Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Giovedì, 14 Febbraio 2008 23:49

Il sacramento della confermazione

Nella tradizione della chiesa incontriamo come secondo sacramento la confermazione. Il nome deriva dal latino confirmatio, da intendere qui nel senso di un rafforzamento. Nei teologi medievali troviamo anche il nome di “Imposizione delle mani”. L’Oriente parla di santo Myron (unzione con il crisma) e la caratterizza come “consolidamento” (bebàiosis) e “compimento” (teléiosis).

Domenica, 10 Febbraio 2008 21:00

Imâm (Maria Domenica Ferrari)

IMÂM

di Maria Domenica Ferrari




Parola dalle molteplici implicazioni politiche e religiose, una delle più fraintese in Occidente.

Alla voce imâm nel mio dizionario leggo: capofila, imam, esempio, califfo, comandante (dell'esercito), guida (per i viaggiatori), cammello che marcia in testa agli altri, regola, strumento di precisione, squadra, filo a piombo, regolatore, compito, posizione di colui che prega Dio nella direzione della Mecca, decreto di Dio.

Il significato principale della radice ’mm è: stare davanti a, dirigere, assumere la direzione della preghiera.

Imâm è perciò la parola che designa colui presiede la preghiera, compito che può svolgere qualsiasi musulmano pubere, anche schiavo.

Nei primi tempi era Muhammad a presiedere la preghiera. Alla sua morte i suoi successori vennero chiamati imâm, nel senso di guide della Comunità, khalîfa o ‘amîr al-mu‘minîn amministratore dei credenti, espressione molto usata nei primi secoli.

Khalîfa deriva dalla radice kh l f che indica il venire dopo nel tempo, il succedere.

Si hanno perciò due diversi ambiti: imâm si riferisce alla distribuzione spaziale dei fedeli, mentre khaliîfa indica una successione temporale.

Con il passare del tempo, in Occidente soprattutto, con califfo si tende ad indicare il potere temporale, mentre imâm viene sentito più vicino ad aspetti religiosi.

All'origine vi è in ogni caso un'unicità tra le funzioni di guida religiosa e di guida politica-amministrativa sia a livello di Comunità universale, sia a livello di moschea locale.

Nei primi secoli, in effetti, gli amministratori delle province erano nominati dal califfo con anche il mandato per la preghiera.

Con il passare del tempo la direzione della preghiera fu affidata ad un incaricato funzionario della moschea, pagato o dall'erario e dalle fondazioni pie.

In seguito a ciò ogni moschea ebbe un proprio imâm, anzi si potevano avere più imâm a rotazione, uno per ogni scuola giuridica.

A imâm venivano nominati esperti di scienze religiose (‘ulamâ) che potevano essere giudici, muftî.

La prerogativa religiosa deriva dall'essere un esperto di scienze religiose non dall'essere imâm.

Alla morte di Muhammad, che non aveva lasciato indicazioni, una parte della Comunità considerava che ‘Ali, il cugino genero del profeta, avesse diritto alla successione per vincoli di sangue.

Questi musulmani erano detti il partito di ‘Ali Shî‘at al-‘Alî,, gli sciiti.

L'imâm sciita ha una conoscenza superiore, il suo insegnamento ha valore decisivo ed ha prerogative quali l'infallibilità e la conoscenza delle cose invisibili, e si differenzia dal profeta perché rispetto a lui non trasmette una scrittura divina.

Il dialogo con gli Ebrei
"nostri fratelli maggiori"

Catechesi di papa Giovanni Paolo II del 28 aprile 1999


"Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e dell'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo".

1. Il dialogo interreligioso che la Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente
incoraggia come aspetto qualificante di questo anno particolarmente dedicato a Dio Padre (cfr nn. 52-53), riguarda innanzitutto gli ebrei, i "nostri fratelli maggiori", come li ho chiamati in occasione del memorando incontro con la comunità ebraica della città di Roma il 13 aprile 1986. Riflettendo sul patrimonio spirituale che ci accomuna, il Concilio Vaticano II, specie nella Dichiarazione Nostra Aetate
, ha dato un nuovo orientamento ai nostri rapporti con la religione ebraica. Occorre approfondire sempre di più quell'insegnamento e il Giubileo del Duemila potrà rappresentare una magnifica occasione di incontro, possibilmente, in luoghi significativi per le grandi religioni monoteistiche (cfr TMA, 53). È noto che purtroppo il rapporto con i fratelli ebrei è stato difficile, a partire dai primi tempi della Chiesa fino al nostro secolo. Ma in questa lunga e tormentata storia non sono mancati momenti di dialogo sereno e costruttivo. Va ricordato in proposito che la prima opera teologica con il titolo "Dialogo " è significativamente dedicata dal filosofo e martire Giustino nel secondo secolo al suo confronto con l'ebreo Trifone. Così pure va segnalata la dimensione dialogica fortemente presente nella letteratura contemporanea neoebraica, la quale ha profondamente influenzato il pensiero filosofico-teologico del ventesimo secolo.

