Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il battesimo della conoscenza
di Vladimir Zelinskij

Il rapporto tra la sfera umana e il resto del creato è diventato «il problema» da quando l'uomo ha capito di poter essere il peggior nemico del proprio habitat. La strada che ha preso la nostra civiltà – ne sono già visibili i tratti futuri - va verso la ri-creazione o la sostituzione del vecchio ambiente umano. La vegetazione e l'alimentazione, il clima e il tempo, gli organi del corpo, la riproduzione della nostra specie, e perfino il modo di pensare, di percepire, di conoscere il mondo, vivono un processo di cambiamento. Questa mutazione sembra svolgersi secondo un progetto nascosto, la cui realizzazione è sempre più a portata di mano grazie al miglioramento delle tecnologie. Lo scopo di questo progetto, una sorta di proiezione del nostro "io" collettivo sulla realtà, è la graduale «soggettivizzazione» del mondo, della sua trasformazione nella provincia dell’uomo conquistatore. L'inizio di questo processo si trova nella nostra stessa sete di conoscenza, che analizza il cosmo come c'è dato e impone ad esso la sua razionalità che «può andare molto spesso contro la razionalità inerente alla natura» (Ioannis Ziziulas).

Alcuni, anzi molti di questi progetti portano grandi benefici all'umanità. «I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano» (Mt 11,3). Oggi tanti cuori battono grazie alle vittorie della scienza umana; la terra, i mari, i fiumi ci nutrono oggi meglio rispetto a secoli fa. Sulle tracce di questi benefici, però, si fa strada - ancora clandestina - l'ideologia della sostituzione, dell'imposizione (a volte violenta) della propria legge alla struttura nascosta del creato. Il computer, con cui la famiglia umana fa tutti i giorni un numero incalcolabile d'operazioni indispensabili, ha la tendenza ad imporsi come rivale del nostro cervello; i geni, che biologicamente costruiscono l'enigma della personalità, sono già un libro aperto che possiamo domani riscrivere nel modo scelto da noi, e così via. Questa razionalità crea un suo universo denso e chiuso, come coagulo di energia intenzionale. Il mondo appena trasformato è più accessibile, meno misterioso, più sottomesso al potere dell'uomo che vuole perpetuarsi facendo del creato la continuazione di se stesso.

La conoscenza non è mai neutra perché nulla di ciò che l’uomo sceglie non è predeterminato dal suo orientamento interiore. Quando l'uomo conosce se stesso, il suo desiderio di conoscenza è già scelto da lui. La risposta alla domanda «Perché conoscersi?», esiste ancor prima che la domanda si ponga. Ovvio: per essere padrone di se stesso, per aumentare le proprie capacità mentali, per una volontà di potere… Oppure per capire il pensiero di Dio sull’uomo, per sentire la voce del mistero dentro la propria anima. Ogni conoscenza può diventare un avvenimento spirituale capace di portarci all'origine della nostra umanità, alla scoperta di essere stato voluto, concepito, amato... «Sei Tu che hai creato le mie viscere/ e mi hai tessuto nel seno di mia madre./ Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/ sono stupende le Tue opere». (Sal 138,14).

Così la conoscenza può diventare ascolto, dialogo con Dio. Il Suo nome non è evocato solo per contrastare il concetto della «sostituzione», con qualcosa di più religioso, ma per ricordare che esiste anche un altro tipo di conoscenza, quello «accordato» dall'ascolto e dallo stupore. Il sentire del creato è la radice della sapienza che può favorire la nascita ad un pensiero diverso. Il pensiero che nasce dallo stupore si muove verso la saggezza della memoria della creazione, del risveglio della nostra vera personalità, dell'incontro con il miracolo che il mondo è. L'uomo che si conosce, ricordandosi in Dio, si risveglia, comincia a vedere – con uno sguardo non sentimentale, ma piuttosto spirituale - la sua casa nell'universo come meraviglia. E cambia se stesso. Il suo «io» smette di fare il piccolo signore del mondo e il creato non è più il luogo del «non-io» da conquistare, da eliminare o da sostituire. Le opere di Dio non costituiscono più una provincia dell'ego umano. Invece dell'utopia dell'«egoismo universale» si fa strada il realismo biblico del riconoscimento. L'uomo si riconosce nel pensiero e nell'amore di Dio per riconoscere poi anche le Sue opere.

La riflessone che ci offre il cristianesimo orientale non è un'altra buona ideologia della salvaguardia del creato, ma un atteggiamento più sottile e certamente più difficile da attuare: il cambiamento del nostro sguardo sulle opere di Dio, la trasfigurazione del pensiero che scaturisce dal cuore umano. La conoscenza umana può nascere non solo dal «volere umano» di possedere l’altro (o le cose, o il creato), ma anche dalla scelta d’un amore da scoprire, d'un compito da svolgere. «I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle Sue mani annunzia il firmamento, il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la notizia» (Sal 18,2).

Davvero si può trasformare quella «notizia» nella conoscenza del mondo? Crediamo di sì, se la conoscenza di tutto ciò che può essere visto, toccato, pensato proviene dalla comunione con Colui che non può essere né visto, né toccato e neanche pensato.

Come si può entrare in comunione con l'opera di Dio? Non esiste una risposta semplice. Ma ciò che non si può spiegare, si può a volte mostrare, invitando la nostra intelligenza a soffermarsi nel luogo privilegiato dell'incontro con Dio: la preghiera. La preghiera è una forma di conoscenza nella quale confessiamo che tutto ciò che è chiamato ad essere, viene dalle mani del Signore. «Tu, Signore, hai voluto trarre dal nulla/ all'esistenza tutte le cose,/ e con la Tua provvidenza costruisci il mondo./ Dinanzi a Te trepidano le potenze dei cieli,/ a Te inneggia il sole,/ Te glorifica la luna./ Le stelle sono tornate a Te, / luce Ti ascolta./ Al Tuo cospetto tremano gli abissi/ e per Te le sorgenti lavorano./ Hai steso il cielo come una tenda/ e reso stabile la terra sulle acque./ Tu infatti, Dio indescrivibile,/ senza principio e inesprimibile,/ sei venuto sulla terra,/ hai assunto la forma di un servo/ e sei diventato simile all'uomo./ Nella tua infinita misericordia, Signore,/ non hai sopportato di vedere il genere umano/ tormentato dal demonio,/ ma sei venuto e ci hai salvati».

Nella tradizione della Chiesa ortodossa questo inno è letto per la benedizione dell'acqua che precede il battesimo. Il rito della benedizione si svolge non soltanto nel tempio, ma anche all'aria aperta. L'acqua è da sempre simbolo della vita, una materia «animata» del mondo: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque», dice il secondo versetto della Bibbia. L'uomo prende l'acqua come materia, e la fa «simbolo», cioè legame fra il mondo visibile ed invisibile. Ormai lui è il sacerdote dell'acqua, dell'elemento cosmico, che ci porta agli elementi principali della rivelazione di Dio nel cosmo. La memoria sacra della creazione, del peccato originale, della redenzione, della morte e della risurrezione del Cristo sono sintetizzati nella benedizione dell'acqua che è "corpo materiale" del sacramento. Ogni sacramento è la manifestazione di una realtà dello «spirito di Dio». Perciò la preghiera che noi abbiamo citato fa parte della liturgia della festa d'Epifania nella Chiesa Ortodossa.

