Religioso Marista
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Visione e formazione dell'uomo
nel capitolo VII della Regola di S. Benedetto
Il cammino per arrivare all’obbedienza
come espressione di libertà
Riflessioni di Dom Denis Huerre abbate emerito Pierre-qui-vivre e preside emerito della Congregazione Benedettina Sublacense
(seconda parte)
Nella vita monastica, come in ogni forma di vita, c’è un pericolo. Non c’è vita senza pericolo. Il pericolo della vita monastica cenobitica mi sembra consistere, soprattutto per i giovani, nel fare le cose per “voler piacere” all’abbate, al maestro. E questo succede ancora oggi, dopo il 68. La vita monastica comincia per tutti con alcuna forma di regresso psicologico: è un passaggio obbligatorio. Ciò avviene anche per le persone entrano adulte (ad esempio il padre P. Adalbert De Vogüe, entrato alla Pierre-qui-vivre all’età di 63 anni Pur essendo un uomo di grande esperienza, con un aspetto imponente, una lunga vita dietro le spalle, veramente “uomo” di valore, ha cominciato inevitabilmente per diventare come un bambino). E’ inevitabile che ci si trovi a dover percorrere un cammino all’indietro.
Anche il Vangelo domanda di diventare come un bambino: ma cosa vuol dire? È facile glossare il Vangelo. Diventare un bambino in senso evangelico non significa vivere un regresso psicologico ed essere puerili, ma diventare “figlio”. Quindi anche i postulanti che entrano adulti passano per un pregresso psicologico, ed i giovani ancora più spesso: ma è normale, non è grave. Se il maestro dei novizi, se l’abate sono un poco coscienti della vita e sanno il loro lavoro, non è grave. Anzi, questa tappa può essere un aiuto per i nuovi monaci per capire il loro legame con Cristo, per essere vicini a lui e fare tutto per amore, attraverso il suo vicario. Succede così in ogni lavoro; quando un uomo comincia ad avere un maestro, nella vita, nell’università, dappertutto, involontariamente si atteggia a discepolo, e un discepolo è normalmente pieno di gioia nell’aprirsi, nell’imparare cose nuove ecc. Purtroppo, si perde anche un po’ della propria libertà. Soprattutto quando l’abate, come normalmente succede, è un uomo buono; e quando il maestro dei novizi oltre ad essere buono non cerca come principio di trovare il candidato. Per i nostri monasteri, un postulante è un uomo prezioso, e facciamo tante cose per lui: è una grande gioia accoglierlo, e facciamo bene il nostro lavoro. Io ero già adulto quando sono entrato alla Pierre-qui-vivre (avevo fatto il militare, la guerra, ecc.) fui sorpreso e contento di essere stato preso al mio prezzo, preso sul serio.
Dunque è inevitabile che novizi passino per un momento di regresso psicologico: la gioia è grande, tutto è facile, si fanno le cose per piacere a Dio, per piacere all’abate, per piacere al maestro, per piacere alla comunità (bisogna infatti passare per la votazione della comunità!). Così tutto contribuisce perché ci sia effettivamente tale regresso.
Dunque l’arte spirituale del maestro dei novizi, dell’abate consisterà nell’approfittare di questa situazione per lo sviluppo spirituale dei monaci. Senza favorire ritorni infantili ma promuovendo un’autentica maturità umana e spirituale, cercando soprattutto di cambiare il legame che si crea con il maestro e con l’abate in un legame col Cristo, nella fede. Non è semplice: ma si tratterà realmente di fare un “transfert”, che all’inizio si è fatto da Dio all’abate e che deve passare dall’abate a Cristo. Si tratta di avere molto “ fiuto” per far evolvere e maturare il rapporto in crescita di fede, di speranza e di carità autentiche. Comunque, questo momento di trasferimento vero tra l’abate e il maestro al Cristo Gesù non è facile.
In pratica, come fare? I monasteri non sono tutti uguali, gli abati e i maestri non sono tutti uguali. Per il nostro monastero della Pierre-qui-vivre, ho pensato che sarebbe stato bene diminuire la separazione tra i novizi e la comunità. Da noi era molto forte e perdurava per otto anni, cioè per tutto il tempo degli studi. Era anche positivo, perché il gruppo delle noviziato diventava solido e coerente, ma era un rischio perché il novizio restava un po’ troppo a lungo lontano dalla comunità. Abbiamo cercato di favorire l’inserimento dei novizi nella comunità, oppure di dare abbastanza in fretta degli incarichi, perché emergessero la personalità, le difficoltà dei giovani, ecc. E’ anche un modo per essere favorevoli all’uomo, perché diventi adulto e manifesti la propria fede in Gesù Cristo. Non deve cercare di piacere soltanto all’abate o ai fratelli, ma a Cristo, e nel desiderio di piacere non soltanto all’uomo, ma a Dio, l’obbedienza si matura. È un momento difficile. Non so come voi l’avete vissuto. Il periodo che succede alla professione solenne, nell’inserimento pieno nella comunità, è un momento di crisi: quanto tutto è fatto, tutte le tappe sono state percorse e non c’è più niente da aspettare. Ma allora l’obbedienza si mostra forte quanto più chiaramente la vita è vissuta nel deserto, nella solitudine, senza complimenti continui, e si fa più vera, più libera.
