Formazione Religiosa

Martedì, 13 Giugno 2006 23:13

Teologia ufficiale e religione popolare (Thomas Römer)

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Teologia ufficiale e religione popolare
di Thomas Römer *



La maggior parte dei testi dell'Antico Testamento proviene da un piccolo numero di intellettuali che tentarono, durante e dopo l'esilio babilonese, di riformulare la fede yahwista. Facendo questo, non si curarono affatto delle preoccupazioni degli «Ebrei medi», la maggior parte dei quali era rimasta in Palestina.

La distinzione tra «religione ufficiale» e «religione popolare» si è imposta da tempo alla sociologia della religione. Per conoscere la religione popolate ebraica di allora, lo storico deve leggere l’Antico Testamento tra le righe e prendere in considerazione documenti extrabiblici.

Lo studio dei nomi propri

I nomi che i genitori scelgono per i loro bambini sono un buon indicatore della religione popolare. Nell’antichità, questi nomi sono quasi tutti teofori, fanno cioè riferimento ad una divinità di cui essi esprimono un'attitudine, un'azione, o un augurio che gli si indirizza. L'Antico Testamento ha conservato, accanto a nomi teofori yahwisti (come Gionata: «YHWH ha dato»), numerosissimi nomi propri che si riferiscono a diverse divinità: Išba’al («Uomo di Ba'al»), Elqana («El ha creato»), Abram («Il Padre [l'antenato divinizzato] è innalzato»). Questi nomi non sono affatto un residuo dell' età arcaica. I testi biblici ed extrabiblici mostrano come nomi propri ebraici formati a partire da nomi di dèi stranieri sono ancora di moda nel periodo babilonese o persiano: Mardocheo («Che appartiene a Marduk»), Šinusur («Che Sin [Dio lunare] protegga»).

I teologi che hanno edito la Bibbia hanno mantenuto questi nomi che erano troppo diffusi e di cui certi elementi teofori (specialmente «El» e «Ab») potevano essere identificati con Yahwè. In alcuni casi, tuttavia, si è tentata una sorta di censura. Nei libri di Samuele, gli ultimi redattori hanno sostituito ad alcuni nomi in «Ba’al» la terminazione in «bošet»,: così Išba’al è diventato Išbošet («Uomo della vergogna»).

Le pratiche politeiste in epoca babilonese e persiana

Una grande parte della popolazione ebraica non deportata resta apparentemente attaccata alle pratiche politeiste. Parecchi testi che adottano la prospettiva della Golah (gli esuli a babilonia) criticano queste pratiche. Ezechiele (cap. 8) ci informa che, durante l'epoca babilonese, si celebrava a Gerusalemme il culto di Tammuz, un dio mesopotamico molto popolare la cui morte e resurrezione garantivano la fertilità del paese. Secondo lui, gli abitanti di Gerusalemme giustificavano le loro pratiche religiose col fatto che Yahwè avrebbe abbandonato il paese. Allo stesso modo, il culto di una dea chiamata la «regina del Cielo» era ancora molto diffuso al momento dell'esilio; si trattava di un culto familiare in cui le donne avevano il ruolo centrale. Il cap. 44 del libro di Geremia critica severamente questa venerazione.

I destinatari della critica per più si oppongono alla proibizione del loro culto:

«Anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto... nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (vv. 17-18).

Bisogna dedurne che l'abolizione del culto della Regina del cielo (probabilmente la dea Ašerah) era ancora in piena discussione nel giudaismo dei secoli VI e V a.C. Un'interessante testimonianza della sopravvivenza di una religiosità popolare ci proviene dai documenti della comunità ebraica insediata ad Elefantina, un'isola situata sul Nilo nel sud dell’Egitto, che ospitava una guarnigione militare in epoca persiana. In questa comunità che aveva il suo proprio tempio, si è continuato ad associare a Yahwè (Yaho) una dea. Così, si prestava giuramento «per Yaho il dio, per il tempio, e per l'Anat di Yaho».

Altri dèi vi erano parimenti venerati sotto i nomi di Ašam-Betel e di Haram-Betel. A dispetto di queste pratiche che dovettero fortemente dispiacere alla nascente ortodossia di Gerusalemme e di Babilonia, gli Ebrei di Elefantina intrattenevano numerosi scambi epistolari con le autorità religiose di Gerusalemme. Sembra anche che pagassero un’imposta ecclesiastica.

Tra rifiuto e integrazione

Come si doveva gestire il permanere di una religiosità popolare a carattere politeista nel momento in cui gli artefici del giudaismo postesilico avevano ratificato nella Torâ la venerazione del solo Yahwè e l'osservanza dei suoi precetti? Erano possibili due atteggiamenti: la condanna della religione popolare, oppure la sua integrazione nel sistema della teologia ufficiale. Come ci accingiamo ad esaminare a proposito del culto degli antenati defunti, entrambi gli atteggiamenti hanno trovato codificazione nella Bibbia.

Il culto dei morti giuoca un ruolo importante nella maggior parte delle religioni dell'umanità. È così anche per le religioni del Vicino Oriente antico. Consistevano nel portare cibo o altre offerte ai defunti per mantenere la continuità tra le generazioni e per ottenere prosperità e protezione. Così certe tombe, specialmente quella di un antenato del clan o della tribù, rivestivano un carattere sacrale. Isaia (65,4) parla di persone che visitano i sepolcri durante la notte, cosa che attesta la pratica di un culto dei morti in epoca persiana. I redattori del Deuteronomio hanno reagito a questa pratica proibendola. I riti di lutto sono dichiarati illeciti (Dt 14,1), come l'offerta di cibo a un morto (26,14).

Di fronte a questa pedagogia repressiva, i redattori sacerdotali adottano una diversa strategia. Essi cercano di integrare la religiosità popolare nella fede yahwista dando alla prima un nuovo senso. In Gn 23, un autore di ambiente sacerdotale riferisce l'acquisto della tomba di Abramo, che era senza dubbio oggetto di culto. Descrivendo l'acquisto di questa tomba come un banale atto immobiliare la pietà popolare è da un lato presa seriamente, dall'altro è contemporaneamente trasformata. Poiché Dio non interviene in alcun momento in questa storia, il lettore è invitato a comprendere che se i gesti e i riti legati agli antenati sono importanti, le tombe patriarcali non hanno, in sé, alcun valore sacrale.

L'atteggiamento della teologia ufficiale nei confronti della religiosità popolare oscilla tra rifiuto e «recupero». Questo doppio atteggiamento si vede ancora, anche ai nostri giorni, nelle tre religioni monoteiste.

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Letto 6074 volte Ultima modifica il Venerdì, 24 Novembre 2006 20:43
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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