Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
La madre del mio Signore
di Alberto Valentini
A prima vista la visitazione sembra secondaria rispetto all’annunciazione tanto più se ci si limita, come nel nostro caso, ai soli versetti Lc 1, 39-45.
Le cose, in realtà, non stanno così, sia dal punto di vista narrativo e strutturale, sia a livello tematico
Sul piano della narrazione, se è vero che la visitazione non si spiega senza l'annunciazione, è vero in qualche misura anche il contrario: senza l'incontro con Elisabetta l'annuncio a Maria resta quasi sospeso e incompiuto.
Dal punto di vista della struttura la visitazione conclude il dittico degli annunci, a Zaccaria (1,5-25) e a Maria (1,26-38), ed opera la transizione a quello delle nascite di Giovanni (1,57-79) e di Gesù (2,1-21).
Sotto il profilo tematico la visita ad Elisabetta conferma ed esplicita la ricchezza dell'annuncio a Maria, che non di rado - proprio a motivo della sua importanza - viene estrapolato dal contesto, con la conseguenza di mortificarne gli sviluppi e il dinamismo salvifico, nonché gli echi nella comunità ecclesiale.
La visitazione, che nella tradizione esegetica non ha mai goduto del favore riservato all'annunciazione, a uno studio attento rivela notevole densità ed aspetti solitamente trascurati se non addirittura ignorati e misconosciuti.
Ovviamente, come ogni altro testo, la pericope va studiata non solo in se stessa, ma alla luce del contesto immediato e remoto. Nel nostro caso, il contesto immediatamente precedente e quello successivo acquistano importanza particolare, dal momento che la visita di Maria occupa una posizione e una funzione strategica nell'economia dei racconti dell'infanzia di Luca.
Intendiamo pertanto esaminare il brano alla luce di quanto precede e di quel che segue: retrospettivamente, con riferimento a Le 1,26-38 (ed anche a 1,5-25); in chiave prospettica, quale anticipazione della sezione delle nascite.
La struttura di fondo che lega i brani delle annunciazioni e quello delle nascite è costituita dal rapporto: annuncio-compimento. Al punto di incontro di questi due eventi, quale importante cerniera, si pone la pericope della visita di Maria ad Elisabetta
1. CONTINUITÀ CON GLI ANNUNCI
La visitazione è del tutto incomprensibile prescindendo dalla sezione degli annunci, con la quale è in rapporto di continuità e di sviluppo. Lo stesso contesto spazio-temporale, che forma la cornice della visita ad Elisabetta, rivela tale stretta connessione. L'inizio del viaggio (v. 39) e il ritorno "a casa sua" (v. 56) di Maria ha come punto di partenza e di arrivo - non nominato, ma evidente - Nazaret, che conosciamo grazie alla narrazione precedente (v. 26). Anche il contesto temporale, indicato a conclusione dell'intera pericope - "Maria rimase con lei circa tre mesi" (v. 56) - si giustifica sulla base dell'annotazione - "Nel sesto mese" - fornita dalla narrazione precedente (v. 26). La scena dunque si sposta da Nazaret, luogo dell'annuncio a Maria, a una città di Giuda, in casa di Zaccaria.
Col cambiamento di scena si assiste anche ad alcuni mutamenti di personaggi e di ruoli.
Finita la sua missione, è scomparso l'angelo (v. 38), ed è uscito di scena, almeno per il momento - proprio in casa sua! (v. 40) -, Zaccaria: entrambi precedentemente protagonisti.
Elisabetta, che nell' annuncio della nascita del Precursore compariva soltanto al termine e si teneva nascosta (vv. 23-25), appare qui in primo piano accanto alla madre di Gesù.
Anche il ruolo di Maria è invertito: mentre nell'annunciazione l'angelo prende l'iniziativa ed ella risponde, qui è lei che parla per prima recando il lieto annuncio della salvezza, cui Elisabetta risponde - a differenza del marito (v. 20) - con fede entusiasta. Mirabile protagonismo femminile! Si direbbe che in questa scena, in cui due donne a gara proclamano l'evento salvifico, si anticipi la missione affidata alle donne il mattino di Pasqua.
A Maria ed Elisabetta è attribuito un ruolo primario nella scena. Nonostante il rilievo dato alla madre del Precursore, il posto centrale è riservato alla madre di Gesù. I veri protagonisti, tuttavia, non sono le madri, ma i bambini: il figlio della Vergine e quello della sterile, i quali benché ancora non parlino, sono oggetto dell'annuncio, il primo, e autore della reazione gioiosa, il secondo. Protagonista ancor più misterioso e decisivo è lo Spirito santo: annunciato e promesso dal messaggio dell'angelo (v. 35) e disceso nel cuore e nella carne della Vergine per la generazione del Figlio di Dio, Egli spinge Maria al "santo viaggio" (cf Sal 84,6), mette sulle sue labbra il saluto messianico e suscita la risposta gioiosa e la confessione di fede di Elisabetta. Lo Spirito che ha operato in Maria l'evento salvifico è all'origine della sua proclamazione, che per il momento avviene in casa di Zaccaria e nella comunità lucana, ma dovrà esser diffuso fino ai confini della terra (cf At 1,8).