Il nostro compito di abati e di maestri dei novizi, non è semplice. Perché abbiamo rinunciato alla formazione di una famiglia, ed ora abbiamo, nella vita monastica, dei figli. In tutti noi il senso materno o paterno è fortissimo, ed è bene, è normale. Ma non deve costituire un pericolo spirituale per i nostri fratelli. E quindi noi dobbiamo ….. allontanarci, lasciarli alla loro solitudine, vivere un rapporto con dei fratelli più che con dei figli. L’obbedienza può diventare per noi tentazione di proprietà.
Certo, una paternità-maternità spirituale autentica, se è pura, se è veramente spirituale, è importantissima. Ma è difficile viverla. È già difficile per dei genitori avere un affetto uguale per tutti i bambini, e quando parlano francamente loro stessi dicono che hanno delle preferenze e devono vivere una ascesi. E per noi lo è ancora di più. È inevitabile avere delle preferenze, ma il diventare “ padre spirituale” per tutti domanda un grande spogliamento. Il cuore umano è così ricco, ma così complesso, così sottile… ed è la sua bellezza. Non si tratta di diventare persone aride, indurite, senza amore, senza sensibilità … ma essere liberi. Anche San Benedetto ammette che è possibile non avere preferenze, ed esplicita: si preferisca solo chi è pronto all’obbedienza e a tutte le cose. Ma quando una persona veramente generosa, libera, tutti la amano, e la ragione è veramente autentica. Le preferenze istintive hanno altre radici: affinità intellettuali o sensibili… attenzione a non diventare “ maestro” dell’altro in senso di “ padrone “ della vita spirituale dell’altro. Sappiamo tutti che non è facile avere un cuore di monaco che preferisce assolutamente a tutto soltanto Gesù Cristo.
Si tratta dunque di crescere nell’apertura verso tutti, in primo luogo verso l’abate che costituisce il centro della vita del monastero, ma anche verso tutti i fratelli... Il concetto di passaggio, di transfert è illuminante, ed è fondamentale per illustrare il ruolo dell’autorità, nell’obbedienza.
Non sono un tecnico della psicanalisi, ma chi si è sottomesso a una analisi dice che molto rapidamente ha origine un “transfert” tra il malato, l’analizzato, e l’analizzante. Avviene molto spesso anche tra un malato e un medico qualsiasi. Un trasferimento è ricco di significato: dice l’esistenza di un bisogno, di una mancanza. Il bisogno dl essere ascoltato, di essere considerato, per se stesso. E’ un trasferimento irreale, il più delle volte, cioè unilaterale; il malato non conosce bene il medico e lo immagina, crea una immagine di uomo buono tutto disponibile per ascoltarlo. L’arte del medico consiste nel non cadere nella trappola, ma di aiutare in quella situazione il malato, attraverso la terapia.
La stessa cosa può succedere tra noi. L’obbedienza sembra essere un problema non soltanto per il monaco, sia novizio o professo, ma anche per l’abate e per il maestro. Perché l’obbedienza è una relazione tra Dio e il monaco. L’abate o il maestro, come mediatori nella relazione, non devono cambiare la relazione, facendola diventare relazione pura e semplice fra il novizio o il professo con l’abate o con il maestro. Siamo dei mediatori, per permettere al monaci di andare al di là, a Dio. Il trasferimento può avvenire in due sensi: il monaco sul superiore e il superiore sul monaco.
P. Congar dice che la grazia di Dio non rende gli uomini figli, ma fratelli Nella Chiesa ci sono soltanto dei figli di Dio e tutte le altre relazioni sono soltanto fra fratelli. Dunque se il transfert avviene - ed è un momento di passaggio normale - il vero maestro, il vero abate ne hanno coscienza e devono cercare di trasformare la relazione in vera relazione tra il monaco e Dio. Ed è difficile: bisogna radicarsi nella realtà.
