I Dossier

Venerdì, 30 Dicembre 2005 20:24

Gli angeli della speranza nel deserto della storia (Ettore Masina)

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Naturalmente gli angeli della storia profana sono, all’apparenza, diversissimi da quelli della storia sacra; e tuttavia al di là delle apparenze, gli angeli della storia (cioè le grandi forze morali positive che la percorrono) condividono con gli angeli della Bibbia, le più importanti caratteristiche...

Montagnana (Padova), 17 marzo 2003

Care amiche, cari amici, lo sapete bene: ognuno ricorda e racconta a modo suo la storia che ha vissuto, e perciò questi racconti che ciascuno di noi fa agli altri o fa a se stesso per riconoscersi, per verificarsi, per vedere quanto è mutato nel tempo, sono naturalmente diversissimi fra loro. Tuttavia c’è una caratteristica comune ed è che tutte le storie, in modo particolare quelle di noi vecchi, somigliano, a guardarle frettolosamente, a quel deserto di cui abbiamo letto all'inizio della quaresima nel vangelo di Marco: un luogo in cui si è giunti non per nostra iniziativa o almeno non soprattutto per nostra iniziativa (Gesù “spinto dallo Spirito “, e anche noi spinti, da forze più grandi di noi), un luogo aspro e difficile, come solo un deserto può essere, un luogo in cui il sole abbaglia e crea fantasie illusorie e di quando in quando una tempesta di sabbia acceca il viandante e gli fa perdere l’orizzonte. E tuttavia non uno spazio vuoto. Il deserto di Gesù, e così la storia in cui noi abbiamo vissuto e viviamo, nonostante il senso di solitudine e di inermità che talvolta ci fa spasimare, sono luoghi popolati, anche se non di persone. Il vangelo di Marco dice che intorno a Gesù vi erano fiere e angeli. Io credo che così si debba dire della nostra storia, di quella passata e di quella che stiamo vivendo in queste ore. Il bene e il male compresenti, coinvolgenti, quasi intersecati, intrecciati fra loro e anche dentro di noi.

Mi capita di pormi spesso una domanda: se questo è vero, come io credo, allora perché ricordiamo così facilmente le bestie feroci, cioè il male, le forze negative con le quali dobbiamo lottare e mai ripensiamo agli angeli, cioè al bene che ci sta intorno e che, ancora più misterioso, ci sta dentro? Certamente le belve ruggiscono o ululano nella notte, le vipere del deserto sibilano minacciosamente, gli scorpioni alzano i loro pungiglioni avvelenati, mentre gli angeli, perlopiù, si muovono silenziosamente. Gli animali selvaggi possono uccidere e sono dunque concrete minacce, gli angeli, invece, si muovono con discrezione e si rivelano soltanto quando noi accettiamo di vederli. Per questo è facile non curarsi di loro. Ma non ci abbandonano mai, sono l’emblema stesso della solidarietà nei momenti più duri. Gli angeli che nel vangelo di Marco servono Gesù nel deserto, quando prende consapevolezza della propria missione ritornano - uno almeno ritorna - quando, come racconta il vangelo di Luca, quella missione è al termine e Gesù suda sangue per il terrore della tortura e della crocifissione, crudelissima morte. La presenza degli angeli è una costante di tutta la Bibbia. Io dico che è una costante anche della storia, della nostra storia.

Naturalmente gli angeli della storia profana sono, all’apparenza, diversissimi da quelli della storia sacra; e tuttavia al di là delle apparenze, gli angeli della storia (cioè le grandi forze morali positive che la percorrono) condividono con gli angeli della Bibbia, le più importanti caratteristiche: sono energie al servizio dell’uomo, annunciatori di messaggi che consentono di leggere con occhi nuovi realtà complesse e tragiche, e di scorgervi luci nascoste, rivelatori di segrete forze e comunicatori di inviti a un impegno che ci porta pienezza di vita.