La manifestazione di Dio avviene costantemente in questo mondo. La prima risposta dell'uomo è lo stupore e poi la «simbolizzazione» del creato. Il compito dell'uomo è sacerdotale: sentire il Verbo che era «in principio» in ogni cosa ed esprimerlo nel messaggio, nell'immagine, nel sacramento. Tutto può essere sacramento, il luogo dell’epifania di Dio: acqua, sole, stelle, luna, sorgenti, abissi... Anche se non dobbiamo dimenticare che il mondo è colpito dal peccato, che getta la sua ombra non solo sull'uomo, ma tramite l'uomo anche su tutta la materia.

L’inno che abbiamo proposto ci ricorda la «storia» vissuta da Dio, la storia della salvezza, l'anamnesis in senso liturgico. Non si tratta solo del ricordo di un avvenimento lontano, ma la memoria di un fatto presente fin dal momento costitutivo della nostra esistenza. Nell’inno vengono descritti gli atteggiamenti del creato, faccia a faccia con il suo Creatore, il cui volto è invisibile. In questo modo di essere davanti al Creatore ogni creatura esprime il suo modo di essere per Lui e con Lui. Così entriamo in quella liturgia cosmica che anche la nostra conoscenza può celebrare. In altre parole, abbiamo la possibilità di vivere e confessare il dono che è costituito dal nostro essere davanti al Mistero che ci attira, ci chiama, ci trasfigura. Quando seguiamo le tracce delle creature, come «stelle tornate a Te», come «luce che Ti ascolta», percepiamo il modo più appropriato di conoscenza del mondo: la sapienza. La sapienza è una modalità di pensiero che «non nasconde i benefici» di Dio, ma piuttosto li scopre, li confessa. La sapienza è la conoscenza «battezzata», rivestita in Cristo, che apre i nostri occhi alla luce della creazione, e le orecchi alla prima benedizione, quando «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31).

La sapienza è la ricerca di questa «bontà», celata e rivelata; la ricerca di tutto ciò che Dio vide e benedisse. Essa illumina lo sguardo e ci insegna a vedere l'inizio della creazione nel dialogo con quel «Tu» che ci ama. La conoscenza battezzata ci porta al nostro «io» autentico, chiamato alla vita da Dio e con Dio. Dalla «polvere del suolo» da cui l'uomo era stato creato, l’ego umano si converte al segreto, all'inconcepibile personalità della creazione. Nella memoria che osiamo chiamare eucaristica - perché si tratta della comunione vera e propria - l'uomo entra in colloquio con l'amore che Dio ha manifestato ancora prima della creazione. Questa memoria è un modo di vedere chiaro e di rispondere al Creatore. Dalla trasparenza della fede, dallo stupore della gioia proviene un altro tipo di conoscenza che non cerca il potere, ma piuttosto il segreto di saper dire grazie.

«Fateci posto nei vostri cuori» 2Cor 6-7
di Karin Heller


Da qualche anno, sia la Chiesa cattolica in Europa sia quella nel continente americano si trovano di fronte a una crisi grave e seria. Sugli schermi della televisione, come pure presso altri mass media, sono presentati al grande pubblico comportamenti scandalosi che scuotono vescovi, sacerdoti e l' intero popolo cristiano. Un approccio sbrigativo della situazione tende a dividere i protagonisti in due categorie: le vittime e «i responsabili». Le vittime sono innanzitutto i bambini di ambo i sessi e le donne; i responsabili sono i sacerdoti e i vescovi che hanno agito o taciuto a diversi livelli.

In questo contesto intendiamo commentare i cc. 6 e 7 della seconda lettera ai Corinzi. Il titolo scelto per la nostra riflessione permette di intuire che i problemi posti da questi misfatti non possono essere risolti semplicemente con la detenzione degli uni e con il riconoscimento pubblico del torto subito degli altri. Sappiamo dalla psicologia moderna che ferite di questo genere lasciano impronte indelebili nell' esistenza delle vittime nonché in quella di coloro che sono alI' origine di tali abusi. La giustizia umana svolge una funzione preziosa, ma non basta. Chiediamo di essere aiutati anche dalla parola di Dio, come la troviamo nelle due lettere alla comunità di Corinto.

Tale comunità non è certo un modello esemplare di vita nella gioia e nella pace. Dobbiamo avere il coraggio di non idealizzare la vita delle prime comunità cristiane e leggere sino in fondo le realtà quotidiane dei nostri antenati nella fede. Malgrado le diversità di cultura, di epoca, di contesto storico, politico e religioso, la vita di queste comunità era animata da difficoltà e da scandali che rispecchiano a diversi livelli le realtà delle comunità di oggi.

Il cuore di Corinto batte nel porto, anzi, essa è la «città regina dei due mari». La posizione geografica favoriva una ricca attività economica e quindi finanziaria. Anche la presenza dei templi pagani contribuiva alla ricchezza della città. Infatti la prostituzione sacra prosperava grazie a uomini e donne che si tenevano a disposizione dei passanti e pensavano di rendere onore alle divinità. Fra queste l'Afrodite Pandèmos o Venere popolare, la dea dell'amore, riscuoteva grande successo. Intale contesto, si comprendono le difficoltà di Paolo per l' evangelizzazione. Senza voler paragonare la situazione incontrata da Paolo con quella di oggi, il testo che commentiamo può illuminare i nostri dibattiti poiché mette in luce realtà fondamentali e comuni alle due situazioni. Esse sono in particolare il rapporto fra la comunità e i suoi capi, il tema del fare un posto nel cuore e quello della consolazione.

Pastore e comunità cristiana: verso quale rapporto?

Il tema del rapporto fra l' apostolo e la comunità copre i sette primi capitoli della lettera. Il problema posto coinvolge Paolo stesso, altri pastori chiamati «superapostoli» (2Cor 11,5) e i fedeli. Costoro, volendo abbracciare la sapienza del mondo, rigettano il mistero pasquale (1Cor 1,17-3,4). Ne viene una divisione della comunità (1Cor 1,11-17) ed è messa in dubbio l'autorità di Paolo (2Cor 11 ). La situazione richiama un tema di attualità, quello del rapporto fra pastori e comunità cristiana: è un rapporto sempre da costruire, da mantenere e da rinforzare. Nella seconda lettera ai Corinzi questo rapporto è preso e ripreso a partire dal tema della riconciliazione. E stupendo il fatto di poter scoprire il posto centrale di questa tematica nell' argomentazione paolina. Questo fatto sottolinea fortemente che i buoni rapporti non sono dati per scontati. Essi sono il frutto di lunghi e penosi sforzi che consistono nel superare le distanze fra gli uni e gli altri, create da opinioni diverse, ferite, colpi bassi, maldicenze, cecità e sordità spirituali.

Per curare questa malattia che consuma la comunità, Paolo indica come rimedio la riconciliazione. Essa è inscindibile dalla persona di Gesù Cristo e dalla fede in lui. Solo lui è capace di esercitare il ministero della riconciliazione, avvicinando gli uni agli altri per mezzo della sua morte sulla croce in vista di un popolo solo (Ef 2,14-18). Perciò Paolo stesso, i pastori, capi della comunità, e tutti i fedeli sono permanentemente chiamati a fare memoria di Gesù.

