I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica tra l'ottava di Natale - Santa Famiglia - Anno A

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Sir 3,3-7.14-17a

Dal libro del Siracide
 

Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli
e ha stabilito il diritto della madre sulla prole.
Chi onora il padre espìa i peccati e li eviterà
e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita.
Chi onora sua madre è come chi accumula tesori.
Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli
e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera.
Chi glorifica il padre vivrà a lungo,
chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre.
Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia,
non contristarlo durante la sua vita.
Sii indulgente, anche se perde il senno,
e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore.
L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata,
otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa.


Salmo Responsoriale Sal 127 (128)

Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie.

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai, 
sarai felice e avrai ogni bene

La tua sposa come vite feconda 
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo 
intorno alla tua mensa

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme 
tutti i giorni della tua vita!

 
Seconda Lettura  Col 3,12-21
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi
 
Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro.
Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!
La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.
Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino.
 
Canto al Vangelo (Col 3,15a.16a)


Alleluia, Alleluia

La pace di Cristo regno nei vostri cuori;
la parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Mt Mt 2,13-15.19-23

Dal Vangelo secondo Matteo
 

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».
Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

 

OMELIA
 
Giuseppe dorme, e il Mistero gli apre gli occhi alla realtà, rendendola possibile e abitabile. Un invito a uscire da una vita vissuta per inerzia per cominciare a vivere da vivo.
Giuseppe viene a rappresentare così ogni uomo che, una volta risvegliatosi, accetta di mettersi in cammino. A quel punto – e solo allora – prende con sé Maria e il bambino. Li accoglie senza possederli e senza comprenderli del tutto. Poi, insieme, attraversano l’Egitto. Precisamente vi entrano e vi escono.
Fuori di metafora: l’Egitto è il luogo delle paure, delle schiavitù interiori, delle zone d’ombra che abitano ciascuno di noi. Portarvi la luce significa permettere che anche quelle parti entrino nel respiro della vita. L’attraversamento diventa così un passaggio trasformativo.
La maturazione umana passa da qui. Abitare l’ombra, sostare nell’oscurità, attraversare il proprio deserto interiore fa parte del cammino verso un’esistenza adulta. È il tempo in cui vengono meno appoggi e certezze, e si impara a stare. In questo vuoto si apre una fede più essenziale. Non come distanza definitiva, ma come spazio consegnato alla libertà dell’uomo. È il tempo in cui non si vede, non si sente, non si comprende, e proprio per questo si viene introdotti in una conoscenza più profonda.
Il Vangelo oggi ci ricorda che riconoscere le proprie zone oscure, nominarle e attraversarle consente il ritorno a casa. Casa come luogo interiore riconciliato, dove è possibile abitare ciò che si è. Ciò che è. La vita in fondo è una e chiede di essere accolta nella sua interezza.
‘Scendere nel proprio Egitto interiore’, nelle proprie verità, anche quelle più faticose, è un gesto di onestà radicale. È il gesto di una madre che si china sulle ferite del figlio e le tocca con delicatezza. Vive infatti in ciascuno di noi un bambino interiore che chiede solo d’essere riconosciuto, ascoltato, accolto. Accogliere le proprie ferite avvia un processo di trasformazione e apre a una fecondità nuova.
A Dio è sufficiente un sogno, fragile e reale, come quello di Giuseppe. Un sogno capace di far avanzare la storia e di contenere le forze che vorrebbero spegnere la vita, dentro e fuori di noi. Questo sogno non viene infranto. Coincide con il desiderio più profondo dell’uomo: una vita piena, una felicità possibile, una vita che continua ad aprirsi.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 21 Dicembre 2025 08:46

IV Domenica di Avvento - Anno A

IV Domenica di Avvento - Anno A

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 7,10-14

Dal libro del profeta Isaìa
 

In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto».
Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore».
Allora Isaìa disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele».


Salmo Responsoriale Sal 23

Ecco, viene il Signore, re della gloria.

Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

 
Seconda Lettura  Rm 1,1-7
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
 
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!
 
Canto al Vangelo (Mt 1,23)


Alleluia, Alleluia

Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
a lui sarà dato il nome di Emmanuele: “Dio con noi”.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Mt 3,1-12

Dal Vangelo secondo Matteo
 

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

 

OMELIA
 
Giuseppe deve decidere: o tenere per sé la donna amata, od obbedire alla santa Legge di Dio. O il cuore o la morte. Dice infatti Dio – che qui andrebbe scritto con la d minuscola: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adùltero e l’adùltera dovranno esser messi a morte” (Lv 20, 10).
Dinanzi ad una scelta lacerante, Giuseppe si addormenta e sogna. Entra in un altro stato di coscienza e al risveglio ha la soluzione. Einstein ebbe a dire: “I problemi non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero che li ha creati”. È proprio ciò che è successo a Giuseppe.
Sarebbe interessante a questo proposito interrogarsi sul mondo onirico, e alla poca attenzione prestata ad esso. La psicanalisi ci lavora da tempo, ma in ambito di spiritualità cristiana non credo sia mai stato preso in debita considerazione.
Ma non è questo il nostro tema. L’importante qui è sottolineare come Giuseppe non risolve il suo dramma pensandoci sopra, elucubrando, ma frequentando un altro livello, un luogo a parte: quello dello Spirito, in ultima analisi la sua coscienza, qui rappresentato dall’angelo e dal sogno. E vi presta obbedienza. Sceglie Maria, consapevole che questo significa disobbedire alla legge divina, e subirne tutte le conseguenze, come l’estromissione dal suo clan familiare e sociale.
Dinanzi ai grandi interrogativi che ci consumano, dovremmo imparare a frequentare altri spazi, altre modalità che non sono quelli della consuetudine, del ‘solito’, dei pensieri abituali. Ci sono soluzioni che non scaturiscono dall’averci pensato su.
Giuseppe si sveglia e prende la sua decisione: tiene con sé Maria e il mistero che l’avvolge. E impara a stare con ciò che non capisce, con l’ombra, col mistero. Invece di allontanarlo lo abbraccia. Ed ecco il figlio, ovvero la fecondità.
È come se l’angelo gli dicesse: «abbi una relazione intima – da amato con l’amata – con tutto, e ammettilo a casa tua, ma non profanarlo, cioè mantieni sempre con tutto un rapporto disinteressato, che vada oltre l’ego. Non ignorare la tua promessa sposa, non sacrificarla per il tuo conflitto, non scrollarti di dosso il problema – che è quanto siamo soliti fare tutti quando affrontiamo una situazione complessa. Anzi: rendi questa ragazza la tua sposa, cioè convivi con il tuo problema, sacrificati tu, renditi un tutt’uno con il problema: guardalo negli occhi ogni mattina, cammina con lui al pomeriggio, addormentati al suo fianco la notte. Renditi conto che il tuo problema non è qualcosa di esterno a te stesso, ma che sei tu. tu sei l’amore che provi per Maria e le difficoltà che sperimenti nel viverlo» (Pablo d’Ors, Biografia della luce).

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 21 Dicembre 2025 08:46

III Domenica di Avvento - Anno A

III Domenica di Avvento - Anno A

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 35,1-6.8.10

Dal libro del profeta Isaìa
 

Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca;
sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano,
lo splendore del Carmelo e di Saron.
Essi vedranno la gloria del Signore,
la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche,
rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada
e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.