2. ANTICIPAZIONE DELLE NASCITE
La scena della visitazione è in continuità con gli annunci, ma segna anche uno sviluppo nei loro confronti e già introduce la sezione delle nascite. L'annuncio a Zaccaria - nonostante la sua incredulità - e quello a Maria grazie alla sua fede - si stanno infatti realizzando: ne sono segno evidente l'incontro delle due madri, donne in attesa del compimento del mistero in esse iniziato. La maternità di Elisabetta, già nota per la parola dell'evangelista (cf vv. 24-25) e dell'angelo (v. 36), appare qui nella sua concretezza e fisicità attraverso il sobbalzo del bambino (vv. 41.44); la maternità della Vergine, finora avvolta nel mistero, viene riconosciuta e proclamata a gran voce (vv. 42-43).
Tra l'annunciazione e la visitazione corre un parallelismo progressivo. Oltre che dai contenuti, il progresso è evidente dal punto di vista formale: mentre il racconto dell'annuncio a Maria poggia su una serie di verbi al futuro: "concepirai... darai alla luce... lo chiamerai... lo Spirito Santo verrà su dite... Colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio", il brano della visita ad Elisabetta è caratterizzato da forme verbali al presente e al passato e da esperienze in atto: "benedetta... beata... colei che ha creduto... la madre del mio Signore".
Nei vv. 39-45 c'è già un inizio di compimento che sarà definitivo solo al momento delle nascite. Gli annunci dell'angelo hanno già rivelato la loro efficacia; ormai la tensione del racconto preme decisamente e in maniera irreversibile verso la conclusione.
I riferimenti alla maternità, rispettivamente di Maria e di Elisabetta, sono infatti molteplici: il primo segno viene dal sussulto del bambino di quest'ultima; tale movimento gioioso del piccolo nel grembo materno è la reazione suscitata dallo Spirito per la presenza di un altro bambino della quale Maria di Nazaret è portatrice. I due non sono ancora nati, ma già agiscono come se lo fossero, anticipando la foro futura missione: il Figlio di Dio in grembo alla Vergine fa già irruzione nella storia riempiendola di gioia messianica; il Precursore, dal seno di Elisabetta, è il primo ad avvertirne e a proclamarne la presenza. Il bambino reagisce di fronte al bambino, la madre al cospetto della madre. Elisabetta, illuminata dallo Spirito e scossa dal sussulto del suo bambino, dichiara a gran voce la maternità in atto della Vergine; non solo la proclama benedetta per il frutto del suo grembo, ma la saluta con stupore, quale madre del Signore (v43). È come se ella avesse già generato il Figlio, cui già si attribuisce il titolo di Signore! La funzione prolettica del brano è indubbiamente notevole.
Le parole di Elisabetta non solo rivelano e celebrano la maternità messianico-divina della Vergine, ma ne sottolineano anche la componente di fede e beatitudine, tipica della riflessione lucana. La fede della Vergine, posta a suggello dell'annunciazione (v. 38), non solo è ribadita alla luce del compimento, ma viene anche celebrata mediante un macarismo (v. 45), che sarà ripreso subito dopo (v. 48) e, più tardi, nel corso del vangelo di Luca (11,28). Con la sottolineatura della fede di Maria e con il macarismo conseguente si va ben al di là di una generazione umana, per quanto straordinaria: se ne proclama la dimensione dall'Alto, ad opera dello Spirito; e si evidenzia già una qualche forma di incipiente venerazione della madre del Signore da parte della comunità lucana di cui Elisabetta è testimone e portavoce.
3. IL MOTIVO DELLA VISITA DI MARIA
L'unico motivo esplicitamente indicato dal testo è quello del "segno" dato dall'angelo alla Vergine (v. 37), a conferma dell'efficacia della sua parola. A differenza di Zaccaria (v. 18) e di molti personaggi biblici, Maria non ha chiesto un segno, né ha preteso garanzie. Ella, tuttavia, va prontamente a constatare l'opera del Signore in Elisabetta con lo stesso atteggiamento col quale ha accolto l'azione di Dio nella propria vita.
La maternità straordinaria di Elisabetta addita e prepara un evento ancor più radicale: la maternità verginale con cui, secondo la promessa isaiana (Is 7,14), il Signore offre al mondo il segno definitivo: l'Emmanuele, Dio-con-noi, salvatore del suo popolo.
Il motivo della solidarietà - pur non essendo esplicito nel racconto lucano - è addotto molto spesso nella storia dell'interpretazione del testo, fino ai nostri giorni. Indubbiamente tale motivazione sottolinea un valore antropologico ed evangelico - al quale è molto sensibile il nostro tempo -, ma non sembra la ragione vera, dal punto di vista esegetico, del viaggio della Vergine.
Molto più convincente, e in linea con la concezione biblica e lucana, appare la dimensione "missionaria" del viaggio, in connessione e quale conseguenza della vocazione ricevuta. L'annuncio a Maria e la visita ad Elisabetta si presentano come due pannelli di un unico quadro: la vocazione si realizza nella missione. Maria, destinataria della chiamata e del messaggio dell'angelo, è inviata quale annunciatrice della salvezza di Cristo. Ella che nell'annunciazione ha accolto il Messia Figlio di Dio è la prima Teofora e testimone della salvezza.
È questo il motivo del sussulto di gioia di Giovanni nel grembo della madre, espressione del giubilo della creazione alla presenza del suo Signore; ciò spiega bene anche lo stupore gioioso di Elisabetta (v. 43). Tale interpretazione si pone sulla scia di un celebre testo isaiano, che potrebbe essere lo sfondo di questo viaggio frettoloso e del messaggio della visitazione: "Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero di lieti annunzi / che annunzia la pace, / messaggero di bene / che annunzia la salvezza, / che dice a Sion: "Regna il tuo Dio". / ... Prorompete insieme in canti di gioia, / rovine di Gerusalemme, / perché il Signore ha consolato il suo popolo" (Is 52,7.9).