C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani ed ebrei guardano assieme

2. Questo atteggiamento dialogico tra cristiani ed ebrei non esprime solo il valore generale del dialogo tra le religioni, ma anche la condivisione del lungo cammino che porta dalI' Antico al Nuovo Testamento. C'è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani , ed ebrei guardano assieme.
"A differenza delle altre religioni non cristiane - infatti - la fede ebraica è già risposta alla Rivelazione di Dio nella Antica Alleanza". Questa storia è illuminata da una immensa schiera di persone sante, la cui vita testimonia il possesso, nella fede, delle cose sperate. La Lettera agli Ebrei mette appunto in risalto questa risposta di fede lungo il corso della storia della salvezza (cfr Eb ll). La testimonianza coraggiosa della fede dovrebbe anche oggi segnare la collaborazione di cristiani ed ebrei nel proclamare e attuare il disegno salvifico di Dio a favore dell'intera umanità. Se questo disegno è poi diversamente interpretato rispetto all'accoglienza di Cristo, ciò comporta ovviamente una divaricazione decisiva, che è all'origine del cristianesimo stesso, ma non toglie che molti elementi restino comuni.
Soprattutto rimane il dovere di collaborare per promuovere una condizione umana più conforme al disegno di Dio. Il grande Giubileo, che si richiama proprio alla tradizione ebraica degli anni giubilari, addita l'urgenza di tale impegno comune per ripristinare la pace e la giustizia sociale. Riconoscendo la signoria di Dio su tutto il creato e in particolare sulla terra (cfr Lv 25), tutti i credenti sono chiamati a tradurre la loro fede in impegno concreto per proteggere la sacralità della vita umana in ogni sua forma e difendere la dignità di ogni fratello e sorella.

3. Meditando sul mistero di lsraele e sulla sua "vocazione irrevocabile", i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici. Nelle sorgenti bibliche condivise con i fratelli ebrei, trovano elementi indispensabili per vivere e approfondire la loro stessa fede. Lo si vede, ad esempio, nella Liturgia. Come Gesù, che ci viene presentato da Luca mentre nella sinagoga di Nazaret apre il libro del profeta Isaia (cfr Lc 4,16ss), così la Chiesa attinge dalla ricchezza liturgica del popolo ebraico. Essa ordina la liturgia delle ore, la liturgia della parola e perfino la struttura delle preghiere eucaristiche secondo i modelli della tradizione ebraica. Alcune grandi feste come la Pasqua e la Pentecoste evocano l'anno liturgico ebraico, e rappresentano eccellenti occasioni per ricordare nella preghiera il popolo che Dio ha scelto ed ama (cfr Rm 11,2).
Oggi il dialogo implica che i cristiani siano più consapevoli di questi elementi che ci avvicinano. Come si prende atto della "alleanza mai revocata", così si deve considerare il valore intrinseco dell'Antico Testamento (cfr Dei Verbum, 3), anche se esso acquista il suo senso pieno alla luce del Nuovo Testamento e contiene promesse che si adempiono in Gesù. Non fu forse la lettura attualizzata della Sacra Scrittura ebraica fatta da Gesù ad accendere "il cuore nel petto"(Lc 24,32) ai discepoli di Emmaus, permettendo loro di riconoscere il Risorto mentre spezzava il pane ?

4. Non solo la comune storia di cristiani ed ebrei, ma particolarmente il loro dialogo deve mirare all'avvenire, diventando, per così dire, "memoria del futuro". Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e all'impegno perché i semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell'uomo. Israele, popolo che edifica la sua fede sulla promessa fatta da Dio ad Abramo: "sarai padre di una moltitudine di popoli" (Gn 17,4; Rm 4,17), addita al mondo Gerusalemme quale luogo simbolico del pellegrinaggio escatologico dei popoli, uniti nella lode dell'Altissimo. Auspico che agli albori del terzo millennio il dialogo sincero tra cristiani ed ebrei contribuisca a creare una nuova civiltà, fondata sull'unico Dio santo e misericordioso, e promotrice di una umanità riconciliata nell'amore. "

Meditando sul mistero di Israele e sulla sua "vocazione irrevocabile" i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici.