Salmo Responsoriale Sal 145

Vieni, Signore, a salvarci.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

 
Seconda Lettura  Gc 5,7-10
 
Dalla lettera di san Giacomo apostolo
 
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.
 
Canto al Vangelo (Is 61,1)


Alleluia, Alleluia

Lo Spirito del Signore è sopra di me,
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Mt 11,2-11

Dal Vangelo secondo Matteo
 

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

 

OMELIA
 
Giovanni il Battista attendeva da lì a poco l’irruzione dell’ira di Dio. Era convinto che questa dovesse manifestarsi nell’uomo Gesù di Nazareth, come forza capace di rimettere in ordine il mondo, di separare, di colpire, di purificare. Nei tempi di crisi, da sempre, l’umanità invoca una figura forte: un messia, un salvatore, un capo. Qualcuno che tagli, che giudichi, che ristabilisca.
Giovanni prende sul serio questa attesa. Le sue parole sono nette, taglienti come la scure di cui parla. Le troviamo all’inizio del vangelo: «La scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Colui che viene dopo di me è più potente di me… Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile» (Mt 3, 10ss.). È l’immagine religiosa di Dio: forza che separa, setaccia e giudica.
Eppure, Gesù non sembra rispondere a questa attesa. Proprio per questo Giovanni, dalla prigione, gli manda a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?». È come se anche lui, per la prima volta, sentisse vacillare l’immagine di Dio che aveva da sempre custodito.
Gesù non risponde con una definizione, né con una dichiarazione di identità. Risponde mostrando un movimento: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo». Il divino, se si manifesta, lo fa così: passando attraverso la vita che rifiorisce, attraverso corpi che si rialzano, attraverso dignità che tornano a respirare.
Quando la vita può emergere, quando la dignità delle persone viene restituita, quando la creazione tutta intravvede la possibilità del suo compimento, allora qualcosa di Dio sta accadendo. Il segno non è il fuoco che distrugge, ma la vita che si riaccende.
Dio altro non è che vita emergente.
Per questo Gesù di Nazareth non appare tanto come un Dio che si fa carne, quanto un uomo che incarna ciò che è la divinità: vita portata avanti, respiro che non si arrende, fecondità che genera, umanità che giunge alla sua pienezza. E ciò che egli vive diventa anche la nostra vocazione più profonda.
Il Natale, allora, non è prima di tutto la celebrazione di qualcosa che discende dall’alto, ma la memoria che anche noi possiamo vivere “da dio”, ogni volta che dilatiamo la vita, la nostra e quella degli altri. Ogni volta che facciamo spazio alla luce dentro le pieghe dell’umano.
Forse dovremmo imparare a non attendere più la vita dall’alto, ma a riconoscere che siamo chiamati a partorirla. E se di grazia vogliamo parlare, è una grazia che prende la forma della responsabilità. Come scrive Teresa Forcades, la grazia non è tanto «un fiore da cogliere, quanto un pane da impastare».
Dio è pane da impastare, carne da incarnare, amore da donare, vita da elargire.
E così il Natale non lo celebriamo accogliendo semplicemente un bambino che ci viene consegnato dall’alto, ma scegliendo di incarnare il bene, diventando, giorno dopo giorno, più umani.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 07 Dicembre 2025 10:00

II Domenica di Avvento - Anno A

II Domenica di Avvento - Anno A

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 11,1-10

Dal libro del profeta Isaìa
 

In quel giorno,
un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e d'intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.
Percuoterà il violento con la verga della sua bocca,
con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio.
La giustizia sarà fascia dei suoi lombi
e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.
Il lupo dimorerà insieme con l'agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l'orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.
In quel giorno avverrà
che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.


Salmo Responsoriale Sal 71 (72)

Vieni, Signore, re di giustizia e di pace.

O Dio, affida al re il tuo diritto,
al figlio di re la tua giustizia;
egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia
e i tuoi poveri secondo il diritto.

Nei suoi giorni fiorisca il giusto
e abbondi la pace,
finché non si spenga la luna.
E dòmini da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.

Perché egli libererà il misero che invoca
e il povero che non trova aiuto.
Abbia pietà del debole e del misero
e salvi la vita dei miseri.

Il suo nome duri in eterno,
davanti al sole germogli il suo nome.
In lui siano benedette tutte le stirpi della terra
e tutte le genti lo dicano beato.

 
Seconda Lettura  Rm 15,4-9
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
 
Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza.
E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull'esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto:
«Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».
 
Canto al Vangelo (Lc 3,4.6)


Alleluia, Alleluia

Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Mt 3,1-12

Dal Vangelo secondo Matteo
 

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: "Abbiamo Abramo per padre!". Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell'acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

OMELIA
 
Strana e spiazzante la figura di Giovanni Battista. Avrebbe dovuto ereditare il mestiere del padre, Zaccaria, sacerdote del Tempio. Una vocazione trasmessa per stirpe, come si fa con le terre e i cognomi. E invece no. Giovanni spezza la genealogia sacra. Tradisce il Tempio. Forse per non ripetere la vita del padre che pur irreprensibile davanti a Dio, – annota Luca con un’ironia sottile e crudele – è stato per una vita sterile. La giustizia, quando è solo osservanza, non genera vita.
Giovanni, dunque, si pone fuori dal recinto sacro. Abbandona liturgie, sacrifici, animali sgozzati, sangue versato, fumo d’incenso che sale come alibi religioso. Se ne va nel deserto. Sceglie una vita ridotta all’osso, essenziale come la roccia. Veste di peli di cammello, si nutre di locuste e miele selvatico. Non è folclore, ma teologia incarnata. La sua vita diventa messaggio prima ancora delle sue parole.
Giovanni non parla, lui grida. Nel deserto geografico ed esistenziale alza una voce, perché è il tempo non di delicate consolazioni, ma di risvegliare le coscienze. Avverte che il tempo si è fatto breve, che non c’è più spazio per i rinvii, per gli equivoci, per i compromessi. È ora di tornare all’essenziale. Alla verità nuda.
Giovanni non “predica”, parola addomesticata, acqua sui vetri, egli proclama. La sua è una parola che incide, che ferisce, che lascia un segno. E non fa sconti a nessuno. Davanti a lui cadono le distinzioni di rango: potere religioso o civile, poco importa. Grida anche al re. Grida contro Erode. Per questo sarà messo a tacere. La verità detta in faccia al potente costa sempre la testa.
A chi pensa che Dio sia rinchiuso in un luogo, amministrato da una casta, addomesticato da rituali, gestito da un’élite – naturalmente tutta maschile – Giovanni dice no. Con lui la presenza di Dio emigra dal Tempio alla coscienza. Dal perimetro sacro al cuore dell’uomo. Il luogo più santo non è più l’altare: è l’interiorità.
Per questo Giovanni chiede la conversione. Metanoia. Cambio di testa, di sguardo, di mentalità. Non una verniciata morale, ma uno spostamento radicale del centro. La coscienza diventa il vero santuario. È lì che accade l’incontro con Dio.
I sacrifici non hanno mai salvato nessuno. Tantomeno una religione autoreferenziale, autocelebrativa, costruita su certezze di pietra, giocata sul baratto sacro: io ti do, tu mi dai. Una religione fondata sul merito. Ai religiosi devoti, sicuri della propria appartenenza, Giovanni grida parole che bruciano: «Non crediate di poter dire: abbiamo Abramo per padre. Dio può far sorgere figli di Abramo anche da queste pietre». Nessun pedigree salva. Nessuna appartenenza garantisce.
Gli studiosi discutono se Gesù di Nazareth sia stato discepolo del Battista. Forse sì, forse no. Di certo ne ha respirato il fuoco. Di certo ne ha raccolto l’eredità profetica. Gesù, quando entra nel Tempio, non offre sacrifici: guarisce. Non brucia incenso: insegna. E quando parla dei professionisti del sacro, le sue parole sono ancora più taglienti. Se Giovanni li chiama «razza di vipere», Gesù li definisce «ipocriti, sepolcri imbiancati, serpenti, razza di vipere» (cfr. Mt 23). E del Tempio dirà che è diventato un «covo di ladri» (Mc 11,17).
Poi compie lo spostamento decisivo: invita a rientrare dentro di sé. È lì che abita il Regno di Dio, il punto luminoso dell’intero universo (cfr. Lc 17,21). Non fuori, non nei recinti del sacro, ma nel silenzio abitato dell’interiorità. Ed è lì che torna a risuonare la voce antica dei profeti: «Misericordia io voglio, non sacrifici. La conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6). Giovanni è il profeta della soglia. L’ultimo della religione dei sacrifici. Il primo dell’epoca della coscienza. Una voce che grida per dirci che Dio non abita più nel sangue versato degli animali, ma nel cuore che si lascia ferire dalla verità.