La visitazione presenta dunque reminiscenze di vaticini e di gioie antiche che in Cristo acquistano piena espressione e significato; d'altra parte, annuncia ed anticipa eventi futuri, legati in particolare alla Pentecoste lucana. Ricevuto lo Spirito del Signore e sospinti dal suo incontenibile dinamismo come Maria - gli Apostoli percorreranno le strade del mondo per annunciare la salvezza di Dio; e dovunque essi giungano esplode la festa di quanti accolgono la Parola.
Il viaggio di Maria appare dunque un frettoloso cammino di missione. Quanto nell'annunciazione era rimasto nel segreto del suo animo, adesso viene comunicato ad Elisabetta e da lei proclamato a piena voce per la gioia di tutti i credenti.
4. INDIZI DI VENERAZIONE DELLA MADRE DEL SIGNORE
Concludiamo queste riflessioni sulla visitazione sottolineando un aspetto - solitamente trascurato - che costituisce, a nostro avviso, una nota particolare della pericope lucana. Il brano presenta indizi, certo embrionali ma significativi, di venerazione della Vergine da parte della comunità lucana. Tale nota emerge anzitutto dal quadro generale del racconto che rispecchia nelle grandi linee la "celebrazione" di Giuditta da parte dei personaggi più rappresentativi e da tutto il popolo (Gdt 13-16): Giuditta giunge in fretta in città ad annunciare la salvezza; a quelle parole la comunità reagisce con grida di gioia, benedicendo Dio e colei che ha cooperato con Lui; la scena si conclude con un grandioso canto di lode e di ringraziamento a Dio salvatore che trova il suo pendant nel Magnificat. La struttura generale è confermata dalla benedizione rivolta a Maria (v. 42) che riproduce quasi alla lettera Gdt 13,10:
Gdt 13,1 O: "Benedetta sei tu, figlia, ... più di tutte le donne... e benedetto il Signore Dio";
Lc 1,42: "Benedetta tu più di tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo".
Come si vede, la differenza decisiva consiste nel fatto che "il Signore Dio" è divenuto "il frutto del grembo" di Maria. Se Giuditta è benedetta e onorata per aver collaborato con il Dio altissimo, quanto più è degna di tale omaggio la Vergine che porta in grembo il Dio Salvatore!
Il contesto, chiaramente celebrativo, non teme alcuna confusione tra Dio, operatore della salvezza, e la creatura che vi ha collaborato. Alla lode e glorificazione di Dio è associata, con naturalezza, la sua serva.
I segni della venerazione della madre del Signore vanno tuttavia ben al di là del confronto con la figura di Giuditta. È impressionante nella scena della visitazione la serie e la qualità di titoli ed elogi rivolti alla madre di Gesù. Ella è dichiarata eulogh menh più di tutte le donne (v. 42), h mh h tr tou kuriou (v. 43), makaria (v. 45), h pisteusasa (v. 45); ella stessa, infine, con voce profetica annuncia: mi proclameranno beata tutte le generazioni (v. 48b). Le parole di Elisabetta esprimono l'atteggiamento della comunità lucana; anzi inaugurano la venerazione di tutte le generazioni nei confronti dell'umile serva, madre del Signore.
Il primo motivo della venerazione è senza dubbio la maternità per la quale Maria è benedetta più di tutte le donne. Che si tratti di una maternità unica - verginale e divina - appare da molteplici elementi presenti nel testo: il "saluto" della Vergine che riprende quello dell'angelo (vv. 27ss) e manifesta l'evento straordinario in lei operato; il sussulto del Precursore, riempito dallo Spirito fin dal seno materno (cf 1,15); la parola ispirata di Elisabetta che proclama il mistero di quella maternità; il riconoscimento e accoglienza di Maria come madre del Signore.
Il racconto della visitazione, per quanto denso, deve essere integrato con quello dell'annunciazione. Alla luce di questo brano il motivo della maternità si arricchisce di altri importanti connotati che giustificano e rafforzano la venerazione della madre di Dio.
Si tratta di una maternità verginale: il primo titolo attribuito alla fanciulla di Nazaret è quello di vergine, ripetuto due volte all'inizio del racconto (v. 27) e richiamato indirettamente, in seguito, mediante l'espressione "non conosco uomo" (v. 34). È una maternità regale, in riferimento al discendente davidico (vv. 32-33; cf 2Sam 7; Is 7,14), e divina, a motivo dell'opera dello Spirito (v. 35).
È maternità nella carne, ma anzitutto nella fede: Elisabetta che ha dichiarato Maria eulogh menh per il frutto del grembo (v. 42), svela la radice di tale mistero, proclamandola makaria per la fede (v. 45). L'umile adesione alla parola di Dio - secondo Luca - è l'atteggiamento caratteristico della Vergine: tutto è posto sotto il segno di quel sì iniziale che orienta e spiega l'intera sua vita.
La fede è posta a suggello della scena dell'annunciazione (v. 38) e dunque dell'accettazione della maternità messianico-divina; la medesima fede conclude la serie delle lodi e delle parole ispirate di Elisabetta (v. 45). Quanto l'angelo ha annunciato e la madre del Precursore ha constatato porta il sigillo della fede di Maria.