Io credo che se noi contempliamo più le belve che gli angeli ciò avvenga perché nei deserti in cui camminiamo quando non facciamo comunità con gli altri, è presente, come nel deserto dei vangeli, oltre alle fiere e agli angeli, anche Satana, il tentatore. Non è un diavolo dal piede biforcuto e non puzza di zolfo. E' un signore molto distinto, un intellettuale, un finanziere, un pubblicitario, un governante infinitamente più astuto e potente dei cavalieri di certi governi di serie B. E’ lui che ha molti nomi ma non quelli del libro degli esorcismi: preferisce chiamarsi non Astarotte ma Sua Maestà il Capitalismo, non Belzebù ma Sua Maestà il Mercato, Sua Maestà Multinazionale, e con i suoi accademici e i suoi mass-media ci sussurra in tutti gli accadimenti che più drammaticamente ci coinvolgono, che le vele delle minuscole imbarcazioni sulle quali percorriamo gli oceani della storia e i piccoli mari della nostra vita possono gonfiarsi soltanto se le sospinge il vento dell’egoismo e della forza, cioè l’alito delle belve; è lui che vuole farci leggere le vicende dell’umanità come una successione di eventi in cui il progresso, il benessere, la civiltà sono indissolubilmente legati alle armi dei conquistadores, dei padroni, dei violenti.

Il tentatore trionfa nei libri di storia in cui i popoli sono visti soltanto come greggi umani guidati, o travolti, dai Capi, in cui la ragione è sempre del più forte e la pietà è, quando c’è, un optional politico dei Grandi Statisti. Questa versione della storia è antichissima. Si potrebbe dire che nasce con la nascita della scrittura: gli elenchi delle etnie schiacciate e poste in schiavitù adornano i più antichi monumenti eretti in onore di sovrani, i quali sostengono di avere, in questo modo, garantito la sicurezza dei loro popoli; poi la versione “grandiosa”, aristocratica, violenta, della storia, quella che nasconde gli umili per ammirare soltanto le bandiere dei potenti, prosegue con le crociate e con la conquista delle Americhe ad opera dei re cristianissimi, i quali si vantano di avere, in questo modo, piantato la croce su tutti i confini del mondo; si tinge del sangue dei popoli cosiddetti barbari ai quali gli imperi coloniali affermano di avere portato la civiltà; infine esplode, anche nel senso letterale del termine nel secolo XX, in cui la violenza dei Grandi arriva al suo apogeo perché acquista la possibilità inedita di distruggere l’intero pianeta. Una storia per la quale il secolo che ci ha generati appare agli occhi di moltissimi soltanto un tempo caratterizzato da orrori supremi: due guerre mondiali che hanno causato un numero imprecisato di morti, (ma certamente più di 85 milioni), gli orrori dello stalinismo, la Shoah e Hiroshima. la creazione di orribili arsenali che possono distruggere immense quote di umanità o, come ho detto pensando alle 13 mila testate atomiche ancora funzionanti, possono distruggere completamente la Terra. E ancora: le terribili dittature latino-americane degli anni 70-90, i grandi massacri africani per lotte fra etnie sponsorizzate dai mercanti d’armi o dalle multinazionali minerarie, i genocidi per AIDS e per fame, una civiltà in cui l’ingiustizia internazionale ha raggiunto i suoi massimi livelli, riuscendo persino a trasformare agenzie, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, originariamente create per servire la pace fra i popoli, a trasformarle, dicevo, da strumenti di equità in fonti di iniquità. E ancora: una Terra le cui risorse vengono saccheggiate, rapinandole alle generazioni future, un mondo in cui alcuni pochi milioni di bambini sono vestiti come principini e quasi sospinti all’obesità dall’ideologia del consumismo e contemporaneamente miliardi di bambini sono consegnati a una vita che si può soltanto definire dolorosa sopravvivenza e a una morte precoce. Una Terra in cui due miliardi e mezzo di uomini donne e bambini non dispongono di acqua potabile mentre milioni e milioni e milioni di piscine e di fontane caratterizzano le nostre città. Una Terra in cui interi popoli subiscono tali repressioni e persecuzioni da poter essere considerati a buon diritto popoli-martiri. Tanto per fare due esempi, il popolo palestinese e il popolo curdo.

Tutto vero, tutto tragicamente vero. Ne parleremo ancora.

E però questa terribile descrizione, se pretende di essere completa, e cioè non tiene conto degli angeli della storia, le grandi speranze e utopie attraverso le quali il cammino faticoso e sanguinoso della giustizia è, nonostante tutto, andato avanti, è una verità monca, prostituita ed infetta. Se non registriamo anche certe meravigliose realtà nel bilancio del XX secolo, noi operiamo una vera satanica deformazione della storia, con risultati gravissimi di autolesionismo. Ci sdraiamo allora davanti ai potenti, accettiamo le loro vanterie e le cronache dei loro storiografi, cancelliamo il coraggio che fu dei nostri padri e della nostre madri; ed anche (perché non dirlo?) di certi nostri giorni. Rinunziamo ad essere ciò che è stato possibile, ciò che è possibile. Cediamo il futuro ai potenti. Permettiamo che essi cancellino in noi la fierezza di certe esperienze, neghino che ci sia possibile collaborare alla costruzione di un mondo più umano o si arroghino, come sta facendo Bush in queste ore, il potere di delinearne i confini e le leggi.

