Famiglia Giovani Anziani

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Domenica, 20 Febbraio 2005 18:04

LA CRESCITA PERSONALE A RAGGIERA

LA CRESCITA PERSONALE A RAGGIERA

Il dilagante individualismo, che
caratterizza la nostra società, è una minaccia per una sana vita
familiare, che sfocia nel disgregarsi della coppia, nella rinuncia a
procreare, nel rifiuto della convivenza; insomma, una progettualità di
coppia ridotta al minimo. L’individualismo è anche narcisismo, la
dedizione al culto di sé, specialmente nei trentenni e quarantenni.
Queste persone, quando decidono di mettere al mondo un figlio, lo
vedono come il rispecchiarsi del proprio io, e quindi perfetto o quasi.
I figli sono quindi concepiti come oggetto proprio, fino al caso in cui
diventano oggetto di ricatto nei confronti del coniuge: anche i figli
di conseguenza, diventano individualisti e affetti da protagonismo.

ANDARE OLTRE LA CASISTICA

Cosa s’intende in realtà per
individualismo? Nella definizione del dizionario Zingarelli è descritto
come "dottrina che riconosce all’individualità un valore autonomo
irriducibile all’ordine naturale, politico e morale di cui fa parte;
tendenza a considerare prevalenti diritti, i fini, le iniziative e le
azioni dell’individuo su quelli collettivi e dello stato; egoismo,
eccessiva o esclusiva considerazione di Sé". L’individualismo non è
solo un atteggiamento negativo, ma è l’elemento portante della visione
del mondo, dei rapporti sociali che è costitutiva della modernità e
dell’idea di liberismo.

Quest’accostamento fra individualismo e liberalismo
implica competitività, concorrenza, aggressività e conflittualità ma
anche conoscenza del limite e delle regole del gioco.

L’individualismo è accompagnato anche
dall’affermazione di sé: è negativo quando è simbolo di una personalità
basata sulle apparenze, portando al fallimento dell’individuo, ma nel
caso in cui l’autoaffermazione è una crescita personale a raggiera e su
più piani, con una reale autonomia, che non è isolamento ma capacità di
vivere, progettare e operare insieme agli altri, l’individualismo è
senz’altro positivo.

TRE DIMENSIONI DETERMINANTI

Tutto ruota intorno al proprio io e
alla propria individualità, ma, paradossalmente, la piena realizzazione
di sé c’è solo quando ci si rapporta con gli altri. Sul piano
dell’autorealizzazione la famiglia, quindi, ha un ruolo fondamentale
perché è il luogo in cui la fiducia nell’altro raggiunge il massimo
livello; la famiglia contribuisce in maniera decisiva a mostrare le
nostre potenzialità lungo tre dimensioni:


  • La prima è quell’affettiva e sessuale,
    perché l’incontro sessuale diventa un reciproco donarsi, accettarsi e
    comprendersi, al di là del puro scambio sessuale, con una
    compenetrazione fisica e psichica che valorizza al massimo le
    rispettive individualità.
  • La nascita e la crescita di un figlio
    permettono di prolungare il proprio io nello spazio e nel tempo, oltre
    la stessa morte. L’esperienza della maternità/paternità è dunque il
    primo fattore di autorealizzazione; porta anche numerosi dispiaceri e
    sacrifici, ma è più grande la soddisfazione di aver dato vita ad un
    essere umano e di averlo aiutato a crescere.


  • La terza dimensione della vita familiare è
    la progettualità, la prospettiva a lunga scadenza, perché sono gli
    obiettivi a lungo termine che consentono di tracciare un bilancio
    positivo della propria vita: la persona non può vivere senza progetti.

La famiglia moderna si deve basare sulle
responsabilità individuali dei componenti, su scelte che non derivino
da conformismo sociale né da convenienze economiche ma dall’intento di
dare piena espressione al patrimonio di umanità che è nell’individuo.

Gregorio Piaia,

ordinario di storia della filosofia, univ. di Padova

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:03

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

Fino al 1975, anno in cui fu abrogata la
legge 316 sul diritto di famiglia, la patria potestà era esercitata dal
padre, designando la supremazia paterna rispetto alla figura della
madre. Il figlio non poteva prendere decisioni, ma solo esservi
soggetto; la figura istituzionale della madre era completamente
assente.

L’art.134, che sostituisce quello citato, diventa
"esercizio della potestà dei genitori": al padre è sostituita la coppia
di genitori, con una distribuzione del potere decisionale. La crescita
dei figli è ora un progetto comune, fatto di condivisione di
responsabilità e di valori. Nel caso di conflitto fra i genitori, il
potere decisionale viene collocato al di fuori della famiglia e
affidato ad un giudice, che usa come valori di riferimento l’interesse
del figlio e dell’unità familiare.

DECLINO DEL PADRE SEVERO

La legge rispecchia la situazione che
si verifica nella realtà: negli anni Settanta inizia l’eclissi della
figura paterna con una contemporanea crescita e rilevanza dei valori
materni, più attenti ai bisogni e ai desideri dei figli e regista delle
scelte quotidiane. In questo nuovo ritratto cambia anche il modo di
educare i figli: prima il sistema educativo era basato su paura,
mortificazione e vergogna e per conquistarsi la fiducia dei genitori
erano necessari molti sforzi e i figli avevano troppo poco spazio
all’interno del nucleo familiare. Con lo sviluppo economico degli anni
Sessanta, il quadro culturale e sociale cambia, con l’importanza sempre
maggiore delle donne, lavoratrici e responsabili all’interno della
famiglia; la mobilità sociale permette di disegnarsi il proprio
progetto di vita.

LA COPPIA MADRE-BAMBINO

La rilevanza sociale del padre e
capofamiglia lascia sempre più spazio alla coppia madre – bambino,
perché i valori di riferimento per una buon’educazione sono quelli
materni e infantili, con l’idea del figlio felice, da crescere senza
frustrazioni e da proteggere, in un clima pieno d’affetto; la scuola
materna diventa luogo in cui crescere i bambini in allegria. L’ambiente
sociale, colpevole di stress e tensioni, diventa l’orco da cui
proteggere proprio figlio.