 
Paolo Scquizzato
 

Il fatto che il Vangelo di Matteo occupi il primo posto nell'ordine ca­nonico dei Vangeli riflette sia l'idea - risalente al sec. II - che fosse il più antico, sia il valore intrinseco attribuitogli nei secoli dalla Chie­sa. Mentre è opinione ormai diffusa che non sia stato scritto prima degli altri, la grande importanza assegnata a questo Vangelo resta inalterata, come conferma anche la sua frequente utilizzazione sul piano liturgico e catechetico.

Anche l'antica tradizione secondo cui l'autore del Vangelo è da identificarsi con il discepolo di Gesù chiamato Matteo o Levi (Mc 2,14; Lc 5,27) - uno dei dodici (Mt 10,2-4; Mc 3,16-19; Lc 6,14-16) o degli undici (At 1,13) - è considerata oggi senza reale fondamen­to. Essendo infatti il Vangelo di Mc in larga parte la fonte ispiratrice di Mt (si calcola che dei 661 versetti che compongono Mc, 630 pre­sentano oltre 650 paralleli con Mt), è difficile sostenere che un compagno di Gesù abbia potuto limitarsi a ricalcare pedissequa­mente il racconto steso da un altro che non può contare sui suoi ri­cordi di testimone diretto. Ma, oltreché attingere in abbondanza a Mc, Mt si riferisce anche al materiale (principalmente i detti di Ge­sù) proveniente dalla cosiddetta fonte "Q", che non si trova in Mc e che a volte corrisponde quasi esattamente a quanto figura in Lc (circa 200 versetti sono infatti comuni a Mt e Lc). Sembra così da escludere una paternità diretta dell'apostolo Matteo nella composi­zione di quello che, per comodità, viene comunque chiamato "il Vangelo di Matteo”.

Dal Vangelo stesso si può arguire che l'autore deve essere un maestro cristiano, molto versato nelle Scritture, e che occupa un ruolo importante nella sua Chiesa. Egli compie una sintesi matura, sapientemente costruita nell'architettura d'insieme, composita ma ben dosata nei suoi equilibri interni, sempre attenta ai dettagli e alle parole che concorrono a definire la natura dei fatti e rivelano l'oc­chio con cui l'evangelista li coglie per ricavare un generale o speci­fico insegnamento.

Comunemente oggi si ritiene che il Vangelo di Mt sia scritto do­po il 70, probabilmente intorno all'85-90. Un'ipotesi plausibile circa il luogo di composizione è Antiochia, capitale della provincia roma­na di Siria. Questa grande città ha una popolazione mista di gentili ed ebrei, che in larga parte parlano il greco, e vive in quel tempo un periodo di forte tensione religiosa e sociale, analoga a quella pre­sente nella Chiesa di Mt, in origine composta soprattutto di giudeo-cristiani e poi di cristiano-pagani, che sono osteggiati, perseguitati e perfino messi a morte sia dalle autorità pagane (10,18.22; 13,21; 24,9) sia da quelle ebraiche (5,11;10,17,23.28; 23,34-35). Per ef­fetto delle persecuzioni, alcuni cristiani abbandonano la fede (13,21; 24,10); altri tradiscono i compagni (24,10); altri ancora ce­dono alla "preoccupazione del mondo" e all’“inganno della ricchezza (13,22). Si viene a creare una situazione di conflitti e tensione; alcuni "falsi profeti" fanno deviare i fedeli (7,15; 24,11) e l'infedeltà diventa tale da raffreddare "l'amore di molti" (24,12).

É proprio per venir incontro alle esigenze religiose e morali di questa Chiesa multirazziale e agiata, ma al tempo stesso persegui­tata e divisa, che Mt compone il suo Vangelo.

STRUTTURA E SVOLGIMENTO

Nelle varie suddivisioni proposte del Vangelo di Mt la più tradizionale - e anche la più probabile - è quella che organizza il rac­conto in cinque sezioni principali, ciascuna delle quali costituita da una narrazione e da un discorso. Questi discorsi rappresentano una struttura portante del Vangelo, sono armonicamente inseriti nelle parti narrative - di cui riprendono i temi - e si distinguono da altri discorsi "minori" contenuti in esse, sia per la loro lunghezza sia per il fatto che sono rivolti esclusivamente o principalmente ai discepoli. Mt trae gran parte del materiale di questi discorsi dalla sua stessa tradizione, ma risulta evidente il lavoro redazionale fatto ti si modificare e integrare ciò che ha ricevuto, nel tentativo riuscito di dare maggior risalto, ordine e armonia all'insegnamento di Gesù.

Il Vangelo si apre con un prologo (1,1-2,23), la cui prima parte è costituita dalla genealogia di Gesù, a partire da Abramo, capostipite d'Israele (1,1-17). Gesù, all'inizio, viene indicato come "figlio di Davide, figlio di Abramo (1,1), figlio di Davide perché Giuseppe adottandolo, lo inserisce nella discendenza di Davide (1 16 1825) e perché egli adempie le attese escatologiche associate a Davide (9,27-31; 12,22-23; 15,21-28; 20,29; 21,17) figlio di Abramo perché in lui l'intera storia di Israele riceve il suo compimento e anche i pagani trovano grazia (1,17; 8,11). La storia della salvezza inaugurata da Abramo, che si estende fino alla fine dei tempi e al ritorno di Gesù per il giudizio (1,17; 25,31-46), è divisa infatti in due epoche: il tempo d'Israele, che è il tempo delle profezie, e il tempo di Cristo - il Messia, il re d Israele lungamente atteso (1,17; 2,24; 11,2.3) - che è il tempo del loro compimento. Nel mistero 'della' persona di Gesù - concepito da Maria Vergine per opera dello Spirito (1,18-25) - si adempie la prima profezia: il figlio cli Davide e di Abramo sarà chiamato l’Emmanuele perché in lui "Dio è con noi” (1,23).