La vera fisionomia del secolo XX è quella di un tempo segnato anche da immense speranze e conquiste, mentre tutte le guerre andavano rivelando la loro inutile barbarie. Il 1900 comincia con la rivoluzione messicana in cui milioni di cenciosi campesinos che innalzano bandiere con l’immagine della Madonna di Guadalupe chiedono il riconoscimento del diritto di vivere in dignità, continua con la rivoluzione sovietica, con quella cinese, con le lotte dei popoli coloniali per l’indipendenza, con la resistenza al nazifascismo, con la eroica nonviolenza dei neri d’America contro il razzismo che li vuole cittadini di serie B; con le grandi sollevazioni popolari alla periferia dell’impero sovietico, la lotta dei sudafricani contro l’apartheid… Si può dire che il secolo termini là dov'era cominciato, nel Messico del Chiapas, in cui altri campesinos levano alte le speranze della loro povertà e il loro diritto di controllare il potere. Una storia eroica e meravigliosa, tanto più che è storia di poveri, di inermi. E intanto, nelle Chiese, nelle sedi della cultura, fra i filosofi e nelle università, nei parlamenti, il diritto internazionale, l’affermazione dei diritti umani, la sensibilità ai problemi di tanta parte dell’umanità, si fanno sempre più limpidi e approfonditi. Viene fondata l’ONU, sorgono gli organismi non-governativi, alcuni assumono addirittura dimensioni stupefacenti (tanto per fare due esempi, Amnesty Internatonal e Greenpeace), viene costruita l’Unione europea, si tenta di rendere funzionante una Corte penale internazionale,…

E’ vero: molte di queste speranze sono state tradite o massacrate, le grandi utopie rimangono, per così dire, tangenti all’infinito ma non si può non ricordare che immense masse umane si sacrificarono coscientemente per costruire un futuro migliore per i loro figli e ci riuscirono. Se noi vecchi ci chiniamo con amoroso ricordo sull’epoca della nostra infanzia lo vediamo con chiarezza. La condizione umana, almeno dal punto di vista della qualità, come dire?, “fisiologica” della vita è immensamente migliorata. Dobbiamo saperlo, riconoscerlo e dirlo.

Anche dirlo è importante. Io credo che tanta parte del cosiddetto disagio giovanile nasca dal fatto che noi anziani non siamo stati capaci di fare memoria davanti ai nostri figli. Per comprensibile ma vano pudore, per paura di soffrire recuperando certi ricordi, o timorosi di essere abbandonati alla solitudine che spesso circonda i testimoni di eventi che pongono problemi e sollecitano scelte, noi abbiamo taciuto in famiglia, a scuola, in letteratura e in politica le esperienze alte e forti, drammatiche ma anche gioiose, delle nostre generazioni; ne abbiamo celebrato formalmente le ricorrenze ma le abbiamo ridotte a semplici cerimonie, spesso a stanche ripetizioni di formule. E i risultati sono evidenti e assai tristi. Se oggi moltissimi giovani ignorano le ragioni e il valore della resistenza al fascismo e al nazismo, non hanno che una vaga conoscenza della tragedia dell’emi-grazione che spinse, anche in tempi non lontani, milioni e milioni di italiani analfabeti o quasi verso i paesi più ricchi, non sanno niente della grandezza delle lotte dei lavoratori per conquistare giustizia e libertà, cioè i fondamenti della democrazia in cui viviamo, questo rende loro impossibile comprendere (almeno emotivamente) molti gravi problemi della nostra società, da quelli dell’immi-grazione extracomunitaria a quelli della necessità di fare politica - e un certo tipo di politica.