Quando i bambini felici diventano adolescenti, però,
sorgono i primi problemi, perché la felicità non può essere un modello
educativo realistico: nella società l’attenzione e le relazioni devono
essere guadagnate, non sono dovute come all’interno della famiglia; la
risposta tempestiva al bisogno del bambino impedisce il formarsi del
valore del sacrificio e dell’autonomia, rendendo gli adolescenti
fragili e disarmati davanti alle sfide lanciate dalla società.

LO SCENARIO INTEGRATO DI OGGI

Nella famiglia di oggi la decisione
di avere un figlio è presa dalla coppia, nata per amore e non per
necessità sociale, come in passato; in questa coppia è di solito la
donna a sentire la necessità di una nuova vita, e coinvolge il partner
in questa decisione, nominandolo padre.Il padre è dunque coinvolto fin
dall’inizio, anche perché spesso la madre ha bisogno di aiuto, negato
sovente dalla società e a volte anche dalla famiglia di origine.

Per quanto riguarda i fratelli, essi devono crescere
in un clima di democrazia, fatta di competizione ma anche di
collaborazione. Tutti sono diversi ma uguali, perché nessuno è
superiore all’altro; la famiglia di oggi, che preferisce la
contrattazione al conflitto, è caratterizzata dalla povertà di regole e
dalla tendenza dei genitori di mantenere bassa la conflittualità
piuttosto che gestirla.

L’infanzia è dunque felice e difficile da
abbandonare, sia per i ragazzi sia per i genitori, che ricoprono un
ruolo faticoso ma gratificante. È il padre a dover sostenere
l’adolescente, con l’ascolto e la valorizzazione delle risorse del
figlio, facendosi carico anche della depressione materna dovuto
all’abbandono del nido da parte del figlio.

La nuova famiglia integra notevolmente competenze
materne e paterne per sostenere la crescita dei figli; ma è spesso
isolata, non supportata da una rete sociale che permetterebbe il
confronto e il dialogo con altre famiglie.

Corinna Cristiani,

docente di psicodinamica dello sviluppo, univ. di Milano

Tratto da "Famiglia Oggi – 11"

Costruzione della identità: segnali di rischio

Il termine identità è di quelli così densi
di implicazioni che richiedono subito di essere definiti, e quindi
ristretti, resi affrontabili, grazie ad un aggettivo: identità sociale,
culturale, etnica, religiosa, personale…

Prima parte

Parlerò qui di alcuni aspetti che hanno a che fare
con la costruzione dell’identità personale da un punto di vista
psicologico. Da un punto di vista generale voglio sottolineare
l'importanza che riveste la conquista di una matura identità: si può
innanzitutto ricordare, in proposito, come la xenofobia e il razzismo
sono sempre stati buoni rifugi per chi, scoprendosi incerto sulla
propria identità personale o sociale ha bisogno di demonizzare e
aggredire chi è diverso per negare e aggredire le proprie debolezze.

Il titolo invita a chiedersi quali sono almeno
alcune delle condizioni in cui si manifesta nei bambini e negli
adolescenti le difficoltà di costruzioni dell’identità da un punto di
vista psicologico. Questione difficile perché infanzia e adolescenza
sono i periodi della vita in cui l’identità viene a costruirsi e quindi
le difficoltà nella sua costruzione sono fisiologiche e vanno pertanto
rispettate. Da questo punto di vista un pericolo per un sano sviluppo
può essere rappresentato proprio dalle ansie degli adulti riguardo alla
normalità o meno del percorso di maturazione che il bambino segue. È
questo il fenomeno ben noto a tutti dell'apprensione dei genitori
riguardo ai figli e che, quando supera limiti per così dire
fisiologici, diventa una ingombrante interferenza o addirittura un
fattore di deformazione patologica dello sviluppo. Questo accade perché
quando l’apprensione si trasforma nel genitore in una persistente
incertezza sulle capacità del bambino o dell'adolescente di "sapersela
cavare" davanti ai compiti di sviluppo, questo sentimento si traduce
nel bambino in un profondo senso di insicurezza che ne mina 1'autostima
e ne indebolisce davvero le sue capacità affondare i diversi passaggi
evolutivi.

Un po' schematicamente, ma fondatamente, potremmo
dire che posto in una condizione psicologica come quella descritta, il
bambino può reagire in tre modi; sottomettendosi, isolandosi, opponendosi.In tutti i casi pagherà un prezzo in termini di alienazione della
costruzione della propria identità. Se si sottomette e fa proprio il
messaggio di sfiducia nei suoi confronti contenuto nell'atteggiamento
apprensivo dei genitori, non potrà che dare conferma a tale aspettativa
negativa comportandosi in modo da poter dire anche a se stesso "visto
che non sei capace?"; ad ogni piccolo insuccesso ad ogni piccola
dimostrazione di incapacità si rinforzerà la valutazione negativa in un
perverso circolo vizioso. Sono quelli i bambini timorosi di non
riuscire, che si ritraggono davanti alle proposte di gioco o si
bloccano al primo risultato non positivo: ogni occasione, ogni
relazione con gli altri assume infatti di per loro il valore di un
giudizio.

 Giancarlo Rigon

Psichiatra, Psicoanalista, Neuropsichiatria infantile,

Primario di NPI, AUSL Città di Bologna,

docente di psicoterapia all’Università di Bologna

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:31

Il disturbo da attacchi di panico

Il disturbo da attacchi di panico

"Vita umana e cristiana si intersecano
continuamente; il presente articolo, vuole semplicemente dare delle
indicazioni nei confronti di una sofferenza specifica ed offrire un
contributo per la comprensione delle persone che ne sono affette".


Quando si parla di attacchi di panico ci si
riferisce ad un caso clinico in cui l’ansia si manifesta in modo
particolarmente violento, coinvolgendo sia la sfera fisica che psichica
dell’individuo.

La caratteristica principale dei disturbi da
attacchi di panico è un’intensa sensazione di disagio mista a paura,
che arriva al terrore vero e proprio; improvvisamente, la persona
inizia a sentirsi inquieta, cerca vie di uscita se si trova in posti
affollati, arriva a fermarsi se si trova alla guida di una macchina.

Di solito non ci sono prodromi – cioè segni
premonitori – di un inizio della crisi; tutto si manifesta
improvvisamente in modo del tutto incontrollabile ed imprevedibile.