Nella relazione tra l’uomo e Dio c’è essenzialmente una grande differenza. La relazione tra il monaco e un altro monaco, è diversa: relazione fraterna, relazione di eguaglianza, come la relazione di cui parla Elredo, l’amicizia. Si dà amicizia quando due persone sono a uguale livello. Nella vita cristiana, siamo tutti uguali, ed è una vita di amicizia: non c’è più uomo e donna, greci ed ebrei, schiavi e liberi. Ma tra Dio e noi, c’è sempre una differenza, un livello diverso di essere, e non è assolutamente possibile essere eguali. E l’abate e il maestro devono permettere alla relazione tra il monaco e Dio di essere vera. Per il monaco, è un atteggiamento di adorazione verso Dio; l‘amore è nell’adorazione, nel rispetto della differenza. E’ allora è possibile che la relazione evolva: che l’abate, il maestro e il monaco siano a poco a poco divenuti eguali. Nasce allora un altro tipo di relazione, che non è possibile all’inizio della vita monastica.
Penso dunque che nella vita monastica sia possibile una grande amicizia tra i professi, tra l’abate e il monaco: ma non all‘inizio, quando l’abate e il maestro sono troppo maestro ed abate e devono essere cosi, proprio per lo sviluppo della relazione tra Dio e il monaco. Dunque, nell’educazione all’obbedienza l’abate e il maestro devono entrare nella relazione tra Il monaco e Dio come strumenti di Dio. E non devono domandare per obbedienza cose che possono forse essere ottenute ad un altro livello.
Tutto si fa, comunque, quando il cuore è buono, quando non è centrato su di sè al centro di tutte le cose. La vita più semplice di quanto appaia alla nostra riflessione. E a poco a poco la crescita nella, fede e nell’obbedienza autentica avvengono. Anche nei caso in cui l’abate non è ancora maturo perchè è troppo giovane, non importa, Dio usa comunque di lui per la crescita della comunità, e la fede dei monaci cresce.
(continua)
La Chiesa Ortodossa di Finlandia
Sebbene sembra che i primi cristiani in Finlandia fossero bizantini, la maggior parte del paese ha ricevuto la fede cristiana secondo la tradizione latina attraverso l’attività di missionari svedesi. La provincia finnica di Karelia, tuttavia, fu evangelizzata da monaci bizantini dell’antico monastero di Valamo, situato in un’isola del Lago Ladoga.
Nel sec. XIII la Finandia fu terreno di lotta tra i cattolici svedesi e la Russia ortodossa. Gli svedesi guadagnarono il controllo di buon parte della Finlandia, ma la Karelia cadde sotto il controllo russo.
Nel 1617 anche la Karelia fu presa dagli svedesi, che nel frattempo avevano aderito alla fede luterana. Gli svedesi perseguitarono gli ortodossi, ma le cose migliorarono alla fine del secolo.
La Karelia fu nuovamente occupata dalla Russia nel 1721 e nel 1809 lo Zar conquistò tutta la Finlandia, che diventò un granducato autonomo dell’impero russo. Verso la fine del sec. XIX gli ortodossi della Karelia cominciarono ad imporre la propria identità nazionale. La liturgia e molte opere spirituali e teologiche ortodosse vennero tradotte in finnico, che rimane il linguaggio liturgico di questa Chiesa.
Nel 1917 la Finlandia si rese indipendente dalla Russia e nel 1918 gli ortodossi finlandesi si dichiararono chiesa autonoma rispetto a Mosca; il Patriarca Tikhon di Mosca riconobbe il suo stato di autonomia nel 1921. Nel 1923 la Chiesa ortodossa finnica fu ricevuta dal Patriarca di Costantinopoli come una chiesa autonoma.
La guerra tra Finlandia e Unione Sovietica (1939-1940) e la susseguente annessione di buona parte della Karelia all’URSS comportò la perdita del 90 % delle proprietà appartenenti alla chiesa Ortodossa finnica. Molti ortodossi finnici furono trasferiti in altre parti della Finlandia e vi iniziarono una nuova vita.
Nel 1957 il Patriarcato di Mosca riconobbe l’autonomia della Chiesa ortodossa finnica sotto il Patriarcato Ecumenico. Nel 1980 l’Assemblea Generale della Chiesa ortodossa finnica votò per avere lo stato autocefalo dal Patriarcato Ecumenico, ma la proposta non ha avuto alcun seguito.