Tutto questo però è opera dello Spirito. A Lui si deve la maternità della Vergine e il sì di fedeltà sgorgato da un cuore nuovo, secondo gli annunci profetici concernenti la Nuova Alleanza (cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; GI 3, l-5). Lo Spirito, che è all'origine delle "grandi cose" (Lc 1,49) operate in Maria, è anche l'autore della lode e venerazione che Elisabetta, la comunità lucana (cf Lc 11,28) e infine tutte le generazioni renderanno alla madre del Signore (1,48) per la sua fede e per la sua maternità.
La domanda può apparire una tautologia. In realtà sottende una questione non irrilevante: la liturgia del Vaticano II è deducibile da principi astratti e si attua in una forma rituale-rubricale 'aggiornata' da esperti del settore (cosa che chiamiamo inculturazione della liturgia)
Riusciremo mai a ricollocare la persona umana al centro di ogni nostro interesse? A svestire i panni dell’homo oeconomicus per poter essere sempre e comunque uomini e donne che sanno incontrarsi e riconoscersi?
Le beatitudini evangeliche affondano le loro radici religioso-spirituali nelle proclamazioni di esultanza che si ritrovano nella tradizione biblica, sia testi storici che profetici, ma particolarmente nei sapienziali e nei salmi.
La parabola del buon Samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell'altro è ap pello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà.
«Credo nello Spirito Santo che procede...» La tradizione orientale e occidentale
di Tomás Spidlík
Quando si pone la questione della differenza che passa fra i cattolici e i cristiani ortodossi, sentiamo spesso due risposte diverse. Gli uni dicono: Non esistono delle differenze sostanziali, si tratta di due Chiese sorelle con due tradizioni che si completano a vicenda. È però un ostacolo principale dell’unione il fatto che essi non riconoscono il papa come capo principale e infallibile della Chiesa universale. Gli altri dicono di più: Dopo un millennio di separazione sono apparse anche varie differenze nella fede stessa. Fra queste la più importante è il Filioque che la Chiesa occidentale ha aggiunto al testo del Credo: Crediamo nello Spirito Santo «che dal Padre e dal Figlio procede». Nel primo e originale testo, approvato nei Concili di Nicea e di Costantinopoli leggiamo: «che procede dal Padre». Una sola parola aggiunta dovrebbe costituire una notevole differenza nella fede? Sì, dicono gli ortodossi, dato che si tratta di professione di fede divina. Lo dicono tutti o ci sono anche interpretazioni più tolleranti?
Vediamo prima cosa dice del problema la Sacra Scrittura. Nel vangelo di San Giovanni lo stesso Cristo afferma che i discepoli riceveranno lo Spirito «che il Padre manderà» (14,25), ma in seguito Gesù aggiunge: «perché prenderà del mio» (16,14). San Paolo scrive che «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio» (Gal 4,6) che è «Spirito di Cristo».
Come interpretavano questi testi gli antichi cristiani? Nella professione di fede recitata durante il battesimo, come la riferisce Sant’Epifanio, leggiamo che lo Spirito «procede dal Padre e riceve dal Figlio». Si ripetono quindi semplicemente le parole del vangelo. Ma già San Damaso lo abbrevia e dice «procede dal Padre e dal Figlio». Questa formula cominciò ad essere generalmente usata in Occidente perché sostenuta dall’autorità di Sant’Agostino. San Cirillo di Alessandria e il grande dottore della Chiesa orientale San Giovanni Damasceno preferivano dire: «procede dal Padre per mezzo del Figlio». Si tratta quindi di diverse formule di spiegazione del mistero, ma nel testo del Credo durante la liturgia rimaneva il testo breve: Spirito «che procede dal Padre». Si temeva di aggiungere qualche cosa anche per il timore dell’eresia di cosiddetti pneumatomachi. Questi negavano la divinità dello Spirito Santo dicendo che fu creato per mezzo del Figlio. Allora era meglio lasciare semplicemente: «procede dal Padre».
Quando fu introdotto il Filioque nel simbolo di fede recitato durante la messa? Si dichiararono in favore di questa addizione i partecipanti al sinodo della Spagna visigotiniana a Toledo nel 589; in seguito al concilio di Francoforte del 794 lo decretò l’imperatore Carlomagno. Il papa di Roma Leone III consentì. Fu quindi l’inizio di una doppia recita del Credo in Oriente e in Occidente, ma il fatto non era oggetto di discussioni. Queste sorsero a Gerusalemme. L’abate del monastero del Monte degli ulivi introdusse nell’807 l’uso «dei Franchi» e i monaci del monastero di San Saba protestarono. Ma la controversia non ebbe troppe conseguenze.
Il vero conflitto ecclesiale sorse nei momenti della separazione fra la Chiesa latina e greca verso la fine del primo millennio. Da una parte Fozio accusò i missionari latini in Bulgaria che insegnavano il Filioque e con ciò proponevano «una falsa spiegazione del Credo», perché lo Spirito Santo «procede dal solo Padre». Al contrario il cardinale Umberto rimproverò i Greci che «avrebbero omesso» nella recita del Credo il Filioque. Notiamo che si tratta di due erronei equivoci. A Fozio rispondiamo: non è lo stesso dire che «lo Spirito procede dal Padre» o che «lo Spirito procede dal solo Padre». E sul conto del cardinale Umberto possiamo dire che sapeva poco della storia della liturgia quando disse che i Greci «avrebbero omesso» il Filioque. Purtroppo le controversie, in quel momento, ebbero gravi conseguenze e divennero il tema di mutue accuse.