Il c. 6 presenta in particolare la dimensione esistenziale di questo ministero. Per Paolo, l'autenticità di esso si riconosce grazie a una serie di prove subite nella propria carne. La lista è particolarmente lunga: «...in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza, nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fati- che, nelle veglie, nei digiuni...». La lista può sconvolgere i lettori. Non ha forse molto a che fare con l'idea di riconciliazione presente nella nostra mente. Difatti, quante volte essa appare legata all'immagine di uno che alla fine accetta di perdere la faccia, mentre l' altro celebra la propria magnanimità. Oppure l' immagine della riconciliazione si riduce a quella di un' assoluzione data in maniera sbrigativa e distratta in un angolo oscuro di una chiesa.

La pagina di Paolo mette invece in risalto un processo di riconciliazione progressivo, mai concluso definitivamente, e sempre da riprendere. Il ministero di riconciliazione impegna lungo la vita colui che ne è il ministro, nonché colui che ne è il beneficiario. Senza dubbio, Paolo parla e agisce partendo dal fatto che egli stesso è dapprima stato riconciliato da Dio con Dio e con se stesso (Gal 2,19-20). Egli esercita il ministero della riconciliazione radicato in Cristo, «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Non c' è motivo per Paolo di essere orgoglioso o di considerarsi superiore agli altri. Paolo è costantemente cosciente di ciò che Cristo ha fatto per lui quando egli stesso era peccatore.

È solo questo che spinge l'apostolo a superare le ferite ricevute dai responsabili e dai fedeli della comunità di Corinto. Seguendo Cristo, Paolo è venuto per servire e salvare uomini peccatori. Configurato a Cristo sconosciuto, afflitto, punito, povero, moribondo (6,9-10) e malgrado ciò che è accaduto, Paolo non cessa di offrire il soccorso del ministero della riconciliazione ai corinzi mentre egli stesso è bisognoso, perchè cerca un segno di compassione da parte della comunità di Corinto: «Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Il nostro cuore si è tutto aperto

I vv. 11-13 del c. 6 costituiscono una sorta di vertice rispetto al difficile rapporto fra Paolo e i cristiani di Corinto. Solo in questo passo si incontra l'espressione «corinzi» con la quale Paolo interpella direttamente i protagonisti. In questo modo, l' apostolo passa da un'esposizione quasi teologica del tema della riconciliazione a un modo di parlare intimo, presentato in tono confidenziale.

Il contenuto è guidato da due realtà fondamentali della vita umana che rappresentano pure i temi chiave della Bibbia. Si tratta da un lato del tema della bocca, organo indispensabile di comunicazione per mezzo della parola, e dall'altro di quello del cuore. Quest'ultimo è «il concetto antropologico più usato dell' Antico Testamento»; esso è «la sede dell'attività dell'intelligenza e della volontà. Il leb o lebab (cuore ) è la persona capace di riflessione e di scelta, la persona interiore».

Proprio in questo senso devono essere intese le parole di Paolo. Il suo cuore, capace di riflessione e di scelta, è tutto aperto a favore dei corinzi. Quest' apertura impliica che non c'è posto nel suo cuore per l'ambiguità e la menzogna. Perciò dichiara: «La nostra bocca vi ha parlato francamente» (6,1.1). Inoltre, il cuore di Paolo è paragonato a uno spazio aperto dove i corinzi non possono sentirsi allo stretto. In altre parole, nel suo cuore, c'è posto per tutti. Questa interpretazione è appoggiata sul senso stesso della parola greca choreo (far posto) che significa «far spazio sufficiente per contenere»; l'idea di Paolo è quella di «far spazio sufficiente per contenere tutti». Anche i corinzi devono aprirsi e a loro Paolo chiede: «Aprite anche voi il vostro cuore» (6,13).

Segue una breve esortazione (cf. 6,14- 7,1) circa una scelta radicale da fare. Paolo afferma che c'è una fondamentale incompatibilità tra Cristo e Beliar. Quest'ultimo nome può essere identificato con beliyya ' al, una forza malvagia, cattiva, personificata, com'è attestato dal Primo Testamento. 2Cor 6,14-15 è l'unico passo nel Nuovo Testamento dove ricorre questo nome. Esso, sempre associato alle tenebre, sottolinea un legame forte con le forze della morte. Inoltre, l'apostolo mette in risalto .l'incompatibilità fra il tempio di Dio e gli idoli, e afferma un impossibile collaborazione tra un fedele e un infedele (6,15- .16). C'è un legame forte tra queste affermazioni paoline e l'esortazione deuteronomista di scegliere fra la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, il bene e il male (D t 30,15-20).

Per questo motivo, la riflessione di Paolo si colloca nella linea della letteratura sapienziale che privilegia le tematiche della scelta radicale, dell'orecchio che ascolta (Pr 22,17-18), del figlio che accoglie dal padre insegnamenti di sapienza (Pr .1,8; 5,1-2), della bocca degli stolti e della lingua dei saggi (Pr 15,1-5), della sorte diversa degli empi e dei giusti (Sap 1-3). Nel contempo, le riflessioni sapienziali mettono in risalto il tema del popolo in cammino guidato dalla presenza di Dio per mezzo del santuario (Sap 10,15-19,22). Paolo riprende tutte queste tematiche quando ricorda ai corinzi che essi sono il tempio del Dio vivente, osservazione che introduce una serie di citazioni del Primo Testamento (6,16-18). Il tema del tempio a sua volta lo conduce a insistere sulla purificazione «da ogni macchia della carne e dello spirito» (7, l), per accedere a un rapporto intimo con Dio com' è quello fra un padre e un figlio, un padre e una figlia (6,17-18).

Alla fine dell'esortazione è ripreso il tema della bocca e del cuore. L'appello al cuore come sede di riflessione, di intelligenza e di volontà è la cerniera dell'intera argomentazione di Paolo. Di nuovo, il testo mette in risalto la franchezza con la quale Paolo ha parlato (7,4 ). L'apostolo esclude ogni condotta ingiusta verso la comunità e trova ragioni per vantarsi dei corinzi (7,2.4 ). Nell' atteggiamento di Paolo si trovano tracce del volto di Dio sposo che parla al cuore della sposa (Os, 2,16). Difatti, le affermazioni di Paolo evocano le parole di uno sposo che dice alla sposa: «Tu sei nel mio cuore "per morire insieme e insieme vivere» (7,3). Quindi, il problema ultimo di questa pagina paolina è alla fine quello dell'amore, l'unico capace di fare un posto autentico all' altro poiché attinge alla mutua comprensione, alla comunione di pensiero.

Dio unico consolatore per mezzo degli uomini

Il tema della consolazione è senza dubbio una tematica centrale dell'intera lettera. Si può addirittura affermare che 2Cor 1 è il grande capitolo consolatorio del Nuovo Testamento. Nel testo che commentiamo, il tema della consolazione si articola in modo seguente: è Dio che consola; lo fa con la venuta di Tito da Paolo; Tito porta con se la consolazione che ha ricevuto dai corinzi (7,6-7). La consolazione divina avviene, quindi, per mezzo degli uomini. Questa tematica non è nuova. Essa caratterizza difatti le attese messianiche secondo le quali uno dei nomi del Messia sarà Menachem, cioè Consolatore. Di conseguenza, la consolazione ricevuta da Paolo non è un qualsiasi «conforto», perchè egli si sente destinatario di un'azione divina, la cui caratteristica è quella di essere efficace.

