Doha: ebrei cristiani e musulmani
esortati a saper vivere insieme
"Vogliamo rinnovare il nostro impegno e la nostra la piena volontà di rafforzare i legami fra i fedeli nel Dio Onnipotente". Con questo proposito si sono conclusi i lavori del terzo Meeting delle Religioni, che dal 29 al 30 giugno ha visto riunirsi a Doha (Qatar) più di 100 delegati delle 3 religioni monoteiste; quest’anno per la prima volta erano presenti anche rappresentanti ebrei.
I partecipanti hanno pubblicato alla fine del Meeting un documento comune, che afferma l'importanza di questi incontri, i quali riflettono la sincera volontà di tutti a “convivere" ed hanno esortato i fedeli delle 3 religioni a rafforzare il loro impegno a favore della pace e della concordia fra tutti i popoli del modo.
Durante l’incontro è emersa la necessità per il mondo arabo di aprire sezioni di scienze religiose e le studio delle religioni comparate. I partecipanti hanno auspicato la fondazione di un istituto arabo impegnato a rilanciare gli studi delle religioni e hanno rifiutato le “teorie false” che parlano di ‘”polemica tra le religioni”.
I delegati hanno dato piena adesione a un progetto mirante alla fondazione di un Consiglio superiore che si impegna a favore del dialogo interreligioso, formato da rappresentanti delle 3 religioni. La dottoressa Aisha Al Manah, presidente dell'Istituto degli studi islamici e della scienza della sharia, ha espresso ad AsiaNews il suo desiderio di vedere un mondo arabo più riconciliato e tollerante, assicurando a tutti la disponibilità del governo degli Emirati Arabi di proseguire gli sforzi capaci di mantenere questo spirito di apertura.
Dura la condanna del terrorismo esercitato nel nome della fede; il meeting ha ribadito che le religioni non sono mezzi di guerra, ma strumenti di pace e ha chiesto alla comunità internazionale di rafforzare le misure in grado di prevenire l’ “anomalia del terrorismo” esercitato sotto diverse “etichette” religiose.
Grande attenzione è stata data all’informazione e ai media. I partecipanti hanno chiesto agli ecclesiastici e ai capi religiosi di impegnarsi in pubblicazioni su riviste e giornali e collaborare a trasmissioni radiofoniche e televisive capaci di illuminare il popolo sulle problematiche religiose. Gli studiosi hanno poi chiesto ai governi interessati di mantenere un controllo rigido sulle trasmissioni “non sane”, che “rovinano le coscienze e le menti e che danneggiano le religioni.
I lavori si sono chiusi con il discorso di Shaikh Hamad Ben Khalifa Al Thani, emiro del Qatar. Egli ha rinnovato l'impegno del suo governo a favore della pace e della convivenza fra tutti i fedeli delle religioni monoteisti ed ha auspicato la fondazione di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso.
Walid Ghayad, tra i partecipanti all’incontro, ha espresso ad AsiaNews il suo compiacimento “per il clima di dialogo” che ha caratterizzato i lavori di Doha ed ha sottolineato l'importanza dell'apertura verso l'altro, “che non è un'isola ma una creatura di Dio”.Il dialogo con le altre religioni
Curia Generale O.F.M.
(Segreteria dell'evangelizzazione
Segreteraia della formazione e degli studi)
Il dialogo è diventato necessario
Viviamo in un mondo che nell'ultimo decennio ha prodotto più di cento guerre. In ognuna di queste guerre la religione ha svolto un ruolo di notevole peso. Se si può confidare nel potere positivo delle religioni fra molta gente di buona volontà, i recenti conflitti sono diventati un ostacolo per la missione essenziale di tutte queste religioni. L'esclusivismo religioso costituisce molto spesso un ostacolo per coloro che cercano Dio.
Dalle religioni ci si attende un influsso positivo nella ricerca di soluzioni eque e soddisfacenti nel dilagare di una globalizzazione che spesso acuisce la divisione fra ricchi e poveri, produce disastri ambientali e conflitti fra civiltà, culture e religioni.
Per questi motivi, oggi abbiamo bisogno di una nuova visione e ispirazione che porti a una responsabilità globale, e ciò lo si attende dalle religioni. Di fatto, "non ci sarà pace fra le nazioni senza pace fra le religioni, non ci sarà pace fra le religioni senza dialogo fra le religioni" (Hans Küng).
D'altra parte) abbiamo visto credenti delle varie religioni i quali dalla loro fede hanno attinto l'ispirazione per stabilire pace, convivenza e cooperazione con altre religioni. Ogni religione porta in sé una ricchezza di rispetto e considerazione nei confronti del prossimo, specialmente di coloro fra i quali si vive. Da questa ricchezza di ispirazione spirituale si è sviluppata nella società una pacifica coesistenza di religioni e fedi. Nel nostro mondo, il dialogo interreligioso sta diventando un imperativo necessario per la sopravvivenza del mondo e delle religioni. In tutte le religioni, molti individui, associazioni e istituzioni, attraverso il dialogo interreligioso ed ecumenico stanno offrendo al nostro mondo un nuovo volto e nuove opportunità per il futuro.
Il vero dialogo permette di superare il rischio di quel relativismo che vanifica ogni certezza e unifica le diversità, e del sincretismo, che elimina tutte le specificità fondendole in una nuova e generica sintesi. Nel nostro tempo, questi rischi sono sempre più reali. Il mondo nel quale viviamo sta diventando un supermercato di molteplici offerte religiose con una crescente libertà di scelta.
C'è pure un'altra tendenza, che vuole unire in un unica religione mondiale tutte le fedi e le religioni.
Per tutti questi motivi si impone la necessità di un serio dialogo fra tutte le religioni dove ciascuna di esse si presenti con la propria fede e coerenza, proponendo i propri valori e aprendosi a quelli delle altre.
È importante sottolineare che in ogni dialogo noi cristiani siamo mossi dall’amore di Dio nei nostri riguardi e dal desiderio di preparare la strada per l'avvento del suo Regno in tutti i popoli.
Cos'è il dialogo interreligioso?
Spesso, molti concepiscono il dialogo semplicemente come un "discorrere". Invece, il significato etimologico del termine "dialogo" è proprio quello di "parlare con". Comunque, parlando di dialogo interreligioso, questa parola va considerata in un senso più ampio: dialogo significa convivere con i membri di altre tradizioni religiose, rispettarsi, cooperare per la soluzione dei comuni problemi, e naturalmente parlarsi.
In realtà, il dialogo interreligioso può assumere forme diverse. Di solito si divide in quattro forme, o generi, di dialogo:
a) dialogo di vita, "dove la gente si sforza di vivere in uno spirito aperto e amichevole, condividendo gioie e dolori, problemi e preoccupazioni umane";
b) dialogo d’azione "in cui cristiani ed altri collaborano per lo sviluppo integrale e la liberazione delle persone";
c) dialogo di esperti "in cui degli specialisti cercano di approfondire la loro comprensione dei loro rispettivi patrimoni religiosi, e di apprezzare l’uno i valori spirituali dell’altro";
d) dialogo di esperienza religiosa, "in cui le persone, radicate nelle proprie tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali, ad esempio riguardo la preghiera e contemplazione, fede e percorsi di ricerca di Dio o dell’Assoluto".
Alcuni aggiungono un quinto genere di dialogo, "il dialogo culturale", perché la religione può dirsi parte della cultura, rappresentando "l'anima di una cultura"; alcune religioni sono associate ad una particolare cultura (come le Religioni Tradizionali), altre sono "sovraculturali", nel senso che fanno parte di un certo numero di culture (come l'Islam e il Cristianesimo).
Il dialogo interreligioso non è semplicemente lo studio delle diverse religioni, benché questo naturalmente sia molto importante. Non è un dibattito per provare la propria ragione e il torto altrui. Non è un mero sforzo "modernizzato" per persuadere l'altro ad abbracciare la religione di qualcuno. Il dialogo interreligioso è piuttosto un incontro in libertà e disponibilità ad ascoltare l'altro, a capire l'altro e a condividerne le convinzioni religiose, a vivere con l'altro in armonia, e a cercare possibilità di collaborazione. Presuppone delle differenze; a livello di credo e consuetudini, spesso le differenze sono grandi, e dobbiamo esserne consapevoli ed essere pronti a conviverci, persino nel caso in cui fossimo in contrasto con esse. Perciò il dialogo implica la disponibilità ad accettate i diversi doni dell'altro, e la disponibilità a trasmettere attivamente i nostri propri doni.
Perché dialogare?
Nelle nostre città e talvolta nei nostri villaggi, incontriamo sempre più persone di fedi diverse; in realtà, molti di noi vivono come una minoranza fra persone di altre religioni. Specialmente quando si viaggia, persone di fedi diverse possono sedere fianco a fianco. Ad esempio, a bordo degli aerei di linea, avrete notato che gli assistenti di volo domandano ai passeggeri che genere a cibo o bevanda essi preferiscano. Nei campi per rifugiati, fra gli emigranti, nelle fabbriche, si incontrano sempre più persone di altre culture e religioni. Di conseguenza, dobbiamo conoscere le diverse culture e religioni almeno un po', per essere in grado di rispettare queste persone.