Ma c’è di peggio: questa amputazione della memoria, questo permettere che sia raccontata una storia soltanto padronale, violenta, di signori della guerra che decidono per tutti, rende difficile e forse impossibile ai giovani pensare che vi possa essere una gioia, e talvolta una vera e propria silenziosa felicità, la quale nasce dal saper rischiare per amore sicurezze e garanzie, dal vivere inseriti nei grandi processi storici in cui si tenta di fortificare la dignità dell’uomo, dalla consapevolezza di avere compiuto il proprio dovere e di avere scoperto, nel farlo, di poter essere protagonisti, minuscoli ma reali, di conquiste insperate, ottenute da uno sforzo solidale. Troppo spesso noi anziani - ed è in questo che si rivela la nostra vecchiezza - del passato raccontiamo soltanto le amarezze, la distruzione di care illusioni, le incertezze che ce ne derivano; e tacciamo della partecipazione di decine, centinaia di milioni di uomini e di donne di buona volontà, anche giovani, anche giovanissimi, ai grandi movimenti che hanno sottratto almeno una parte dell’umanità a schiavitù e devastazioni che sembravano senza fine.

Voglio ripeterlo. Più che mai abbiamo bisogno di fare memoria di certo passato. La storia che il grande tentatore vorrebbe riproporci in questi giorni, è una storia in cui esistono soltanto i potenti, e i cittadini del mondo non hanno voce né ragioni né possibilità di modificare i disegni dell’Impero. Il grande tentatore e i suoi servi e discepoli vogliono convincerci alla rassegnazione, alla subalternità, alla insignificanza; vogliono convincerci che contiamo niente, possiamo niente, siamo niente. Vogliono renderci complici passivi dei loro disegni o, peggio ancora, loro strumenti, senza dignità. Vogliono convincerci che a noi, piccola gente, non resta che credere in loro, obbedire loro e se necessario combattere per loro. Dobbiamo dirgli di no: e il nostro NO, per rispetto a noi stessi, deve risuonare alto e forte proprio nel momento in cui veniamo convocati a una nuova guerra.

Il nostro NO non nasce soltanto dal rispetto, vincolante per tutti gli italiani, della Costituzione repubblicana, la quale ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali; non nasce soltanto dal fatto che la guerra che sta per essere scatenata sarebbe, a causa delle scelte e della metodologia imperiali, una guerra illegittima, illecita, immorale e criminale, come ha detto Giovanni Paolo II, nasce anche dal fatto che la guerra è follìa. come aveva ben visto quarant'anni fa papa Giovanni nella sua enciclica "Pacem in terris".

Le guerre, inoltre, sono andate via via acquistando nuove terribili caratteristiche.

La prima è che esse sono andate diventando sempre più un business colossale. Avevano sempre avuto la caratteristica di favorire la nascita di grandi imperi industriali e finanziari, ma oggi c'è di più e di peggio: le spese militari sono diventate un oltraggio al Creatore perché drenano ogni possibilità economica di dare sollievo alle immense povertà di massa e incanalano verso disegni di morte la genialità umana, il progresso scientifico e tecnologico. Più della metà degli scienziati e dei centri scientifici della Terra sono oggi al servizio dei militari; è vero che molte delle ricerche che essi compiono possono avere anche una "ricaduta" civile ma non è men vero che l'indirizzo delle ricerche rimane nelle mani dei capi militari; quanto allo spaventoso dirottamento di captali dallo sviluppo dei popoli poveri all'industria bellica, è di pochi giorni fa la notizia che ai soli Stati Uniti la guerra costa 600 miliardi di lire al giorno, oltre, naturalmente, alle spese per gli armamenti.

La seconda caratteristica della guerra moderna è che essa colpisce non più soprattutto i soldati ma soprattutto gli inermi. Sempre i “civili” (le donne, i vecchi i bambini) sono stati coinvolti nella tragedia delle guerre: guerra ha sempre voluto dire eserciti che avanzavano, si scontravano in battaglia, si ritiravano su ampi territori; e dunque distruzione di ponti e di case, di strade, di coltivazioni e di pozzi; e fame e terrore e stupri; e odio che sarebbe durato per decenni. Ma dal 1935 in poi, dalla distruzione di Guernica ad opera dell’aviazione nazista prestata ai falangisti, la guerra ha cominciato a uccidere intenzionalmente anche e soprattutto lontano dai fronti di battaglia. I generali hanno compreso che i nemici combattono più fiaccamente, demoralizzati e sconvolti, quando sanno che la guerra sta distruggendo le loro case e i loro figli. E’ nata così la guerra-terrorismo, quella che colpisce gli inermi per disarmare gli armati: La distruzione di città come Coventry in Gran Bretagna (20 mila morti) e, in Germania, Amburgo (50 mila morti) e Dresda (300 mila morti) è l’emblema di questa violenza insieme selvaggia e astuta. Hiroshima (270 mila morti) e Nagasaki (150 mila) sono la vergogna incancellabile della storia del mondo cosiddetto libero, democratico. Avvennero nella prima metà del secolo XX: ma i bombardamenti sulle popolazioni del Vietnam del Nord sono della fine degli anni ‘60, quelli su Bagdad e su Belgrado sono degli anni ‘90, i missili sulle case di Gaza, di Janina e di Ramallah hanno inaugurato l’orrore del secolo XXI. Adesso fingiamo di non sapere che più di metà della popolazione irachena (23 milioni di cittadini) è formata da persone sotto i 15 anni. Quanti bambini sono stati condannati a morte?.