Tutto ciò ci conduce a una riflessione sulla peculiarità del concetto biblico di consolazione. Il significato di base del termine greco parakaleo è «chiamare vicino a se». Per estensione, significa chiedere consiglio o aiuto, esortare, ammonire, consolare. Il sostantivo parakletos può essere tradotto con avvocato, difensore, intercessore. Questi termini evocano una situazione difficile, qualche volta disperata, dove si rischia addirittura la vita. Ne abbiamo un esempio tipico nel libro di Daniele. Susanna è condannata a morte con l'accusa di adulterio. Sul cammino verso l'esecuzione trova in Daniele un difensore, avvocato, che farà luce sulla condotta malvagia dei due accusatori. Egli farà condannare i due malfattori mentre Susanna è riconosciuta innocente (Dn 13).

Il passo appena citato ci introduce nel cuore stesso della consolazione com' è intesa dalla Bibbia. Il punto di partenza è il problema di una persona innocente che subisce un'ingiustizia. La persona si rivolge a Dio come suo avvocato. Dice, difatti, Susanna a Dio: «lo muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me». Il Signore allora «ascoltò la sua voce» e «suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele» (Dn 13,43-45). L'intera azione di Daniele è condotta sotto la guida del santo spirito di Dio.

Questa tradizione è mantenuta nel Nuovo Testamento dove lo Spirito consolatore è dato a Gesù nel momento del battesimo (M t 3,16-17 e par.). Il Vangelo secondo Giovanni tramanda la rivelazione data a Giovanni Battista: «L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo» (Gv 1,33). In Gesù è quindi data la consolazione permanente per mezzo dello Spirito. Da qui si capisce che il Nuovo Testamento attribuisce sia a Gesù sia allo Spirito di Dio il titolo di paracletos (Gv 16,5-15; 1Gv 2,1).

L' esperienza dei discepoli descritta da Gesù nel Vangelo secondo Giovanni corrisponde alI' esperienza di Paolo avversato dalla comunità di Corinto. Paolo è sicuro di non aver fatto nessun torto ai cristiani di Corinto. Egli si dichiara innocente: «A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato» (2Cor 7,2). Perciò «Dio che consola gli afflitti» non lo ha abbandonato. Di fatto Paolo si sente consolato e passa dalla tristezza alla gioia: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia» (2Cor 7,4). Concretamente è Tito che reca consolazione a Paolo. Portandogli buone notizie della comunità.

E la comunità stessa diventa fonte di consolazione. Tito stesso ha ricevuto dai corinzi la consolazione (2Cor 7,7). Costoro si erano rattristati a motivo della lettera inviata da Paolo (2Cor 7,8). Però tale scritto aveva generato in loro una tristezza «secondo Dio», cioè un salutare pentimento. Ed è proprio questo che consola Paolo, che può ora contare decisamente sulla comunità: «Mi rallegro perchè posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7,16).

Conclusione

Come abbiamo accennato nell'introduzione, queste pagine di Paolo sono istruttive per la situazione tragica nella quale si trovano molte comunità del vecchio e del nuovo continente. Questi insegnamenti possono essere riassunti nel modo seguente.

I rapporti fra pastori e comunità sono sempre da costruire, da mantenere, da rafforzare. Si tratta di un processo lungo, progressivo e spesso anche difficile. Pastori e fedeli non sono mai come li abbiamo sognati, desiderati, voluti e anche idealizzati. La realtà della vita in comune comporta sempre la tentazione del culto della persona: «"lo sono di Paolo", "lo invece sono di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!"» (1Cor 1,12). Si tratta della tentazione tipica dell'idolatria. Il problema è proprio quello di perdere di vista «il tem- pio di Dio», perchè si vede solo con gli occhiali degli idoli. Sappiamo dall'esperienza umana, nonché dalla psicologia moderna che l'idolo può innescare un effetto disastroso quando suscita una delusione. Dall' amore appassionato si passa allora all' odio che fomenta violenza e distruzione.

Per combattere questa tentazione, occorre guardare a Cristo che ci ha inviato lo Spirito dal Padre e ha dato alla Chiesa una struttura contro la quale «le porte degli inferi non prevarranno» (M t 16,18). Ciò significa che i membri della Chiesa si devono confrontare con le forze della morte nei suoi vari aspetti. Nel contempo però, non mancherà mai ai pastori e ai fedeli la consolazione che viene da Dio solo. Se talvolta capita di essere profondamente delusi dal comportamento scandaloso di un membro della comunità, si potrà trovare, nello stesso tempo, una persona sulla quale risplende una traccia del Volto divino che consola.

La sfida fondamentale della vita cristiana è, infine, quella dell'apertura del cuore, come indicato dal titolo della presente riflessione. Tale apertura o chiusura si identifica con il grande mistero interiore degli uomini. Costoro si lasceranno toccare dagli eventi avvenuti a un uomo inviato da Dio Padre, venuto in mezzo alla nostra situazione di peccato, di ingiustizia e di giudizio? Acconsentiranno questi uomini, a una lunga, laboriosa e anche penosa attività come quella di Maria, Madre di Gesù, che serbava «tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51)? Potranno un giorno sperimentare, come i discepoli di Emmaus, il cuore che «ardeva nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino» (Lc 24,32)? Infine, potranno sostenere la domanda del Risorto: «Perchè siete turbati e perchè sorgono dubbi nel vostro cuore» (Lc 24,38)?

(da Parole di vita, 6, 2002)

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentaseiesima parte

La povertà

Nello stile marista la povertà è strettamente connessa con il carisma dell’Istituto, perché riguarda il distacco dai beni temporali e, insieme, da altre forme di ricchezza, quali la stima, la risonanza, il successo, le amicizie dei potenti, le soddisfazioni e il plauso degli uomini. La povertà permette di restare “ignoti et quasi occulti”.

Il tenore di vita esteriore del Marista dev’essere semplice e comune; il cibo, gli indumenti, gli oggetti d’uso si contraddistinguono per un solo aggettivo che il P. Colin attribuisce loro: “vulgaris”. (Constit., cap. VI, p. 12: “Alimentis vulgaribus…, pallio ex panno vulgari…, laneo vulgarique panno…, vestem ex vulgari item panno”.)

La povertà è “pons firmus ad beatam aeternitatem, et antemurale contra salutis hostes et vanas huius speculi sollicitudines”. (Ibid., cap. II, art. I, n. 84, p. 31).

Nella trattazione sistematica dei voti il P. Fondatore non si contenta di richiamare le norme giuridiche vogenti in materia di voto di povertà; ad essa aggiunge un altro articolo: De quibusdam aliis ad paupertatem spectantibus, ove traccia un cammino di più intima assimilazione a Cristo e a Maria. ( Ibid., cap. II, art. Iv, n. 137, p. 48; n. 148, p. 51.)