Religioni: sorelle, non nemiche

di André Chouraqui



Tutto è stato vissuto, detto e scritto sui conflitti che ancora oggi insanguinano il mondo. L'essenziale lo esprime la Bibbia nella descrizione del primo delitto, quello di Caino che uccide Abele (Genesi 4,8). Abele e Caino sono fratelli. Uno è pastore, l'altro agricoltore. Essi non accettano la loro diversità. Sono lacerati dalla gelosia fino al delitto. Data l'unità della razza umana, nata da un'unica coppia - Adamo ed Eva -, tutti gli umani sono necessariamente fratelli. Ogni omicidio è un fratricidio.
Si apre così la via al primo e al più difficile dovere dell'uomo o della donna: quello di accettare la propria differenza, origine di tutti i conflitti e di tutte le guerre. Il dialogo è possibile solo nell'accettazione primaria delle differenze dell'Altro. Io posso conoscere l'Altro e dialogare con lui solo nella misura in cui conosco e accetto la sua differenza, quella della sua persona, del colore della sua pelle, della sua razza, della sua lingua, della sua cultura, della sua religione, del suo carattere.
Il primo dovere dell'uomo nuovo sarà perciò di vincere l'infermità congenita che lo porta a rinchiudersi in se stesso nell'illusione di essere il centro e la misura unica dell'universo. Questa illusione ingenera tutti i conflitti tribali, nazionali, internazionali e, cosa forse ancor più grave, le guerre di religione che hanno insanguinato e seguitano a insanguinare il pianeta.
La loro estrema gravità deriva dal fatto che sono condotte nel nome di Dio. Si può venire a patti su interessi umani. Gli interessi di Dio non si contrattano. Di qui il carattere implacabile delle guerre di religione. Esse imperversano tuttora in ogni continente così come hanno imperversato in ogni secolo. Le peggiori sono probabilmente quelle che hanno contrapposto le religioni abramiche: giudaismo, cristianesimo e islam. Queste religioni adorano il medesimo Elohim. I loro testi sacri sono la Bibbia ebraica, il Nuovo Testamento e il Corano, che proclamano i medesimi valori di amore, giustizia e fratellanza universale annunciati dai medesimi profeti.
Ho sempre provato un senso di stupore e ribellione nei confronti dei conflitti nati dallo scontro di queste tre religioni, sorelle nemiche, che perpetuavano le loro guerre fratricide su qualunque frontiera e in qualunque secolo s'incontrassero. Ai loro occhi, i conflitti avevano cause tanto più irrefutabili quanto più erano inscindibili dalla loro identità. Per gli ebrei i conflitti, connaturati alla loro stessa identità, cominciano fin dai tempi più remoti e sono legati agli esili subiti.
Il regno d'Israele, distrutto dagli assiri nel 721 a.C., e il regno di Giudea, occupato dai babilonesi nel 586 a.C., costringono gli ebrei a imboccare la via senza fine dell'esilio, fino a quando i romani occupano il loro Paese nell'anno 63 prima dell'era cristiana e distruggono Gerusalemme nell'anno 70 della nostra era. In quell'occasione crocifiggono, secondo Tacito, circa 600 mila vittime e costringono i superstiti della guerra di Roma ad abbandonare il loro Paese conquistato per imboccare la via senza fine dell'esilio. Per salvaguardare le vestigia della propria identità perduta, gli ebrei non hanno altra scelta che quella di barricarsi nei loro ghetti. Lì riusciranno a salvaguardare la memoria della loro storia, i loro scritti, la loro lingua e i sogni dei loro profeti, tramandati nella Bibbia ebraica.
Il ritorno, pressoché contemporaneo, dei peggiori massacri della storia, quelli delle ultime due guerre mondiali, avviene nelle nostre generazioni, sotto i nostri occhi, nell'epoca dei mutamenti più radicali dell'umanità. Essa scopre con orrore i crimini, le omissioni e gli errori di cui si è resa colpevole e, contemporaneamente, la portata del suo genio che è in grado di penetrare i più reconditi segreti dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo.
Dipende dalla scelta di ognuno di noi se orientare il nostro futuro globale verso le distruzioni che minacciano il pianeta, oppure verso l'infinito di un nuovo futuro che il genio dell'uomo dischiude all'umanità. L'ostacolo più arduo su questa via d'innovazione consiste per l'uomo nel consentire il sacrificio della propria identità, senza il quale nessun futuro sarebbe per lui possibile sulla terra.
Paradossalmente le stesse religioni che sono all'origine dei peggiori conflitti della storia detengono anche, nei Dieci Comandamenti, la chiave del futuro. Esse sono unanimi nell'indicare questo testo come essenziale per il futuro dell'umanità, soprattutto in questo anno 2000, proclamato anno internazionale della pace dalle Nazioni Unite, che su iniziativa dell'Unesco hanno redatto un manifesto che sollecita tutti i Paesi del mondo ad aderire al Mouvement international pour la culture de la paix et de la non-violence, e ognuno di noi cittadini ad assumere nella vita quotidiana, nella famiglia, nel lavoro, nella nostra comunità, nel nostro Paese, l'impegno di: rispettare la vita, in particolare quella di qualunque persona senza discriminazioni né pregiudizi; respingere la violenza, fisica, sessuale e psicologica in particolare; liberare la nostra generosità; ascoltare per comprendere meglio; preservare il pianeta, difendendo l'equilibrio delle sue risorse naturali; reinventare la solidarietà.
A questi sei principi proclamati dal Manifesto dell'anno 2000 aggiungo una settima raccomandazione, invitando tutti coloro che si rifanno alla Torah, ai Vangeli o al Corano, a eliminare ogni reciproca barriera di misconoscimento e di odio. Cristiani, musulmani ed ebrei devono ritenersi particolarmente responsabili di questo Manifesto, che in ogni sua parte è implicito nel Decalogo.
Il nostro sogno, quello dei profeti di Israele, degli apostoli di Gesù Cristo, dei compagni di Muhammad, come pure dei fondatori delle Nazioni Unite, diventa ai giorni nostri un'esigenza politica. Essa condiziona non solo la sopravvivenza dell'umanità, ma anche quella del pianeta stesso, minacciato dalla corsa agli armamenti da parte di tutti i governi del mondo. In questo senso le religioni, che hanno agito da potente freno, potrebbero, con la loro riconciliazione e riunione, accelerare il cammino dell'umanità verso l'adempimento della sua unità originaria.
Un primo passo in questa direzione è stato compiuto durante lo storico pellegrinaggio di papa Giovanni Paolo II a Gerusalemme, in occasione della sua preghiera ai piedi del muro del pianto. L'ulivo della pace, piantato a Gerusalemme da un ebreo, un musulmano e dal Papa stesso, apre la prospettiva nuova di una sinergia fra le tre religioni un tempo concorrenti.