La storia del monachesimo ortodosso finnico è lunga, ma i monasteri dovettero essere evacuati durante la guerra russo-finnica quando i Sovietici guadagnarono il controllo della regione. Il famoso monastero di Valamo fu rifondato a Heinaves (Finlandia centrale) sotto il nome di Nuovo Valamo. La comunità comprendeva anche monaci provenienti da altri monasteri della Karelia. L’ultimo dei monaci originari di Valamo è morto nel 1981. Anche il convento di Lintula è stato rifondato vicino al Nuovo Valamo. Oggi i due monasteri sono centri importanti della vita spirituale ortodossa finnica.
La disintegrazione dello Stato Sovietico ha facilitato il miglioramento delle relazioni tra le Chiese ortodosse finniche e russe. Nel 1994 sei gruppi pastorali, ciascuno capeggiato da un sacerdote, sono stati mandati dalla Chiesa finnica a prestare servizio per Natale e per la Settimana Santa nelle parrocchie ortodosse della sezione russa della Karelia. Nel settembre 1994 il Patriarca russo Alessio II ha visitato la Finlandia e ha ringraziato la Chiesa ortodossa locale per l’ospitalità concessa alla comunità di Valamo. La Chiesa finnica è ora impegnata nel restauro del monastero originale di Valamo in Russia.
Nel 1918 è stato fondato a Sortavala in Karelia un seminario ortodosso finnico, subito dopo l’indipendenza della Finlandia. Dopo che la città fu annessa dai Sovietici nel 1940, il seminario venne spostato a Helsinki. Nel 1957 fu trasferito a Humaljarvi, e a Kuopio quattro anni dopo. Fu ufficialmente chiuso nel luglio del 1988 per dare la possibilità di stabilire un dipartimento di Teologia Ortodossa all’Università di Joensuu, che entrò in funzione alla fine del 1988.
Quando è scelto un nuovo Arcivescovo di Finlandia, la sua elezione dev’essere confermata dal Patriarcato Ecumenico. I rappresentanti della Chiesa ortodossa finnica prendono ora parte alle attività pan-ortodosse con i delegati delle Chiese ortodosse autocefale.
Il governo della Finlandia riconosce la Chiesa ortodossa finnica come la seconda Chiesa nazionale, dopo la predominante Chiesa Evangelica Luterana. Questa è la sola Chiesa ortodossa che ha adottato le date occidentali per Pasqua e per le feste fisse.
Un calo demografico ha avuto luogo negli Anni 90, quando la popolazione ortodossa s’è spostata massicciamente verso Helsinki e le più popolate regioni meridionali del paese. Attualmente in Finlandia si contano 50 chiese circa e 100 cappelle con un totale di 25 parrocchie.
sito internet: http://www.ort.fi/en/index.php
Paolo ci insegna che ogni essere umano porta quel mistero nel proprio cuore e può illuminarlo con la luce di Cristo. “Il suo cuore era quello di Cristo, la cronaca dello Spirito Santo, il libro della grazia”, dice San Giovanni Crisostomo.
Guerrafondai, purché casti
di Frei Betto
Cinica morale statunitense. Contrassegnata dall’ideologia analitica, tende a vedere l’albero e ignorare la foresta. Puoi bombardare intere nazioni, se è nell’interesse nazionale, ma non azzardarti a commettere un atto impuro.
Il governatore dello stato di New York, Eliot Spitzer, coinvolto in uno scandalo a luci rosse, ha prontamente dato le dimissioni. Come se non bastasse la delusione dei suoi elettori, ha sottoposto la moglie all’umiliazione di posare al suo fianco davanti alle tv, in silenzio, mentre lui esprimeva il suo «profondo rimorso».
Le donne tacciano
di Lilia Sebastiani
…Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione. (...) Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine, e uno poi faccia da interprete. Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
Quando si partecipa ai riti di un funerale religioso, una espressione che viene spesso ripetuta (nei canti, nelle omelie e nei testi delle varie preghiere) è quella del riposo eterno.
Compito vitale per la cultura dell’uomo occidentale è ritrovare il tesoro nascosto, il proprio cuore, la propria anima smarrita.
E’ sotto gli occhi di tutti l’errore grossolano e funesto di chi pensa che la coltivazione dell’anima autoemargini l’uomo dalla società e dalla storia, quando la sua vera vocazione è di offrirsi come grembo per la rigenerazione del mondo. I santi sono i maestri del “tanto dentro quanto fuori”, mentre i falsi profeti del tutto fuori si lasciano alle spalle organismi individuali e collettivi senz’anima, piagati da irresponsabilità, ipocrisia e diffidenza sul piano morale, e da miseria e sottosviluppo su quello materiale.
La difficile situazione della malattia, che prostra il corpo e l’anima dell’uomo può essere qui presupposta come conosciuta. La malattia rende l’uomo cosciente del suo limite e della sua dipendenza, e ricorda energicamente la legge del dover morire, spesso dimenticata.