Il grande concilio di unione tenuto a Firenze nel 1439 cercò una riconciliazione dichiarando che il latino con Filioque non vuole affermare altro che ciò che ammettono i Padri sia dell’Occidente che dell’Oriente, cioè che «lo Spirito procede dal Padre per mezzo del Figlio».
Quale importanza assume la questione nelle relazioni fra Chiesa cattolica e Chiese orientali oggi? In linea di massima, fra i teologi ortodossi, possiamo distinguere quattro atteggiamenti.
Se le opinioni degli ortodossi sono, come vediamo, diverse, i cattolici sono riusciti a unificare il loro atteggiamento che si può riassumere in poche parole. Già il Concilio di Firenze dichiarò in modo autorevole che il Filioque si deve intendere nel senso della tradizione comune in Oriente e in Occidente. La Chiesa di Roma permette di recitare il Simbolo niceno-constantinopolitano senza il Filioque là dove questa omissione si vede opportuna, come in certe Chiese orientali cattoliche.
È da notare che nelle diverse tradizioni linguistiche, talvolta le stesse parole assumono significati diversi: ciò avviene, per esempio, per il verbo “procedere” che può significare «provenire in qualsiasi modo» oppure indica la prima sorgente, la prima causa.
Laddove questa sfumatura linguistica è sensibile, allora è davvero opportune tralasciare la formula «procede dal Padre e dal Figlio», perché ciò significherebbe due sorgenti primarie. Il Concilio unionistico di Lione nel 1274 espressamente rifiutò una tale spiegazione, dicendo che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio «però non come dai due princìpi ma come da uno solo».
Possiamo quindi concludere che la questione sulla processione dello Spirito Santo è come tutte le altre verità di fede un mistero divino rivelato che non possiamo comprendere con gli argomenti razionali e nei dubbi di interpretazione cercare di trovare la concordia nel dialogo ispirato dalla carità ecclesiale e dall’amore per l’unità che è frutto dello Spirito.
Il dono dello spirito
di Giovanni Vannucci
I discepoli erano chiusi nella loro casa per timore dei Giudei. Gesù venne in mezzo a loro e disse: «Pace a voi. Come il Padre inviò me, così io mando voi». Alitò su di loro, dicendo: «Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute» (Gv 20,21-23).
Prima di passare a considerazioni di commento, fermiamoci su un aspetto importante di questo episodio che ne costituisce la chiave. Esso descrive il primo incontro del Risorto con i discepoli: questi avevano tutti, eccetto Giovanni, tradito e abbandonato il Maestro alla sua tragica sorte. Nell’incontro non una parola di rimprovero, di condanna del loro operato, ma solo l’offerta di un nuovo dono di vita: lo Spirito Santo, che li avrebbe resi portatori della misericordia divina a tutti gli uomini. Ed è bene sottolineare l’aspetto di questo dono: non è il potere di discriminazione tra i giusti e i non giusti che viene loro concesso, ma l’onere gioioso di trasmettere il perdono dello Spirito; esso attraverso di loro si diffonderà nel cuore degli uomini: i cuori disposti ad accoglierlo troveranno una più intensa vita, i cuori non disposti ne rimarranno esclusi. Chi l’accoglierà avrà la pace di Cristo, della nuova vita; chi lo rifiuterà vivrà fuori dall’onda di pace. Gesù conferisce ai discepoli lo Spirito Santo, la forza vitale della nuova creazione, e lo fa alitando sul loro viso, come fece l’Eterno quando rese anima vivente il primo uomo di creta.
Comunicando loro lo Spirito Santo, congiungendoli mediante lo Spirito Santo col Padre, li rende apostoli, inviati dallo Spirito che in loro è disceso. Portatori e irradiatori della nuova vita, come lo specchio che riflette la luce del sole e ne è insieme portatore e irradiatore, portatori di una vita che è in loro ma non è loro, la vivono e la manifestano, non la manipolano, ne sono il supporto, lo strumento, nient’altro, la loro fondamentale preoccupazione sarà di vivere la nuova vita, di illuminarsi della nuova vita. La luce e la vita si comunicheranno a chi è pronto ad accoglierle, lasceranno nella non vita e nella tenebra chi non vuole risvegliarsi.
In altre parole, gli inviati dello Spirito Santo non hanno ricevuto l’investitura di erigere dei tribunali, ma la responsabilità di illuminarsi della luce dello Spirito per irradiarla, come dono di pace, a tutte le creature. Essi sono mandati nel mondo non per giudicarlo, ma per comunicargli il nuovo soffio vitale della misericordia e della pace. Chi accoglierà lo Spirito sarà liberato dal peccato della separazione, della discordia, dell’opposizione; chi non l’accoglierà rimarrà nella sua condizione di creatura distaccata da Dio e dalla redenzione. È lo Spirito che toglie o trattiene i peccati, che lava o macchia ancora di più a seconda che uno l’accolga oppure no.
«Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute»: sono parole che additano un mandato, un impegno affidato agli uomini nei quali lo Spirito nuovo di Cristo è presente. Spirito che, simile al respiro, domanda di venir accolto e vissuto, non teorizzato, ma respirato perché discenda e ravvivi totalmente chi l’accoglie. Dal modo di vivere il dono dello Spirito dipende la remissione o la non remissione dei peccati. Chi l’accetta con fede, chi immette nel dono dello Spirito la parte migliore di se stesso e, rinnegando tutte le separazioni egoistiche, assurge alla novità della vita insufflata da Cristo, diviene luminosa realtà spirituale, l’arioso tempio eretto nello Spirito. Per chi non ha questa fede, per chi questa fede non sente, per chi non è pronto a morire per questa fede, il dono dello Spirito non ha significato alcuno.
Noi che abbiamo vissuto il dramma della morte-risurrezione di Cristo e aneliamo a una realizzazione spirituale, dobbiamo, scendendo nel profondo del nostro essere, domandarci: crediamo nello Spirito? La risposta è impegnativa, perché credere nello Spirito vuol dire attuare la nuova vita del Risorto, respirare il suo respiro, rinnovarci nel suo alito creatore. Non si può vivere la vita di Cristo senza morire al vecchio uomo, all’uomo plasmato di inerte creta. Alla nuova vita si giunge attraverso la morte a tutte le vetustà, a tutte le opposizioni che sono in noi, per immetterci nella nuova realtà della vita portata da Cristo che ci forma e ci rende una sola cosa, attraverso l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Allora l’uomo apprende ciò che è: nato di terra, terra; nato di spirito, spirito, e, puntando tutta la sua energia nella sua terribile natura, raggiunge la conoscenza della sostanziale realtà di essere spirito immortale, spirito eterno. Figlio del Padre, l’uomo di creta si trasforma in uomo dello Spirito.
Non giudicherà le opere degli uomini, ma tutti esorterà a raggiungere la nuova vita dello Spirito insufflata dal Risorto nei suoi discepoli. Come lo Spirito Santo irradierà pace, perdono, fiducia nella vita. Avrà in mano la chiave di tutte le chiavi, la conoscenza di tutte le conoscenze perché conoscerà nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che gli sta accanto; farà del tormento del proprio fratello il proprio tormento, farà della gioia altrui la propria felicità. Il peccato verrà annullato, la luminosa realtà dello Spirito irradierà le anime. Non vi sarà più né giudizio, né assoluzioni; né padrone, né servo; né medico, né ammalato; né oppresso, né oppressore; non vi sarà più il male, essendo uno solo il male: quello che soffre l’altro e che nessuno, per alcuna cosa al mondo, vorrà causare all’altro.
Lo Spirito Santo non avrà preso possesso di tutti finché ci sarà una coscienza da illuminare, una miseria da riscattare, un dolore da consolare, un peccato da comprendere. Fino a quando l’uomo non riconosca nell’uomo un fratello suo e, come tale, l’abbracci, lo difenda e lo onori; fino a quando l’uomo sarà separato dall’uomo dalla fazione, dalla parte, dal pregiudizio, dal preconcetto, dalla setta; fino a quando l’uomo non identificherà il suo dolore nel dolore che piange al suo fianco. Illuminare le coscienze, riscattare le miserie, comprendere il peccato, liberare l’uomo da tutte le divisioni e separazioni, significa ritrovare lo Spirito Santo oltre i rituali e le dotte interpretazioni e insufflarlo nella vita perché abbia finalmente la pace di Cristo.
Speranza
(canzone di Vecchioni - Pareti)
Anche se nella vita voltandomi un mattino io non ti troverò
accanto a me basta soltanto la tua felicità
lo conosco il tuo dolore credevi che oltre il monte ci fosse
un giardino e invece hai trovato soltanto il fango di una città.
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
e non posso aspettarmi che la ferita si chiuderà
ma mi basta darti speranza, ma mi basta darti speranza,
ma mi basta darti speranza, tu devi vivere.
Nessuno ti ricorda a nessuno tu manchi quel ragazzo non
può tornare e per questo soltanto vorresti finirla lì
ma guarda che la vita non è la prima porta aperta in fretta
senza bussare; è il balcone più grande che guarda sul mare.
Io non posso giurarti che questo amore ti salverà
ma mi basta darti speranza.
Per la pace, “ecologia umana internazionale”
Card. Renato Martino
Il Magistero sociale della Chiesa nelle sue varie manifestazioni – ricordo per inciso il ricco patrimonio di idee contenute nella Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, nei tanti Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace proposti dai Sommi Pontefici da Paolo VI sino a quello di quest’anno del Santo Padre Benedetto XVI, nel capitolo decimo del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - usa sostanzialmente la stessa chiave, miscelando, con sapienti dosaggi, le quattro dimensioni sopra richiamate e illuminandole con la grazia e la forza del Vangelo della pace di nostro Signore Gesù Cristo.
Lo stesso Consiglio per la Giustizia e per la Pace, già nella sua denominazione, è una dimostrazione di quanto sia importante utilizzare il registro di molteplici dimensioni interdisciplinari nell’approccio alle complesse tematiche della pace. Essendo il Presidente di questo Dicastero, recentemente ho voluto anch’io offrire una qualche riflessione che, utilizzando lo stesso paradigma, ho reso pubblica nel mio volume Pace e guerra. Sono certo che i valenti e qualificatissimi oratori convocati a questo nostro Colloquio sapranno darci contributi di grande spessore e profilo. Per quello che mi riguarda permettetemi una qualche riflessione previa che mi auguro possa essere utile a stimolare la nostra comune ricerca dei cammini della pace. Mi sembra che la prima cosa di cui abbiamo bisogno è una corretta comprensione di come si pone oggi il problema della guerra e della pace. Il conflitto in genere e la guerra in particolare, infatti, stanno cambiando la propria fisionomia. Sono più orizzontali che verticali, più diffusi che concentrati, più frammentati che unitari, più quotidiani che eccezionali, più vicini che lontani, più immateriali (e perfino virtuali) che materiali. L’11 settembre ha dimostrato che la morte di tremila persone è alla portata di tutti: basta un coltellino come quello adoperato da un dirottatore. A questo riguardo, un attento osservatore ha parlato di «guerre democratiche».