La terza ragione che rende ogni guerra, di per se stessa, nefanda è che le guerre moderne non si concludono più con gli armistizi, colpiscono per generazioni. Voglio darvene io stesso qualche testimonianza. In Vietnam, a Hochiminhville, cioè Saigon, conobbi anni fa la dottoressa Thi Ngoc Phuong. La chiamavano “la madre dei mostri” perché, con infinita pietà e con una maestria che le aveva valso una grande fama internazionale, riusciva a dare sembianze umane a qualcuna delle creature nate deformi (ma deformi è un eufemismo) in seguito alla irrorazione di defolianti sulle selve e sulle zone arboricole operata dagli americani per stanare i viet-cong. La guerra era formalmente finita ventidue anni prima, ma nell’ospedale Tu Du continuavano ad arrivare bambini che sembravano (non so come dirlo) granchi umani. Venivano da tutti i villaggi dell’ansa del Mekong o dalla cordigliera centrale, ma erano una parte minima di quella sfida della chimica di guerra al Creatore, perché molti e molti altri rimanevano senza cure nei villaggi devastati delle zone più impervie. Adesso la dottoressa Thi Ngoc Phuong, nel cui studio stavano due grandi vasi di vetro con due bambini a due teste (nati-morti per fortuna), è andata in pensione, ma migliaia di bambini deformi (ricordate: deformi è un eufemismo) continuano a nascere nelle zone irrorate di diossina.

Nel Kosovo, in Somalia e in Iraq accade lo stesso per l’uso ormai “antico” dei proiettili all’uranio impoverito o di qualche altro agente chimico. E negli Stati Uniti il Pentagono ha un gran daffare a nascondere la quantità di bambini “anormali” nati dai veterani in Vietnam, nei Balcani e nel Golfo del 1991 (almeno 50 mila cas)i. Ogni tanto un giudice americano condanna una delle società chimiche produttrici di veleni a risarcire (anche questo è un eufemismo) i genitori di quei piccini “sfigurati al punto da non parere più un uomo”. Nessun giudice si occupa dei bambini del Vietnam, del Kosovo e dell’Iraq. Né delle altre devastazioni di guerre “di tanto tempo fa”: anche la catena alimentare, infatti, risulta ancora inquinata da radiazioni e veleni; e molte falde acquifere. Tante piccole Hiroshima “periferiche” continuano a perpetuare l’orrore radioattivo o (Dio non voglia) ne preannunziano uno ben più grave, dato che il Pentagono non esclude di usare armi nucleari. Intanto in tutto il mondo, ogni giorno, in zone in cui teoricamente la pace è tornata da anni e anni 26 mila persone, in grande maggioranza bambini rimangono mutilati o uccisi da centinaia di milioni di mine sparse su campi di battaglie che sembrano lontanissime nel tempo. Una mina rimane in funzione vent’anni, e quando domandai a uno dei tecnici della produzione italiana (i cui ordigni sono disseminati tuttora in immense aree: dieci milioni di ordigni, tanto per fare un esempio, sparse nel Kurdistan “iracheno”.:) perché non si pensasse di dare a questi strumenti di ferocia tecnologica una efficacia limitata nel tempo, mi guardò sorpreso: “Nessuno ce l’ha mai chiesto”. Ricordo di avere visto a Beled Wayn, nell’Ogaden, due bambini che erano saltati su una delle tante mine italiane vendute imparzialmente alla Somalia e all’Etiopia in guerra fra loro. In un fatiscente ospedale, li curavano amorosamente medici italiani. “Sono condannati all’ergastolo” mi disse un dottore; e poiché io mostravo di non capire, spiegò: “Sono figli di una tribù di pastori, nomadi che ogni giorno si spostano per 15-20 chilometri. Quando usciranno di qui, i genitori non potranno fare altro che appoggiarli all’ombra di un muretto dove camperanno la vita del mendicante”. “Quella” guerra era finita da quattro anni: “quella” guerra continua a uccidere perché nessuno ha provveduto ancora allo sminamento.