LA VITA
La vita di Teresa de Ahumada appartiene al periodo più glorioso della storia della Spagna, al siglo de oro. Teresa nacque ad Avila, in Castiglia, il 28 marzo 1515. E’ il secolo dell’immensa estensione della potenza della Spagna, nell’America Centrale e Meridionale, dopo che Cristoforo Colombo, nel 1492, aveva scoperto il nuovo continente.
La Chiesa, sposa di Cristo
di Pierre Grelot
Gli uomini, istintivamente, hanno sempre visto nel matrimonio qualche cosa di sacro. Il mutuo amore degli sposi, la trasmissione della vita, hanno origine da un ordine misterioso al quale Dio è intimamente legato. Già la rivelazione biblica, eliminando gli errori dei paganesimi antichi, ne indicava la ragione al popolo d’Israele. Creando l’umanità a sua immagine, Dio l’ha fatta uomo e donna e le ha concesso il dono della fecondità (Gen. 1, 27-28). Dio ha dato la donna all’uomo come un aiuto simile a lui; e questo è il motivo per cui, abbandonando la famiglia in cui è nato, l’uomo si unisce alla sua donna e in due diventano una sola carne (Gen. 2, 18-24). Di conseguenza, già sul piano della natura il matrimonio è sacro, perché costituisce una vocazione provvidenziale per l’uomo e la donna che lo realizzano. Ma sarebbe troppo poco fermarsi a questo. La rivelazione biblica ha pure trovato nel matrimonio uno dei principali simboli che ci permettono di capire l’amore di Dio verso di noi. Questo simbolo, fin dall’Antico Testamento, ha occupato un posto importante nel messaggio dei profeti. Nel Nuovo Testamento, esso serve ad esprimere la reciproca posizione tra Cristo e la Chiesa.
L’amore di Dio per Israele
Con il patto d’alleanza stabilito sul Sinai, Jahvè ha fatto di Israele il suo popolo. Da questo fatto fondamentale si sviluppa tutta la rivelazione dell’Antico Testamento. All’inizio, questo patto ha un’impronta giuridica: liberamente, Dio s’impegna con il suo popolo mediante una promessa; di riscontro, Israele si impegna con Dio mediante giuramento e accetta le clausole dell’Alleanza, cioè la Legge di Dio. I testi più antichi del Vecchio Testamento non si staccano da questa prospettiva che, alla sua maniera, manifesta già la benevolenza e l’amore di Dio verso gli uomini.
Ma nell’VIII secolo, il profeta Osea procede oltre: egli accosta il patto di alleanza che lega Israele a Jahvè al patto matrimoniale che lega una donna al suo sposo. Non ci dobbiamo immaginare una specie di effusione di pietà sentimentale. Il simbolo non ha nulla d’idillico, perché ha per scopo principale di mettere in evidenza l’infedeltà di Israele e di sottolinearne l’orrore. Osea, per ordine di Dio, ha sposato una donna di prostituzione, che gli ha dato figli di prostituzione (Os. 1). Attraverso questa esperienza umana, si intravede il dramma d’Israele. Sul Sinai, Jahvè ha sposato Israele, ora Israele è un popolo peccatore, una sposa adultera che gli ha dato figli di prostituzione.., Quindi il peccato d’Israele non è solo mancanza alla Legge, una trasgressione della parola data, ma una mancanza all’Amore, paragonabile alla violazione della fedeltà coniugale. Dio non è soltanto un sovrano abbandonato dai suoi vassalli, ma è uno Sposo tradito dalla sua sposa. Che cosa dunque farà egli al suo popolo? Lo tratterà come il diritto prevede vengano trattate le donne adultere: lo ripudierà e lo abbandonerà alla sua triste sorte (Os. 2, 4-15). Tutto qui, e la storia a questo punto si fermerà? Niente affatto, perché nella disgrazia Israele prenderà coscienza della sua condizione di peccatore: Allora dirà: andrò e ritornerò al mio marito di prima, perché mi trovavo meglio allora che adesso (2, 9). E Jahvè riprenderà la sua sposa pentita. Egli l’amerà di nuovo, la unirà a sé con nuove nozze:
Allora ti farò mia sposa per sempre;
ti farò mia sposa nella giustizia e nel giudizio,
nell’amore e nella compassione;
ti farò mia sposa fedele,
e tu riconoscerai Jahvè (2, 21-22).