Questi rilevanti cambiamenti sono stati provocati soprattutto dal processo di globalizzazione. È doveroso tenere conto di questo contesto completamente nuovo in cui oggi si collocano le problematiche della pace e della guerra, sia per conoscere i nuovi condizionamenti negativi per il processo di pace, sia per discernere le nuove opportunità, su cui fare leva, con evangelica speranza, per creare migliori condizioni di pace. La violenza, i conflitti e le guerre si frammentano e quasi si nebulizzano, mentre un tempo erano situazioni circoscritte e unitarie. Aumentano i micro-conflitti ampiamente dislocati, mentre diminuiscono le guerre convenzionali attuate su grandi teatri. C’è una recrudescenza di guerre civili, etniche, tribali, locali. Nel mondo sviluppato c’è un incremento di insicurezza civile, di guerra per bande e tra gruppi di potere illegale, di micro-illegalità attuata, purtroppo, anche da minorenni. Dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, le guerre si sono disseminate nel mondo come espressione di tensioni particolaristiche difficilmente riconducibili a uno schema unitario.
Ho qui accennato ad alcuni cambiamenti in atto nel modo di considerare la guerra nell’epoca globalizzata. Medesime considerazioni andrebbero fatte per la pace. Poiché la globalizzazione è «quello che gli uomini ne faranno», dobbiamo mettere in evidenza le opportunità positive che essa pone nelle nostre mani. L’orizzontalità, per esempio, ha permesso e permetterà ancor più in futuro, di moltiplicare gli attori della pace sulla scena globale, di sviluppare la partecipazione della società civile e dei gruppi di advocacy. La trasparenza delle informazioni rende possibile all’opinione pubblica mondiale farsi un’idea, esprimersi e diventare un vero e proprio interlocutore dei poteri politici su temi di guerra e di pace. Il tragico fenomeno della «delocalizzazione» delle guerre può stimolare maggiormente gli uomini di buona volontà e la comunità internazionale ad affrontarne le cause sociali ed economiche e a favorire il dialogo tra le etnie e le religioni. Se la fine dei blocchi ha prodotto e tuttora tende a produrre una fase di instabilità internazionale, apre anche a nuove possibilità di intervento che in precedenza erano precluse. Ogni epoca porta con sé rischi ed opportunità. Appartiene al realismo cristiano considerare i primi e alla speranza cristiana valorizzare le seconde. Se la guerra si fa diffusa e decentrata, quotidiana e smaterializzata … ebbene, anche la pace lo può essere, e lo deve essere. Ciò che vale per il negativo vale anche e prima di tutto per il positivo.
Il contesto globalizzato cambia i connotati sociologici della pace, ma non ne altera la dimensione antropologica ed etica. Occorre quindi un supplemento di interpretazione del mondo di oggi nelle sue dinamiche principali e di coraggio profetico per poter annunciare e preparare la pace anche nel nuovo contesto globale. Parallelamente, serve anche la capacità di recuperare il senso pieno della pace. Possiamo allora chiederci quali siano le nuove esigenze della pace e, quindi, quali strade possiamo percorrere per costruirla e realizzarla meglio di quanto non siamo riusciti a fare fino ad ora.
a) Acquisire una mentalità preventiva. È plausibile ritenere, in primo luogo, che la pace richiederà sempre di più di essere ricercata con una mentalità attrezzata a prevenire i conflitti piuttosto che con interventi a posteriori. Le cause della guerra si moltiplicano e si intrecciano. Le cause legate ad interessi economici si aggiungono a conflitti etnici o religiosi; il retaggio di storici rancori si combina con situazioni politiche di incertezza o di dispotismo; sofferenze sociali alimentano rivendicazioni espresse in forme violente che spesso si combinano con la lotta per la sopravvivenza, oppure con le tensioni provocate dal possesso di risorse naturali. Il carattere dell’incertezza caratterizza così anche la guerra e, quindi, la pace, come altri importanti fenomeni sociali del nostro tempo. Che la guerra sia un’«avventura senza ritorno», come aveva detto Giovanni Paolo II, è purtroppo vero anche dal punto di vista delle novità sociologiche: una volta scoppiata diventa difficilissimo dipanare il groviglio delle sue cause per intervenire ex post e ristabilire la pace. Per tutti i motivi che ho qui brevemente richiamato, il futuro richiederà sempre di più una maggiore prevenzione dei conflitti piuttosto che una loro «riparazione» posteriore. Pertanto non si può non concordare con quanti affermano che la complessità del mondo globalizzato non richiede meno politica, ma una intensificazione del ruolo della politica, proprio per gestire la maggiore incertezza con un dialogo più aperto e una concertazione più responsabile. In questo contesto va collocata l’esigenza, più volte richiamata dalla Santa Sede, di potenziare e riorganizzare gli Organismi internazionali.
b) Coltivare una «ecologia umana» internazionale. La guerra è oggi un fenomeno globale e questo dato deve far emergere sempre di più, come risposta attiva, che anche la pace è un fenomeno globale. Credo che questa globalità vada intesa soprattutto in senso intensivo: il venir meno dell’ecologia politica e perfino dell’ecologia naturale, dipendono dal venir meno della «ecologia umana» (Cf. Centesimus annus n. 38) Cosa si intende con questa espressione? Significa che non solo l’ambiente naturale, ma anche l’ambiente umano – la famiglia, la società, l’economia e la politica – richiede il rispetto di una sua propria ecologia, di un suo funzionamento fisiologico ove la dignità della persona sia veramente posta al centro.