All’intenso stato di disagio e paura, si uniscono
poi sintomi che coinvolgono l’intero organismo producendo dei malesseri
che, sebbene temporanei, aumentano notevolmente il terrore di morire,
di perdere il controllo della situazione, di trovarsi a dover svenire
da un momento all’altro in condizioni sfavorevoli (ad esempio in
autobus).

Gli psichiatri sono concordi nel ritenere che, per
parlare di disturbo da attacchi di panico, è necessario che siano
presenti almeno quattro dei tredici sintomi che lo caratterizzano;
questi tredici sintomi sono: una sensazione di soffocamento con
relativa fame d’aria, sensazioni di svenimento, tachicardia o
palpitazioni, tremori fino a grandi scosse, sudorazione abbondante,
nausea o disturbi addominali, senso di perdere il contatto con la
realtà, formicolii, improvvisi vampate di calore o senso di freddo,
dolore o fastidio al torace, paura di morire, paura di impazzire o di
fare qualcosa di incontrollato.

Ad un attacco di panico, di solito, può essere
associata la cosiddetta agorafobia (letteralmente fobia degli spazi
aperti) ossia la paura di trovarsi in posti o situazioni dalle quali
sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nelle quali potrebbe
non essere disponibile aiuto in caso dell’improvviso insorgere di un
sintomo (o di più sintomi) che potrebbe essere inabilitante o
estremamente imbarazzante.

Risulta evidente come le persone che sono costrette
a vivere con un disturbo da attacchi di panico sono esposte ad un vero
e proprio limite nel vivere la quotidianità, sovente condizionata
dall’improvviso insorgere di un attacco.

Nella popolazione generale è stata evidenziata una
prevalenza annuale del disturbo di attacchi di panico compresa tra lo
0,4% e l’1,5%, senza che siano state rilevate differenze per quanto
riguarda il livello socioeconomico.

Il disturbo tipicamente insorge in età giovanile con
esordio compreso tra i 15 e i 35 anni ed è più frequente nelle donne
rispetto agli uomini con un rapporto di tre a uno.

…una sofferenza improvvisa ed incontrollabile

parlando con un paziente che soffriva
di attacchi di panico, ho notato come la parola "infarto" ricorreva
spesso nei suoi discorsi. In effetti, l’accelerazione del battito
cardiaco unita la dolore al petto e alla sensazione di svenimento, con
relativa mancanza d’aria, può far pensare ad un attacco cardiaco e non
ad una crisi d’ansia.

Si entra così in un circolo vizioso in cui i sintomi
producono sempre più paura e la paura alimenta sempre più la crisi
d’ansia. Ad ogni modo è sempre opportuno ricorrere ad una diagnosi
precisa circa gli attacchi di panico; la cosiddetta diagnosi
differenziale può scongiurare il pericolo di patologie nascoste (come
ad esempio un prolasso della valvola mitralica cardiaca) che, di
solito, produce gli stessi sintomi di un attacco di panico.

La cura

Spesso, nei casi di disturbo da
attacchi di panico, è necessario ricorrere a dei farmaci specifici in
grado di contrastare e, possibilmente, limitare l’insorgere delle crisi.

Accanto alla terapia farmacologia sarebbe opportuno
affiancare una psicoterapia al fine di comprendere i reali motivi che
producono reazioni ansiose così violente; è importante sottolineare
che, non di rado, è presente anche la depressione come substrato su cui
possono svilupparsi le crisi di panico che, sebbene necessitino di
tempo per poter essere debellate, possono tuttavia arrivare ad una
remissione completa.

Felice Di Giandomenico

Da "L’Ancora" 1/2 2003

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:30

Il quarto patibolo (Parte 4/4)

(parte 4/4)

Dono e perdono

E torno ad aprire gli occhi su questi nostri giorni
 turbolenti, ricchi, come mai nel passato, di logica e di nature  
passionali. Penso ai trenta anni che servirono a preparare la grande
 Rivoluzione e ai duemila anni che sono seguiti, durante i quali non si 
è saputo trovare il momento per dire basta ai compromessi. Adesso, in
 coda al corteo dei tre Crocefissi, vedo un quarto patibolo: è l'albero 
dal quale ha penzolato il corpo di Giuda, l'uomo che ha macchiato la
 storia con il più orrendo dei crimini, colui che per vergogna ha 
rifiutato i doni più grandi che potevano essere fatti all'uomo, la vita
 e il perdono, ma che con il suo sacrificio e il suo pentimento, sincero
 e senza sconti, ha fatto germogliare su quel legno intriso di disonore
 dei fiori viola come il colore della passione.

Come non pensare al
 patibolo dal quale l'uomo onnipotente di oggi non sa liberarsi? Il
 tanto decantato progresso lo ha inchiodato alla logica dei consumi, dei 
profitti ad ogni costo, del calcolo che deve precedere ogni gesto,
 compresi quelli di buona volontà.

È l'accidia - questo peccato che 
nella nostra immaginazione di giovani scolari del catechismo non
 trovava mai una collocazione né un'immagine adeguata - il peccato che
 sta sempre in agguato. I poveri del terzo mondo, i malati di aids, le
 vittime delle faide, i figli dei disoccupati, i bambini venduti…
 sembrano mali che non devono toccarci solo perché stanno dietro la 
porta di casa. Anche nel contrasto fallace tra ordine e giustizia, 
finiamo per schierarci sempre da quella parte che fa di noi dei 
paladini ottusi e irriducibili. E la nostra rivoluzione viene rinviata.


Ma il miracolo dell'occasione propizia per ogni uomo è una garanzia e 
si presenta sempre. C'è chi l'attende sotto forma di lotteria nazionale 
e chi riesce a realizzare quel dono completo di sé che ha la capacità 
di consolidare ogni persona nella propria pretesa dignità o, forse
 meglio, in un pizzico di sana vanità. E i recessi più nascosti, dal
confessionale al talamo degli sposi, possono trasformarsi in una 
palestra nella quale le schermaglie sanno durare anche sino all'alba, 
ma finiscono per decretare la vittoria sulla passività di chi si ostina 
a voler fare il salto di qualità che c'è nel desiderarsi. Ci possiamo 
staccare dal patibolo solo se permettiamo che la tenerezza occupi
 abusivamente la nostra intera esistenza. E dove mille onde finiscono il
 loro lungo viaggio, la riconciliazione o, finalmente, la rivoluzione
 della buona volontà potrebbero essere la sfida all'ansia dell'uomo.