Qui si esce dalle prospettive ordinarie della psicologia umana. Che uno sposo ingannato si vendichi, si capisce. Ma che perdoni? Ma che riprenda con sé l’infedele, che l’ami come prima, anzi meglio di prima (se così si può dire) poiché, questa volta, le nozze saranno al riparo da cadute? E’ in questo modo che Dio vuole comportarsi nei riguardi del suo popolo peccatore. Per rivelare l’amore di Dio verso i peccatori che egli chiama alla penitenza, Cristo racconterà la parabola del Figlio prodigo. Osea, partendo dalla sua esperienza coniugale, ha raccontato la storia della sposa adultera e perdonata. Da quale parte si trova il simbolo più sconvolgente e paradossale? E’ vero che annunciando queste nozze future, Osea superava i limiti dell’Antico Testamento. Ciò che egli prometteva era una nuova alleanza, più perfetta di quella del Sinai, in cui Dio avrebbe donato agli uomini, come una grazia, la fedeltà che attende da loro. Come meravigliarsi allora che il profeta, nel suo entusiasmo, descriva questa alleanza come un ritorno al paradiso perduto (Os. 2, 20, 23-24)? Non è questo l’indizio che la storia d’amore nella quale Dio si comporta come uno Sposo era incominciata ben prima del patto sinaitico? Nel momento in cui egli mise l’uomo sulla terra, stabilì di sposare la nostra razza. La razza intera ha sbagliato; l’umanità peccatrice si è abbandonata al vizio: ne facciamo tutti l’esperienza. Che importa? Questa razza di peccatori, Dio l’ama; e di essa vuol fare la sua sposa fedele. Questo è il significato del suo piano di redenzione.
Dopo Osea, il simbolo del matrimonio diviene un luogo comune della predicazione profetica, In Geremia esso serve essenzialmente a denunciare l’infedeltà d’Israele e ad annunciare il suo castigo (Ger. 2,2; 2, 19.20; 3, 1.10; 3, 20); anche a pungolarlo perché si converta, perché Dio è misericordioso (3, 11-13). In Ezechiele, le due immagini del figlio prodigo e della sposa adultera si mescolano in una allegoria vendicatrice che annunzia la prossima rovina di Gerusalemme (Ez. 16, 1-58; cfr. 23). I due profeti parlano della nuova alleanza, ma non utilizzano questo simbolo per descriverne anticipatamente gli effetti.
A cominciare dalla cattività di Babilonia, quando il popolo ebreo comprende alla luce della prova la gravità delle sue infedeltà passate, il simbolo ritorna sotto la penna dei profeti per evocare ciò che ora costituisce la speranza di Israele. Questa speranza è la futura redenzione, scopo di tutto il piano di Dio. Per metterla meglio in risalto si sviluppa l’immagine nuziale già utilizzata per stigmatizzare l’infedeltà di Gerusalemme e dei suoi figli. Ma non sarà più la Gerusalemme di prima quella che Jahvè farà sua sposa. Sarà una nuova Gerusalemme purificata e santificata, finalmente fedele alla vocazione soprannaturale che le viene rivelata nel patto di alleanza. La personificazione femminile della Città santa serve in questo al disegno dei profeti, perché permette loro di sovrapporre strettamente i diversi simboli che definiscono i rapporti tra Dio e il suo popolo nella alleanza futura: Jahvè è lo Sposo, Gerusalemme la Sposa:
Poiché tuo sposo è il tuo Creatore,
«Jahvè degli eserciti» è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele,
è chiamato Dio di tutta la terra ...
Per un breve istante ti ho abbandonato,
ma ti riprenderò con immenso amore.
Nell’eccesso della collera ho nascosto
per un poco la mia faccia da te;
ma con eterno affetto ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, Jahvè (Is. 54, 5-8).
La storia d’amore riprenderà quindi nella nuova alleanza. Creando questa nuova Gerusalemme che farà sua sposa, Dio le donerà stavolta per grazia ciò che invano aveva atteso dall’antica Gerusalemme, membro dell’umanità peccatrice allo stesso titolo di tutti i popoli della terra. Egli la fonderà sulla giustizia e renderà i suoi figli docili al suo Spirito (Is. 54, 13-14). Le darà per figli non solo i discendenti degli Israeliti, ma anche quelli delle nazioni straniere (Is. 54, 1-3): una umanità nuova risorgerà sotto la sua egida. Per sempre egli le darà assistenza e protezione (Is. 54, 11-17).