“Buddha è l’ultimo genio religioso dell’umanità con il quale il cristianesimo dovrà confrontarsi”, affermava poco più di mezzo secolo fa il teologo cattolico Romano Guardini.

«Ha guardato l'umiltà della sua serva»


Riflessione sul trattato «Lodi alla Vergine Madre»
di San Bernardo di Chiaravalle

di Sr. Maria Teresa Ragusa o. cist.



La lettura del trattato di San Bernardo di Chiaravalle, «Lodi alla Vergine Madre», sembra prestarsi particolarmente ad accompagnare la meditazione durante questo tempo di Avvento.

Le apparizioni «ufficiali» del Risorto
al gruppo apostolico (Gv 20, 19-31)

di Rita Pellegrini





L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.

Martedì, 05 Febbraio 2008 23:32

«Mio Signore e mio Dio» (Bruno Maggioni)

«Mio Signore e mio Dio»

di Bruno Maggioni






Nei racconti evangelici della risurrezione non manca mai un accenno al «dubbio» dei discepoli. Per esempio, Matteo scrive: «Vedendolo lo adorarono, altri però dubitavano» (Mt 28,17). E nel Vangelo di Luca si legge: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,36-38).

Dal dubbio alla fede

L’evangelista Giovanni, però, ha preferito concentrare il tema del dubbio e del suo superamento in due scene contrapposte (prima l’incredulità e poi la fede), sviluppandolo attorno a un solo personaggio: l’apostolo Tommaso. La tesi principale è senza dubbio teologica: approfondire il rapporto fra il vedere e il credere, la fede del gruppo apostolico e la fede della comunità successiva. Giovanni non tratta il tema concettualmente, ma narrativamente com’è sua abitudine.

Gesù risorto appare la prima volta al gruppo dei discepoli assente Tommaso (20,19-23). Al ritorno di Tommaso i discepoli gli dicono: «Abbiamo visto il Signore»(20,25). Dicendo «il Signore» i discepoli mostrano di riconoscerne la profonda identità: Gesù è il Signore vivente e presente nella comunità.