La prima sezione (3,1-7,29) .  Introdotta dalla predicazione di Giovanni Battista precursore di Gesù,  contiene il primo grande insegnamento: il discorso della montagna (5,1-7,29) dove è dominante il tema della giustizia.

La seconda sezione (8,1-10,42),  dedicata principalmente ad illustrare le azioni misericordiose di Gesù - include il discorso missionario (10,5-42), con il mandato ai discepoli a proclamare che "il regno dei cieli è vicino” (10,7), a guarire gli ammalati e a liberare dai demoni (10,8).

La terza sezione (11,2-13,52) presenta nella parte narrativa l'ostilità crescente nei con fronti di Gesù, mentre nel discorso che segue (13,3-52) Gesù parla in parabole.

Nella quarta sezione (13,53-18,35) Gesù denuncia la guida cieca dei farisei (15,13-14), e nel discorso ecclesiologico o comunitario (18,1-35) prepara i discepoli sia all'accoglienza reciproca sia responsabilità nei confronti delle "pecore smarrite" e al perdono (14,36.44).

La passione e la risurrezione di Gesù rappresentano il culmine del Vangelo (26,1-28,20). Da lì si apre un’epoca nuova per quanto li riguarda e continuerà fino alla manifestazione di Gesù nella parusia: l'era finale è cominciata. Di questo sono consapevoli coloro che hanno incontrato Gesù risorto e coloro  -  ebrei e gentili - che hanno creduto al vangelo e si sono fatti discepoli (28,19). In quanto ad essi Gesù è costantemente presente, per quanto invisibile, fino alla fine dei tempi (28,20). 

TEMI ESSENZIALI

Al centro del Vangelo di Mt c'è la storia di Gesù che si manife­sta come Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, e la storia del regno di Dio che egli viene ad annunciare. Fra i vari titoli che vengono dati a Ge­sù, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo sono indubbiamente i principali, richiamando le sua natura divina e il suo ruolo centrale nella storia delle salvezza. Gesù e il regno costituiscono due unità inscindibili e come tali sono accostate. Gesù, fin dall'inizio, viene presentato co­me il Figlio di Dio, e alla fine, come Figlio dell'uomo, riceve l'auto­rità sul regno di Dio, in cielo e in terra (28,18-20). Il titolo di Figlio dell'uomo ha il triplice significato che Mt eredita dalle sue fonti. È il servo di Dio, umile e potente insieme, un servo che soffre, muore e risorge dando la vita in remissione dei peccati. Infine è il giudice e/o liberatore che appare nell'ultimo giorno. Questo è sottolineato an­che del fatto che il titolo Figlio dell'uomo ricorre in vari momenti-chiave: al battesimo (3,17), alla professione di fede di Pietro (16,16) - che rappresenta quelle dell'intera Chiesa -, alla trasfigurazione (17,5), nel processo e nel momento della morte (26,63; 27,40.43.54).

Il regno di Dio è il grande tema della speranza, delle preghiera e dell'annuncio che unifica l'intero Vangelo, specialmente nei cin­que grandi discorsi. Esso fornisce l'orizzonte e il fine escatologico, che consiste nelle promesse di salvezza di Dio date all'umanità re­denta. «Regno di Dio» o, più frequentemente, «regno dei cieli» è una realtà trascendente e dinamica, non riferita a un luogo o a uno spa­zio particolari. Se il regno di Dio esiste già nell'AT, perché in qual­che modo affidato ad Israele (21,43), la nascita di Gesù segna l'ini­zio di una nuova presenza del regno di Dio. Sia Gesù che il Battista iniziano la loro vita pubblica con l'annuncio che il regno dei cieli è vicino (3,2; 4,17). Il regno è presente già negli esorcismi compiuti da Gesù (12,28); ciò nonostante, egli invita i suoi discepoli a pre­gare per la sua venuta finale (6,10) e a cercarlo (6,33). Gli eventi apocalittici della morte-risurrezione indicano un nuovo stadio del regno, poiché per la prime volta viene esaltato il potere di Gesù sull'intero cosmo (28,16-20). Gesù già ora regna come Figlio dell'uo­mo (13,37-38.41), ma la sua venuta come giudice nell'ultimo giorno attua l'avvento definitivo del suo regno (16,27-28), che sarà il regno del Padre (13,43).

Strettamente intrecciata alla storia di Gesù e del regno è la chia­mata dei discepoli - all'inizio del ministero pubblico di Gesù - e la loro missione. Subito dopo aver ordinato e Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni di seguirlo (4,18-22), Gesù si sofferma sulla natura e il fine del discepolato, che consiste nell'impegno di evangelizzare il mondo (4,19). La dedizione che comporta l'essere discepoli si rive­la nel fatto che, quando Gesù chiama i quattro pescatori, essi ab­bandonano reti, barca e padre (professione, beni, famiglie, ecc.) e gli assicurano una fedeltà totale. Stando "con lui" (12,30), vivono nella sfera del regno finale di Dio, sono resi fratelli (23,8; 28,10), perché «figli di Dio» (5,9-45). Poiché sono tra coloro che vivono in attesa del regno di Dio, la loro religiosità dovrà equivalere alla giu­stizia più grande (5,20). La "giustizia" è un tema che assume in Mt un rilievo particolare (3,15; 5,6.10.20; 6,1.33; 21,32). Essa è l'at­tuazione fedele della volontà del Padre, secondo l'insegnamento di Gesù. Per adempiere la giustizie, i discepoli devono essere "perfet­ti" come il Padre celeste (5,48), cioè amare Dio con tutto il cuore, l'anima e la mente e il prossimo come se stessi (5,44-48; 7,12.21; cfr. 22,34-40).

I discepoli costituiscono il primo nucleo della comunità che è la Chiesa. Questo è un tema caratteristico di Mt, che è l'unico evan­gelista ad usare il termine ekklesìa per tre volte (in 16,18 e, due vol­te, in 18,17). Egli cerca di dare ai fedeli delle linee guida da segui­re, sotto l'autorità di Pietro, fondamento della Chiesa (16,1.8-19); mette in guardia contro le insidie del potere e invita chi occupa po­sti di comando ad essere umile (18,1-9; 20,24-28; 23.8-12). Sa be­ne che l'appartenenza alla Chiesa non preserva i suoi membri dal­le debolezze e dai tradimenti, perché chiunque può cedere, anche Pietro (26,69-75), e che queste condizione accompagnerà la Chie­sa nella sua missione, finché non giungerà il regno del Padre (13,36-43; 22,11-14.25).

 

 

 

Un buon numero di disgrazie accade per mancanza di manutenzione.
Anche la vita cristiana ha bisogno di manutenzione "ordinaria". L'avvento è tempo propizio per questa operazione.
Tre suggerimenti adatti al nostro tempo: fare credito al Dio affidabile, essere magnanimi, attuare un discernimento paziente.