Qual è questa nuova Gerusalemme in cui Dio troverà la sua gioia, come un giovane che sposa una vergine (Is. 64, 4-5)? E’ la comunità redenta alla quale Cristo, un giorno, prometterà la vita eterna. Il profeta, anticipatamente, la evoca nella letizia delle sue nozze divine:
Io gioirò moltissimo in Jahvè, la mia anima esulterà nel mio Dio;
perché mi ha rivestito di vesti di salvezza,
mi ha ricoperto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema
e come una sposa che si adorna dei suoi gioielli (Is. 61, 10).
Nella prospettiva aperta da questa visione profetica, comprendiamo perché i redattori ispirati del Cantico dei cantici abbiano applicato i poemi d’amore, che essi raccoglievano, all’Amore che è il modello di tutti gli amori umani: quello di Dio per il suo popolo. Perché di questo popolo di peccatori, l’amore redentore di Dio vuol fare una nuova umanità, trasformata dalla grazia. Questo sarà il mistero della Chiesa.
L’amore di Cristo per la Chiesa
L’immagine delle nozze non è assente dai Vangeli, ma non vi passa che occasionalmente, sia nelle parabole del Regno (Mt, 22, 2; 25, 1-13), sia in qualche sentenza in cui Gesù è senza dubbio designato come lo Sposo (Mt, 9, 15; Gv. 3, 29). Essa è soprattutto ripresa nella riflessione degli apostoli sul mistero di Cristo-Salvatore, per mostrare nella nuova alleanza la meravigliosa rivelazione dell’amore di Dio. Cristo ha suggellato questa alleanza versando il suo sangue per gli uomini (Mt. 26, 28). Insieme egli ha ottenuto da Dio la remissione dei loro peccati ed ha fondato nella sua persona una nuova umanità di cui egli è il capo, come il primo Adamo fu il capo dell’umanità peccatrice (Rom. 5, 12-19), Le promesse dei profeti si sono così adempiute, nella carne stessa di Cristo, della quale la umanità redenta è come il prolungamento vivente.
Meditando su questa realtà profonda alla quale si può accedere solo con la fede, san Paolo vi vede la realizzazione delle nozze escatologiche annunciate dall’Antico Testamento, ed è questa la ragione per cui vi scopre un modello per ogni amore coniugale:
Mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la sua Chiesa: egli ha dato se stesso per lei; per santificarla purificandola col lavacro dell’acqua unito alla parola, volendo presentarla a se stesso, questa Chiesa, tutta splendente, che non avesse macchia o ruga o altra cosa del genere, ma fosse santa e senza alcun difetto. Così debbono anche i mariti amare le proprie mogli come i loro stessi corpi. Chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, certo, odiò mai la propria carne; al contrario, ognuno la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa; giacché noi siamo membra del suo corpo.
Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla propria moglie, e saranno i due una carne sola. Questo mistero è grande: io lo dico in rapporto a Cristo e alla Chiesa (Ef. 5, 25-32).
Così, dunque, nella carne di Gesù Cristo si è consumato lo sposalizio tra Dio e l’umanità. Prendendo una natura umana, il Figlio di Dio l’ha per ciò stesso santificata e unita strettamente alla sua persona divina. Anzi, egli ha contemporaneamente deposto nella nostra razza il germe di una realtà che deve espandersi socialmente: la Chiesa santa e immacolata, che è la sua Sposa e il suo Corpo. Quando Dio, alle origini, chiamava all’esistenza la coppia umana, come una comunità di persone chiamate ad amarsi e a far sbocciare nuove vite, egli la creava anticipatamente ad immagine di questo mistero. Ecco perché il matrimonio è una cosa sacra. E’ vero che, assieme a tutte le cose umane, il peccato l’ha ferito e profanato. Ma con la sua redenzione, Cristo lo restaura nella sua primitiva dignità. E se è vero che l’amore fecondo e fedele resta una cosa fragile, ormai la grazia Io santificherà; perché essendo il simbolo del mistero di Cristo e della Chiesa, il matrimonio è ora un sacramento.
Fermiamoci un momento a questa immagine della Chiesa-Sposa. Essa ci permette di penetrare nell’intimo della realtà soprannaturale alla quale apparteniamo con il battesimo. Al di là degli aspetti umani che talvolta possono sembrare scoraggianti (perché la Chiesa è affidata a uomini peccatori), essa c’invita a cogliere una santità permanente la cui sorgente è Gesù Cristo stesso. Ciascuno di noi, con il battesimo, è introdotto in questo mistero di santità. Ciascuno di noi, di fronte al Cristo-Sposo, partecipa al mistero nuziale della Chiesa. Come diceva san Paolo ai Corinti: Io vi ho fidanzati ad un solo sposo, per presentarvi a Cristo quale vergine pura (2 Cor. 11, 2). Questa è la nostra situazione; questa è pure l’esigenza di fedeltà che ormai ci verrà continuamente ricordata. Perché i nostri cuori divisi tra l’attrattiva della carne e quella dello Spirito Santo oscilleranno sempre tra due atteggiamenti: quello della nostra prima madre, sedotta dal serpente infernale, e quello della nostra Madre la Chiesa, sottomessa a Cristo, come una buona sposa lo è al suo sposo.