Leggi la prima parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena 

Da "Famiglia Domani" 1/99

 

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:29

Il quarto patibolo (Parte 3/4)

(parte 3/4)

Morire ogni giorno

Ci insegnano, fin dalla più tenera età, che la nostra esistenza è un continuo arricchirsi di esperienza, che gli incontri e le novità sono occasioni preziose per la nostra crescita e per la nostra maturità, che ogni nostro gesto è prezioso e non deve essere guidato dal caso. Tutto vero. Come è vero che al momento della nascita inizia lento e inarrestabile il nostro cammino verso quel traguardo comune, la cui immagine terrorizzante, nel contesto che ci ha formato e in cui viviamo, può solo essere esorcizzata, evitando anche di nominarla. Perfino i trattati di anatomia si rivolgono alla morte chiamandola exitus.

Tanta paura di un momento che attende tutti, ha una giustificazione? Se nella iconografia della nostra cultura occidentale la morte fosse una bambina, l'accoglieremmo a festa nelle nostre case; sarebbe un'ospite da intrattenere nel giardino tra i fiori e gli animali domestici e, una sera, a piedi scalzi, verrebbe al nostro capezzale a chiuderci gli occhi nelle sue fragili mani. Noi, invece, abbiamo una morte medievale che veste a lutto le chiese e la musica delle fanfare, o una morte barocca che fa camminare al buio i fantasmi tristi di uno scheletro donchisciottesco, agitando una ridicola, anacronistica falce.

Non è il caso di leggere questo evento in chiave antropologica; le implicazioni che da sempre costituiscono il momento critico del conflitto tra la vita e la morte sono state fatte proprie da tutte le leggi del nostro sapere. Forse sarebbe utile riflettere che ogni giorno si muore, che ogni giorno una parte di noi se ne va, e, quasi sempre, per lasciare il posto a vita nuova.

Ma se tutto questo è vero per il nostro corpo, cosa accade, in realtà, nello spirito? Qui le cose sono diverse. Non è più la natura a fare il suo corso: è chiamata in causa la volontà con i suoi traguardi rivoluzionari. Se è vero che vi sono dei verdetti silenziosi che il nostro corpo pronuncia su se stesso e di cui, prima di tutti, prendiamo inconsciamente atto, l'attaccamento che ognuno porta alla propria identità è tale da rendere difficile ogni modifica e
ogni spostamento. Ognuno crede di orientarsi bene nei meandri della propria personalità, ma quando si tratta di chiudere la porta ad un vizio o ad un difetto per dare vita ad un qualunque cambiamento, entrano in ballo resistenze fortissime che ci ancorano a vecchie, comode abitudini e ogni tentativo di rinnovarsi viene percepito come un gesto faticosissimo per il quale appare sprecato ogni dispendio di energie. Quasi sempre assistiamo al degrado delle nostre storie; avvertiamo anche l'urgenza di prendere in mano le redini e dare una svolta, ma una sorda paura può impossessarsi di noi, fino a far apparire, alla fine di una storia, i racconti e le confidenze evanescenti come un sogno. Qualche volta la stessa difficoltà del convivere quotidiano, e contro la quale non si sa trovare il coraggio di rompere, a furia di rimproveri e disaccordi, arriva a renderci i piatti insipidi e le bevande amare. Ma noi resistiamo anche contro gli eventi più eclatanti e quando nella nostra esperienza trovano posto giorni che non meriterebbero di essere vissuti, giustifichiamo la teoria secondo la quale l'oblio nasconde sempre un segreto.

Leggi la quarta ed ultima parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena 

Da "Famiglia Domani" 1/99

 

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:29

Il quarto patibolo (Parte 2/4)

(parte 2/4)

Orgoglio e solitudine

La nostra caratteristica più evidente, in quanto 
esseri umani, è quella di provare e partecipare i sentimenti. Siamo 
tutti orgogliosi delle cose buone e delle prove di sensibilità che 
sappiamo dare; lo siamo ancor più, se l'immagine che gli altri mostrano 
di percepire e rinviarci dopo averla gradita, arricchisce la nostra 
vanità di mistificazioni contrabbandate per bontà. Sono gli scherzi - o 
brutti effetti? - dell'orgoglio che, in dosi contenute, ci aiuta a 
superare le prove e a sperimentare la tenacia, ma che, una volta 
superata la soglia della moderazione, rischia di farsi, tutto attorno,
 terra bruciata. Quello stesso orgoglio, che nei momenti di forza sa
 mascherare i sentimenti senza impedirci di provarli, ma che in altri
 passaggi della vita ci isola da tutto e da tutti, costringendoci a
 pianti silenziosi e indigenti di ogni sollievo fino a renderci
 mendicanti di sogni e di ricordi. È in questa fase che si hanno le 
grandi trasformazioni della vita.

C'è chi crede nei sogni e chi negli 
incubi. C'è chi, di fronte a violenze, soprusi e insuccessi fa sue le
deludenti scuse o la tragica rassegnazione sentenziando "è la vita...", 
e chi guarda le storie del proprio passato non per il fascino
 dell'aneddoto, ma in quanto residui di esperienze da non ripetere. È il
momento in cui si potrebbe scoprire di essere condannati alla 
solitudine perché l'attimo tanto rumoroso del successo è passato e
 tutti coloro ai quali eravamo orgogliosi di partecipare la nostra 
avventura ora stanno da un'altra parte. E non si può neppure 
trascorrere la vita a imbastire atti di accusa contro l'ingratitudine
 degli altri: siamo tutti molto individualisti nel pensare e 
condividiamo poche convinzioni, salvo la tendenza a coltivare 
pregiudizi.