Nel mondo d'oggi non possiamo ignorare le nuove invenzioni e scoperte, se non vogliamo rimanere indietro. Così dovrebbe essere per le religioni: le diverse tradizioni religiose portano con sé un grande patrimonio di esperienza religiosa, di personaggi significativi (Gandhi, il Dalai Lama, al-Ghazzali, e altri), di libri "ispirati", etc., che possono arricchire anche la nostra vita culturale e spirituale.
Il dialogo interreligioso può favorire la promozione di valori morali, come per esempio è avvenuto con l’''intesa" fra la Santa Sede e alcuni stati musulmani per la difesa e la promozione dei valori tradizionali della famiglia alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla Famiglia, tenutasi a Il Cairo nel 1994. può aiutare i cittadini di religioni diverse a vivere in armonia, come in Tanzania, dove cristiani, musulmani e membri della religione tradizionale africana riescono a convivere pacificamente. Può sanare, e prevenire forme di fondamentalismo religioso che, qua e là, minacciano di dividere le genti di uno stesso Paese. Può aiutare anche a rimarginare il ricordo di antiche ferite: l’olocausto, le guerre di religione etc. Può favorire la mutua collaborazione; ad esempio l’incontro con i cristiani è di aiuto ai buddisti nel ritrovare più interesse verso il lavoro sociale, le religioni tradizionali possono aiutare la nostra chiesa ad essere più "cattolica" (universale) e perciò più acculturata.
I requisiti per un fruttuoso dialogo interreligioso
Il vero dialogo è possibile solo se le persone possiedono solide basi nelle loro tradizioni, nei loro credo e nella pratica della loro religione; solo una chiara identità religiosa rende possibile il dialogo. Le persone che hanno dei problemi con il loro gruppo religioso, non possono essere membri di un autentico dialogo.
Le persone coinvolte in un dialogo, devono essere convinte del suo valore: esso può portare frutti a livello personale, di comunità e sociale. Alcuni considerano il dialogo come qualcosa di riservato a degli specialisti. Ma non è così: ogni cristiano e ogni frate è chiamato ad esso. Altri sospettano che il dialogo sia un segnale di incertezza nei confronti della propria religione, o un sintomo di debolezza o scarsità di successo nell'ottenere delle conversioni. No, il dialogo è un'esperienza di grande arricchimento, che aiuta la crescita spirituale nostra così come quella degli altri.
Il dialogo richiede apertura mentale. Apertura verso Dio significa essere aperti all’azione della grazia di Dio in noi e nelle persone di altre religioni. L’apertura verso gli altri credenti "implica l’essere pronti a rivedere le idee preconcette nei loro riguardi, i radicati pregiudizi, le generalizzazioni di vecchia data e i giudizi sommari" (Card. Arinze), ma soprattutto significa scoprire ciò che di buono vi è negli altri.
Lavorando con i miei amici Buddisti nel campo dello sviluppo umano, della giustizia e della pace, sono ispirato dalla loro semplicità di vita, dalla loro apertura, dalle loro relazioni' umane', dal loro modo sottomesso di relazionarsi con gli altri. Questa è la Buona Notizia che mi danno i Buddisti. Sono essi ad evangelizzarci.
I miei amici Buddisti sono scandalizzati dal nostro atteggiamento trionfalistico, dal nostro assolutismo o arroganza. Si risentono del nostro rigido trattamento dei problemi umani. Ai loro occhi, la nostra Chiesa Tailandese si presenta ancora 'straniera' e 'occidentale'. Nel contesto di quanto abbiamo detto dovremmo chiederci: come possiamo incarnare la Chiesa in Asia? (Vescovo Mansap - Thailandia)
Il dialogo richiede amore e rispetto: l'amore ci aiuta a comprendere, ad essere amichevoli e pazienti con gli altri, ad evitate la polemica. L'amore e il rispetto "includono l'adattamento alle differenze culturali e alle conseguenze derivanti da disuguali livelli di istruzione, così come la flessibilità verso posizioni differenti riguardo la puntualità, il rispondere alla corrispondenza, il mantenimento delle promesse" (Card. Arinze). Il dialogo richiede libertà di espressione, il vero dialogo ricerca la giustizia e la pace per tutti; i diritti umani sono un valore per tutti, non soltanto per alcuni.
Un dialogo fruttuoso naturalmente richiede uno sforzo volto a conoscere meglio la religione dell'altro. Per alcuni di noi può esigere un impegno ulteriore, finalizzato a sedare infelici ricordi storici, come jihad, le guerre sante, le "Crociate" fra cristiani e musulmani, la colonizzazione e la tratta degli schiavi, etc. Forse, è necessario rivedere il modo in cui i nostri libri di storia o di spiritualità ci hanno fatto conoscere le altre religioni. (…)
Alcune ragioni teologiche
La Bibbia ci parla di "santi pagani" come Abel, Enoch, Noè, Melchisedech, Giobbe. La gente al di fuori di Israele può rispondere alla chiamata di Dio, come Cito (Is 44, 28), o gli abitanti di Ninive (Gion 3, 1-10). Nel Nuovo Testamento Gesù ammira la fede della donna cananea (Mt 15, 28), e prende ad esempio di amore attivo un samaritano (Lc 10, 25-37); e san Paolo ha una posizione di apertura nei confronti delle espressioni religiose degli ateniesi, nel suo discorso all'areopago (At 17, 22-31).
Sant'Ireneo dice che tutte le manifestazioni divine hanno luogo tramite la Parola di Dio (Logos); la prima di queste manifestazioni è la creazione stessa, poiché per mezzo di essa viene reso possibile l'incontro personale con Dio; inoltre abbiamo le manifestazioni ebraiche nel Vecchio Testamento, che sono anticipazioni della Cristofania (la manifestazione del Logos in Cristo) del Nuovo Testamento.
Il Concilio Vaticano Secondo (Lumen Gentium 16; Nostra Aetate; Ad Gentes 3, 9, 11) ci dice che le grandi tradizioni religiose dell'umanità mantengono valori positivi che meritano l'attenzione e la stima dei cristiani.
"Il dialogo di esperienza religiosa riguarda le persone che condividono esperienze di meditazione, preghiera, contemplazione, fede ed espressioni di fede, percorsi di ricerca di Dio come Assoluto, o di vita monastica o eremitica, e anche di misticismo" (Card. Arinze).
Papa Paolo VI nella sua enciclica Ecclesiam suam disse: "la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere" (67); così come Dio vuole il dialogo della salvezza con tutti gli esseri umani, anche "il nostro parimente dev'essere potenzialmente universale, cioè cattolico e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l'uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo" (78).
Papa Giovanni Paolo II in Redemptoris hominis (6; 12) sostiene una presenza operativa dello Spirito Santo nella vita religiosa dei non-cristiani, e nelle tradizioni religiose cui esse appartengono; ogni autentica preghiera viene fatta scaturire dallo Spirito Santo, misteriosamente presente nel cuore di ciascun individuo. In Dominum et vivificantem il papa menziona esplicitamente l’attività universale dello Spirito Santo prima dell’avvento di Cristo, e persino oggi, al di fuori della Chiesa. In Redemptoris missio (28-29), egli afferma che l’attività dello Spirito incide anche su altre religioni; perciò "il rapporto della chiesa con le altre religioni è dettato da un duplice rispetto: rispetto per l’uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e rispetto per l’azione dello Spirito nell’uomo".
Dio è l'origine e la fine di tutti gli esseri umani perciò noi siamo tutti suoi figli. Questo è reso più evidente dall'incarnazione del Figlio a Dio: egli è misteriosamente presente in ogni essere umano (Mt 25, 31-46). Gesù è il salvatore di tutti gli esseri umani perché ha versato il suo sangue "della nuova ed eterna alleanza per molti in remissione dei peccati". In che modo la salvezza di Cristo sia offerta a tutti gli esseri umani è noto soltanto a Dio, e la teologia, nelle sue diverse tendenze, tenta di scoprirlo.
Il Regno di Dio proclamato da Gesù è "già" presente, ma non "ancora" compiuto; esso è particolarmente attuale nella Chiesa, ma è all'opera anche al di là di essa, nel mondo intero e particolarmente in quegli elementi di bontà e grazia contenuti nelle tradizioni religiose dei popoli; perciò, in un certo modo possiamo dire di essere co-membri e co-costruttori del Regno di Dio. Nella Chiesa troviamo la manifestazione visibile del progetto che Dio sta silenziosamente realizzando nel mondo. La Chiesa è al servizio del Regno di Dio e dei suoi valori; questo Regno è presente anche dove i valori del Vangelo sono all'opera e dove le persone sono aperte all'azione dello Spirito; attraverso il dialogo la Chiesa può scoprire e sviluppare i valori del Regno presenti fra genti di religioni diverse.