I profeti, in passato, legavano strettamente il tema delle nozze escatologiche a quello della nuova Gerusalemme. Noi sappiamo ora chi è questa nuova Gerusalemme: è la Chiesa stessa. Infatti, le promesse profetiche le assicuravano una fecondità innumerevole. La Chiesa, questa Gerusalemme celeste, santa e immacolata, possiede attualmente questa fecondità soprannaturale promessa nella Scrittura; perciò la possiamo chiamare nostra Madre (Gai. 4, 26-27). Essa è quella Donna contro la quale Satana l’antico serpente, non può nulla (Apoc. 12, 13-16). Qui raggiungiamo le immagini dell’Apocalisse. Il simbolo della nuova Gerusalemme - cioè la Chiesa nella sua perfezione trascendente - vi è effettivamente ripreso in una prospettiva nuziale che non ci meraviglierà. Alla fine della sua profezia, per dipingere il trionfo finale di Cristo al di là del tempo, il veggente scrive:
E vidi un cielo nuovo e una terra nuova.
Infatti il primo cielo e la prima terra passarono, e il mare non era più.
E vidi la città santa, Gerusalemme nuova,
che scendeva dal cielo, da presso Dio,
preparata come una sposa che è ornata per il marito.
E udii una voce grande proveniente dal trono che diceva:
Ecco la dimora di Dio con gli uomini;
e dimorerà con essi, ed essi saranno i suoi popoli, e Dio stesso sarà con essi,
e tergerà ogni lacrima dai loro occhi,
e la morte non sarà più,
né lutto né grido né dolore saranno più;
ché le cose di prima passarono) (Apoc. 21, 1-4).
Qual è dunque lo Sposo al quale è destinata questa fidanzata meravigliosa? Un altro passo lo precisa: Rallegriamoci ed esultiamo, e diamogli la gloria, ché son giunte le nozze dell’agnello, e la moglie sua si è preparata (Apoc. 19, 7). Lo Sposo è dunque Cristo, questo Agnello immolato sulla Croce in sacrificio di redenzione. Riprendendo il tema di una parabola evangelica, il veggente può concludere: Beati i chiamati al banchetto delle nozze dell’agnello! (Apoc. 19, 9). Costoro sono tutti gli uomini che non si sono volontariamente resi sordi all’invito divino. Siamo noi, i figli della nuova Gerusalemme, chiamati a partecipare al mistero delle sue nozze. Il cielo non sarà altro che questa partecipazione. Fin d’ora, quaggiù, la stessa vita cristiana non è altra cosa.
Ve ne sono che vivranno questo mistero nello stato matrimoniale, santificato dal sacramento dell’amore umano. Ve ne sono altri ai quali Cristo farà intendere un altro appello, i quali, per una grazia dello Spirito Santo, consacreranno al Cristo-Sposo tutte le facoltà del loro essere, compresa la loro affettività umana che dovrà espandersi esclusivamente in carità. Costoro vivranno con maggiore pienezza il mistero nuziale di Cristo e della Chiesa. Ad ogni modo, gli uni e gli altri troveranno davanti a loro un’esigenza di fedeltà, a cui non potranno far fronte se non con la grazia. In tal modo si edificherà la nuova Gerusalemme, si accrescerà il Corpo di Cristo, la Chiesa sua Sposa moltiplicherà la sua posterità.
Al termine della rivelazione, i grandi simboli elaborati dal linguaggio biblico per evocare il popolo di Dio si sovrappongono così per illuminare la nostra vita cristiana. A questa luce, noi possiamo scoprire il mistero della Chiesa già nei vecchi testi dell’Antico Testamento, in Osea e nel deutero-lsaia. Ma nel ritrovarli, faremo attenzione a non dimenticare lo sfondo sul quale si spiega il simbolo delle nozze: riscattando la sua sposa infedele e adultera Jahvè ha potuto farne questa Sposa immacolata che è la santa Chiesa; Dio ha amato i membri peccatori di una razza decaduta fino a offrire suo Figlio per essi, al fine di trasferirli nella nuova umanità e di farne i figli della Chiesa. La rivelazione sconvolgente del profeta Osea trova così il suo compimento nel mistero di Cristo.