTÀ

"I dubbi sollevati dalla Chiesa"


La Chiesa ha sempre ritenuto uno dei suoi
compiti primari la cura del matrimonio e della famiglia, anche, sia
pure non solo, per il loro valore religioso altamente simbolico. La
famiglia, infatti; è fondata sul sacramento del matrimonio, il quale
rimanda intrinsecamente al rapporto tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef
5,2l ss). Il matrimonio, in tutta la sua realtà anche umana, non è che
un simbolo, la cui verità è il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa. In
questo rapporto archetipale tra Cristo e la Chiesa il cristiano trova
il modello di ogni amore matrimoniale. "mariti amate le vostre mogli,
come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per Lei" (Ef 5,25).

Inoltre, la Chiesa individua nel matrimonio e nella
famiglia uno dei luoghi principali della formazione umana e cristiana
nella persona, formazione che è diritto-dovere proprio di ogni famiglia
nei confronti dei suoi membri. Recentemente la ricchezza della dottrina
e della pastorale della Chiesa in questo ambito è stata ripresa, in
maniera piu organica di quanto non sia mai stato fatto nel passato
nell'esortazione apostolica Familiaris consortio (22 novembre 1981).

È interessante notare che nella parte pastorale dì
questo documento non viene mai fatto cenno al contributo che la
psicoterapia potrebbe dare alla famiglia, contributo che sarebbe molto
importante almeno di fronte alle tante difficoltà relazionali che oggi
si manifestano e alle crisi matrimoniali che segnano il mondo
occidentale. Ci appare sorprendente, dal momento che a un primo
approccio sembrerebbe di dover dire che sia la pastorale della Chiesa
sia la psicoterapia trovano un punto di incontro nell'aiuto alla coppia
in difficoltà nella ricerca di una buona riuscita umana del matrimonio
e della famiglia. Evidentemente si scontano anche in ambito pastorale
le problematiche generali di un rapporto tra la Chiesa e la psicologia
/ psicoterapia che non sempre è stato facile. Alcuni chiarimenti sono
avvenuti soprattutto nei confronti della psico1ogia ma qualche
difficoltà rimane per la psicoterapia.

c.b. (Famiglia Oggi n° 3/2002)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:08

I CONFLITTI DI LEALTÀ TRA LE GENERAZIONI

I CONFLITTI DI LEALTÀ TRA LE GENERAZIONI

Ogni famiglia riceve un lascito dalle famiglie
d'origine dei coniugi: ciascuno di noi è stato figlio a sua volta, e
non può non sentire una qualche forma di devozione verso i propri
genitori (e la loro linea di discendenza). Ognuno, allora, deve vivere
in un difficile equilibrio fra l'appartenenza alla famiglia d'origine e
quella al nuovo nucleo. Ovviamente, la lealtà verso la famiglia in
qualche modo contrasta l'individuazione dei singoli familiari,
intrecciandosi ai problemi di differenziazione. La fedeltà alla
famiglia d'origine può assumere molte forme, e arrivare a vertici
insospettabili. A ben vedere, la vita familiare nelle generazioni ha
sempre a che fare con obblighi che vanno ben oltre quelli fra le
persone fisicamente presenti. E quel che vale per gli obblighi e le
lealtà, vale anche per le ambivalenze e le recriminazioni, che possono
risalire nelle generazioni più di quanto si pensi.

I conflitti di lealtà, per farla breve, sono
pressoché inevitabili. Per tanti si risolvono senza postumi di rilievo;
ma per qualcuno possono avere conseguenze a lungo termine, facilitare
dissidi senza fine nelle coppie e trasformarsi, per i figli, in
drammatiche ambivalenze. D'altra parte, se si mantiene un senso molto
forte, incontrastato, di appartenenza alla famiglia d'origine, può
risultare difficile aderire pienamente a quella nuova.

Per questo, spesso il lavoro intergenerazionale può
essere una necessità per il terapeuta della famiglia. Prendere in esame
- e a volte invitare anche in sala di terapia - le generazioni offre
una serie di vantaggi: mostra le radici e il senso di eventi, intrecci
ed emozioni altrimenti inspiegabili; allo stesso tempo, rende certi
comportamenti "disfunzionali", meno patologici (una prospettiva storica
impedisce di patologizzare i comportamenti).

Rispetto alla semplice evocazione delle famiglie
d'origine, la convocazione diretta in seduta di nonni e nonne,
l'interazione diretta delle tre generazioni, ha il vantaggio di
confrontare ciascuno non soltanto con genitori o figli interiorizzati,
ma con quelli che sono i genitori e figli nel "qui e ora", favorendo un
riequilibrio dei rapporti intergenerazionali

p.b.