Dialogo interreligioso e proclamazione
Nella nostra missione fra tutti i popoli, il dialogo con i membri di altre tradizioni religiose tende ad una conversione più profonda a Dio, che opera nella nostra tradizione cristiana, ma che opera misteriosamente anche "nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni" (Dominus Iesus, n. 12). Talvolta, le diverse tradizioni religiose hanno sviluppato certe intuizioni a proposito del Mistero di Dio e certi atteggiamenti pratici, che possono arricchire anche noi cristiani. Questo perché il dialogo ha un valore in sé. La conclusione appropriata del dialogo interreligioso è la conversione comune dei cristiani e dei membri di altre tradizioni religiose ad un medesimo Mistero Divino, al medesimo Dio, il Dio di Gesù Cristo. In tal modo, noi tutti stiamo allargando il Regno di Dio nella storia, che rimane indirizzata verso la realizzazione di questo alla fine dei tempi. (…)
"Quando i vicini di differenti religioni sono aperti l'uno nei confronti dell'altro, quando condividono progetti e speranze, preoccupazioni e dolori, essi sono impegnati in un dialogo di vita. Non necessariamente discutono di religione, ma fanno appello ai valori dei loro diversi credo e tradizioni" (Card. Arinze).
Conclusione
Il problema principale del dialogo è la formazione, formazione umana e formazione religiosa. Ma finché nelle scuole non verrà fatto nessuno sforzo per presentare le altre religioni in un modo più obiettivo, non si faranno progressi. Il dialogo deve diventare un atteggiamento di rispetto nei confronti dell'altro, che per noi non è un ostacolo, ma una benedizione. Per la ricchezza del vivere nel dialogo, ciascuno deve accostarsi all'altro rimanendo se stesso. Dialogare non significa relativizzare la verità di tutte le religioni. Significa credere che vi sia una verità più alta, che non si potrà mai raggiungere per mezzo delle nostre verità parziali.
(da Ordine dei Frati Minori, La vita come dialogo, Quaderni di studi ecumenici n. 5, I.S.E. Venezia - Roma, 2002, pp. 83-93).
Dialogo impossibile?
di Giuseppe Scattolin
Il dialogo interreligioso
Speranza di comunione
di Giuseppe Goisis
Pur non essendoci antitesi tra dialogo ed evangelizzazione, possono manifestarsi in questo ambito situazioni assai delicate. Il dialogo interreligioso, per essere fecondo, implica non la svendita della propria identità religiosa, bensì il suo approfondimento critico. L’atteggiamento dialogante non è mai rancoroso, ma al contrario improntato da reciproca, autentica misericordia. Si dialoga infatti tra persone, uomini e donne in ricerca, non tra istituzioni. Uno sforzo che va accompagnato da uno spirito di invocazione e di preghiera.
Già Paolo VI, con l’enciclica Ecclesiam suam(1964), aveva indicato nel dialogo la via maestra della Chiesa; negli anni più recenti, si viene comprendendo – con sempre maggior nitidezza – come il dialogo interreligioso non contraddica la missione evangelizzatrice della Chiesa; tale dialogo può, al contrario, recare ad una conoscenza reciproca più approfondita, può condurre anche ad un arricchimento vicendevole.
Nella Redemptoris missio(1990), si ricorda come "Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo", e tale chiamata riguarda sia le singole persone come i popoli (§ 55).
Al cuore di ogni tradizione religiosa – pur tra le lacune, insufficienze ed errori – si manifesterebbero quei "germi di verità" già individuati da Giustino: come i raggi, come i riflessi di quella Verità che coincide col Verbo stesso di Dio, illuminando tutti gli uomini senza distinzione.
Dialogo ed evangelizzazione
Affrontando la questione con spirito realistico, se non c’è antitesi tra il dialogo e l’evangelizzazione (che ritiene fermo che la salvezza procede da Cristo "tanquam per ianuam", è pur vero che possono manifestarsi tensione, e situazioni difficili e delicate; il legame tra dialogo ed evangelizzazione può essere profondo ed armonico, ma suppone una distinzione, non una confusione o una reciproca strumentalizzazione, quasi che dialogo ed evangelizzazione siano intercambiabili...
Per tale possibile confusione, il dialogo interreligioso può degradare a tecnica di assimilazione, o addirittura di dominio; e l’evangelizzazione perdere di slancio, imponendosi una prospettiva di universale equivalenza fra tutte le religioni (l’antica narrazione dei tre anelli, che esprime in maniera analogica l’unità trascendentale fra le tre grandi religioni monoteistiche, si convertirebbe nel racconto dei tre impostori, ognuno dei quali presenta una parziale verità, ma anche, simultaneamente, una parziale menzogna!).
La convergenza universale delle religioni, non la loro assimilazione
Nonostante un certo diffuso spirito riduttivo, il dialogo interreligioso non significa svendita della propria identità al supermercato delle religioni dominanti, ma, viceversa, approfondimento e problematizzazione della propria identità religiosa, affrontando una sfida positiva che si oppone all’intolleranza, al fondamentalismo e allo spirito di guerra.
C’è una religione "guscio", che rischia di confliggere con la presenza dell’"altra" religione, assimilandola e riducendola in troppo angusti confini: c’è una religione "ispirazione", nella quale l’Assoluto si manifesta, sia pure attraverso gli erramenti e le espressioni condizionate dagli schemi storico-culturali di partenza.
Ecco, il dialogo ha bisogno di studio e di approfondimento: non ci si approssima all’alterità religiosa con improvvisazione o dilettantismo, ma con fatica, rispetto e prove infinite di comprensione.
La presenza dell’alterità religiosa m’interpella, non possiede alcunché di ovvio e scontato, mantenendo qualcosa di inedito e, in questo incontro, dovrei trovarmi nella disposizione d’essere sorpreso; non si tratta, a guardar meglio, di un’alterità totale, ma di un cammino di convergenza, nel quale somiglianze e differenze vengono, progressivamente, in luce. Se si trattasse di un’alterità totale, nonostante ogni sforzo, io non potrei comprendere nulla della differente religione a cui m’approssimo. Quel che è in gioco è la convergenza universale delle religioni, non tanto la loro omologazione o il loro livellamento; e non c’è chi non capisca come tale movimento di convergenza potrebbe avere una formidabile efficacia per l’affermarsi dei diritti dell’uomo e per il diffondersi di un’autentica pace nella giustizia.
Un dialogo tra persone non tra istituzioni
C’è un dialogo vitale, che non si nutre solo delle riflessioni degli esperti e degli incontri dei rappresentanti delle varie religioni, al vertice; c’è un movimento impetuoso "dalla base", che spesso pare spiazzare i vertici medesimi; tale dialogo di vita si nutre di comunione e condivisione, di convergenza verso obiettivi concreti, come le opere di pace e giustizia, con un’attenzione straordinaria a quei cammini formativi che si protendono ad una ricerca – personale e sociale – dell’armonia, aprendo alla pluralità di verità. Studiosi cristiani come J. Dupuis e R. Panikkar, pur evidenziando certe contraddizioni e mettendo in guardia contro le resistenze del fondamentalismo, reclamano la maturazione di una coscienza aperta; non si tratta di abbandonarsi all’illusorio richiamo del sincretismo, cercando – spesso con frettolose giustapposizioni – di poter fare sintesi dove una lunga storia ha diviso e contrapposto; si tratta, invece, del difficile compito di risalire all’originario, nel punto in cui le varie tradizioni religiose si sono compartite e distinte; abbandonare le proprie sicurezze, scoprendo l’alterità nel proprio cuore, per potersi aprire più liberamente, nutrendosi di quell’Amore che vive nel segreto, nascosto nella profondità delle origini.
Ostacola il dialogo interreligioso un passato a volte punteggiato da torti e rancori reciproci; è un atteggiamento nuovo, di conversione, quello che dovrebbe imporsi, delineandosi il cammino della difficile misericordia, una misericordia capace di purificare la memoria e di immetterci in una prospettiva nuova. È una scommessa sulla speranza, e su un tempo recuperato e riscattato: senza tale speranza, ogni dialogo interreligioso non pare avere autentiche opportunità!
Come ogni dialogo, il dialogo interreligioso può comportare incomprensioni e difficoltà, anche grandi; si tratta di una ricerca che può essere facilmente fraintesa, o gravata da insincerità e chiusure, più o meno improvvise; come accennavo, tale dialogo deve essere accompagnato da studio, approfondimento, senza nessuna superficiale abdicazione, ma anche senza arroganti pregiudizi, più o meno consapevoli. Un Dio più grande, un Cristo più grande possono polarizzare davvero il movimento di convergenza fra le religioni, a vantaggio dello spirito di fraternità, che potrebbe far lievitare tutta la terra (andrebbero, su questa linea, recuperate alcune intuizioni di due grandi cristiani: Teilhard de Chardin e Mc Luhan).
Un dialogo che si nutre di preghiera
Gli incontri interreligiosi di Assisi, promossi da Giovanni Paolo II, possono farci riflettere sull’importanza della preghiera in comune, una preghiera umile, insistita e piena di fervore, preparata dal previo riconoscimento dei malintesi e dei torti reciproci; un tale spirito sembra permeare gli incontri più recenti anche dei gruppi ecumenici, persuasi ormai della necessità di un ampliamento della prospettiva, che comprenda anche, con le debite mediazioni, il dialogo interreligioso.
Ciò che è chiaro è che occorrono cammini formativi ben scanditi e persuasivi ed anche, in ambito cristiano, una spiritualità coerente ed aperta.
Tali cammini formativi dovrebbero condurre al superamento di stereotipi, pregiudizi e chiusure aprioristiche, favorendo una purificazione ed apertura del cuore. Se entriamo nella prospettiva di questo dialogo di vita la questione riguarda pienamente anche le famiglie, trasformandosi nella semplice e profonda testimonianza dei valori, umani e spirituali, per cui si vive; solo la semplice e diretta testimonianza dei valori per cui si vive può aiutare gli altri, e soprattutto i più giovani, a vivere...