 Guardare al tempo di avvento ormai imminente portando negli occhi le immagini dei nubifragi che hanno devastato tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre prima le Cinque Terre e la Val di Vara, e poi Genova, causando morti e distruzione; e portando nelle orecchie i molti, moltissimi richiami - che del resto si moltiplicano puntualmente, e inutilmente, in tutte le situazioni di questo genere - alla necessità della manutenzione (dei paesi, delle case, dei torrenti, del territorio...), induce a pensare che questa troppo trascurata attività si presta bene a essere letta anche in chiave spirituale, e proprio in relazione al tempo liturgico dell'avvento.

Occorre una manutenzione ordinaria. Prima di proporre qualche riflessione in merito, è forse utile richiamare l'attenzione su un saggio, uscito alcuni anni fa,l che si basa su di un interessante esperimento mentale: provare a immaginarsi cosa succederebbe sul nostro piccolo pianeta, se l'umanità scomparisse di colpo, e venisse meno così, all'improvviso, l'incessante attività che tiene in piedi il tessuto - più fragile di quanto non appaia di solito - della nostra civiltà. Non c'è bisogno, del resto, di competenze speciali per intuire come andrebbero le cose: come riferisce l'architetto C. Riddle, «se vuoi distruggere un fienile - mi disse una volta un contadino -, fa' un buco di un centinaio di centimetri quadrati nel tetto. Poi tirati indietro».2 Al resto ci pensa la natura: l'acqua che si infiltra, l'umidità, gli insetti, le variazioni termiche, la forza di gravità... A seconda dei materiali usati e delle condizioni climatiche, i processi saranno più o meno lunghi, ma una cosa è certa: in assenza di una costante manutenzione, le nostre case, le nostre grandi città, incomincerebbero a disfarsi con sorprendente rapidità.

Sappiamo fin troppo bene, però che, dove non vi si è di fatto costretti dalla necessità delle cose (come avviene per esempio a Manhattan, dove un sistema di pompaggio nella rete della metropolitana deve impedire ogni giorno a cinquanta milioni di litri d'acqua - sempre che non piova, perché in tal caso la quantità aumenta3 - di invadere le gallerie percorse dai treni), quella della manutenzione è un'attività che rischia fatalmente di essere tralasciata: e questo soprattutto in una condizione come la nostra, dove sembra venir meno la capacità di pensare e agire sul lungo termine, mettendo in conto lo spazio di un'attesa e di una durata delle quali non è possibile stabilire il termine. Intraprendere azioni che guardino non solo all'oggi, ma anche al domani e, magari, al dopodomani è estremamente (aggiungiamo pure, se vogliamo: oggettivamente) difficile e, il più delle volte, costoso e assai poco remunerativo in termini di successo immediato.

Mi colpì leggere, qualche anno fa, che i costruttori di College Hall, a Oxford, nel XIV secolo, oltre a costruire l'edificio, si sarebbero preoccupati di piantare delle querce in previsione della necessità di sostituire le travi del soffitto del grande refettorio: ciò che si poté poi fare, grazie a questa previdenza "di lungo corso", nel XIX secolo.4 La nostra civiltà si muove su traiettorie molto più immediate, molto più "usa e getta". La manutenzione costa troppo e "rende" - si ritiene - assai poco. Il rischio che anche i credenti si lascino prendere da una mentalità dell'immediato, del "tutto subito", trascurando i tempi incerti dell'attesa e voltando le spalle alla sfida posta dal lungo termine, è tutt'altro che remoto, a dispetto della reiterata - e, certo, giustificata - pretesa dei cristiani di "guardare all'eternità". Non è raro, infatti, che nella Chiesa si finisca per cadere in una mimesi involontaria (ma per questo anche più preoccupante) proprio di quegli atteggiamenti che vengono più spesso e volentieri criticati nella società o nella cultura dominante. Fa pensare, a questo riguardo, la diagnosi severa che Saverio Xeres ha recentemente tratteggiato a proposito delle scelte pastorali della Chiesa italiana negli ultimi decenni,5 mostrandone l'inconsapevole adesione ai tratti di quella "postmodernità" che per altri versi è oggetto, in vari pronunciamenti, di una critica aspra e incessante.

Va annoverata fra questi tratti la «perdita della visione unitaria del tempo: si privilegia, di conseguenza, il quotidiano, anzi il "momento". Oppure si tende a ridurre la portata eccessiva delle ampie prospettive temporali contenendole in una successione di cicli limitati e quindi più "sopportabili"...»;6 il problema - annota Xeres - è il rischio di omologazione che ha indotto, tra le altre cose, a enfatizzare opzioni pastorali fondate sui "momenti straordinari", opzioni nelle quali «sono troppo evidenti le assonanze con la prassi dei grandi eventi mediante i quali... si offre la possibilità di costruire "sensi istantaneizzati" attraverso il coinvolgimento emotivo in grandi fenomeni di massa, supportati da imponenti sistemi di comunicazione».7

II giudizio può sembrare sin troppo severo: ma è noto a chiunque operi, ad esempio, nella pastorale giovanile, che uno dei problemi maggiori in questo contesto è precisamente il difficile raccordo tra gli eventi straordinari e quella che possiamo chiamare - per tornare alla nostra metafora -la "manutenzione ordinaria" e sul lungo termine della vita cristiana.

Le condizioni dell'attesa. A ripensare le condizioni di questa "manutenzione ordinaria" ci invita precisamente il tempo dell'avvento, in quanto tempo che richiama e ripropone la condizione dell'attesa quale condizione inevitabile del credente nel mondo. Vivere l'attesa, peraltro, è determinante anche rispetto a un altro rischio: perché l'esigenza di distanziarsi dall'"istantaneismo" dominante si traduce non di rado, per contraccolpo, in una scelta reazionaria e falsamente "tradizionale". Accogliere e vivere la condizione dell'attesa, per il credente, significa piuttosto riconoscere che, da un lato, la dimensione del presente non può essere "schiacciata" sull'immediatezza, sul "tutto subito"; mentre, d'altro lato, non sembra possibile, né evangelicamente corretto, arroccarsi su un passato di (pretesa) perfezione compiuta e insuperabile.

L'attesa, che si orienta a un futuro non completamente preventivabile, rimanendo aperta alle "sorprese" dello Spirito di Cristo, permette di riconoscere in tutta la sua consistenza il peso del tempo, e di prendere sul serio ciò che il concilio Vaticano II riconosceva or sono, quando parlava di un "progresso" della tradizione, sotto la guida dello Spirito: «cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cf. Lc 2,19 e 51), sia con la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza, sia per la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. In altre parole, la Chiesa nel corso dei secoli tende costantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio».8

Lo sguardo al futuro, al quale ci richiama l'avvento, impedisce dunque alla Chiesa di fissarsi in modo troppo immediato sul presente, come pure di irrigidirsi su di un passato impropriamente "dogmatizzato" - dogmatizzato, cioè, senza lasciare effettivamente spazio allo Spirito di Cristo e alla sua capacità di suscitare una «nuova Pentecoste», come amava ripetere e "sognare" il beato Giovanni XXIII.