Ci resta una possibilità, forse l'ultima: guardarsi dentro
 per cercare un bandolo di questa intricata matassa, un punto nuovo dal 
quale si possa rompere la spirale della mediocrità e ripartire con
 convinzione ringiovanita. Impossibile, in questi casi, non andare con 
il pensiero alle coppie sofferenti. Di fronte alle storie che rischiano 
di finire, raramente si mettono in discussione i nostri comportamenti.
 Eppure, quante volte quello che si proietta sull'altro potrebbe far 
parte, nel desiderio come nel rifiuto, del proprio immaginario? A
 fronte delle crisi più esasperate ci si aggrappa orgogliosamente ad un
 brandello di immagine con lo stesso bisogno che si ha davanti ad una 
fotografia o ad un ritratto, di sottolineare sempre che, nella realtà,
 si è migliori. E poiché ci sono gesti e parole che, in sintonia con il
cambiar di colore alle guance, significano ben altro che la vergogna e 
assai più del desiderio, la solitudine di chi si ostina a non fare il
 salto di qualità, conduce inevitabilmente a due scoperte macabre: la 
prima è che l'abitudine e il cinismo fanno fare alle mani dei gesti 
tanto freddi e respingenti da assomigliare più ai brancolamenti degli
 ubriachi che alle carezze di un innamorato; la seconda è la caduta
 nell'anonimato che si verifica quando una persona viene indicata e 
definita per aneddoti perché la sua vita può passare di bocca in bocca
 al pari di una raccolta di facezie.

Leggi la terza parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena

Da "Famiglia Domani" 1/99

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:19

Il quarto patibolo (Parte 1/4)

Tutti abbiamo - o abbiamo avuto - la voglia di cambiare: affermazione di idee nuove, rottura con la monotonia, desiderio di emergere, crisi dell’immagine che abbiamo di noi. Eppure questo desiderio si scontra con resistenze fortissime che ci ancorano a
vecchie, radicate abitudini, e denunciano la fatica di prendere in mano
responsabilmente la nostra vita di ogni giorno. Un patibolo da cui ci possiamo staccare solo permettendo che la
tenerezza occupi la nostra intera esistenza favorendo la rivoluzione
della buona volontà.

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:18

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

 

·
Una prospettiva "costruttiva" del conflitto ·
Il conflitto: una tensione tra logica per adempienti e logica per progetti ·
Ma le due logiche sono inconciliabili? ·
Educazione al cambiamento: apertura alle ragioni dell’altro ·
Superare la visione del ruolo stereotipato ·
Per trasformare il conflitto da negativo a positivo ·
Una scheda per la riflessione in famiglia e nei gruppi.

 

La parola "conflitto" può richiamare alla mente immagini e idee non
piacevoli: guerre e distruzioni, violenze e sofferenze. Ma non è
l’unico modo di usare questo termine, e c'è anche la prospettiva
costruttiva che deve essere presa in considerazione proprio per uscire
da una spirale negativa.


Due modelli


  • Chi educa si trova al punto d'incontro di due modelli: quello "naturale" che si sviluppa avendo nella mente la famiglia; e quello "organizzativo", della società strutturata.


  • Vi sono due logiche conseguenti, che a volte convivono con difficoltà: la logica per adempimenti e la logica per progetti.


• La logica per adempimenti risponde al
presupposto che ciascuno, secondo il ruolo che si trova ad occupare -
ad esempio: in famiglia -, ha un certo numero di adempimenti, più o
meno vissuti come un dato "naturale".
Le virgolette per questa
parola stanno a segnalare che è un modo di dire e di intendere. Gli
adempimenti di un figlio nei confronti di una madre possono essere
ritenuti parte di una naturalità fuori da processi storici e da
contesti geografici e culturali; ma non è proprio così come ciascuno
può immaginare e sapere. Questi adempimenti, però, sono vissuti con una
certa naturalezza.


• La logica per progetti esige un'organizzazione.Ed è comprensibile che mansioni e compiti siano definiti sulla base di
un impegno anche nuovo, relativo alle finalità del progetto. In chi
cresce, il ruolo di figlio o di figlia risponde alla logica per
adempimenti; il ruolo di studente è invece nella logica per progetti e
comporta la scoperta di compiti che potrebbero anche essere sconosciuti
nell'ambito familiare. Ma in questo esempio, i doveri di studio sono in
parte, per certi aspetti formali, assimilabili ad adempimenti ritenuti
naturali. Altra cosa è se le aspirazioni di un figlio o di una figlia
sono espressi in termini che vanno oltre il percorso di studi, o anche
ne stanno fuori. Allora gli adempimenti ritenuti naturali sono
sostituibili con impegni relativi all'organizzazione del progetto.



  • Le due logiche, i due modelli, possono coabitare con fatica. Ed è il conflitto.


• Ma può essere un conflitto utile, costruttivo.E però tale se i due modelli non vengono contrapposti con un criterio
di incompatibilità, introducendo il problema di accoglierne uno
escludendo l'altro. Questa contrapposizione può ti nascere da una
presunzione di assoluto: "se ho ragione io, l'altro non può che avere
torto". Può essere utile, invece, esaminare in ciascuna logica le sue
ragioni, E quindi cercare di capire quando e come servirsi di una
logica o dell’altra.


• Questa doppia logica, se non vive il conflitto
costruttivo, può consentire di sfuggire continuamente ad ogni
riscontro, e sviluppare una sorta di onnipotenza
che si serve del
relativismo per tenersi sempre fuori da ogni controllo. Io, figlio,
posso sottrarmi ad ogni adempimento filiale per ragioni che si
riferiscono al mio progetto; nello stesso tempo, potrei attenuare il
mio impegno progettuale, temendo di perdere alcuni vantaggi che mi
vengono dallo statuto di figlio. In questo caso, è bene che in me vi
sia un conflitto.


• Certo che ogni conflitto può essere reale o frutto di fantasie, che non sono da prendere meno sul serio:la perdita di contatto con la realtà può rendere molto più faticosa la
ricerca di una prospettiva costruttiva e feconda. E il riconoscimento
delle ragioni non può essere un’operazione preliminare. Può invece
essere un riconoscimento che viene dopo, nel ripensare a ciò che è
accaduto. Forse possiamo scoprire che le due logiche si avvicinano e
anche si confondono, e che una sorregge l'altra.


Educazione al cambiamento


  • Il conflitto costruttivo può far superare il rischio di ritenere valide unicamente le proprie personali ragioni.


Sentiamo tante volte dire: "Faccio solo quello che
mi piace, o che voglio", con l'idea che le ragioni personali siano le
uniche valide. Le ragioni degli altri non contano. Non si può o non si
deve fare ciò che non ci convince per nulla, badando unicamente agli
altri. Questo sarebbe conformismo. Ma le ragioni individuali non
possono essere talmente ingombranti da escludere tutti.