La spiritualità che si può intravedere sullo sfondo è una spiritualità laicale, di laici che "con l’esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni" (richiamato in Redemptoris missio, §57).
In sintesi, l’autentico e genuino dialogo esige non meno che una sincera purificazione del cuore, una vera e propria conversione interiore; sotto il profilo educativo, occorre una preghierad’unità, capace di volgerci al Cuore dell’umanità e del mondo, liberandoci dai nostri schemi più angusti e dall’orologio dell’"io" e del "mio", orgoglio "umano, troppo umano".
Occorre, inoltre, una formazione all’assimilazione ed alla pratica delle virtù; la virtù della sincerità, che non è solo la "virtù crudele" che si pretende, l’educazione all’ umiltà e alla lealtà, che incrementa la consistenza della propria ricerca ed illumina le difficoltà e le incomprensioni che scandiscono il dialogo intrapreso; capire, e far capire, che pace non è irenismo, che dialogo non è strategia dissimulatoria, ed infine che la propria fede si configura, necessariamente, come una Sorgente da custodire con tenerissimo amore.
Il dialogo interreligioso non è brumosa ricerca dell’armonia, come in un certo stile New Age/Next Age, ma sofferto sforzo di comunione e condivisione, via controversa e tortuosa, che può comportare il dolore di venir deformati ed incompresi; ma il dialogo, come ricorda Giovanni Paolo II, è una via verso il Regno, una via che darà i suoi frutti, anche se le occasioni opportune di tali frutti le sa solo il Padre comune, che tutto dispone ed ama.Il dialogo risorsa dei forti
di Mario Marazziti
Si legge nei Racconti dei Chassidim che il rabbino Pinhas così spiegava la confusione di lingue dei popoli: "Prima della costruzione della torre tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio... Ciò che Dio fece quando li punì, fu di toglier loro la lingua santa". Era la lingua della comunicazione tra i popoli. Il dialogo tra i credenti delle diverse comunità religiose è il lavoro per riscoprire questa lingua sacra, ed è un grande bisogno dei nostri tempi.
Era questa l'intuizione di Giovanni Paolo II quando ad Assisi, nel 1986, invitò i leader delle grandi religioni mondiali a pregare gli uni accanto agli altri per invocare dall'alto il "grande dono della pace". Era una intuizione che si era forgiata nel dolore della Seconda guerra mondiale, nell'orrore della Shoah, nella lotta non violenta, spirituale e morale al totalitarismo sovietico, nel Concilio Vaticano II. Una intuizione radicata nel profondo del XX secolo, che si è appena chiuso. Il tempo più secolarizzato della storia umana. Molti avevano anticipato la "fine del cristianesimo" e delle religioni. La fine del XX secolo, invece, si è chiusa sotto il segno della globalizzazione e delle religioni. E quello che Gilles Kepel ha chiamato "la rivincita di Dio".
Le grandi religioni mondiali sono tornate a essere un fattore rilevante sulla scena internazionale oltre che nella vita quotidiana. A volte sono state usate, come in passato, per sostenere conflitti. Ma sono anche diventate in maniera inedita un fattore di ricomposizione e di dialogo.
Con il Concilio Vaticano II si è infatti innescato un cambiamento radicale nel rapporto tra le grandi religioni monoteistiche, islam, ebraismo, cristianesimo, per iniziativa della Chiesa cattolica. Ne è seguita la stagione del disgelo e degli entusiasmi del dialogo, sia ecumenico che interreligioso, fino alla stagione del "disincanto".
La spinta dei meeting internazionali "Uomini e religioni" viene da lontano: l’ispirazione prossima è nella Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986; ma ben prima si era mostrato un movimento all'interno dei differenti mondi delle religioni per una più intensa comprensione reciproca. Quasi cento anni prima, nel 1893, si era tenuto a Chicago - su iniziativa stavolta di un pastore presbiteriano e con l'appoggio della Chiesa cattolica nordamericana - il Word Parliament of Religions, con la partecipazione di sedici tradizioni religiose. L'iniziativa avrebbe dovuto continuare a Parigi nel 1900, ma si trasformò in un congresso di studiosi di storia delle religioni.
La seconda fase è segnata dall'incontro mondiale di dialogo di Assisi: che non è rimasto un unicum. Per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e la risposta di leader religiosi (e laici) in molte parti del mondo, ne è nato un movimento mondiale che ha attraversato molte capitali europee e ha creato e crea una consuetudine all'incontro proprio mentre sono scoppiati nuovi conflitti, dai Balcani al Medio Oriente, ai Grandi Laghi in Africa. E mentre si è diffusa un’ondata fondamentalista nelle principali espressioni religiose del pianeta, dall'islam all'induismo, a settori protestanti americani. Il dialogo tra le grandi religioni della terra è stato messo al centro, con la preghiera, da Giovanni Paolo II, in tempi di grave turbamento mondiale per il ritorno della guerra: i due incontri di Assisi successivi al 1986 e la Preghiera interreligiosa in piazza San Pietro alla vigilia del Grande Giubileo.
La convinzione della Comunità di Sant'Egidio, quando avvia gli incontri internazionali "Uomini e religioni" è che le religioni possono e debbono dare un contributo importante alla pace. La pace, nel XX secolo, è entrata nel bene e nel male nelle agende delle diverse tradizioni religiose, tutte attraversate dal problema della legittimazione dei grandi conflitti mondiali. Ma desolidarizzare solennemente le religioni dalla guerra appare un compito possibile, anzi necessario. È così che da Roma il dialogo riparte ma riparte soprattutto dal basso, coinvolgendo leader religiosi e mondi di base di riferimento. Oggi questa onda di dialogo tra uomini di religione e esponenti della cultura laica per affrontare con onestà, assieme, le grandi domande del nostro tempo, torna a Milano.
L'appuntamento è stato per il 5-7 settembre 2004. E il titolo è già una sfida: "Religioni e culture si incontrano: il coraggio di un nuovo umanesimo". Più di trecento leader delle grandi tradizioni religiose mondiali, cardinali, mufti, teologi, rabbini, grandi anime della tradizione buddhista e induista, credenti e testimoni laici si sono dati appuntamento su invito della Comunità di Sant'Egidio e dell'arcivescovo di Milano per resistere alla tentazione della contrapposizione, dello "scontro tra le civiltà" e per costruire i passi necessari per entrare nella globalizzazione con un po’ più di anima, meno in ordine sparso, convinti della grande necessità di reinventare la pace e la coabitazione in un mondo che è più complicato di ieri.
È un'onda lunga, quella che torna a Milano, l'unica città che ha ospitato più di un incontro interreligioso mondiale, oltre ad Assisi e a Roma, dove hanno preso inizio i meeting internazionali "Uomini e religioni". In mezzo è accaduto di tutto.
Era difficile immaginare il mondo in cui ci troviamo oggi quando questo pellegrinaggio di uomini e donne comuni e di grandi leader spirituali ha mosso i primi passi. Chi scrive ricorda la difficoltà, alla fine degli anni Ottanta, di avere nella stessa sala ebrei e musulmani, con i loro segni distintivi, all'inizio. La diffidenza poi superata - tra ebrei e cattolici nel 1989, cinquantesimo anniversario della Seconda guerra mondiale, quando il meeting si spostò a Varsavia, Cracovia e Auschwitz-Birkenau: per il contenzioso sull'apertura del Carmelo di Auschwitz nel recinto del luogo della memoria "sacro" agli ebrei.
Ricordo il cammino fatto: il primo pellegrinaggio, in quella occasione, di leader musulmani nel luogo dello sterminio di massa degli ebrei, un vero disgelo; l'invocazione perché i muri cadessero, prima della fine del Muro di Berlino, quando nessuno immaginava l'implosione dell'impero sovietico; i passi di dialogo per ricucire le ferite della Guerra dei Balcani tra la Chiesa ortodossa di Serbia e la Chiesa di Roma, allora sentita come avanguardia delle potenze occidentali in guerra per Bosnia e Sarajevo.
Molto è cambiato, in questi anni, da Milano (1993) a Milano (2004). Si è riaperto un dialogo profondo tra il patriarcato ortodosso di Romania e Giovanni Paolo II, dopo la grande Preghiera per la pace di Bucarest, che San'Egidio ha organizzato per la prima volta assieme a una Chiesa ortodossa. E oggi sono in via di soluzione i contenziosi legati alle grandi ferite lasciate dallo scontro tra ortodossi e uniati cattolici, acuiti da stalinismo e regime di Ceaucescu. Il canale di stima e di comunicazione con il grande mondo ortodosso russo, che non si è mai chiuso e che ha ripreso vigore nei meeting internazionali "Uomini e religioni" è un altro motivo di speranza, come pure gli esili, mai interrotti contatti con l'universo dei credenti cinesi. È stato commovente vedere davanti alla chiesa di San Domenico a Lisbona la richiesta di perdono del patriarca, il cardinale José da Cruz Policarpo, agli ebrei portoghesi proprio nel luogo che è stato il simbolo dell'inquisizione: curando una ferita durata quattro secoli. E è stato ed è decisivo vedere lo sforzo di incontro che dopo l'11 settembre 2001 è diventato ancora più necessario, per togliere aria, acqua e spazio agli estremisti che vorrebbero un mondo permanentemente in guerra e schiavo della paura e dell'odio, sotto la minaccia del terrorismo.