Tre virtù da applicare. Potremmo pertanto avvicinarci al tempo di avvento e all'inizio di un nuovo anno liturgico scorgendovi un invito a non lasciar cadere l'opera di una costante "manutenzione" personale ed ecclesiale dei credenti. C'è un nesso tra lo sguardo lungo dell'attesa e la saggezza della "manutenzione": saggezza la cui figura evangelica può essere suggerita dalle "vergini sagge" (cf. Mt 25,1-13), di cui ci parlava il vangelo domenicale poche settimane or sono. Più che la "vigilanza" (pure raccomandata dal vangelo), spicca infatti in esse la risolutezza a non fissarsi ed esaurirsi nel "breve termine". Le ragazze dormivano tutte, secondo la parabola (cf. Mt 25,5), al momento dell'arrivo dello Sposo: ma quando questi arrivò, solo alcune furono trovate pronte. La lunghezza dell'attesa non vuole togliere la pace al credente e metterlo inutilmente in ansia: a patto che questi (e con lui la sua comunità), sappia intrattenere diligentemente quelle opere di "manutenzione ordinaria e straordinaria", che sono l'indispensabile correlato di un atteggiamento aperto all'attesa e non soltanto appiattito sull'oggi o sull'ieri.

Appartiene senza dubbio a questa opera di manutenzione l'accoglienza dei doni che il Signore continua ad assicurare quotidianamente alla sua Chiesa: e in primo luogo la sua Parola e i suoi sacramenti. A proposito dei quali forse è bene ricordare - sottolinea Timothy Radcliffe parlando dell'eucaristia - che essi operano di solito sui tempi lunghi e in modi poco clamorosi: «... l'eucaristia è davvero un "evento colossale", ma lo è a un livello del nostro essere di cui siamo scarsamente consapevoli, impercettibile come un albero che cresce. Questo è ciò che John Henry Newman chiama "il lavoro silenzioso di Dio"»;9 non diversamente si potrebbe dire degli altri sacramenti, come la penitenza, o della pratica della lectio divina, per non parlare della preghiera...

Come accade in altri ambiti della vita, verosimilmente ogni epoca ha poi bisogno delle sue attenzioni peculiari di “buona manutenzione”, di un insieme di atteggiamenti - in tempi passati si sarebbe parlato di "virtù" - particolarmente necessari a un determinato contesto storico, culturale e spirituale. Attingendo alla lettura apostolica delle prossime domeniche di avvento, ne vorremmo richiamare rapidamente tre.

La prima: fare credito al Dio affidabile: «Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo, Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,9; prima domenica). E questo il fondamento di un «ottimismo [che] viene alla Chiesa dalla sua stessa fede. Non nel senso di un vago spiritualismo, ma nel ricordare che Dio opera sempre, ma nella normalità e nel nascondimento, e su tempi lunghi»;10 è in questo nostro tempo che Dio fa grazia al mondo.

Di qui l'invito alla buona manutenzione di un secondo atteggiamento: la magnanimità. «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza.11 Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9: seconda domenica). La magnanimità di Dio è anche proposta e invito per la Chiesa a coltivare un "animo grande", capace di paziente accoglienza e di discerni,mento nella complessità delle cose. E curioso che chi fa appello agli spazi dell’eternità si mostri spesso molto frettoloso nel condannare l'uno o l'altro risvolto della complicata ricerca che l'umanità del nostro tempo sta compiendo in tutti gli ambiti, non di rado utilizzando in modo indubbiamente problematico e scriteriato il proprio sapere e il proprio potere.

Vale allora più che mai, e non solo per la vita "interna" della Chiesa, l'invito di Paolo ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1Ts 5,19-22: terza domenica). Il discernimento di "ogni cosa" alla luce di Cristo ha bisogno di tempi lunghi e di molta pazienza: è questa, forse, la ragione ultima del "ritardo" della venuta ultima del Signore, che preoccupava le prime generazioni cristiane; ma la speranza cristiana offre strumenti per non disarmare di fronte all'impegno richiesto. In questo discernimento paziente - terza "virtù" la cui manutenzione appare particolarmente urgente - il Signore del resto non manca di dare i suoi aiuti. Non è vero che «non ci sono più profeti», come lamentava il salmista (cf. Sal 7 4,9). Si tratta se mai, per riprendere l'esortazione di Paolo, di «non disprezzare le profezie». E forse anche di ricordare - aiutati da quell'icona dell'avvento, che è Giovanni il Battista - che i profeti spesso sono figure eccentriche o marginali; il più delle volte (vi sono certo delle eccezioni) bisogna uscire dai palazzi del potere così politico come religioso, se li si vuole incontrare e ascoltare. Né è detto che la loro voce troverà l'amplificazione dei media o il riscontro di innumerevoli "amici" sui social network. In fin dei conti, Colui al quale tutti i profeti rimandano si è lasciato incontrare dapprima nell'umiltà di una stalla, per finire poi nell'umiliazione di una croce.

Daniele Gianotti

 

Note

1 Si tratta di Weismann A., Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino 2008; l'edizione originale americana è del 2007.

2 Weismann A., Il mondo senza di noi, 17.

3 Cf. Weismann A., Il mondo senza di noi, 27.

4 Cf. Brand S., How Buildings Learn What Happens After They're Built, Penguin Books, Harmondsworth 1995,1308. Anche se, come qualcuno ritiene, l'aneddoto fosse privo di fondamento, in una civiltà nella quale il legname era un materiale costruttivo fondamentale questo tipo di "previdenza" doveva essere persino ovvio.

5 Cf. Xeres S. - Campanini G., Manca il respiro. Un prete e ,un laico riflettono sulla Chiesa italiana, Ancora, Milano 2011, 9-84; cf. in particolare p. 29. -

6 Xeres S. - Campanini G., Manca il respiro, 19.

7 Xeres S. - Campanini G., Manca il respiro, 53.

8 Dei Verbum, 8 (cf. EV 1/883).

9 Radcliffe T., Perché andare in chiesa? Il dramma dell'eucaristia, San Paolo, Cinisello B. {MI) 2009, 17.

10 Xeres S. - Campanini G., Manca il respiro, 82.

11 Una traduzione più letterale ci sembra anche più efficace: «Il Signore della promessa non è in ritardo, anche se alcuni parlano di ritardo».

 

(tratto da Settimana, 2011, n. 41, p. 1)

 

 

«L'uomo è più facile e proclive a temere che a sperare» (Giacomo Leopardi).

Provare paura è inevitabile: ci spaventa un intervento chirurgico, l'idea di fallire una prova, scegliere la persona o la carriera sbagliata, essere giudicati. Dalla paura non si sfugge, fa parte del processo di crescita, ma la paura sproporzionata inchioda allo status quo, impedisce la maturazione.

Paura e salute

La paura aiuta a custodire la salute attraverso l'assunzione di condotte idonee per prevenire la malattia, contrastare i vizi (alcol, fumo...) e promuovere comportamenti salutari a livello alimentare, sociale ed etico. La paura "legittima" rende prudenti e responsabili nell'affrontare le prove quotidiane; quella "irragionevole" o "parassita" assorbe le energie mentali, ruba energia all'azione, compromette il benessere lavorativo e relazionale.

L'eccesso di paura disorienta la mente e si riversa sul corpo. Tra le frequenti manifestazioni organiche della paura, si segnalano: sguardo esterrefatto, sudorazione, tremore alle gambe, palpitazioni, brividi, nausea, affanno respiratorio, sensazione di soffocamento, tachicardia.