Ora, il fatto nuovo tipico della società globalizzata è che tendono a sparire i confini tra ecologia naturale (ossia il rispetto responsabile dell’ambiente), ecologia sociale (la giustizia e la promozione di persone e gruppi), ecologia politica (le relazioni tra gli Stati e gli organismi politici) ed ecologia umana (un ambiente morale in cui la dignità della persona sia rispettata). I confini tendono a sparire nel senso che le interrelazioni tra questi ambiti sono sempre più strette e complesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso della guerra. Per esempio: le lotte per sfuggire alla povertà ed accaparrarsi risorse naturali generano conflitti; a loro volta i conflitti comportano distruzione di risorse naturali e generano povertà. Le lotte per garantirsi i diritti di sfruttamento dell’ecosistema (si pensi alla bioingegneria vegetale ed animale che tenderebbe a mettere il proprio copyright sulla biodiversità) generano profitti e benessere per alcuni, ma anche possono indurre ceti e popoli alla povertà. Trovo che il concetto di ecologia umana possa fornire una chiave di lettura dei fenomeni del conflitto e della guerra e quindi, in positivo, della pace, in grado di aiutarci a fronteggiare le nuove sfide globali. Essa permette di intendere l’interconnessione nell’uomo dei diversi ambiti di ecologia e la necessità di un impegno coerente e orientato perché, come in un sistema di vasi comunicanti, tutto influisce su tutto. La costruzione della pace si fa oggi in primo luogo, impegnandosi per una ecologia umana plenaria, per un rispetto della dignità dell’uomo in tutti gli ambiti.
c) L’impegno delle religioni. Fino a qualche anno fa sembrava vincente l’idea di uno spazio pubblico internazionale «neutro» rispetto alle religioni, affidato quasi esclusivamente agli Stati e, in particolare, alle due superpotenze. Sembrava che nel mondo occidentale la valenza pubblica della religione fosse inibita dalla laicità della vita politica, quando non dal laicismo e dal processo di secolarizzazione che tendevano a relegare la religione nel privato. Inopinatamente, invece, dopo il crollo del Muro e la fine dei blocchi, anche le religioni sono state sdoganate. In Occidente si è così appreso che, sotto la patina di un secolarismo rampante, vivevano forti tensioni religiose e non solo nella forma consumistica della New Age. Gli Stati Uniti, per esempio, considerati l’avanguardia della secolarizzazione in Occidente, hanno riscoperto le proprie radici religiose al punto che qualche osservatore parla di una crescente differenziazione proprio su questo punto tra Stati Uniti ed Europa. In Oriente, dalla disgregazione dell’impero sovietico sono emerse molteplici appartenenze religiose, che in alcuni casi, purtroppo, sono addirittura esplose anche in forma di virulenti conflitti. Le migrazioni globali, d’altra parte, hanno posto le religioni l’una accanto all’altra e la scena politica mondiale, con le sue note vicende, ha condotto alla ribalta della cronaca e della politica la religione islamica. Tutto questo comporta non solo un rinnovato peso sociale e politico delle religioni, ma soprattutto una loro rivendicazione di «diritto» a un ruolo pubblico. Se talvolta ciò è stato ed è fonte di conflitto e di guerra, ritengo che possa e debba diventare oggi e domani elemento di pace. Su questo terreno si giocheranno sempre di più nel prossimo futuro le sorti della pace nel nostro mondo. Una condizione fondamentale per la pace è che le religioni sappiano evitare con sempre maggiore accortezza i due estremi del fondamentalismo laico e del fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo laico non ammette la presenza della religione nello spazio pubblico, relegandola ad affare privato; il fondamentalismo religioso si risolve nell’occupazione diretta dello spazio pubblico, senza rispetto del principio cristiano di laicità: simili posizioni non possono avere altro esito se non quello di aumentare i conflitti religiosi. Come si vede, sarà sempre più importante garantire in futuro la libertà religiosa non solo nei testi costituzionali, ma soprattutto nella pratica politica concreta. La libertà religiosa non è causa di guerra, anzi essa è la condizione per evitare il fondamentalismo sia laico sia religioso, le due principali forme di intolleranza religiosa nel mondo di oggi.Talmud
- i primi cinque libri della Bibbia ebraica (che costituiscono la Torah scritta);Secondo la tradizione ebraica la Torah scritta non può essere applicata senza la Torah orale.
- la Torah orale (che ha dato origine al Talmud).
* quella della Halakhah (Via da seguire) che riguarda le prescrizioni legali,
* quella della Aggadah (Racconto), consistente in racconti immaginosi e in parabole. L'insieme costituisce una vera enciclopedia delle conoscenze dell'epoca (matematica, medicina, astronomia ecc.).