(Famiglia Oggi n° 3/2002)

Solitudine... in famiglia ... subita... ricercata per conoscersi meglio

Ci sono diversi modi di intendere e di
vivere la solitudine: essa può derivare da esperienze di emarginazione
familiare e sociale, o può essere ricercata e vissuta come momento di
riflessione e di crescita individuale. La solitudine, di per sé, non ha
quindi un’accezione positiva né negativa. Essere soli può però
costituire un peso qualora non derivi da una scelta personale. Sul
piano sociale, sono numerosi gli esempi di questa solitudine "subita",
che sempre più frequentemente si verifica anche all’interno della
famiglia.

Nella società attuale i bambini trascorrono spesso
troppo tempo da soli, privi della compagnia di fratellini e coetanei,
aspettando il rientro di genitori che, oberati dal troppo lavoro, a
volte non trovano neppure il tempo di parlare, di giocare con i propri
figli. Nel contempo gli anziani, pur vivendo in famiglia, possono
avvertire l’isolamento che deriva dal mancato riconoscimento della loro
funzione sociale, o da un bisogno di comunicazione che non sempre trova
soddisfazione negli altri membri della famiglia, producendo
emarginazione e frustrazione.

Ovviamente, sono i soggetti più deboli sul piano
socio-economico ad avvertire in maniera più incisiva il problema della
solitudine.

Se dunque è vero che questa tipologia di solitudine
va indagata perché ad essa si trovino delle risposte adeguate, è pur
vero che esistono altri modi di vivere la solitudine. L’isolamento può
essere infatti vissuto in maniera creativa, allorché è frutto di una
scelta che l’individuo persegue per ricavarsi uno spazio di riflessione
in cui ritrovare la propria soggettività al di fuori del caos
quotidiano. In questa accezione, la solitudine costituisce un momento
positivo, un fattore benefico di arricchimento che ci porta a
riappropriarci di una dimensione di tranquillità interiore che nel
mondo di oggi siamo indotti a trascurare con sempre maggiore facilità.

Prof. Maurizio Andolfi

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:03

La festa nuziale - Luigi Ghia - 4a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Quarta parte

ALCUNE DOMANDE, PER CONCLUDERE

Viene spontaneo collegare la festa,
"questa" festa che abbiamo tentato dì delineare in modo così
imperfetto, alla giovinezza della vita. Rifiutandone però ogni
retorica. Sapendo che l'ideale sarebbe una festa capace di disvelare il
volto segreto dell'altro, ma rifiutando nel contempo ogni illusione:
nel nostro mondo, attorno a noi, forse nella nostra stessa famiglia, ci
sono persone ripiegate su se stesse che non hanno mai sperimentato la
festa. Fa festa chi è, o chi si sente, giovane. Rifiuta la festa chi è,
o indipendentemente dall'anagrafe, si sente vecchio. Purtroppo sono
molti i giovani che rifiutano di "fare festa". Sotto molti coloro che
non accettano più di sorridere, che si chiudono nel mutismo, che cedono
alla depressione, che hanno paura della aldilà. E a questo punto ci
poniamo alcune domande inquietanti. Il mondo secolarizzato è un mondo
felice? La dinamica e la comunicazione dell'esperienza religiosa
trasmettono gioia o stanchezza? Apertura o chiusura? Senso o non senso?
La nostra "vecchia" Chiesa conserva ancora quel cuore umile e povero
per saper sorridere, con quello stesso riso di Sara che aveva sì il
seno avvizzito, ma il cuore giovane? In questa Chiesa è lo scambio
paritario e gioioso della relazione autentica di coppia a rappresentare
il paradigma del reciproco rapportarsi, oppure ad imporsi è il modello
autoritario, fondamentalista, clericale, pessimista? Ed ancora:
sappiamo cogliere e valorizzare quel religioso che è in noi e negli
altri, come struttura autonoma della coscienza, indipendentemente dalla
nostra e altrui collocazione nelle chiese o al di fuori di esse? La
ricerca di un senso all'esistere può essere vissuto nell'orizzonte
della gioia e della libertà? E infine: che fare perché questa festa -
non questa gabbia, questa condanna, questa attenzione ossessiva al
dato, alla casistica, ma questa festa sempre nuova sempre rinnovatrice
- diventi lieto annuncio, regno, beatitudine, fiducia, speranza,
missione, dono che rivela finalmente l'ineffabile volto di Dio?