Richiamandosi forse alla pratica della povertà in altri istituti (francescani, trappisti), il P. Colin dà delle norme o, almeno, delle indicazioni che avrebbero contraddistinto il Marista da certi religiosi e dal clero secolare: nessuno, neppure il Superiore Generale, dovrebbe avere a proprio uso esclusivo una cavalcatura (Ibid., cap. II, n. 141,. Pp. 49-50); la biancheria stessa da bucato dovrebbe essere, possibilmente, comune: le offerte per i ministeri non sollecitate (Ibid., cap. II, n. 150, p. 52); gli stipendi di mese e le elemosine, qualora la Società avesse altre fonti sufficienti di reddito, “non recipere optimum est” (Ibid., cap. II, n. 142, p. 50).

Tuttavia le norme che riguardano la povertà esterna vanno lette alla luce dell’articolo “De Societatis spiritu”. Lì la povertà non è descritta solo come spogliarsi delle cose terrene, bensì lo abbiamo visto diffusamente nelle pagine precedenti, come distacco dalla propria considerazione, abnegazione completa di se stessi, considerandosi come servi inutili e feccia degli uomini. La povertà è svestirsi di ogni manifestazione dello spirito mondano negli edifici, nel tenore di vita, nei rapporti con il prossimo, “amantes nesciri et omnibus subesse” (Ibid., art. X, n. 50, p. 19).

Perfino le opere di zelo, da praticare necessariamente nel mondo, devono essere accompagnate dall’”amore per la solitudine e il silenzio e dalla pratica delle virtù nascoste”. In un periodo in cui generalmente i religiosi erano economicamente bene installati e la Chiesa di Francia cercava sistematicamente di recuperare i beni che i diversi regimi le sottraevano, la Società di Maria viene chiamata a dare testimonianza di autentico spirito di povertà evangelica e di gratuità.

Nel capitolo finale delle Costituzioni, pensato dal P. Colin come la sintesi di tutte le norme, la povertà è computata come uno dei “quattro angoli inespugnabili”, sui quali è edificata la Società. Essa è “omnium virtutum conservatrix, et ideo Societatis vere praesidium et tutela” ( Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161). Ritrovando un intimo collegamento con altri aspetti dello spirito marista il P. Fondatore afferma che la povertà, liberando il cuore dalle cose terrene e superflue (Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161)…

Venerdì, 02 Giugno 2006 21:09

La missione dell’uomo (Giovanni Vannucci)

La missione dell’uomo
di Giovanni Vannucci


Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito Santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito Santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine.

Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito Santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito Santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici.

Ma come e a chi è concesso lo Spirito Santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia - è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità... -. Lo sciamano, quando sale sul suo albero - l’albero ha sette tacche, sette segni incisi -, quando giunge al settimo segno riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito Santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. E’ il numero della pienezza divina e umana.

L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? E’ l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve - attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo.

L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore, poi è costituito da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore : il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito Santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini.

Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? E’ un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Poi lo Spirito è cantato dal nostro linguaggio ... Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi ; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, il vagabondo, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare il lavoratore, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è lo studente, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è la madre, che accompagna questo corteo; poi c’è il magistrato, un giurista, un guerriero; poi c’è l’artista, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è il prete.

Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri.

Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia.

Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa.

Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito Santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo.

Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato.

Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito Santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito Santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra . E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa.

Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. E’ un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana.

Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito Santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito Santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme.

Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito Santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita.

Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito Santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora - vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi... sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè alla visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito Santo.



1) Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.undefined
Venerdì, 02 Giugno 2006 20:35

La solidarietà di Dio (Alex Zanotelli)

"Passai vicino" - a te dice il Signore parlando ad Israele schiavo in Egitto - "ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue…". (Ez 16) E’ il Signore che si accorge del grido degli schiavi forzati a costruire i palazzi imperiali del faraone.

Dialogo nella tradizione cistercense
Per vivere in comunione
di Zelia Pani



Il valore pedagogico del dialogo nella formazione iniziale e in quella permanente come strumento di relazione tra le persone e di costruzione di una visione comune in funzione comunionale.

“Perché Possa vivere e crescere nell’unità, ciascuna comunità necessita di una visione comune della vita monastica”; in caso contrario, le persone che vivono in monastero potrebbero avere, del proprio esserci, ognuno un’idea diversa e quindi crearsi un cammino “separato”, vivere una propria vita e non contribuire efficacemente a creare un contesto comunitario generatore di vita. Lo scrive da Roma l’abbadessa madre Rosaria,ocso (ordine cistercense della stretta osservanza) in un articolo pubblicato sul Bulletin de l’A.I.M. (Alliance Inter Monastères), 84/2005, 43-50: un numero monografico su L’art de gouverner, nel quale il ministero dell’autorità al servizio della comunità è considerato secondo svariati aspetti.

Il tema sviluppato da madre Rosaria, Comunità in dialogo, la visione comune: un’autenticità vissuta insieme, propone una riflessione certamente estensibile, con le eventuali varianti carismatiche, anche a qualsiasi comunità religiosa che voglia realizzarsi come espressione della Chiesa-comunione.

A tutte, infatti, si attaglia l’osservazione del fatto che – scrive l’abbadessa – difficilmente la frammentazione dei progetti e dei comportamenti risulta attraente presso i giovani e le giovani chiamati/e alla vita consacrata in monastero, provenienti per lo più da un mondo rattristato dalla solitudine e chiuso in modo più o meno egoistico nell’individualismo; né può essere fonte di gioia e di vita nuova per le stesse comunità in atto.

In particolare, tuttavia, l’accento è posto nella riflessione di m. Rosaria sulla realtà da lei stessa vissuta nel suo autorevole ruolo: “Una riscoperta della vita cenobitica benedettina-cistercense, secondo la quale l’itinerario verso Dio si compie nella comunità e attraverso la comunità, sacramento di Cristo salvatore, avrà un impatto positivo sulla gioventù d’oggi.

COSTRUIRE CON SAPIENZA

Lo stile formativo cistercense – che conferma nell’ocso la sintonia dei suoi padri «con ciò che il concilio ha chiamato una “ecclesiologia di comunione”» - punta per ciascuna comunità sul dovere di costruire la propria visione comune su tre punti specifici: “l’insegnamento dell’Abate, fondato sulla tradizione, nel senso vero e bello del termine, costituito da tutto ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, ossia il Vangelo, la regola, la dottrina dei Padri, che l’insegnamento attuale dei capitoli generali, il magistero della Chiesa, la storia e l’identità particolare della comunità di appartenenza; la riflessione e il dialogo, mediante i quali tale insegnamento viene assimilato e integrato in un criterio che determina le decisioni concrete della nostra vita qui e ora, in modo tale che la tradizione sia una risorsa e non un ostacolo; un ascolto colmo di saggezza di ciò che forma la realtà storica nella quale siamo inseriti. Che cosa ci viene chiesto qui e ora? Come ne integriamo il contenuto nella nostra tradizione viva? Il nostro carisma quale risposta dà alle sfide concrete che oggi ci vengono lanciate?”