E non è soltanto questione di mali fisici: un orfano di soldato, un ragazzino o una bambina che hanno visto morire la madre in un bombardamento, o hanno vissuto terribili traumi diventano assai spesso, ci dicono gli psicologi, genitori che trasmettono ai loro figli il marchio delle psicosi. Ho letto recentemente una terribile notizia: aumentano in Israele i suicidi di bambini fra gli 8 e gli 11 anni- La pongo accanto a quella secondo la quale diverse centinaia di reduci americani dalla guerra del '91 sono ancora in trattamento in ospedali psichiatrici e vi sono state alcune decine di veterani che non solo hanno manifestato grandi disagi psichici al momento del reinserimento nella vita civile ma si sono resi autori di delitti anche gravissimi.

tanti suoi esponenti. Al contrario, le guerre, aumentando le zone dell’ ingiustizia e della disperazione dei popoli, aumentano a dismisura le nascite dei terrorismi. Da questo punto di vista le guerre sono, con ogni evidenza, del tutto controproducenti. Non è moltiplicando i morti che si generano paci; e. la guerra che ci sta di fronte non sarà soltanto la cancellazione di una nazione ma un'autentica seminagione di terrorismo. Chiunque ha seguito da vicino la vicenda medio.orientale, come io faccio da quasi quarant'anni, sa bene come il terrorismo palestinese sia stato accuratamente coltivato dai governi israeliani che ne hanno cavalcato la disperazione per estirpare ogni pretesa palestinese ai propri diritti. Bush non sta vendicando i morti di New York, sta certamente preparando al suo popolo nuovi orrori. Dirlo è non già fare dell'antiamericanismo ma esporre una semplice inconfutabile realtà; e che la maggioranza dell'opinione pubblica degli States non se ne renda conto, narcotizzata com'è dai suoi mass-media, mostra come persino una grande democrazia possa essere sequestrata e strumentalizzata dal potere di un trust che è riuscita a portare alla Casa Bianca uno dei suoi uomini.

***

Care amiche, cari amici, non dobbiamo avere occhi soltanto per questi orrori. Dobbiamo essere consapevoli di vivere giorni terribili ma anche giorni meravigliosi. Contro ogni previsione dei professionisti della politica e della psicologia delle masse, da tutta la Terra si è levata un’ondata di NO alla guerra, una immensa protesta globale. Benché io abbia ormai vissuto una lunga vita, non ricordo di avere mai assistito a un fenomeno così imponente. E’ una gigantesca forza politica della quale è impossibile prevedere come si esprimerà localmente ma i cui principi appaiono inequivocabili: NO alla ferocia, alla degradazione del diritto, alla logica delle armi, SI’ alla custodia del Creato, alla giustizia internazionale, al dialogo, alle istituzioni di pace, alla dignità umana. Proprio nel momento in cui l’arroganza imperiale ha tentato di smantellare politicamente il Palazzo di Vetro, sembra risuonare la parola del Dio di Isaia. “Non indugiatevi a parlare del passato…Ecco - non vedete? - io sto creando in mezzo a voi una cosa nuova”.

Questo concetto della novità che cresce nascostamente in mezzo a noi ha esempi straordinari, a cominciare da uno che riguarda da vicino il nostro essere Chiesa. Mi capita in questi giorni di leggere la "Storia dei Giudei" o "Antichità Giudaiche" di Flavio Giuseppe, lo storico ebreo che fra il 79 e il 94 dopo Cristo scrisse del suo popolo. Ebbene, in un' opera di altissimo livello storiografico e che mostra una perfetta conoscenza della Palestina dell'epoca, nella edizione che sto leggendo, alla vicenda di Gesù sono dedicate 10 righe su 850 pagine, Flavio Giuseppe sa, e dice, che vi sono persone che anche dopo la morte di Gesù continuano a ritenerlo il Messia, ha egli stesso il dubbio che Gesù non fosse soltanto un uomo ma considera con ogni evidenza i cristiani una piccola setta. Eppure proprio in quegli anni l'evangelo si diffonde, raggiunge schiavi e matrone, magistrati e militari, i sobborghi di oscure città alla estrema periferia dell'Impero ma anche il cuore dell'Impero, Roma, la Grande prostituta, Mancano soltanto due secoli a Costantino, al trionfo, anche sociale, del cristianesimo: ma lo storico degli intellettuali d'alto bordo non se ne accorge, troppo attento alle sue nostalgie e alla grandezza dei vincitori…