Alcuni sperimentano attacchi di panico e temono di perdere il controllo: "Avrò un infarto". "Adesso svengo" o "Sto morendo". Altri sono succubi di fissazioni o manifestano preoccupanti disturbi di natura ossessivo-compulsiva.

Modalità utili per prevenire questi episodi di ansia o panico sono la pratica di tecniche di rilassamento, la respirazione profonda, lo yoga, la meditazione e/o la preghiera; e inoltre: camminate, attività sportive, giardinaggio...

Benefici e percorsi positivi

La terapia cognitivo-comportamentale aiuta a tollerare l'ansia, a ridimensionare le interpretazioni catastrofiche, a prendere maggior controllo della situazione attraverso esercizi guidati e una valutazione più obiettiva delle cose.

I benefici della paura sono molteplici, la pandemia lo ha evidenziato.

La prima considerazione è che la paura porta a riflettere sulla precarietà della salute e della vita, sulla provvisorietà delle certezze e dei beni acquisiti, sull'inevitabilità della morte propria o delle persone care. Fare introspezione aiuta a discernere ciò che è importante ed essenziale da ciò che è effimero e marginale.

In secondo luogo, all'ombra della paura veglia la virtù della prudenza. La minaccia del coronavirus sprona ad assumere comportamenti responsabili e a scongiurare condotte imprudenti. Le restrizioni, l'appello a evitare assembramenti, la sospensione di attività religiose, culturali e sportive mirano a tutelare il bene comune.

In terzo luogo, la paura favorisce la collaborazione: insieme si affrontano i problemi, insieme si lavora per arginare i pericoli, superare i propri interessi per mettere al centro la solidarietà, la prossimità agli anziani e alle persone sole e bisognose.

In quarto luogo, la paura può trasformarsi in creatività nell'uso del tempo libero, nel dare risposte innovative ai limiti imposti dall'emergenza, nel coltivare l'arte come antidoto alla noia, nell'uso positivo della tecnologia.

In quinto luogo, il coronavirus invita all'umiltà, ricordandoci che non sono le grandi cose che cambiano la storia, ma quelle piccole che sfuggono alla presunzione della scienza o al nostro controllo, ma costringono a un bagno di realismo esistenziale. Il covid-19 ha fatto crollare i miti dell'autosufficienza e dell'invincibilità e ci ha resi più consapevoli della nostra vulnerabilità e impotenza.

In sesto luogo, il tempo del contagio ha portato alla luce un crescente bisogno di spiritualità, dell'aiuto di Dio, di pregare, di mobilitare le proprie risorse interiori. Con frequenza, nei momenti critici, le persone si affidano alla preghiera e invocano Dio. perché venga in soccorso delle debolezze umane.

L'umiltà alimenta la spiritualità

La spiritualità si manifesta anche nella carità che si attiva attraverso forme di supporto verso chi è emarginato, malato o in cordoglio mediante l'ascolto, il conforto e l'aiuto pratico.

In sintesi, la paura si mitiga accettandola con serenità, condividendola con semplicità, valutandola con maturità e ridimensionandola attraverso lo sviluppo di strategie benefiche nel rapporto con sé stessi e con gli altri.

Il percorso speranzoso consiste nel "non aver paura di aver coraggio", nella testimonianza del giudice Paolo Borsellino: «È normale che esista la paura, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti». 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 4/2021, pag. 64)

 

Domenica, 30 Novembre 2025 08:44

I Domenica di Avvento - Anno A

I Domenica di Avvento - Anno A

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 2,15

Dal libro del profeta Isaìa
 

Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette
in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e s’innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.


Salmo Responsoriale Sal 121 (122)

Andiamo con gioia incontro al Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!.
 
È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.
 
Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano sicuri quelli che ti amano;
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.
 
Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

 
Seconda Lettura  Rm 13,11-14a
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
 
Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento:
è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso
la nostra salvezza è più vicina di quando
diventammo credenti.
La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo
via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno:
non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità,
non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.
 
Canto al Vangelo (Sal 84,4)


Alleluia, Alleluia

Mostraci, Signore, la tua misericordia
e donaci la tua salvezza.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Mt 24,37-44

Dal Vangelo secondo Matteo
 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

OMELIA
 
Noè si prepara alla ‘tempesta perfetta’: non a una pioggia qualunque, ma a quell’urto che prima o poi, in ogni vita, arriva per spazzare via il superfluo e lasciare emergere ‘l’unum necessarium’, l’unica cosa di cui davvero abbiamo bisogno. Il diluvio è un mito che parla alla nostra vita: prende le forme di un dispiacere improvviso, di un fallimento che incrina le certezze, di una crisi interiore, del buio che cala sulla mente, di una malattia, di un incidente, della morte stessa…
I contemporanei di Noè, racconta il testo, «non si accorsero di nulla». Loro continuano a mangiare, bere, mettere al mondo figli… Tutte cose anche buone ma incapaci — da sole — di salvare quando la vita scuote le fondamenta. E infatti furono travolti.
Gesù torna a metterci in guardia: che cosa è davvero necessario per non soccombere al diluvio? Pare una sola cosa: l’attenzione. La salvezza non è un premio, ma atto di consapevolezza. È il cuore desto, vigile, capace di cogliere ciò che conta nel momento in cui tutto vacilla.
Un antico libro alchemico del Seicento custodisce una parola enigmatica: VITRIOL. È un acrostico che recita così: “Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, ovvero: «Visita l’interno della terra operando con rettitudine e troverai la pietra nascosta».
A livello simbolico il messaggio è di una forza sorprendente: scendere nell’’interiora terrae’ è un invito a entrare nelle profondità del proprio essere, a raggiungere quel luogo segreto dove si rivela ciò che resta quando il resto crolla. È lì che si trova l’unica cosa necessaria, ciò che ci costituisce in modo definitivo, ciò che la tempesta non può portare via. Il Sé autentico.
Tutte le tradizioni, dalle più arcaiche alle più raffinate, non hanno fatto altro che ripeterci questo: ritorna al Centro. È nel buio, nel nascondimento, nel grembo silenzioso dell’interiorità che qualcosa può finalmente maturare e venire alla luce. La vita stessa lo insegna: il seme ha bisogno della terra scura, il feto dell’ombra protettiva del grembo.
Gli antichi lo sapevano bene.
In Egitto le iniziazioni avvenivano nelle piramidi o nelle cripte sotterranee. In Persia si scendeva nelle grotte; i popoli nativi d’America costruivano capanne destinate proprio alla discesa iniziatica. I misteri di Mitra si celebravano nei templi sotterranei, e l’iniziazione era la discesa nel ventre della Grande Madre.
Nella mitologia greca, Orfeo discende nell’Ade per ritrovare Euridice, simbolo della sua anima smarrita. Il dio hindù Krishna scende negli inferi per liberare i suoi sei fratelli — immagine dei sei chakra — essendo lui stesso il chakra della corona, il vertice dell’ascesa spirituale.
Non c’è scampo: prima di salire bisogna scendere. Prima di ritrovare la vita, bisogna attraversare il proprio sotterraneo. Il primo passo verso quella terra in cui la vita si dà in pienezza — che il Vangelo chiama regno di Dio o regno dei cieli — passa attraverso il viaggio verso sé stessi.
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44). Il tesoro non è fuori, è nel campo che siamo.
E Agostino lo conferma: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas». Non andare fuori: rientra. È nell’interiorità che abita la verità.
E la voce di Meister Eckhart gli fa eco, con la sua precisione adamantina:
«Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti nessuno può conoscere Dio, se prima non conosce sé stesso» (Sermoni).
Che l’Avvento sia dunque questo: un tempo di silenzio, di nascondimento, di ritorno al buio fecondo da cui nasce ogni luce. Un esercizio di distacco, di svuotamento, di morte simbolica, perché solo ciò che muore a sé stesso può risorgere alla Vita.
Il ‘diluvio’ che potrà abbattersi sulla nostra vita non sarà più una minaccia, ma piuttosto rivelazione. Non tanto una fine ma opportunità d’un nuovo inizio. E in mezzo alla tempesta, come Noè, scopriremo finalmente ciò che resta. Ciò che salva.
Ciò che siamo.