  • L'educazione ad e cambiamento è apertura alle ragioni degli altri, confrontate con le proprie.


• Ed è un'apertura che non può non essere conflittuale.Chi cresce come chi è adulto può vivere ogni confronto sotto il segno
della fantasia persecutoria, ancorata allo stereotipo del persecutore
che si incontra con quello del perseguitato. Vediamo un piccolo
esempio, riferito ad un gruppo che avviava uno scambio libero delle
proprie esperienze educative. Una persona del gruppo, per anzianità,
assunse il ruolo di coordinatore e lo svolse in maniera molto
silenziosa e discreta. Dopo un certo tempo, una ragazza che partecipava
agli scambi, senza dare segni di insofferenza, uscì dal gruppo. E disse
a chi non era presente, che il coordinatore le aveva impedito di
esprimersi. È possibile che abbia vissuto il coordinatore attraverso
una visione stereotipata, in cui il maschile e il femminile possono
avere la loro parte.


• Questo esempio può facilmente ricondurre a situazioni familiari. Le
reattività, quando sono mosse da fantasie persecutorie, possono
condurre a fughe dalla realtà; e al sostituire all'impegno della e
nella realtà, l'impegno nel ruolo stereotipato. Se questa dinamica si
espande e diventa reciproca, i rapporti rischiano di bloccarsi nel
conflitto sterile del potere o del contropotere. Molte reazioni familiari possono essere lette attraverso la chiave del potere, espresso con i mezzi più vari; il cibo, la disposizione degli oggetti, i vestiti... In questo caso la conflittualità è sterile e non porta a cambiamento.Ciascuno si arrocca in difesa, proiettando sull'altro le colpe del
possibile disagio, e sviluppando un certo vittimismo autoreferenziale.


• Conoscere questi due tipi di conflitto- uno costruttivo e fecondo, l'altro distruttivo e sterile - può essere
di qualche aiuto. Innanzitutto per non ritenere che in sé ogni
conflitto sia dannoso. E quindi per riuscire a trasformare un conflitto negativo in positivo,
facendo in modo che nella relazione entri un poco di realtà, in modo da
ridimensionare la fantasia persecutoria e la dinamica de potere.


L’impegno educativo vissuto nella quotidianità deve
fare i conti con oggetti, con materiali: possono essere elementi della
prigionia che abbiamo chiamato persecutori; e possono essere invece i
punti di apertura per un esercizio di responsabilità che porta ad aprirsi alla comprensione delle ragioni proprie e degli altri.

ANDREA CANEVARO

Dipartimento di Scienze dell’Educazione

Università di Bologna

(da "famiglia domani" 2/99)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:16

La ricerca del sentiero

Il viaggio può essere considerato la metafora dell’esistenza umana, e dunque anche della vita di coppia. In questo cammino – che si configura spesso come una possibilità di esperienza estetica e un momento di contatto con il sacro – la coppia può subire alcune tentazioni. C’è la tentazione della stanchezza; quella della tensione tra il possedere e la povertà; ed infine, pericolosa per l’esistenza stessa della coppia, quella della morte della fantasia.

"Tre cose mi sono difficili,

anzi quattro, che io non comprendo:

il sentiero dell’aquila nell’aria,

il sentiero del serpente sulla roccia,

il sentiero della nave in alto mare,

il sentiero dell’uomo in una giovane(Prv 30, 18-19)

Visitando due diverse località, in tempi successivi e in opposti spazi del mondo, ho avvertito dei turbamenti che difficilmente potrei descrivere, senza cadere nella banalità che scaturisce quasi sempre dai luoghi comuni dei racconti. Totalmente diversi e, paradossalmente, con tante similitudini, hanno colpito la mia attenzione, fino ad imprimere nella mia memoria immagini di eventi straordinari. Non sto parlando di musei o di collezioni d'arte, dove la creatività e il sudore dell'uomo hanno lasciato tracce perenni, ma di luoghi che avevano in comune una variabile esile e inconfondibile: in entrambi questi luoghi si parlava di viaggi. Il primo di questi, Auschwitz, trasformato in luogo di culto e di meditazione da una sana volontà collettiva che chiede all'umanità intera di non dimenticare, conserva, accatastate come erano state disposte all'epoca, ma in una cornice da sacrario, le poche cose che venivano tolte ai prigionieri dei campi i quali, a loro volta, da li procedevano per l'ultimo viaggio: o i lavori forzati se avevano ancora energie, o i forni crematori. L'altro, Ellis Island, l'isoletta che sta tra la statua
 della Libertà e il porto di Manhattan, punto di sbarco per chi si lasciava convincere a tentare la fortuna nel nuovo mondo, ha avuto dopo il 1953, data in cui ha cessato le sue   funzioni di quarantena per tutti gli immigrati, una sistemazione suggestiva - al pari di un sacrario ricostruito sulla base di testimonianze e la catalogazione di oggetti e corredi che accompagnavano quella povera gente, privi peraltro di qualunque valore venale - in grado di riproporre fedelmente lo spirito che accompagnava chi all'epoca, aveva deciso di trasformare la propria vita con il più promettente ed avventuroso dei viaggi.

L'inquietudine, un percorso consumato.