A questo punto l’abbadessa ritiene di dover segnalare un possibile equivoco e propone di distinguere tra visione comune e ideologismo: “Nell’ideologismo si prende un’idea, dunque un particolare della realtà e lo si assolutizza fino a farne la chiave interpretativa dell’intera realtà”: si tratta – e qui richiama anche il pensiero dell’Abate generale dom Bernardo Olivera – di una forma di violenza sulla realtà, di un’esagerazione che si regge soltanto a prezzo di innumerevoli censure della realtà, come dimostra la storia delle ideologie dell’ultimo secolo.

Ma la verità - prosegue – “non è un’idea spuntata nella nostra mente. Non v’è che una sola verità assoluta e universale, a partire dalla quale anche il minimo frammento di realtà può essere accolto e compreso: Dio. Non un dio-idea, ma il Dio vivente, la santa Trinità fattasi palpabile nell’umanità di Cristo. Attorno a lui, per la forza dello Spirito siamo uno, siamo la Chiesa. Ed è convertendoci al suo modo di pensare e di vedere le cose che giungeremo a una visione comune”.

UNO STRUMENTO NECESSARIO

Il pensiero che m. Rosaria esprime trova riscontro – ella stessa scrive – sul documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica/2002, del quale anzi riporta l’intera parte centrale del n. 18. in tale sezione infatti la CIVCSVA pone al centro dell’itinerario di rinnovamento, cui tutte le comunità religiose sono tenute, il dialogo: il dialogo in funzione formativa, perché si possano conoscere e valorizzare le persone nelle loro doti umane, sociali e spirituali, e discernere “in esse i limiti umani che chiedono il superamento nonché le provocazioni dello Spirito che possono rinnovare la vita del singolo e dell’istituto” (RC 18); e il dialogo comunitario che porti in funzione comunionale ad “accogliere ed integrare i diversi modi i vedere e sentire “ (ivi) .

Il dialogo appare così - prosegue l’articolo - supremamente necessario a causa della grande differenza nell’educazione, nella cultura e nella corrente di pensiero ispirativa dei giovani nel mondo d’oggi, globalizzato e livellato in superficie ma privo di una cultura fondamentale omogenea; dove il Vangelo non è più un punto di riferimento e le medesime parole non hanno identico significato, mentre in monastero è indispensabile che le parole Dio, virtù, umiltà, fede, carità, silenzio, obbedienza… - e il contenuto che noi attribuiamo loro abbiano il medesimo senso.

La necessità odierna di un confronto continuo è perciò evidente: “Parlare, esprimersi per identificare il valore delle parole, discernere ciò che è buono e vero da ciò che non lo è, risalire dalle parole ai principi, dai principi al pensiero che li determina, e ancora più lontano ai sistemi di pensiero e alle esperienze dalle quali le parole sono sgorgate”.

Il dialogo che lo stesso RC qualifica formativo si riferisce - precisa m. Rosaria - al tempo della formazione iniziale quando la sua funzione pedagogica è più importante e durante la quale il dialogo avviene in primo luogo col formatore. “In monastero la Parola incarnata, Gesù, si incontra anzitutto nel rapporto privilegiato con colui che esercita per noi la paternità spirituale, e col quale viviamo l’apertura del cuore”.

È pur vero che ultimamente l’espressione tradizionale di paternità spirituale è stata a mano a mano abbandonata per far posto a quella di accompagnamento spirituale: un cambiamento di vocabolario che è spia di una profonda modificazione dell’intima sensibilità comune, passata “da qualcuno che si trovava davanti a me a qualcuno che si trova di fianco a me”.

Tuttavia nella tradizione monastica, benché il termine accompagnamento sembri più adatto alla mentalità contemporanea, il linguaggio filiale rimane quello che traduce in modo più completo e incisivo la realtà della relazione tra formatore e formando/a . Infatti “c’è qui in gioco un impegno responsabile e libero che ha caratteristiche molto diverse da quelle di una relazione semplicemente fraterna. Per il novizio, prendere liberamente la decisione di rinunciare alla propria sufficienza e autonomia è riconoscere che soltanto attraverso la mediazione di un altro potrà emergere la grazia dello Spirito Santo. San Benedetto considera l’apertura del cuore come l’apertura al Signore stesso. I testi della Scrittura che egli cita a tal proposito dicono esplicitamente che il fondamento di tale relazione è la fede. L’atteggiamento filiale consiste realmente in questo: aprire progressivamente il proprio cuore per ricevere una parola, credendo che tale atto esprime l’apertura alla stessa verità che è Cristo”.

In secondo luogo – precisa m. Rosaria – “il dialogo si vive in gruppo, tutti i fratelli o le sorelle con il formatore (nel noviziato e nel monasticato, da noi, l’incontro è settimanale). All’inizio, lo scambio nel dialogo tra i giovani verte su ciò che si legge e si interiorizza riguardo alla vita monastica, le sue osservanze, i suoi valori e anche l’esperienza che ognuno ha fatto sia dei valori che del modo nuovo di vivere”. E si nota ben presto – prosegue esemplificando – che quando si scambiano idee il dialogo si ferma al livello teorico, si vede che rimane una distanza tra ciò che si è capito e ciò che è stato vissuto. Così con l’aiuto del maestro o della maestra delle novizie i giovani prendono coscienza delle contraddizioni esistenti in se stessi; ognuno scoprirà le proprie incoerenze e sperimenterà alla luce della parola del Signore la dinamica di conversione che il dialogo può provocare portando alla ricerca della verità: sul piano del pensiero, su quello dell’autenticità di vita e di quell’impegno comune che conduce a scoprire “una verità più grande di quella che ciascuno può trovare cercando autonomamente”.

IL DIALOGO COMUNITARIO

Non c’è dubbio che anche il dialogo comunitario sia formativo, quantunque abbia luogo in un campo di indagine più ampio come la partecipazione nel consiglio dei fratelli al governo dell’abate, o più spesso perseguendo altre finalità, ad esempio per giungere a una decisione in merito a questioni concrete mediante una semplice riflessione interpersonale.

Ma ciò non è ancora il vero e proprio dialogo monastico, finalizzato non alla messa in comune di qualcosa o alla conoscenza reciproca o a uno scambio qualsiasi di idee, ma a qualcosa di più profondo che riflette il senso del dialogo ecclesiale.

“Nella Chiesa il dialogo non è un dibattito democratico e tanto meno uno scambio in vista di una migliore conoscenza psicologica. Né per crescere nel dialogo è sufficiente essere generosi. La generosità non coincide con la capacità di comunicare, di ascoltare, di collaborare. Il dialogo ecclesiale, strumento di ricerca della verità è molto diverso, sia nella teoria che nella pratica, dal dialogo democratico dove tutte le idee vengono non solo rispettate ma ritenute ugualmente valide: tutto può essere buono, tutto possibile. Nel dialogo ecclesiale accoglienza e rispetto sono dovute a ogni persona e a ogni cammino personale sincero e autentico. Ma non tutte le idee sono uguali: occorre valutarle attentamente una per una, col rispetto dovuto alla verità che si conosce e che si cerca. Riflessione, dominio di sé, umile consapevolezza nei valori nei quali si crede, apertura all’altro che è diverso, capacità di ascoltare con pazienza, simpatia e intelligenza…”.