Storia che si rinnova, secolo dopo secolo, per la cecità di chi crede che "dal basso", non possa venire niente di importante. Penso, per esempio, alla vittoria di Lula in Brasile. Un figlio di straccioni, un metalmeccanico che ha perso un dito sotto una pressa, un sindacalista arrestato per sedizione, un uomo politico per due volte non votato da grandi masse perché le televisioni padronali dicevano che sarebbe stato vergognoso eleggere uno che non si metteva mai la cravatta, siede oggi nel centro del potere di uno fra gli stati più importanti del mondo, avendo conquistato poco a poco, con infinita pazienza e grande abilità. la fiducia di tutti i poveri che desideravano finalmente il riconoscimento dei loro diritti a una vita senza fame, senza terribili malattie, senza analfabetismo, senza repressioni poliziesche. Ancora due anni fa la possibilità di una sua vittoria veniva smentita da tutti gli "esperti".

Penso al Forum Sociale di Porto Alegre (100 mila persone giunte da 156 paesi), a come è diventato il centro di un incontro mondiale in cui si esprimono con nuova chiarezza problemi, si studiano soluzioni e soprattutto si abbattono confini nazionali e ideologici, nasce una globalizzazione della speranza. Penso a che cosa è stato il Social Forum di Firenze, boicottato dalle maggiori associazioni, purtroppo anche ecclesiali, e tuttavia diventato una specie di immensa università della strada, migliaia di giovani intenti a capire la Terra del loro futuro e a crearsi un nuovo stile di vita ascoltando grandi testimoni di coraggioso impegno come il vecchio Ingrao, Alex Zanotelli, Luigi Ciotti, Susan George. Penso a come la volontà di pace sta aprendo nuove strade all’ecumenismo. Le grandi chiese cristiane, da Mosca a Canterbury, riecheggiano le parole del vecchio pontefice di Roma; una delegazione della Chiesa metodista americana, cui appartiene il presidente Bush, viene a dire a Giovanni Paolo II affetto e consenso. Dall’ epoca della “Pacem in terris” il vangelo di giustizia e di pace non era apparso agli uomini così amabile e forte.

Tocca a noi, adesso, esserne viventi testimoni.

Cogliere le realtà che germinano nelle pieghe della storia, fra le rocce dei deserti, la vita segreta, apparentemente inesistente per mesi e mesi, che improvvisamente esplode di colori e profumi all'arrivo di un'acquazzone, questa è la capacità alla quale siamo chiamati. Seguire gli impulsi che ci vengono dal cuore. L'indignazione davanti alle ingiustizie che uccidono o paralizzano tanti bambini. La voglia di fare per rimediare, almeno un poco, come è possibile, a queste realtà. C'è una bellissima poesia di Pablo Neruda che ci lancia una sfida a vivere in pienezza di vita. Dice, fra l'altro:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi (…)
Muore lentamente chi evita una passione.
Lentamente nuore chi non rischia la certezza per inseguire un sogno,
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo.

E conclude dicendo:

Soltanto un'ardente pazienza può portare
al raggiungimento di una splendida felicità.

***

"Una ardente pazienza". I poeti hanno la straordinaria capacità di operare sintesi meravigliose. "Pazienza" sembra parola che spinge al silenzio, al gradualismo, ai tempi lunghi. Così è. Mi è capitato di domandare al brasiliano Carlos Prestes, uno dei più coraggiosi combattenti per la giustizia del secolo scorso, quale fosse secondo lui la virtù più preziosa per un rivoluzionario. Proprio così mi rispose: "La pazienza". Ma certamente avrebbe convenuto con Neruda: pazienza, ma ardente perché fatta di quella indignazione che ha per figli il coraggio e l'ostinazione. Il rifiuto di "una morte a piccole dosi", come dice ancora Neruda in quella sua poesia, alludendo a chi spegne il televisore e spranga la porta di casa con l'illusione di poter tenere lontano il futuro. L'accettazione coraggiosa, invece, di una vita che conosce le esigenze della solidarietà e che perciò diventa, almeno nella mia esperienza una scelta di gioia, di felicità.