A differenza degli spostamenti animali, sostenuti per la maggior parte da istinti di branco o da esigenze fisiologiche, il nomadismo umano è animato dal desiderio di scoprire, raggiungere, vedere, possedere, ripartire. Giasone, Ulisse, Pantagruele, Gulliver, Sigfrido, Parsifal, Galahad… la schiera dei grandi avventurosi che hanno da sempre popolato la nostra fantasia con i loro viaggi fantastici è incontenibile, come incontenibili sono le gesta – qualche volta nobili, altre di pura, umana curiosità - che hanno fatto da propulsore ad imprese da leggenda. Se è vero che la mèta è quasi sempre figurativa,
diventa concreto e coinvolgente, invece, il confronto con le
difficoltà. Mai vi fu metafora tanto fedele e trasparente quanto il
confronto simbolico tra viaggio ed esistenza umana. Nel gergo comune,
l'uso sempre più frequente dei sinonimi che arricchiscono l'immagine
del viaggio si modella su uno stile di pensiero che si oppone alla
staticità e alla concretezza del mondo reale. Nella routine si parla
 ormai di tragitti concettuali, di cammino esperienziale di percorso 
esistenziale. di itinerario formativo, di transiti esplorativi, di voli
pindarici, di sentieri iniziatici, di decorsi convalescenziali, di
viaggi mentali.... una polisemia, quella legata a questo simbolo, che
 occupa un numero indefinito di piani, intrecciandovi di continuo il
 proprio significato latente. Ma se davvero il viaggio può essere 
considerato la metafora dell'esistenza umana, è innegabile ammettere 
che alla base si trova la volontà e non la casualità, Quello che rende 
ogni viaggio degno di nota e di interesse è la presenza e la natura 
degli ostacoli che si frappongono nel raggiungimento del fine. Le 
traversate del mar Rosso e del deserto del Sinai finiscono per essere 
gli stereotipi di tutti gli ostacoli. Da una parte le difficoltà
materiali e la paura; dall'altra la solitudine e la tentazione. 
Un'esperienza, dunque, che può rendere titubanti, ma che sa presentarsi
 come irresistibile e, quindi, irrinunciabile. La vera molla di tutto
 ciò è e resta l'inquietudine umana che conserva da sempre due
ingredienti allettanti: la curiosità e la fantasia. Ed è proprio
 quest’ultima che sembra imparentare l'uomo con il divino. Ogni gesto,
 ogni approccio, ogni conquista viene sempre prima assaporata 
dall'immaginario. Si può sostenere che, prima ancora che nella realtà 
materiale, i nostri incontri vengono consumati nella fantasia: un
 cavallo brioso e bizzarro - per dirla con Platone - che chiede di 
essere domato per offrire garanzie di razionalità e che allo stesso
 tempo pretende la briglia sciolta per condurre alla scoperta di mondi e 
trasgressioni attraverso opportunità uniche e irripetibili. Il viaggio 
non può essere catalogato come un'esperienza qualunque. I caratteri che 
lo contraddistinguono fanno dell'uomo che lo affronta un prode e un
 coraggioso perché oltre ad essere una prova di padronanza fisica, offre 
l'opportunità per un'esperienza estetica e un momento di contatto con 
il sacro.

 

La prima di tre tentazioni: la stanchezza

 

La coppia vede la luce quando il maschio e la 
femmina decidono di intraprendere un cammino di condivisione totale.
 Era tutti gli stereotipi che si possono evocare, quello relativo alla
 coppia in cammino esprime in modo appropriato il più avventuroso dei
viaggi. Se il regno animale offre esempi strabilianti di attrazioni 
fisiologiche e, conseguentemente, di spostamenti che hanno 
dell’incredibile - dalle migrazioni di abitanti marini che attraversano 
oceani interi per congiungersi e accoppiarsi, alla piccola e fragile
falena che è catturata dall'odore degli ormoni del partner che può
 distare anche qualche chilometro -, l'attrazione tra un uomo e una
 donna è il punto di partenza per un percorso fra i più esaltanti e 
originali che qualunque fantasia possa concepire, proprio perché si
 presenta come totalmente immateriale e fortemente impegnativo. A
sottolineare lo spessore di questa fatica entrano in giuoco le 
opposte polarità entro cui si muovono le componenti della concretezza e 
della immaterialità, dello sconforto e della gioia, della routine e
 della novità. Si procede a tentoni, almeno per un certo periodo o, per 
dirla con un termine caro alla scuola comportamentista, per tentativi
 ed errori. Contare gli ostacoli disseminati sul cammino è tanto arduo 
da risultare impensabile; e quello che può facilmente sfibrare la 
resistenza di una coppia è la maledetta tentazione di tirare i remi in 
barca e arrendersi. Chi non è rimasto deluso dalla constatazione di
 aver contemplato un miraggio? Chi vorrebbe far credere di non aver
 ceduto qualche volta alla stanchezza che segue una prova estenuante! 
Nella stupenda sentenza "Dies irae", fonte inesauribile di ispirazione 
sacra e profana, con poche struggenti pennellate, ci vengono presentati 
i tratti di un Salvatore che a furia di rincorrere il peccatore, per 
offrirgli la salvezza, si ferma stanco (querens me sedisti lassus).
 L'evangelista Giovanni inizia il racconto che culminerà con la 
conversione della Samaritana da una immagine di Gesù stanco e
assetato. La stanchezza e la tentazione allo scoraggiamento sono realtà
 fisiologiche del tutto comuni: nella vita di una coppia, poi, sono
 variabili che devono essere messe in conto fin dall'inizio per poter
 essere opportunamente affrontate. Le prove, le delusioni, gli ostacoli,
 gli imprevisti, tutto può trasformarsi in battuta d’arresto. Ci sono
 momenti così faticosi che al normale ruolo che ci viene chiesto di 
interpretare, preferiremmo quello della comparsa. E ci sono anche delle 
menti tanto ossessionate dalla fatica che finiscono per scorgere un
 pericolo nei più innocenti fatti quotidiani, fino a trarre dal più
piccolo evento un motivo di ansia. Si arriva anche a dimenticare il 
motivo di vanto costituito dall'aver condiviso, in periodi tormentosi, 
la sofferenza dell'altro. Poi, quasi d'improvviso, ti rendi conto che
 qualcosa è tramontato senza lasciarti il modo di distinguere se sia la
 scena che hai di fronte o le immagini del tuo mondo interiore. Ti senti 
fuori luogo, oppure vecchio o semplicemente un po’ smarrito? È un 
disagio che devi affrontare, vincendo con fatica la tentazione 
all'appiattimento e all'inedia, per non correre il rischio che una 
normale sosta nel tuo percorso diventi la tua prigione. Vivere insieme 
significa compartecipare e quindi cibarsi anche di frutti che possono
 essere amari o mangiare insieme piatti di gusto diverso. Superare la 
tentazione della stanchezza significa riassaporare la voglia di
riprendere il viaggio.

 

La seconda: tra avere o essere

 

Viaggi e spostamenti: una preoccupazione
costante, quindi, per la nostra mente che, però, subisce anche il
fascino di tante, imprevedibili incognite. I traguardi sono sempre
fuori dalla portata del nostro sguardo ed è difficile sapere fin d'ora
quali sorprese, buone o cattive, ci riserba la sorte. Il boscaiolo che 
abbatte una grossa pianta può fantasticare sull'utilizzo e il destino
 futuro di quell'albero e forse non saprà mai se, una volta scavato,
servirà in un viaggio come barca o come bara. La preoccupazione più 
avvertita e angosciante che risuona negli orecchi all'inizio di ogni 
itinerario sembra essere uguale per tutti: "Cosa mi porterò dietro? Di
 cosa potrò avere bisogno?".