Una maturazione, dall’inizio alla fine

Non basta ritenere che il Crocifisso è tornato alla vita. Occorre capire che ora è il Signore entrato in una vita e in una condizione che appartengono a Dio.

Così è la vera fede.

C’e’ dunque una differenza notevole fra quest’esclamazione e la prima dei discepoli che si legge in 1,41: «Abbiamo trovato il Messia».

- All’inizio i discepoli riconoscono che Gesù è il Messia, alla fine egli è il Signore.

- All’inizio trovano, alla fine vedono.

- All’inizio non sanno che il Messia sarà crocifisso, alla fine comprendono che il Signore risorto è il Crocifisso. Lo riconoscono, infatti, non dal volto o da altro, bensì dai segni della croce.

L’idea di messia è così doppiamente cambiata: il Messia è il Signore, il Messia è il Crocifisso.

Tommaso non si lascia convincere dalla visione che gli altri discepoli hanno avuto. Egli vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che Tommaso abbia toccato né le mani né il costato trafitto. In questa seconda scena tutto si concentra sul dialogo fra Gesù e Tommaso. Gli altri discepoli assistono silenziosi.

«Il mio Signore»

Nelle parole di Gesù c’è un rimprovero: «non continuare a essere incredulo [così il verbo greco nella forma dell’imperativo presente], ma diventa credente». Tommaso a questo punto riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: «Il mio Signore e il mio Dio». La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore. Non dice: «Signore Dio», ma: «Il mio Signore e il mio Dio». La presenza dell’articolo nel testo greco suggerisce anche la totalità dell’appartenenza. Si potrebbe parafrasare così: «»Sei il mio unico Signore e il mio unico Dio.

La fede sul fondamento dell’ascolto

«Beati quelli che senza aver visto hanno creduto»: è questa la vera beatitudine del Vangelo. Beato è chi crede senza pretendere di vedere. Con la fede di Tommaso si apre una nuova tappa nell’itinerario della fede: credere senza vedere. Quando l’evangelista scriveva il suo Vangelo erano già molti coloro che credevano senza aver visto. Forse è per questo che il verbo è al participio aoristo, come se si riferisse a una situazione già sperimentata («Hanno creduto»).

Dalle poche cose dette si può comprendere che la scena dell’apparizione di Gesù ai discepoli presente Tommaso assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo di Gesù visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Risorto. Tutt’altro. Gli è offerta l’esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. L’esperienza apostolica, in sostanza, risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore (sempre possibile e attuale).

Il primo elemento è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e fedelmente raccontata. Il secondo si pone, invece, come fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi all’esperienza diretta e personale di tutti coloro che accolgono l’annuncio.

(da Parole di Vita)
Martedì, 05 Febbraio 2008 23:21

Ragione ed etica (Frei Betto)

Ragione ed etica

di Frei Betto

Può una società “quantificata” dal mercato, come la nostra, trovare spazio per valori etici “qualificanti”? Davanti all’impunità di politici trovati non-etici, c’è speranza che beni “infiniti” possano prevalere su quelli “finiti”?

Socrate fu condannato e giustiziato per “eresia”. I suoi detrattori lo accusarono di corrompere i giovani, predicando loro “nuovi dei”. La conoscenza che egli aveva raggiunto gli aveva aperto gli occhi non per guardare il cielo, ma la terra. Si era convinto di non poter mai dedurre un’etica per gli esseri umani dall’Olimpo. Gli dei potevano, tutt’al più, spiegare l’origine delle cose, ma non dettare norme di condotta.

La mitologia, piena di esempi poco edificanti, obbligò i greci a cercare nella ragione i principi normativi di una buona convivenza sociale. La promiscuità che regnava presso gli dei poteva solo essere “accettata per fede”, non tradotta in atteggiamenti da imitare. Così, la ragione conquistò la propria autonomia nei confronti della religione.

Impegnato nella ricerca di valori normativi per la convivenza umana, Socrate addita il luogo dove trovarli: la ragione. Per lui, l’etica esige nome eterne e immutabili; non può, pertanto, dipendere dal variare delle opinioni. Platone apporta nuova luce in questo senso, insegnandoci a discernere tra realtà e illusione. Nel primo libro della Repubblica, egli riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere: il più forte si serve della giustizia per mascherare il proprio interesse. (Concetto che Marx riprenderà, applicandolo all’ideologia). Cos’è il potere per Trasimaco? Il diritto concesso a un individuo – o conquistato da un partito o una classe sociale – d’imporre la propria volontà a tutti gli altri.