INCONTRARSI ATTORNO A GESÙ

L’elenco di quanto sia necessario per un dialogo comunitario fruttuoso sarebbe ancora lungo, ammette m. Rosaria; ma ciò che ella afferma essere indispensabile è “mantenere la presenza dello stesso atteggiamento di fede di cui si è detto per il dialogo nella formazione iniziale: è la stessa relazione sacramentale che si estende fino all’ultimo dei fratelli e delle sorelle, come giustamente esige s. Benedetto: “Che i fratelli si obbediscano scambievolmente”. Se manca tale indispensabile condizione, la fede, neppure le più belle idee porteranno frutti di conversione.

Un clima che avvolge totalmente la vita comune orientata con costanza all’autenticità della comunione, quasi di un reale modus vivendi sempre in atto: è ciò che si intuisce dietro le parole dell’abbadessa cistercense, la quale sottolinea il fatto che il dialogo in comunità “è un momento di incontro dove Gesù è veramente presente. Noi ci raduniamo nel suo nome, siamo la sua Chiesa e cerchiamo il suo pensiero e la sua volontà su di noi. Apprendiamo ad ascoltare e a comunicare a costruire la visione comune e l’unità, non di rado anche attraverso un cammino di riconciliazione.

Impariamo a discernere le situazioni e le difficoltà, sapendo tutti che dobbiamo compiere ogni sforzo per amarci gli uni gli altri; il più difficile infatti è riconoscere che se io faccio personalmente tale sforzo anche l’altro sta facendo il medesimo sforzo. E la fede nello Spirito che anima me anima che lui, poiché credere nell’amore dell’altro si fonda sul fatto di essere la Chiesa, il corpo del Signore”.

Infine, il dialogo comunitario rimane sempre un mezzo di ricerca della verità a più livelli: “Verità di se stessi: correzione fraterna, revisione di vita, confessione di mancanze personali, richiesta di perdono; verità del cammino concreto della comunità mediante scambio di idee, consiglio dell’abate in verità e umiltà nello spirito della regola e quando è necessario come decisione mediante voto; ricerca dello sguardo di Dio, del pensiero di Cristo e della sua Chiesa, della sua volontà per la nostra comunità, e il nostro ordine in questo momento storico della Chiesa e del mondo”.

Ecco perché - conclude m. Rosaria - occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, e perché unica nostra premura deve essere quella di divenire discepoli, persone mature e pacificate, capaci di ascoltare, di apprendere, di meravigliarsi.

Nella vita ci sono tanti motivi per scoraggiarsi, difficili da comunicare agli altri, ma che con il passare del tempo diventano dei veri e propri fardelli che si insediano nella psiche dell’individuo. Una persona così bloccata ha bisogno del sostegno di un contesto relazionale comprensivo. Grande importanza ha in questo la comunità.

Vi sono delle partenze che appartengono alla categoria della fuga, altre che conducono a una nuova nascita: si lascia “l'uomo vecchio per trovare un uomo nuovo”. la cura analitica fa parte di queste partenze costruttive. ma il viaggio è disseminato di trabocchetti, e quel che si scopre non è necessariamente quel che si cercava…

Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:28

Ecumenismo spirituale (Gianfranco Brunelli)

Ecumenismo spirituale
di Gianfranco Brunelli


Il movimento ecumenico vive oggi una condizione di rapida trasformazione. Luci e ombre si bilanciano. Accanto ai dialoghi teologici e a una ricezione maggiormente condivisa, il movimento ecumenico ha bisogno di una nuova motivazione fondata sullo Spirito, cioè di una rinnovata spiritualità dell'ecumenismo.

È questo il giudizio che il card. w. Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, ha espresso aprendo l'Assemblea plenaria (Roma, 2-5.11.2003; Regno-doc. 21,2003,653). L'assemblea biennale del Pontificio consiglio è l'occasione di verifiche e di nuovi progetti (cf. Regno-att. 4,2001,127; 4,2002, 132). Allo svolgimento dei lavori concentrati sul tema della spiritualità di comunione, il card. Kasper ha affiancato anche un suo importante intervento dottrinale sul «carattere teologicamente vincolante» del decreto conciliare sull' ecumenismo Unitatis redintegratio (cf. Regno-doc. 21,2003,649 ss), conferendo sempre più al suo dicastero quel ruolo anche dottrinale che il concilio Vaticano II intese dargli.

Nel suo messaggio (3 novembre 2004), Giovanni Paolo II ha riconosciuto, nel quadro degli importanti risultati conseguiti, le presenti difficoltà e ha ribadito l'irreversibilità della scelta ecumenica: «Certamente, la via ecumenica non è una via facile. A mano a mano che progrediamo, gli ostacoli sono più facilmente individuati e la loro difficoltà è più lucidamente avvertita. Lo stesso traguardo dichiarato dei vari dialoghi teologici, in cui la Chiesa cattolica è impegnata con le altre Chiese e comunità ecclesiali, sembra in certi casi farsi persino più problematico. La prospettiva della piena comunione visibile può a volte ingenerare fenomeni e reazioni dolorose in chi vuole accelerare a tutti i costi il processo, o in chi si scoraggia per il lungo cammino ancora da percorrere. Noi tuttavia, alla scuola dell'ecumenismo, stiamo imparando a vivere con umile fiducia questo periodo intermedio, nella consapevolezza che esso resta comunque un periodo di non ritorno. Vogliamo superare insieme contrasti e difficoltà, vogliamo insieme riconoscere inadempienze e ritardi nei confronti dell'unità, vogliamo ristabilire il desiderio della riconciliazione là dove esso sembra minacciato da diffidenze e sospetti. Tutto questo può essere fatto, all'interno della stessa Chiesa cattolica e nella sua azione ecumenica, soltanto partendo dalla convinzione che non vi è altra scelta, poiché "il movimento a favore dell'unità dei cristiani non è soltanto una qualche 'appendice', che si aggiunge all'attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione" (Ut unum sint, n. 20; EV 14/2703)».

Aporie e nuove questioni

La crescita di consapevolezza ecumenica, tradotta nelle diverse Chiese - come hanno dimostrato i rapporti presentati per l'occasione sulla pratica spirituale comune tra le conferenze episcopali e i singoli organismi di dialogo e la diffusione nelle Chiese locali della settimana di preghiera per l'unità - indica un progressivo approfondimento e un'ampia condivisione a livello di popolo di Dio. La voce comune dei cristiani ha anche conosciuto nel corso del 2003 un'inattesa espressione in occasione della crisi irachena sui temi della pace e del diritto internazionale, con una inedita adesione al magistero del papa su questo punto.

Accanto alla crescita del movimento ecumenico si sono sviluppate anche tendenze di segno opposto, tali da suscitare nuove divisioni in seno alle Chiese: «Se da una parte si perviene a vincere gli antichi contrasti... dall'altra insorgono nuove divergenze, per la maggior parte dei casi in materia etica come I' aborto, il divorzio, l'eutanasia, l'omosessualità. Analogamente i problemi etnici, sociali e politici hanno spesso l'effetto di causare divisioni». Le tensioni tra le Chiese ortodosse autocefale, le nuove divisioni all'interno della Comunione anglicana, il proliferare di sette provenienti dalle comunità di tradizione riformata, le resistenze esistenti nella Chiesa cattolica nuocciono al dialogo.