 

Tutti i traguardi della nostra modernità appaiono
 incastonati e sintetizzati nel breviario per l'uomo di successo: più
 soldi più felicità. Ci sono delle persone che, prese dall'incubo di
 spezzare un'eredità, trovano tutte le giustificazioni alla loro 
preoccupazione di non sovraffollare la terra.

 

I richiami delle Scritture alla povertà dei ricchi sono molte e tutte molto severe: "Meglio un povero dalla condotta integra che uno dai costumi perversi anche se ricco" (Prv 23,6). "Meglio
un ragazzo povero, ma accorto, che un re vecchio e stolto che non sa
ascoltare i consigli. Il ragazzo, infatti può uscir di prigione ed
essere proclamato re anche se, mentre quegli regnava, è nato povero" (Qo 4,13-14). "Molti
sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a
loro. E’ una trappola per quanti ne sono entusiasti, ogni insensato ne
resta preso" (Sir 3 1,6-7). "Tu dici: "Sono ricco, mi sono
arricchito; non ho bisogno di nulla" ma non sai di essere un infelice,
un miserabile, un povero, cieco e nudo" (Ap 3,17). A dire il vero,
in un contesto storico dalle grandi aperture, in cui si ama essere
definiti progressisti, si parla tanto anche dei poveri. Ma fin quando
non si ha il coraggio di condividere la loro sorte, le nostre
filippiche rischiano di rimanere urla isteriche, unite qualche volta ad
ipocrisia. Portiamo nelle nostre case ingombranti bagagli di
preoccupazioni e di tristezze. Spesso viviamo nel silenzio e nella
solitudine, delegando ai beni di consumo il compito di risollevarci. La 
stessa cura che impieghiamo nel ricuperare i mobili d'arte diventa un
surrogato della pietà con cui alleviamo quelle ferite che sminuirebbero
l'armonia e la felicità che da loro ci si aspetta. Man mano che si
procede nel cammino verso il successo, aumenta la nostra propensione
all'uso del pronome possessivo. La povertà fa paura. Fa paura 
l'abbrutimento che spesso ne consegue. Non è un'iperbole affermare che
un povero che vive in Grazia di Dio è un santo. Lo spettacolo che molti
poveri hanno offerto ai nostri occhi non può non farci riflettere. Nel
 testamento spirituale di don P. Mazzolari si legge: "Non possiedo
niente. La roba non mi ha fatto gola e tanto meno occupato. Non ho
risparmi, se non quel poco che potrà si e no bastare alle spese dei
funerali". Chi decide di far conoscenza con i poveri - e fra questi i
poveri di spirito - sa che la loro scelta è tra l’essere o l’avere.
Loro non hanno altro pane che quello di volersi bene e dirsi a vicenda
le pene che tarlano i loro piccoli giorni. Sono come le formiche di
tutte le case ed hanno per amico fidato il sole. A lui chiedono un
soldo d’oro e lo stringono nella mano scura mentre i bimbi bevono
l'acqua della fonte e tutti insieme chiedono di non perdere la salute e
la possibilità di guadagnarsi qualcosa per arrivare a sera. Sono sempre
all'ultimo posto e cenano a lume del tramonto; si levano col canto del
gallo e sono estranei alla cronaca del mondo, ma sanno che sulla terra,
prima di loro, fu povero Gesù.

 

Terza: la morte della fantasia.

 

Da molti anni, nei momenti in cui il sonno tarda ad
imprigionarmi, mi dà serenità immaginare che sui passi irrequieti degli
uomini, Dio disegni ogni notte un sorriso di stelle, quasi a
rintracciare le lacrime perdute, cosicché, vinto dal sonno, nella sua
muta casa, ogni uomo veda oltre i confini della sua fronte un paese dai
tetti d'oro e dalle ombre di cristallo. Le lacrime sono una tappa
 obbligata, la prima esperienza che ogni uomo fa, venendo al mondo. C'è
chi si ferma a contemplare il momento della nascita come l'inizio del
dramma, sostenendo che il bimbo piange per gridare l'orrore di essere
stato espulso dal grembo materno. In realtà, se questo evento rispetta
un copione ben conosciuto, è lecito affermare che tutta la commedia che
l'uomo recita nel corso della propria vita ha per teatro il mondo
intero e rischia di essere monotona e ripetitiva. Eppure la noia ha i
 suoi antidoti: vecchi quanto l’uomo, ma sempre validi. Una grossa parte 
di opinioni, quella legata al folclore, sostiene che la nostra fantasia 
è alimentata da cronache o prescrizioni, da ricordi o fattacci 
irripetibili che si devono sussurrare sottovoce, con le teste vicine,
 le schiene ricurve e uno sguardo circospetto capace di allontanare 
indiscrezioni su segreti, per la verità, più volte profanati. Una 
residua parte, quella che cerca di crescere nella saggezza, ritiene, al 
contrario, che la fantasia sia un bene da proteggere e da condividere 
prima di tutto nella coppia. E c'è un posto solo dove si può aprire il 
teatro più bello per uno spettacolo unico al mondo. Senza abilità né 
doni da prim'attore, senza una scuola che ti insegni come strappare gli 
applausi ed il bis di un pubblico assorto, puoi avere tanto talento da 
sentire che anche in mancanza di manifesti hai davanti il tutto 
esaurito come ad una grande prima. E’ il traguardo dell'intimità. La
 sua ricerca presuppone una grande costanza e una fede incrollabile. Il
 sentiero che porta all’incontro, costellato di enigmi e di tentazioni, 
può essere riconosciuto solo se lo spirito è animato da una sana,
incontenibile curiosità per l'altro. E in questo incontro, la più
 grande avventura della tua vita, gli altri incontri sfumano, facendosi
 rari fino a scomparire, come le stelle in una notte piovosa.

 

Giovanni Scalera, Psicologo – Siena (da "Famiglia domani" 2/99)

 

 

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