In questi anni molti i cambiamenti: all'interno del cammino di dialogo e nello scenario esterno. E le due cose si intrecciano. Non era facile, agli inizi, che ebrei e musulmani accettassero con facilità di essere nello stesso luogo, nello stesso paneli. All'inizio, discorsi paralleli. Poi, negli anni, un intero popolo di cercatori di pace dalle diverse tradizioni religiose è diventato protagonista del dialogo, di una ricerca comune, della necessità di tornare nel profondo delle proprie rispettive tradizioni religiose per trovare le ragioni del dialogo e della pace.
Difficile un bilancio. Paradossalmente, il successo maggiore è il fatto che il dialogo interreligioso è uscito dallo statuto dell'eccezionalità e, in certa misura, è diventato "ordinario". Che si è contagiato nelle chiese locali, tra le diverse comunità, anche quando ci sono, riemergenti, incomprensioni e paure. Difficile anche un bilancio dei momenti più importanti.
Le religioni - ha scritto Andrea Riccardi - possono essere benzina sui conflitti, ma possono essere anche acqua sui conflitti. Negli incontri "Uomini e religioni" le religioni hanno scelto in maniera impegnativa - in un tempo di rinascenti fondamentalismi - di non farsi utilizzare per fare meglio la guerra, e per costruire un'alternativa a un clash of civilization che sembra auspicato da più parti: dai maestri del terrore e da chi teme il dialogo.
È la sfida che viene raccolta a Milano in questo 2004. È un dialogo a più dimensioni. Dialogo tra cristiani: viste da lontano, nella prospettiva della globalizzazione, dei bisogni del pianeta, delle domande mute delle popolazioni civili che soffrono e di quanti chiedono un senso per la propria vita, le divisioni tra cristiani appaiono poco comprensibili, nella loro catena di piccole o grandi diffidenze e incomprensioni. È da salutare come una buona notizia e da circondare con affetto, per esempio, la presenza di tante Chiese ortodosse al meeting per la pace di Milano. Dialogo tra credenti delle grandi religioni mondiali: le tre religioni del Libro, ebrei, cristiani e musulmani e le grandi religioni asiatiche. L'antidoto alla tentazione dello scontro tra le civiltà sta qui, in questa scelta del dialogo come forza e della preghiera come arma. La preghiera come "forza debole" che cambia il mondo, mentre ci si conosce di più, ci si capisce di più, si camminerà processionalmente assieme fino alla Piazza del Duomo, il 7 settembre, in un'immagine - vera e non pubblicitaria - che è il contrario dell'11 settembre o delle immagini che vogliono stravolti i volti dell'Altro in quello del nemico.
Dialogo tra le culture, per evitare che il pianeta imbarbarisca come la nostra vita quotidiana, che le nostre case e i nostri quartieri o il nostro mondo diventino zone franche" recintate da alti fili spinati per difendersi dal "nemico": poveri, immigrati, sconosciuti, Sud del mondo, credenti di altre religioni.
"A che serve il dialogo?". C'è chi sostiene che è impossibile il dialogo senza svendere i pezzi pregiati della propria identità. Al contrario, il dialogo nasce dalla scelta di andare più in profondità nella propria identità, anche di cristiani, senza lasciarsi sopraffare dalla paura dell'altro perché incerti di sé stessi. Non è l'incontro degli ingenui. Il dialogo, infatti, non è mai la scelta dei deboli o degli spaventati. È una grande occasione per andare in profondità nella propria comprensione religiosa e, da lì, trovare nuove ragioni per comprendere l'altro, riempire fossati, svuotare le ragioni della diffidenza e della guerra in un tempo in cui terrore e conflitto sono diventati di casa. È un modo per fare entrare frammenti di futuro mentre il cielo sembra plumbeo e senza spiragli.
È il tempo in cui non smettere di guardare al futuro e alla convivenza da ricostruire. Al fondo, c'è una consapevolezza antica. Era ed è una sensibilità in profonda sintonia con una domanda che Igino Giordani si faceva già nel 1953, all'indomani del secondo conflitto mondiale: "A che serve la guerra?". Si rispondeva: "La guerra è un omicidio in grande, rivestito di una specie di culto sacro, come lo era il sacrificio dei primogeniti al dio Baal: e ciò a motivo del terrore che incute, della retorica onde si veste e degli interessi che implica. Essa sta all'umanità come la malattia alla salute, come il peccato all'anima".
A Milano sono risuonate le parole di un grande arcivescovo e Papa, Paolo VI, e la sua sapienza entrerà nelle corde profonde dell'Incontro internazionale. Esprimeva già, celebrando le Giornate mondiali della Pace, ogni 1° gennaio, il "Vangelo della Pace", come nel 1970: "Quando parliamo di pace, non vi proponiamo, o amici, un immobilismo mortificante ed egoista. La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare. Non è un'ideologia soporifera... Non è nostro ufficio giudicare le vertenze tuttora in atto fra le nazioni, le razze, le tribù, le classi sociali. Ma è nostra missione lanciare la parola Pace in mezzo agli uomini in lotta fra loro. È nostra missione ricordare agli uomini che sono fratelli. È nostra missione insegnare agli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a educarsi alla pace".
Pochi anni dopo, nel 1979, il messaggio del 1° gennaio individuava ancora più precisamente la strada, la stessa di oggi: "Predicare il vangelo del perdono sembra assurdo alla politica umana, perché nell'economia naturale spesso la giustizia non lo consente... La pace che conclude un conflitto è di solito un'imposizione, una sopraffazione, un giogo... Manca a questa pace, troppo spesso finta e instabile, la completa soluzione del conflitto, cioè il perdono, il sacrificio del vincitore a quei vantaggi raggiunti, che umiliano e rendono il vinto inesorabilmente infelice; e manca al vinto la forza d'animo della riconciliazione... Da una parte e dall'altra occorre l'appello a quella superiore giustizia, che è il perdono, il quale cancella le insolubili questioni di prestigio, e rende ancora possibile l'amicizia. Lezione difficile: ma non è forse magnifica? Non è forse di attualità? Non è forse cristiana?".
(da Jesus, n. 9, settembre 2004)
La mansueta follia della croce
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Il dialogo interreligioso
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La teologia delle religioni sta diventando uno dei capitoli più vivaci della teologia cattolica. Nella seconda metà del 20° secolo l'ateismo era diventato l'orizzonte a partire dal quale la teologia cattolica aveva rivisitato le verità centrali del cristianesimo. La stessa cosa sta avvenendo oggi con le religioni non cristiane sulla scena mondiale. Esse obbligano la teologia cattolica a rivisitare e reinterpretare alcune delle sue verità centrali. L'interesse della teologia per le religioni non cristiane risponde alla situazione del nostro mondo, in cui le religioni ormai convivono, anche se esso dallo sviluppo di alcune verità appena abbozzate dal concilio Vaticano Il. Non è un compito facile, come si vede leggendo il documento Dominus Jesus. I problemi che il pluralismo delle religioni pone alla teologia cattolica non sono piccoli né pochi, ma vanno affrontati, per fondare teologicamente, e non solo eticamente, il dialogo interreligioso che oggi è raccomandato dal Magistero della chiesa.
Il discorso di p. Geffré parte dalla novità del dialogo interreligioso necessario in quest'era planetaria dell'umanità, esamina il pluralismo religioso nel contesto della teologia, e cerca di enucleare i fondamenti teologici del dialogo interreligioso.
Il dialogo interreligioso non è solo una novità, ma anche un opportunità per promuovere una pacifica convivenza tra le religioni dopo tanti, troppi anni, di reciproca ignoranza, di contrapposizioni e perfino di conflitti "in nome di Dio". Esso si sta sviluppando in coincidenza con il sorgere dell'era planetaria, nuova inedita, in cui il mondo si sta unificando come fosse un piccolo villaggio. Ma è un villaggio in cui non c'è la serenità della convivenza. Su di esso pende intatti la minaccia che, paradossalmente, viene dagli straordinari progressi della scienza e della tecnica che mettono a rischio lo stesso genoma umano, senza dire dei guasti ecologici inflitti alla nostra terra.
Davanti all'emergenza di questo "villaggio globale", le religioni, tutte le religioni, devono sentire la loro responsabilità di promuovere dei cammini di salvezza non solo per dopo la morte, ma anche ora nel corso della storia. Le religioni, dialogando tra loro, possono servire le grandi cause dell'umanità.
C'è anche un'altra ragione per ricercare il dialogo tra le religioni. Il mondo globalizzato ha bisogno di un'etica globale che unisca le risorse morali di tutte le religioni con le esigenze etiche secolari, come quelle espresse nella Carta dei diritti dell'uomo. D'altra pane, anche l'etica secolare non ha che da guadagnare se ascolta le lezioni di saggezza delle tradizioni religiose. In questo modo il dialogo interreligioso può contribuire a umanizzare il fenomeno della globalizzazione che altrimenti, seguendo i principi del massimo profitto, del consumismo e del facile edonismo, rischia di distruggere l'umanità.