Accanto a queste difficoltà di lunga durata, Kasper annota anche tre nuovi rischi: una pratica sempre più diffusa di «ecumenismo selvaggio»,frutto di superficialità, indifferenza, impazienza; la tentazione a un'impraticabile ripiegamento di tipo confessionale; infine, il proliferare delle sette con il loro «esclusivismo fanatico della salvezza». In questa situazione il rapporto tra teologia ecumenica e missionologia ha bisogno di essere ripensato. Sul piano delle relazioni con le chiese ortodosse, Kasper annota il cambiamento di clima nei rapporti con la Chiesa ortodossa in Grecia, Bulgaria e Serbia, mentre rimangono «intense e cordiali» le relazioni con il Patriarcato ecumenico. Con la Chiesa ortodossa russa i rapporti non sono peggiorati rispetto al 2001. Le questioni polemiche aperte sono le stesse esplose dopo il 1989: uniatismo, proselitismo, identificazione tra fede, cultura e nazione, libertà religiosa; mentre i problemi teologici circa la comprensione della Chiesa (autocefalia, territorio canonico, comprensione del termine Chiese sorelle) hanno mostrato nuovi approfondimenti e nuove difficoltà. Kasper auspica che tra Roma e Mosca si stabilisca una sorta di «codice di comportamento» e una collaborazione più stretta sui temi internazionali (Europa, Medio Oriente, pace).

Nell'insieme delle comunità ecclesiali occidentali le relazioni segnano passi significativi nel processo di ricezione della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999), mentre nuove difficoltà sono sorte dopo la pubblicazione da parte cattolica della dichiarazione Dominus Iesus (2000) e dell'enciclica Ecclesia de eucharistia(2003). Le polemiche sul Kirchentag di Berlino (giugno 2003) hanno confermato le difficoltà.

I rapporti con la Comunione anglicana segnano un passaggio di grande difficoltà: emergenza di nuovi problemi in ambito etico e frammentazione interna alla stessa Comunione anglicana.

Il problema fondamentale con le comunità ecclesiali di tradizione riformata è quello di una diversa ecclesiologia che «conduce a diverse concezioni dello scopo ecumenico al quale si tende».Fino a quando non si saranno risolte le questioni ecclesiologiche è difficile immaginare passi ecumenici significativi. «Lo scopo ecumenico, dal punto di vista cattolico - ricorda Kasper - è la comunione piena e visibile nella fede, nei sacramenti e nel ministero gerarchico. Questa comunione, come mostra tra l'altro l'esempio delle Chiese orientali, considera una ricchezza la pluralità delle forme d'espressione delle diverse Chiese locali, a condizione che esse non comportino divergenze sostanziali. Da ciò si discosta il modello d'unità proposto dalla Concordia di Leuenberg (1973)».

Secondo tale modello, le Chiese confessionali adottano una forma di comunione ecclesiale che presuppone un consenso di principio circa la comprensione del Vangelo, pur lasciando sussistere professioni di fede diverse, Separate dal punto di vista confessionale e istituzionale, le Chiese sono in comunione per il pulpito e la santa cena, e riconoscono i rispettivi ministeri. In una diversa comprensione della comunione ecclesiale si motiva il no della Chiesa cattolica all'intercomunione.

Per Kasper è questa aporia che oggi condiziona il dialogo e che deve essere superata.

Spiritualità e modello trinitario

Da questa diversità è partita anche la riflessione di mons. Kurt Koch, vescovo di Basilea, a cui è stata affidata la relazione principale, intitolata: «Riscoperta dell' anima di ogni ecumenismo (Unitatis redintegratio, n. 8). Necessità e prospettive di un ecumenismo spirituale» (Regno-doc. 21,2003, 658).

Per Koch «chiarire la comprensione della Chiesa e dell'unità è oggi il principale punto alI'ordine del giorno ecumenico»; in secondo luogo «la ricerca di una comprensione della natura della Chiesa difendibile dal punto di vista ecumenico deve essere perseguita come un processo spirituale». A ciò corrisponde in primo luogo «il compito spirituale permanente, suscettibile di distinguere tra ciò che è divino nella Chiesa e ciò a cui essa può rinunciare... Come per la spiritualità cristiana nella quale la distinzione degli spiriti è centrale, così deve essere per la spiritualità dell' ecumenismo».

Accanto alla preghiera come sorgente e al dono dello Spirito, Koch ha indicato il modello trinitario dell'unità: «L'unità ecclesiale ed ecumenica è (...) fondata sulla comunione trinitaria (...). La Chiesa può essere un' icona della Trinità soltanto se essa concepisce la sua unità, anche in una prospettiva ecumenica, non come uniformità e certamente neppure come pluralismo disarticolato, ma - al di là del modalismo e del triteismo - come un'unità nella diversità e come diversità nell'unità. L'obiettivo del movimento ecumenico è e resta I'unità visibile, ma non come Chiesa unitaria».

La spiritualità ecumenica della comunione è a doppio senso di marcia. Nessuna Chiesa è così povera da non poter dare un suo contributo peculiare e nessuna Chiesa è così ricca da non avere bisogno di essere arricchita dai carismi di altre Chiese.

L'ecumenismo riposa ancora oggi sul reciproco riconoscimento del battesimo. Esso invita a una pedagogia della santità, ha ricordato Koch richiamando Martin Lutero, che ha qualificato il battesimo del cristiano come «il suo abito di tutti i giorni che egli deve sempre indossare». «Per questo motivo, se vivi in pienezza, entri nel battesimo, che non significa soltanto vita nuova, ma che agisce, inizia, incita».

Non si tratta dunque della conversione degli altri, ma della propria conversione, la quale presuppone la disposizione interiore a riconoscere in modo autocritico le proprie debolezze e mancanze. Entro tale atteggiamento di principio, suggerisce Koch, è bene misurare i passi che ciascuno può e potendo deve fare.

È sulla scorta di quest'ultima affermazione che va inteso anche il testo che il card. Kasper ha consegnato a L'Osservatore romano il 9 novembre, anticipando e aprendo la celebrazione del 40° del decreto conciliare Unitatis redintegratio (Regno-doc. 21,2003,649).

Nel testo di Kasper è chiara la volontà di segnare una ripresa forte da parte cattolica dello spirito conciliare, definito spirito ecumenico. Riproponendo la troppo trascurata tesi che il decreto sull' ecumenismo vada interpretato assieme alla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium e questa con quello, Kasper addita il compito di un approfondimento della ecclesiologia di comunione nella Chiesa cattolica. «Nella mutata situazione ecumenica - dice Kasper - noi abbiamo ogni motivo per far sì che Unitatis redintegratio sviluppi la sua vitalità tanto nella teologia quanto nella prassi».

(da Il Regno, 22, 2004)


Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:17

Tracce femminili nell'Islam (Adel Jabbar)

Nel riflettere sulla condizione della donna nei paesi musulmani, tema oggi molto discusso, è importante saper esplorare i vissuti reali, dentro i quali le donne cercano di interpretare ed elaborare realtà e situazioni, consapevoli dei limiti che vengono loro posti, delle convenzioni e dei retaggi culturali che spesso le ostacolano, lì come del resto anche altrove.

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