Aristotele si domanda: cosa desidera il popolo sopra ogni altra cosa? E risponde: la felicità. Ma poi si premura di strapparci da ogni forma si solipsismo, associando felicità e politica. Secoli dopo, formulando i principi di una etica politica, Tommaso d’Aquino sottolinea il primato che spetta al bene comune e valorizza la coscienza individuale e la sovranità popolare come principi imprescindibili. Nicolò Machiavelli, invece, destituisce la politica di ogni etica, riducendola a un mero gioco di potere in cui il fine giustifica i mezzi.

Immanuel Kant afferma che la grandezza dell’essere umano non risiede nella sua capacità tecnica di soggiogare la natura, ma nel suo essere “etico”, cioè nella sua capacità di autodeterminarsi a partire dalla propria libertà. Ci sarebbe in noi un senso innato del dovere: non dovremmo astenerci dal fare una data cosa perché è peccato, ma perché è ingiusta.

«Perfino il santo del Vangelo deve essere paragonato con il nostro ideale di perfezione morale [...] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Fondazione della metafisica dei costumi). Il grande filosofo tedesco aggiunge che l’etica individuale deve essere completata da un’etica sociale, perché noi, esseri umani, non siamo un gregge di individui, ma una società che esige regole e leggi e, soprattutto, la cooperazione di tutti i suoi membri per raggiungere una convivenza sociale felice.

Hegel e Marx sottolineano come la nostra libertà sia sempre condizionata e “in relazione”, poiché consiste nell’edificazione di comunioni (con la natura e con i nostri simili). È l’ingiustizia a rendere alcuni dissimili dagli altri. Dalla tradizione giudaico-cristiana Marx eredita l’irriducibile dignità di ogni uomo e, pertanto, il diritto alla parità di opportunità. In altri termini: siamo tanto più liberi quanto più costruiamo istituzioni capaci di promuovere la felicità di tutti.

La filosofia moderna ha pensato di fare un passo in avanti con l’affermare che, una volta che si obbedisce alla legge, ciascuno è libero di fare ciò che più gli garba. La privacy come il regno della più totale libertà! Il problema con questo tipo di impostazione sta nel suo svuotare l’etica di ogni responsabilità sociale, indirizzandola verso l’esasperata affermazione dei diritti individuali, con il rischio di ridurla a un soggettivismo egocentrico. L’uomo etico moderno sembra preoccupato soltanto dei suoi sacrosanti diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

E i doveri? E gli obblighi che una persona dovrebbe sentire nei confronti della società? E i vincoli che la dovrebbe legare agli altri, in particolare all’affamato, all’oppresso e all’escluso? Un’etica universale non può ridursi alla difesa dei fondamentali diritti dell’individuo: deve, invece, essere coronata dalla volontà di intensificare le virtù, i valori e le responsabilità sociali.

Oggi l’etica non sembra di casa nel mondo della politica: chi la viola rimane impunito; chi la vive, non ne riceve onore. L’esame di coscienza di un politico sembra ridursi a rispondere alla domanda: «Ho fatto forse qualcosa di proibito dalla legge?». Ma questo non basta. Il politico è chiamato ad agire secondo giustizia e con generosità: a regolare il suo comportamento ci deve essere il rigore etico. Nello stesso tempo, egli non può supporre che la sua etica dipenda esclusivamente dalle sue virtù personali. Devono esistere una continua interdipendenza e una interrelazione fra la vita individuale e la vita sociale. «Io sono io e la mia circostanza» diceva Ortega y Gasset.

L’etica deve espletarsi nel modo in cui è organizzata la società. Oltre agli individui, anche le istituzioni sociali devono essere imbevute di eticità. In questo modo, l’individuo potrebbe anche cedere alla corruzione, ma si troverà la strada sbarrata dal mortaio della legalità, che, mentre sostiene le istituzioni, impedisce a esse di favorire l’impunità. Sembrare etico è una questione di estetica, tipica dell’opportunismo. Essere etico, invece, è questione di carattere.

(da Nigrizia, settembre 2007)

Dire che l'ecumenismo è un prodotto del XX secolo significa svalutare la storia della Chiesa cristiana. Dire, invece, che il XX secolo ha visto maturare ed imporsi il problema ecumenico significa prendere atto di una delle realtà storiche dell'epoca in cui viviamo.

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