Vorrei ricordare qui, prima di concludere, un amico e maestro, un santo del cui dies natalis, ricorreranno fra poco i dieci anni: don Tonino Bello, il vescovo mai chiamato nella sua Chiesa "monsignore", tanto meno "eccellenza". Una volta, all'Arena di Verona, parlando di pace, egli propose di sostituire alla espressione evangelica "Beati i costruttori di pace", una frase che suonava così: "In piedi, costruttori di pace". Voleva dire che dobbiamo prendere posizione, non cedere alla noia, al conformismo, alla pigrizia, alle stupide e volgari tentazioni del consumismo. Voleva dire che vi sono guerre senza tanks e missili che continuano a uccidere silenziosamente centinaia di migliaia di creature ogni settimana dei nostri giorni.Voleva dire che dobbiamo essere i custodi della pace, quella fra i popoli, quella fra gli individui e anche quella nei nostri cuori, che solo esiste quando siamo in armonia con il Creato.

Don Tonino Bello non parlava per gli altri. Fra gli spettacoli più straordinari dei nostri anni, uno spettacolo che persino i mass-media che non lo amavano furono costretti a raccogliere, c'è quella sua "spedizione di pace" a Sarajevo, nel dicembre del 1992, pochi mesi prima della morte. Fu, io credo, un vero martirio: un uomo ormai ridotto a uno scheletro testimoniava la sua fede, spasimando per il cancro che lo divorava, per una fatica che non si comprendeva come potesse affrontare. Ma fu anche, per lui, come disse, un momento di felicità: la certezza di lavorare per un'umanità migliore, per il regno di Dio.

Non cito don Tonino soltanto per un debito d'affetto. Lo ricordo, invece, perché la sua testimonianza ci chiede di scoprire le forze che sono in noi e che noi non attiviamo, talvolta per mancanza di autostima., talvolta per paura di doverci troppo compromettere. O anche per superbia, poiché c'è gente che rifiuta ogni impegno perché, dice, "tanto potrei fare così poco".

In realtà fra il poco e il niente c'è un abisso. Il niente ci chiude nella gabbia della noia, dell'egoismo, della disperazione. Il poco è un passo sulla via della solidarietà, un saggiare la strada, un provare a noi stessi che siamo ancora giovani (o quasi!). Il niente ci abbandona nelle mani del grande tentatore; il poco ci apre spiragli di libertà, ci indica che forse potremmo fare qualcosa di più. Per questo, nel momento in cui viviamo, una finestra che si adorna della bandiera della pace, la partecipazione a una fiaccolata, la decisione di non acquistare più il carburante della Esso, il tentativo di ritardare un convoglio che trasporta strumenti di morte, una notizia taciuta dalla televisione e fatta circolare tra gli otto milioni e mezzo di italiani che hanno soltanto quella fonte di informazione, tutto questo "poco", moltiplicato per milioni, è di estrema importanza per la Terra e per la pace.

La grande ricchezza della speranza non è data a chi contempla il mondo come se non gli appartenesse, nel duplice significato dell'espressione, cioè come se il mondo non appartenesse a lui e lui non appartenesse al mondo.

E' soltanto quando si scopre questo collegamento profondo, questa reciproca responsabilità che la vita merita di essere vissuta. Ed è allora, nel momento in cui decidiamo di collegarci all'immensa schiera degli uomini e delle donne di buona volontà, che amarezza e disperazione cadono, il lutto e la disperazione cedono al sorriso e nel deserto compare l'angelo della speranza, dell' ottimismo cristiano. Pochi giorni prima di salire sul patibolo del carcere nazista di Flossemburg, quasi esattamente 58 anni fa, Dietrich Bonheffer, il grande santo luterano, ormai perfettamente consapevole del suo destino, parlava così:

“L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica per sé” .

Auguro a voi e a me di conquistare questo ottimismo che si chiama speranza cristiana e che nessun potente della Terra potrà mai strapparci se noi non lo vorremo.

Ettore Masina

(tratto da http://www.ettoremasina.it/testi/angelisperanza.htm)

Letto 2633 volte Ultima modifica il Martedì, 26 Aprile 2016 10:37
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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