Questo dialogo e i principi che lo sostengono vengono dal concilio che nella dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate), afferma: «La Chiesa non rigetta nulla di quanto è vero e santo in queste religioni ». Ispirandosi a questo principio, Giovanni Paolo II ha posto una serie di gesti di grande portata simbolica a partire dall'incontro di Casablanca del 1985 a quello di Assisi nell'ottobre 1986 e del 2002 fino al viaggio a Gerusalemme nel corso del giubileo del 2000. Se pensiamo ai secolari conflitti della chiesa con il giudaismo o con l'islam e al secolare misconoscimento per le religioni non cristiane, si comprende la portata del cambiamento promosso dal Vaticano II anche se non se ne sono tratte ancora tutte le conseguenze. Era ora che questo avvenisse e, vedendolo, non possiamo che rallegrarcene.
Non sorprende che la teologia cattolica abbia fatto e faccia ancora fatica a riconoscere le implicazioni strettamente teologiche del nuovo atteggiamento della chiesa nei confronti delle religioni non cristiane. È una reale novità che non. viene solo dal fatto che viviamo in un'epoca di tolleranza e di rispetto della libertà di coscienza, e neppure perché oggi crediamo che gli uomini di buona volontà sono salvati da Dio anche fuori della Chiesa. Questo io si sapeva anche prima del Vaticano II. L'affermazione Extra ecclasiam nulla salus ormai non crea più problemi. Del resto è stata condannata da Pio XII nel 1949.
Ma finora non si era ancora elaborata una teologia delle religioni, perché il concilio (Nostra aetate) si è limitato a dare un'etica del dialogo con le altre religioni senza offrirle un chiaro fondamento teologico. In altre parole Nostra aetate non ha voluto o potuto affermare che le religioni non cristiane erano dei cammini di salvezza che conducevano all'Assoluto. Ha fatto appello alla dottrina Patristica dei «semi del- Verbo», ma senza elaborare una teologia delle religioni.
Per questa ragione in questi ultimi vent'anni, sotto la spinta dell'emergenza delle religioni, parecchi teologi hanno cercato di andare oltre al problema della «salvezza degli infedeli», ossia dei singoli individui, per valutare teologicamente la molteplicità delle tradizioni religiose considerate nella loro positività storica. Tra molte resistenze e inevitabili inesattezze, sta nascendo oggi una teologia del pluralismo religioso che si interroga sul significato delle religioni non cristiane all'interno del disegno di Dio: le grandi religioni non cristiane, nella loro concreta storicità, hanno e favoriscono un rapporto positivo con l'Assoluto? Sono dei cammini di salvezza?
La teologia del pluralismo religioso non comincia da zero e neppure solo dalla dottrina conciliare di Nostra aerate. Già prima del concilio, alcuni teologi come Henri de Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, avevano abbozzato una teologia del compimento che considera le religioni pagane come una "preparazione evangelica" al cristianesimo. Questa è la teologia che sta alla base della dichiarazione Nostra aetate e del decreto Ad gentes. Nella costituzione Lumen gentium, a proposito dei non cristiani, si dice che «sono ordinati al popolo di Dio (e che)... tutto ciò che di buono e di. vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo» (16 e 17). Anche Karl Rahner, con la sua teoria dei cristiani anonimi e la sua visione delle religioni intese come concretizzazione della volontà salvifica universale di Dio, rientrava, a modo suo, nella logica della teologia del compimento.
Tuttavia da parecchi anni ormai, numerosi teologi sono sempre più coscienti dei limiti di questa teologia del compimento, perché non favorisce un dialogo interreligioso su un piede di parità e non prende sul serio, in tutte le sue conseguenze, l'alterità delle altre tradizioni religiose, quella irriducibile differenza costitutiva cioè che le caratterizza nel rapporto con il cristianesimo.
La teologia tradizionale del compimento, parte dall'universalità del mistero di Cristo, e concepisce l'unicità del cristianesimo come una unità che include tutti i valori di verità e di bontà di cui le altre religioni possono essere portatrici. È questa la posizione dell'inclusivismo in opposizione all'esclusivismo dell'Extra ecclesiam nulla salus, che nega ogni valore salvifico alle religioni non cristiane.
Oggi l'attuale tendenza della teologia delle religioni cerca di superare anche la teologia inclusiva del compimento per giungere a una teologia del pluralismo religioso, che riconosce un valore salvifico alle altre religioni dentro il grande piano di salvezza pensato da Dio. «Senza mettere in questione l'unicità del mistero di Cristo, cioè un cristocentrismo costitutivo, [questa nuova posizione] non esita a parlare di un pluralismo inclusivo nel senso che riconosce i valori propri delle altre religioni». Tutto ciò esige che si risponda alla domanda, improponibile nella teologia tradizionale: Perché esiste una pluralità di cammini verso Dio? Non sarà Dio che li ha voluti?
La domanda è stata implicitamente posta dal concilio Vaticano quando ha osato dire che le religioni non cristiane sono portatrici di valori salvifici, anche se non le ha dichiarate «vie di salvezza». Ora la teologia cristiana deve interpretare (per questo è una teologia ermeneutica) le verità teologiche a partire dall'esperienza storica attuale della Chiesa.
Oggi la Chiesa si trova davanti una molteplicità di tradizioni religiose che, a occhio umano, sembra insormontabile proprio quando, sulla soglia del terzo millennio, essa riconosce che la cultura occidentale è una cultura particolare, limitata. una tra le culture nel mondo, anche se, per venti secoli, è stata la matrice della teologia cristiana.
È normale - alla luce delle affermazioni conciliari - che ci siano dei teologi, cattolici e non, che si chiedono se questa molteplicità (o pluralismo) religiosa di fatto non possa rimandare a un pluralismo religioso di principio o di diritto che corrisponderebbe a un misterioso volere di Dio.
Karl Barth (insieme a tutti gli esclusivisti) troverebbe questa domanda del tutto inutile ed immotivata, perché non formulata nella Scrittura. Tuttavia esso è oggi inevitabile e, anzi, carica di conseguenze positive, perché allarga le prospettive della storia della salvezza. Questa domanda, anche se non si trova nella Bibbia, spiega certe intuizioni del concilio in questa materia, e permette di andare al di là dell'antica problematica della salvezza dei singoli infedeli.
Claude Geffré ritiene che l'ipotesi teologica di una teologia cristiana delle religioni stia in piedi anche dopo la pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus che condanna quei teologi che distinguono un pluralismo religioso di fatto e un pluralismo di diritto. Secondo il documento, questa indebita distinzione viene da un'ideologia che dispera di raggiungere la verità e che favorisce il relativismo che alcuni teologi contemporanei professano per favorire il dialogo con le religioni non cristiane rimettendo in questione il carattere unico della mediazione di Cristo e relativizzando la rivelazione cristiana come se non fosse completa e definitiva. Ma è «facile mostrare, testi alla mano, - dice Claude Geffré - che i teologi che distinguono un pluralismo di fatto e uno di diritto, non si vendono in alcun modo all'ideologia del pluralismo [relativista] e sarebbero molto stupiti di scoprire che questa distinzione conduce fatalmente a considerare come superate le verità elencate nel seguito del numero 4 della dichiarazione, in particolare il carattere completo e definitivo della rivelazione cristiana, l'ispirazione delle Scritture, l'unità personale del Verbo con Gesù di Nazareth, l'unicità e l'universalità del mistero di Cristo ecc.. Senza pretendere di conoscere il perché della pluralità dei cammini verso Dio, cercano semplicemente di interpretare un pluralismo, che sembra insormontabile, alla luce di quello che sappiamo della volontà salvifica universale di Dio". Se il pluralismo religioso non può essere solo la conseguenza dell'accecamento colpevole degli uomini nel corso della storia, e, meno ancora, il segno di un fallimento della missione della Chiesa allora è«teologicamente permesso d'interpretarlo come un pluralismo che corrisponde a un misterioso disegno divino».
È vero che la Scrittura non risponde alla domanda sul perché del pluralismo religioso e testimonia solo della profonda ambiguità della storia religiosa dell'umanità. Lo stesso concilio riconosce che le divergenze religiose possono essere la manifestazione dell'evoluzione e delle cadute dello spirito umano tentato dallo spirito del male nella storia, ma nello stesso tempo esse possono essere anche l'espressione del genio e delle ricchezze spirituali dispensate da Dio alle nazioni.
Anche in san Paolo si trovano delle affermazioni apparentemente contraddittorie: egli condanna i pagani che non hanno riconosciuto Dio nella creazione e cadendo nell'idolatria e nella superstizione (Rm 1, 18-22), mentre altrove ammira entusiasticamente lo spirito religioso degli ateniesi e annuncia il Dio ignoto che essi adorano nella loro ignoranza (At 17, 22-34). Comunque sia, il fenomeno storico della molteplicità delle religioni va letto alla luce dell'affermazione del Nuovo Testamento sulla volontà salvifica universale di Dio, che raggiunge tutti gli uomini fin dalle origini: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Questa universalità della salvezza è ribadita negli Atti degli Apostoli da Pietro in casa di Cornelio: «In verità sto rendendomi conto ché Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 34-35).
Così il pluralismo religioso può essere considerato come un disegno misterioso di Dio, le cui vie sono conosciute solo da lui. Lo dice bene a testo di Gaudium et spes, 22.