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Domenica, 20 Febbraio 2005 17:02

La festa nuziale - Luigi Ghia - 3a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Terza parte

LA GIOIA

Nella nostra società, complessa e densa
di problemi, non si sa più gioire. La gioia pare esiliata non solo
dalla nostra vita personale, ma anche a livello sociale ed ecclesiale.
Questo sospetto nei confronti della gioia, sicuramente non di origine
biblica, alimentato anche da teologi e da maestri di spiritualità (non
ne possono essere considerati immuni né S. Agostino né S. Tommaso), ha
poi trovato nella prassi quotidiana di molti cristiani ulteriori
conferme: fino al limite estremo di indurli talvolta a considerare non
solo disdicevole la gioia (nei rapporti amicali, nel mangiare e nel
bere, nell'attività sessuale) ma addirittura a rimuoverla
scaramanticamente, considerandola come segnale di future disgrazie. Non
è raro ancor oggi trovare persone che vivono nel timore che ad un
momento di gioia debbano necessariamente seguire disgrazie, eventi
catastrofici, episodi drammatici e situazioni dolorose. Soprattutto le
persone più anziane conservano spesso nella loro memoria e nel loro
cuore l'eco angosciante di quelle pagine dell'Imitazione di Cristo,
consigliate da maestri e "direttori" spirituali, che proclamavano la
vanità e la turpitudine delle gioie terrestri, dimenticando che il
Vangelo è per definizione "la buona notizia", e che Gesù stesso auspica
ed augura che la nostra gioia sia "piena" (cf Gv 15.10ss). Dunque senza
limitazioni. Non è forse quella "buona notizia" che fa annunciare ai
pastori da parte dell'angelo "una grande gioia" (Lc 2, 10), e Maria, la madre del Signore, non aveva forse confessato alla cugina Elisabetta che "il mio spirito esulta in Dio, ozio liberatore" (Lc 1,47)?

La gioia è un atteggiamento di tutta la persona: non
si può gioire "spiritualmente", e poi vivere "immusoniti" nella vita
quotidiana, incapaci di cogliere anche nelle piccole cose,
nell'incontro con gli amici e i parenti, nello scambio fraterno di
esperienze e di emozioni, nell'allegria conviviale, i motivi di
felicità e di gioia. Ben sintetizza questo concetto Dietrich Bonhoeffer
quando, sottolineando l'idea a lui teologicamente cara della gioia,
collega l'amore per le realtà terrestri con l'eternità, affermando che
solo chi ama la terra desidera che sia eterna. Scrivendo all'amico
Eberhard Bethge, afferma infatti: "Solo quando si ama a tal punto la
vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si
può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo".

Anche la coppia deve imparare questo atteggiamento
dell'animo, frutto di una serena gratitudine per le "opere belle" che
il Signore ha compiuto. La gioia è presente nell'incontro dei due
partners, nella relazione che essi instaurano: nasce dall'esperienza
reciproca dell'amore: la gioia di amare e la gioia di essere amati. Una
gioia piena, non alienante, non banale, che non si lascia intrappolare
dai meccanismi di difesa, rimozionali o sublimatori. È ancora
Bonhoeffer a dire, non senza un certo arguto ammiccamento; "Credo che
dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene
che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento - ma
veramente solo allora - andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e
gioia. Ma - per dirla chiaramente - che un uomo tra le braccia di sua
moglie debba avere nostalgia dell'aldilà, è a dir poco mancanza di
gusto e comunque non la volontà di Dio".

Eppure la gioia degli sposi, vissuta nel giorno dopo
giorno, negli accadimenti spesso anche difficili della vita quotidiana,
sicuramente anche attraverso momenti di crisi e di aridità, resta il
segno di quella gioia pasquale che percorre tutta la creazione, una
creazione liberata e salvata per sempre. Scrive il carmelitano Alberto
Neglia: "Nella pienezza dell'amore coniugale, nella dolcezza della
comprensione reciproca, nello stupore della vita che si rinnova, la
gioia degli sposi è partecipazione della gioia pasquale del Cristo e
motivo di ringraziamento e di lode. Della dinamica relazionale
dell'amore coniugale fa parte il dono sessuale dell'amore, momento
determinante e costruttivo della realtà di coppia, a cui anche il
sacramento invita i coniugi (GS 49). Questo dono è, per gli sposi
cristiani, esperienza di gioia... È importante allora che gli sposi
cristiani sappiano accettare la sessualità con la serenità e la
cordialità che provengono dalla fede nella bontà intrinseca delle opere
di Dio e sappiano gioire di tutti quei gesti di tenerezza nei quali
l'amore coniugale si incarna, si trasmette ed è accettato...".