 
Paolo Scquizzato
 
XXXIV Domenica del tempo ordinario - Solennità Cristo Re - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura 2Sam 5,1-3

Dal secondo libro di Samuèle
 

In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”».
Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.


Salmo Responsoriale Sal 121 (122)

Andremo con gioia alla casa del Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
 
È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

 
Seconda Lettura  Col 1,12-20
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi
 
Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione,
il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,
primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio
che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
 
Canto al Vangelo (Lc 21,28)


Alleluia, Alleluia

Risollevatevi e alzate il capo,
perché la vostra liberazione è vicina.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Lc 23,35-43

Dal Vangelo secondo Luca
 

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

 

OMELIA
 
«È re non chi ha autorità sulle persone in virtù del suo potere, bensì colui che con la sua vicinanza è fonte di felicità; egli dispone come fosse naturale di tutto il ‘potere’ che una persona possa mai avere su un’altra, ma possiede tale potere proprio perché non intende rivendicarne per sé alcuno. Ciò che egli vuole, se è veramente re, è soltanto promuovere la vita dell’altro» (E. Drewermann).
«Tu sei re?» chiese Pilato a Gesù nell’ultimo interrogatorio prima della fine. E Gesù non negò.
Sì, Gesù è ‘re’, ma la sua regalità è uno scarto, una soglia: non appartiene ai palazzi di questo mondo, né all’odore del potere che pretende di governare dall’alto. È un altro modo di stare nella vita.
È re perché rialza chi è caduto, perché restituisce dignità a chi l’ha smarrita lungo la strada. È re quando si china sulla polvere e solleva i deboli, i fragili, gli esclusi che non si sono mai sentiti “a posto”, “puliti”, degni di nulla. È re quando scioglie le catene di colpe antiche, quando spezza i pesi messi sulle spalle da sacerdoti che confondono ordine con purezza, legge con vita.
È re quando rimette in piedi i “paralitici” dell’anima: coloro che non riescono più a muovere un passo perché intrappolati da paure, fallimenti, sensi di colpa che sembrano non finire mai. Insomma, la sua regalità apre sentieri di libertà.
A chi lo segue chiede una postura regale: vivere il presente come luogo di costruzione di un regno nuovo, condividere invece di trattenere, offrire la vita invece di consumarla, rompere norme sterili invece di imporle, servire invece di servirsene.
Il vero re non è colui che proclama la verità dall’alto, ma chi la fa accadere nella propria carne, nella quotidianità, nei gesti minuscoli che odorano di umanità.
In fondo, il re non è uno che non ha bisogno di nessuno: è un cuore che sa che l’amore si regge su una misteriosa reciprocità. Abbiamo bisogno dell’altro per scoprire la strada che porta a noi stessi, e quindi alla gioia che non delude.
Solo nell’amore donato e ricevuto si disvela chi siamo davvero. E lì, in quel varco di luce, il suo regno prende forma.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 16 Novembre 2025 09:13

XXXIII Domenica del tempo ordinario - Anno C

XXXIII Domenica del tempo ordinario - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ml 3,19-20a

Dal libro del profeta Malachìa
 

Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno.
Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio.
Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.


Salmo Responsoriale Sal 97 (98)

Il Signore giudicherà il mondo con giustizia.

Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.
 
Risuoni il mare e quanto racchiude,
il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani,
esultino insieme le montagne
davanti al Signore che viene a giudicare la terra.
 
Giudicherà il mondo con giustizia
e i popoli con rettitudine.

 
Seconda Lettura  2Ts 3,7-12
 
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi
 
Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi.
Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
 
Canto al Vangelo (Lc 21,28)


Alleluia, Alleluia

Risollevatevi e alzate il capo,
perché la vostra liberazione è vicina.

Alleluia, Alleluia

 

Vangelo Lc 21,5-19

Dal Vangelo secondo Luca
 

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 

OMELIA
 
«Si solleverà nazione contro nazione, regno contro regno; vi saranno terremoti, carestie, pestilenze. Accadranno segni grandiosi nel cielo, e fatti che faranno tremare. Ma prima ancora di tutto questo metteranno le mani su di voi, vi perseguiteranno… a causa del mio nome.». Questo è un passaggio del vangelo di oggi. Gesù non fa sconti e non addolcisce nulla. Non promette scorciatoie né paradisi immediati. Guarda il mondo negli occhi e ci invita a fare lo stesso. Le cose non vanno bene — e non è detto che andranno meglio. Ma è proprio qui, in questo tempo ferito, pieno d’ombre che si gioca la verità dell’esistenza.
La tradizione zen dice: “Il mondo è perfetto così com’è”. E Gesù, in fondo, pare concordare: non perché è ingenuo o vada tutto bene, ma perché è in questo istante — non in un altrove immaginario — che siamo chiamati a vivere in pienezza, senza rimpianti e senza fughe. Non ci sono mondi paralleli nel quali si potrebbe vivere meglio.
Le tempeste, i dolori, gli sconvolgimenti non sono segni della fine, ma occasione di nascita. Come scrive Paolo: «tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Siamo solo invitati ad abitarlo con un’altra modalità d’esistenza. Ciò che deve cambiare non è il mondo, ma il nostro modo di abitarlo. L’unica rivoluzione oggi necessaria è quella interiore. Quella del cuore.
La vita non va verso la fine, ma piuttosto verso la sua trasfigurazione.
Forse allora la “fine del mondo” non avverrà quando l’odio avrà raggiunto l’apice, o quando l’ultima bomba avrà dissolto la terra, ma quando ciascuno saprà compiere un gesto di pura bontà: un abbraccio che accoglie, un pane condiviso, un perdono gratuito.
Sarà la fine — sì — ma nel senso più bello: il compimento della bellezza.
Ogni gesto di amore autentico anticipa la fine del mondo, la trasforma da catastrofe a rivelazione. Perché l’ultima parola non sarà la distruzione, ma la luce che filtra dal cuore umano. E così, su questo inferno che ancora chiamiamo terra, continuiamo a camminare: ostinati raccoglitori di fiori. E davanti al volto dell’altro, della persona amata, accarezzandone il volto pieni di meraviglia ci scopriamo a dire con un sorriso di tenerezza antica, ‘tu sei la fine del mondo’.

 
Paolo Scquizzato
 
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