Oltre la testimonianza ambigua delle Scritture sulla possibilità del pluralismo religioso di principio, si potrebbe invocare il giudizio severo dei Padri della Chiesa contro le grandi religioni del loro tempo, che essi considerano idolatriche, a rischio di magia e di superstizione e perfino ispirate dal diavolo. Ma questo giudizio catastrofico va collocato nel suo contesto storico. I Padri non potevano prendere posizione nei confronti di religioni come l'islam, nato all'inizio del 7° secolo, e non conoscevano che molto poco le grandi religioni dell'oriente.
Ma si noti che Giustino, Clemente d'Alessandria e Origene, mentre giudicano negativamente le religioni del loro tempo, hanno un giudizio molto positivo della «saggezza delle nazioni», ossia della filosofia greca. In essa riconoscono i semi del Verbo e i riflessi della luce del Logos, il Verbo stesso di Dio, che considerano come una preparazione, un dono anticipato e una prefigurazione della pienezza della verità che coincide con l'evento-Gesù Cristo.
Sappiamo che Nostra aetate fa riferimento diretto alla dottrina patristica dei semi del Verbo. Oggi a distanza di 40 anni possiamo dire che i Padri del Vaticano II non hanno esitato ad applicare non solo agli individui, ma anche alle attuali religioni non cristiane, un insegnamento che per se riguarda i germi di verità, bontà e anche santità che possono abitare l'anima e il cuore degli individui. Lo dice il numero 2 di Nostra aetate: «La Chiesa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere; quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono (referunt) un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». Particolarmente nitido è Ad gentes: «Quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio…» (9). Ancora più esplicito è il documento documento Dialogo e annuncio (pubblicato nel 1991) al numero 29: «È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza, che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all'invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro Salvatore» (cf Ad gentes, 3,9,11).
FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Il fondamento teologico del pluralismo religioso e del dialogo interreligioso è la concezione secondo cui l'economia del Verbo incarnato è il sacramento di una economia più vasta che coincide con la storia religiosa dell'umanità e che persiste anche dopo l'incarnazione del Verbo.
Per giustificare teologicamente il dialogo interreligioso, bisogna rivenire al mistero dell'incarnazione. Non basta dire che la storia degli uomini è da sempre arricchita dei semi del Verbo di Dio e dell'azione e delle ispirazioni dello Spirito divino. Dal momento in cui il Verbo si è fatto carne in Gesù di Nazareth, è il mistero di Cristo, che è passato per la morte e la risurrezione, che assume una portata universale per tutta la storia dell'umanità. La storia degli uomini non è mai stata abbandonata a se stessa. Dal momento in cui nell'evoluzione dell'universo appare lo spirito umano, la storia dell'umanità è una storia di libertà di uomini che peccano e che vengono salvati, in cui è impossibile discernere ciò che viene dal genio religioso dell'uomo e ciò che viene dal dono di Dio.
La storia universale è la storia dell'uomo che ricerca quell'Assoluto, che noi chiamiamo Dio, e, contestualmente, la storta di un Dio che cerca l'uomo. Secondo l'intuizione di Karl Rahner, le religioni si possono considerare delle oggettivazioni della ricerca dell'uomo da parte di Dio secondo la sua volontà salvifica universale. Ciò significa che, malgrado i limiti nell'ordine conoscitivo è le imperfezioni nell'ordine morale, che caratterizzano le religioni, queste possono essere considerate come dei tentativi di ricerca del vero Dio da parte degli esseri umani ben intenzionati, anche se spesso maldestri, imperfetti e poco riusciti. Lo spirito creato si definisce come una partecipazione all'essere tutto relativo a Dio, non solamente al Dio creatore, ma al Dio che fa grazia e cerca di comunicare, quanto possibile, se stesso. Così la rivelazione storica, che coincide con la storia del popolo di Israele e che trova la sua perfezione nella storia del popolo della Nuova Alleanza, è il sacramento, il segno e strumento e concentrazione di una rivelazione che è immanente e coestensiva alla storia umana.
Fin dall'origine il disegno creatore di Dio è disegno di salvezza in Gesù Cristo (Ef 1,4; 1Pt 1,20), che si esprime nella molteplicità dei popoli, delle culture delle religioni. È forse impossibile pensare che egli non abbia permesso e benedetto la molteplicità delle forme religiose conseguenti alla diversità delle culture? Malgrado gli errori e le imperfezioni, le molteplici religioni concorrono, a modo loro, a una migliore manifestazione della pienezza inesauribile del mistero di Dio. Secondo una formula cara al padre Schillebeeckx, «Dio non cessa di raccontarsi nella storia». Per questo Giovanni Paolo II, in un discorso ai cardinali dopo l'incontro di Assisi, dichiarava che l'impegno per il dialogo interreligioso, raccomandato dal concilio, si giustifica solo se le differenze religiose non si oppongono al disegno di Dio
«Il difficile compito di una teologia delle religioni è di cercare di pensare la molteplicità dei cammini verso Dio senza compromettete l'unicità della mediazione di Cristo e senza svendere il privilegio unico del cristianesimo il quale non ha senso che in riferimento a Gesù Cristo, che è molto più d'un fondatore di religione, dato che è il Dio che viene a prendere dimora in meno agli uomini» (Geffré).
La posta in gioco della teologia delle religioni è di grande importanza: si tratta di riaffermare la singolarità del cristianesimo come testimone dell'universalità e unicità del mistero di Cristo, esorcizzando nel contempo ogni pericolo di dominazione o, come lo chiama provocatoriamente Geffré, di «imperialismo» cristiano. Per questo si deve ricuperare il carattere dialogico del cristianesimo.
Non c'è dubbio: la dichiarazione Dominus Jesus è un avvertimento molto serio, per quei teologi che, per amore di dialogo, sono tentati di rimettere in questione l'universalità salvifica del mistero di Cristo. Per dialogare su un piano di parità, essi adottano un pluralismo che sacrifica il cristocentrismo inclusivo per un teocentrismo pluralistico. In altre parole essi dicono che tutte le religioni, ivi compreso il cristianesimo, vanno verso a Dio, ruotano attorno alla Realtà ultima dell'universo. (4) Con il pretesto che «solo Dio salva», essi relativizzano la salvezza in Gesù Cristo nel senso che Cristo sarebbe sì una via normativa per i cristiani, ma non sarebbe la via costitutiva della salvezza per tutti gli uomini.
Questo è contrario all'esplicita dottrina del Nuovo Testamento, secondo cui fin dalla creazione, Dio ha voluto legare il suo eterno progetto di salvezza al Cristo.
Si deve però comprendere bene l'unicità della mediazione del Cristo. L'unica mediazione di Cristo non esclude altre vie di salvezza, purché queste siano considerate delle mediazioni derivate o partecipate, che non hanno efficacia salvifica che se riferite al loro collegamento: nascosto, ma reale, con il mistero di Cristo.
Giovanni Paolo lo dice con chiarezza: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (Redemptoris missio, 5). È perciò possibile conciliare un cristocentrismo costitutivo e quello che possiamo chiamare un pluralismo inclusivo che, secondo il concilio, considera derivati dall'evento-Cristo i valori positivi o gli elementi di «grazia e verità» (cf. Ad gentes, 9) che si trovano nelle altre religioni.
Per permettere il dialogo con le religioni non cristiane non è necessario sacrificare il cristocentrismo a un indeterminato teocentrismo. Certo, si potrà sempre obiettare che la pretesa di universalità del cristianesimo tradisce un certa voglia di dominio, una forma di imperialismo religioso, nei confronti delle altre religioni. Ma per il futuro, dice Geffré «siamo invitati a non confondere l'universalità del cristianesimo, come religione storica, con l'universalità del mistero di Cristo» La dichiarazione Dominus Jesus ha voluto, e giustamente insistere su certe derive attuali della teologia che comprometterebbero il carattere completo e definitivo della rivelazione cristiana. Ma contro ogni falsa assolutizzazione, bisogna ricordare il carattere storico e relativo della rivelazione cristiana, almeno nel senso che essa è destinata ad essere accolta dall'intelligenza umana con i suoi limiti creaturali. Non ci ha forse avvertiti Gesù della natura escatologica della rivelazione quando ci ha promesso il suo Spirito santo per condurci alla conoscenza della verità "tutta intera" (Gv 16,14)?