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Domenica, 20 Febbraio 2005 16:59

La festa nuziale - Luigi Ghia - 2a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Seconda parte

L'AMORE

Era
l'ora sesta, a Sicar, al pozzo che Giacobbe aveva fatto scavare. Ad una
donna, samaritana, una donna "libera", Gesù chiede da bere (cf Gv 4,7).
Chiedere da bere - lo sa bene chi, anche oggi, deve attraversare per
ragioni di lavoro terre aride e desertiche - significa chiedere
accoglienza. Al gesto accogliente della donna, Gesù risponde offrendo
dell'"acqua viva", il dono dello Spirito. È sempre l'ora sesta, sulla
collina del Golgota. Gesù pronuncia una delle parole più forti e
significative tramandateci da tutto il vangelo di Giovanni: "Ho sete"
(19,28). Anche qui il Maestro, stanco del cammino, chiede accoglienza.
È il culmine di un processo attraverso cui Gesù esprime tutta la sua
creaturalità; si riceve come creatura e chiede da bere. Chiede lo
Spirito. Ha messo tutto non solo nelle mani del Padre, ma anche delle
persone che gli sono accanto, non solo di Maria e di Giovanni, il cui
sguardo è angosciosamente fisso sul volto dell’Amato che sta per
morire, ma anche di quel Giuda, "nostro fratello Giuda", che egli non
ha mai respinto, anche di coloro che rispondono alla sua accorata
richiesta inumidendo le sue labbra con una spugna imbevuta d'aceto,
issata su un ramo d'issopo. Alle nozze di Cana c'erano sei giare piene
d'acqua che Gesù ha trasformato in vino. Sotto la croce c'era un vaso
pieno d'aceto. Al massimo dell'amore la risposta è stata il massimo
dell'odio. Ma ancora una volta la contro-risposta è stata una risposta
d'amore. L'odio è stato definitivamente vinto, non nel senso che i
rapporti umani non saranno mai più improntati ad odio, la storia anche
dei nostri giorni ne è una tragica conferma, ma nel senso che l'odio
non avrà mai più l'ultima parola.

Nessuno di noi, creature oppresse da pesi sovente
insostenibili, da speranze frustrate, da amori non corrisposti, da
desideri irrealizzati, riuscirà mai ad esprimere un amore così.
Scriveva Alex Langer: "...è forse troppo arduo essere individualmente
dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso,
troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si
accumulano, troppe le gelosie e le invidie di cui si diventa oggetto,
troppo il carico d'amore per l'umanità e di amori umani che
s'intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si
proclama e ciò che si riesce a compiere". Pur senza giungere al limite
di gesti estremi di sconforto, è un'esperienza condivisa da molti. Si,
il rischio è davvero di sentire un'infinita distanza tra quell'amore
infinito e la nostra fragile, inespressa capacità di amare. Eppure
l'amore di un uomo e di una donna, il nostro amore, per quanto
imperfetto, è chiamato ad essere segno, non solo simbolo, ma segno
realizzatore, sacramento, di un amore così. Dobbiamo accettarci come
siamo, non pretendere d'amare di un amore impossibile, accontentarci
d'amare di un amore debole e non robusto, finito e non infinito, perché
il termine "infinito" non esiste nel vocabolario dell'essere
creaturale. Questa creaturalità investe tutto il nostro essere: sia il
nostro essere spirituale che il nostro corpo. Senza richiamare equivoci
dualismi, entrambi sono infinitamente lontani da Dio, come
infinitamente lontana è una creatura dal suo Creatore. Ma è proprio da
questa distanza, come ricordava David Maria Turoldo in una delle sue
appassionate omelie, che nasce l'infinita inquietudine e l'infinito
desiderio del cuore, l'insufficienza delle cose, l'insufficienza
perfino di questi amori, finché non si raggiunge l'Amore. "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete..." (Gv 4,13). È il rischio perenne dell'amore, il rischio perenne della gioia sempre imperfetta che in esso si vive.

Eppure, è solo attraverso il percorrere passo dopo
passo l'insufficienza di questi amori che si raggiunge l'Amore. Perché
la relazione, il confronto con il volto dell'altro, è l'unico luogo in
cui è possibile costruire la nostra identità: non nella cattura
dell'altro, ma proprio nell'incontro con il suo volto, che mi consente
di conoscerlo e di ri-conoscerlo, e nel contempo di conoscere e di
ri-conoscere me stesso. Quando nella coppia esiste amore vero e
profondo, non solo l'innamoramento, l'infatuazione di tipo fusionale,
ma l'amore di reciprocità, frutto della volontà d'amare e non solo del
sentimento d'amore, questo incontro si fa "evento"; "attimo", non
istituzione, per il credente "sacramento"; dono, gioiosa meraviglia,
non possesso; orizzonte, non meta raggiunta; cammino dalla solitudine
all'intimità. Ma spesso, anche, cammino a ritroso: dall'intimità alla
solitudine. Per poi rifare ancora il cammino, e passare finalmente
dall'intimità alla comunione. Oltre il deserto. E anche nel deserto (o
forse solo in esso) è possibile incontrare l'Amore e la gioia.

"Chi siede nel deserto per custodire la quiete con
Dio è liberato da tre guerre: quella dell'udire, quella del parlare, e
quella del vedere. Gliene rimane una sola, quella del cuore".

 

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare

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