La rivelazione testimoniata dal Nuovo Testamento non esaurisce la pienezza delle ricchezze del mistero di Cristo. Abbiamo il diritto di dire che la verità cristiana non è esclusiva e neppure inclusiva di nessun'altra verità religiosa. Essa è certamente singolare, ma anche relativa a quella parte di verità che è portata dalle altre religioni. In altre parole i germi di verità e di bontà, disseminati nelle altre tradizioni religiose, sono dono dello Spirito santo che è sempre all'opera nella storia e nel cuore degli uomini, prima come dopo la venuta di Gesù Cristo. Perciò non è corretto parlare di valori implicitamente cristiani, come fa la teologia del compimento. È preferibile parlare di valori cristici seminati nelle religioni non cristiane. Essi non si lasceranno ricondurre alla religione cristiana, anzi manterranno la loro differenza, ma è proprio in quanto differenti che troveranno il loro autentico e definitivo compimento nel Cristo, anche se non si lasceranno integrare nel cristianesimo. Dio è più grande del cristianesimo! Certo ai teologi toccherà di sopportare l'esistenza enigmatica di una pluralità di tradizioni religiose con le loro irriducibili differenze. Queste non si lasceranno facilmente armonizzare con il cristianesimo. Cercare di «completare» il cristianesimo con le verità parziali che si trovano nella altre religioni sarebbe pretenzioso e disconoscerebbe il valore unico e singolare della rivelazione cristiana. Accettando invece queste diversità e cercando di conoscere la ricchezza delle dottrine e della prassi delle altre religioni, potremo procedere a una arricchente rilettura delle verità cristiane che ci farà apprezzare sempre più la singolarità del cristianesimo. Secondo la pedagogia divina nella storia della salvezza, è lo straniero colui che permette una migliore intelligenza dell'identità del popolo di Dio. Questo vale per la conoscenza di Dio, che è sempre più grande dei nomi che gli diamo, come per la relazione con Dio, la religione, che deve superarsi sempre nella ricerca della perfezione del culto "in spirito e verità" (Gv 4,2-3).
CARATTERE DIALOGICO DEL CRISTIANESIMO
Si può essere dispiaciuti che la dichiarazione Dominus Jeus, per combattere il relativismo, finisca per mettete sullo stesso piano, assolutizzandola, l'universalità del Cristo e quella della Chiesa o del cristianesimo. Se il cristianesimo può dialogare con le altre religioni, è perché porta in se stesso i principi dei suoi limiti. Lo si vede esaminando tre aspetti: 1) la dialettica Israele-Chiesa primitiva. 2) il paradosso dell'incarnazione, cioè l'unione dell'assolutamente universale e dell'assolutamente particolare, e 3) la kenosi del Dio cristiano.
La questione d'Israele è d'importanza decisiva per una teologia cristiana delle religioni. Lo «scisma originario», la separazione cioè di Israele e della chiesa primitiva, è indice di un dialogo originario iscritto nell'atto di nascita del cristianesimo. La maggioranza dei teologi è oggi d'accordo nell'affermare che, malgrado la disapprovazione divina, Israele è ancora oggi depositaria dell'elezione delle promesse di Dio (Rm 11,1.29). In altre parole, Israele rappresenta qualcosa di irriducibile al cristianesimo, che non si lascia facilmente integrare nella chiesa storica e rimane in un confronto con essa fino alla fine dei tempi. Per questo, contro un certo assolutismo cattolico proprio della teologia della Controriforma, bisogna riconoscere con Hans Urs von Balthasar la «non-cattolicità» della Chiesa nella sua dimensione storica.
A partire dall'irriducibilità d'Israele si può capire l'irriducibilità delle grandi religioni del mondo al cristianesimo. C'è una certa analogia tra il rapporto del cristianesimo primitivo con il giudaismo e quello del cristianesimo con le altre religioni. Si deve accettare, senza vedervi una contrapposizione, che le promesse fatte a Israele trovino il loro compimento nel popolo della nuova alleanza. La Chiesa, a rigor di termini, non prende il posto di Israele, si tratta piuttosto di una dilatazione dell'unico popolo di Dio.
Questo può aiutarci a reinterpretare in senso non "totalitario" l'incontestabile nozione del compimento. Essa non è una sostituzione. Gesù non ha voluto sostituire all'antica una nuova religione, ma ha allargato alle nazioni pagane un'eredità che era monopolio esclusivo del popolo eletto.
Se le cose stanno così, è temerario considerare la relazione della Chiesa primitiva con il giudaismo come un esempio del rapporto attuale del Vangelo con le altre religioni e culture? Non è forse lecito allora parlare d'un pluralismo religioso di principio è non solamente di fatto?
Per manifestare il carattere dialogale e non «imperialista» del cristianesimo, bisogna ritornare ancora una volta al cuore stesso della fede cristiana, al paradosso cioè dell'incarnazione, e utilizzare la categoria dell'universale concreto, elaborata da Nicola Cusano. Da venti secoli i cristiani confessano Gesù di Nazareth come il Cristo, colui che ha rivelato l'amore di Dio per tutti gli esseri umani non solo con la sua parola, ma attraverso la sua umanità concreta. Identificare Dio come realtà trascendente a partire dall'umanità concreta di Gesù è il tratto distintivo del cristianesimo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9), è lui la manifestazione dell'amore assoluto di Dio, che tuttavia si manifesta in termini non divini, "corporalmente" cioè, nell'umanità limitata e contingente di Gesù di Nazareth che è perciò l'universale concreto. Gesù è veramente l'icona del Dio vivo a titolo unico pieno e definitivo, non ci può essere un altro mediatore. Ciononostante dobbiamo guardarci bene dall'identificare l'elemento storico e contingente di Gesù con quello cristico e divino. È proprio la legge dell'incarnazione di Dio attraverso la storia che ci porta a pensare che Gesù non esaurisce la manifestazione di Dio, perché l'umanità particolare di Gesù non può tradurre in modo adeguato le ricchezze contenute nella pienezza del Cristo glorificato. E Dio, realtà trascendente, rivelata nell'umanità di Gesù, rinvia a un Dio invisibile che sfugge a ogni identificazione e rivelazione (Gv 1,18). Il cristianesimo pertanto non esclude le altre religioni che testimoniano esperienze religiose di Dio diverse, che identificano in altro modo la realtà trascendente dell'universo. È proprio il carattere originario del cristianesimo, religione marcata dall'incarnazione, che diventa il fondamento della sua natura essenzialmente dialogica che consente e suppone altro da sé. Come religione dell'incarnazione il cristianesimo è la religione del paradosso assoluto.
Secondo Paul Tillich, la persona di Gesù, come manifestazione concreta del Logos universale, realizza l'identità tra l'assolutamente universale e l'assolutamente particolare. Il Cristo è l'"universale concreto", la realtà concreta attraverso cui i credenti hanno accesso all'Assoluto. Tuttavia è egli stesso sottomesso al giudizio del Dio incondizionato, che solo è l'Assoluto. Analogicamente, il cristianesimo come religione della rivelazione finale su Dio, esclude ogni pretesa di essere assoluta, cioè non condizionata. In altre parole, nessuna realizzazione storica del cristianesimo, avvenuta in questi venti secoli, può presumere di essere la religione della completa e definitiva rivelazione su Dio
Finalmente, per eliminare dal cristianesimo ogni veleno di «totalitarismo» e favorire il dialogo interreligioso, la singolarità del cristianesimo va letta alla luce del mistero della croce. Geffré afferma che «la teologia delle religioni è invitata a meditare maggiormente sulla dimensione kenotica del Dio che si rivela in Gesù Cristo. La croce è la condizione della gloria ed è la rinuncia a una particolarità che è la condizione per una concreta universalità. La croce è il simbolo di un'universalità sempre legata al sacrificio di una particolarità. Gesù muore alla sua particolarità per rinascere nella figura di una universalità concreta nella figura del Cristo». È la kenosi di Cristo, la rinuncia cioè alla sua uguaglianza con Dio, che permette la risurrezione nel senso più largo della parola. In questa stessa linea possiamo affermare che la condizione per il rapporto con l'altro, con lo straniero, con il differente è la consapevolezza di una mancanza. (5) Come non è possibile avere un'esperienza cristiana nell'ordine della preghiera senza la coscienza di un'Origine assente, così non c'è pratica cristiana senza la consapevolezza di una mancanza in riferimento alle altre credenze e alle altre pratiche umane. Il dialogo con le altre esperienze religiose è iscritto nella vocazione originaria del cristianesimo.
Una tale dialettica della particolarità e del suo superamento nell'apertura all'altro ci aiuta ad articolare l'universalità del messaggio cristiano con la pluralità delle tradizioni religiose e culturali. La pratica dell'alterità e l'ospitalità per lo straniero non sono delle scelte facoltative. Esse derivano da un'esigenza della natura e attestano l'alterità di un Dio sempre più grande.
Da tutto questo possiamo concludere che non c'è definizione della singolarità cristiana fuori della croce del Cristo come figura dell'amore assoluto. L'identità cristiana richiama e richiede il suo stesso superamento. Questo è l'ultimo fondamento del dialogo interreligioso. Lungi dall'esercitare una violenza dispotica nei confronti delle altre religioni, l'essere-se-stesso cristiano non ha consistenza che nel suo essere-per-gli-altri. Diversamente da una perfezione dell'essere d'ordine statico, l'esistenza cristiana si definisce per un certo non-essere e un'apertura a tutto ciò che essa non è. Riconoscere l'altro nella sua differenza e il limite che esso ci impone è la logica stessa di un'esistenza pasquale. Si potrà allora parlare non di una unicità d'eccellenza e d'integrazione, ma dell'unicità di un divenire che è fatto di consenso e di servizio.
di Brunetto Salvarani
Dialogo è una di quelle parole comuni che pronunciamo di solito senza farci particolari problemi. Senza farci carico della complessità che vi sia dietro. Molto spesso, senza distinguerla da altre altrettanto comuni e all'apparenza innocue, come ad esempio tolleranza anche se, pensandoci un po’ sopra, risulta evidente che c'è una bella differenza tra il tollerare qualcuno, accettando un po' illuministicamente che egli esista, nelle inevitabili differenze rispetto a me, e il decidere di dialogare con lui.