Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Pietro Andrea Cavaleri
“Quegli aerei che si avventano
contro le altere torri,
quel volo a capofitto di vite umane
contro altre vite...
La mente vacilla, l’animo e soverchiato, oppresso...
Si preparano, forse sono già venuti,
tempi in cui sarà richiesto
agli uomini di essere altri
da come siamo stati. Come?»
Mario Luzi
1. Cristo evento relazionale
Per comprendere più agevolmente il senso che oggi assume la dimensione relazionale nella vita di ognuno di noi può essere utile, seguendo le riflessioni della filosofa spagnola Maria Zambrano, immaginare la storia come una progressiva rivelazione dell'uomo e l'uomo come «un essere nascosto che deve rivelarsi a poco a». (1)
L'uomo, in questo suo lento “rivelarsi”, ha impiegato oltre trentaduemila anni prima di scoprire se stesso come individuo, prima cioè di distinguersi dalla primitiva comunità e di porsi di fronte ad essa. L'uomo greco, infatti, e già in grado di porsi di fronte alla natura e alla comunità come singolo soggetto, come io capace di “pensare” ciò che ha davanti a sé, interrogandolo, vagliandolo criticamente, dominandolo con gli strumenti della tecnica che egli stesso crea. Prometeo è l'immagine di questo uomo che, dopo vari millenni, approda finalmente alla soggettività individuare e sta di fronte alla realtà, pensandola, agendo su di essa.
Inizia, allora, per l'umanità una parabola, durata circa duemila anni e culminata nell'epoca moderna, durante la quale l'uomo-individuo si scopre centro dell'urnverso, sancisce la sua assoluta supremazia sulla natura e sulla storia. (2) Giunto all'apice della massima “asserzione di sé”, l'uomo-individuo della modernità e della postmodernità vive oggi una “notte oscura epocale”.
Ripiegato su se stesso e contratto asfitticamente nella propria soggettività, e gli si vede sfuggire il senso della totalità e della relazione con l'altro. Avvinto dall'onnipotenza della Tecnica e dal mito di un progresso inarrestabile, l'uomo contemporaneo si è decisamente proiettato verso una autonomia e una separatezza del tutto inospitali; (3) ha posto nell'oblio più assoluto ogni relazione con l'altro che non sia funzionale alla specifica affermazione di sé. L'autoreferenzialità etica e la fuga da ogni forma di intimità affettiva, da ogni forma di appartenenza, sembrano costituire la sintesi estrema della sua condizione attuale. (4)
Affermata la propria individualità, assenta la propria differenza nei confronti della comunità, l'uomo di oggi avverte come “tragica” la distanza che lo separa dall'altro e che lo rende, a sua volta, irraggiungibile. (5) Ormai annichilito dalla solitudine e dall'assenza di ogni significato, attraverso modalità spesso distorte e aberranti, egli continua tuttavia ad esprimere ancora il suo insopprimibile bisogno di incontrare l'altro, manifesta la sua incontenibile «fame» di relazionalità. (6)
Nel suo travagliato “rivelarsi”, l'uomo è pervenuto oggi ad uno snodo molto delicato della sua storia. Egli, infatti, è alla ricerca di un nuovo modo di relazionarsi in cui “appartenenza” e “differenza” possano finalmente coesistere insieme. È in attesa di “chi” gli sveli un modello relazionale in grado di coniugare il suo vitale bisogno di appartenere (all'altro, alla comunità) e la sua legittima istanza di individuarsi, di differenziarsi.
In questa sorta di “notte oscura epocale”, nella quale sembra caduto, l'uomo contemporaneo attende «l'aurora” di una relazione con l'altro che gli consenta di sperimentare il calore dell'incontro, senza rinunciare alla sua differenza; che gli permetta di esprimere la sua individualità, senza per questo subire la freddezza dell'isolamento, del rifiuto, della mancata accoglienza.
Questo nuovo, “aurorale”, modo di porsi in relazione con l'altro, che l'uomo contemporaneo attende, è quello stesso che Cristo interamente incarna nella storia e manifesta all'umanità.
Mi ha molta colpito l'affermazione del teologo Piero Coda secondo cui l'evento Gesù Cristo “è un evento essenzialmente relazionale”. (7) È, cioè, un evento che introduce, nella millenaria storia dell'umanità, un modo radicalmente diverso e nuovo di rapportarsi fra gli uomini, fon dato non solo sulla unilaterale donazione di sé all'altro, ma anche e soprattutto sulla “donazione reciproca”.
Se prima di Cristo i rapporti reciproci erano sanciti soltanto dai vincoli di sangue o venivano imposti dall'appartenenza ad una medesima casta sociale, con la venuta di Gesù ogni uomo diventa un “valore” e l'incontro con lui si trasforma in una misteriosa occasione di incontro con Dio stesso. (8)
Da questo punto di vista, sulle orme di san Paolo e di Teilhard de Chardin, possiamo affermare che Cristo costituisce un “salto” qualitativo nell'evoluzione psicologica e sociale dell'umanità. Egli, infatti, manifesta in sé un “modo nuovo» di essere uomo, interamente centrato sulla reciprocità, ad immagine della dinamica relazionale intratrinitaria.
Si tratta di un “salto” evolutivo carico di profonde e innumerevoli implicazioni ancora non pienamente colte, sia sul versante sociale, sia su quello psicologico ed educativo. La dimensione intersoggettiva, originaria e fondante l'ispirazione del pensiero cristiano, rimane ancora oggi impigliata nelle categorie del pensiero greco e stenta a manifestarsi in tutta la sua novità. (9) E la novità consiste essenzialmente nel fatto d'e l'uomo, attraverso Cristo, può finalmente penetrare il mistero dell'Altro, aprendosi all'altro ed essendo-per-altro.
Ancora oggi l'evento Gesù Cristo, in quanto evento relazionale, costituisce per l'uomo un “appuntamento mancato” nel lungo e travagliato svelarsi a se stesso. La relazionalità che Cristo mostra agli uomini è a immagine della Trinità. Se vogliamo fare nostro il “salto”evolutivo che Egli ci propone, diventa dunque fondamentale cogliere più in profondità il “paradigma relazionale” che alimenta e anima la dinamica trinitaria.
2. La vita trinitaria come paradigma relazionale
La Trinità è, innanzitutto, amore reciproco fra le tre Persone, è “inabitazione reciproca”. L'espressione classica con cui la teologia denomina questo “reciproco essere l'uno nell'altro” è pericoresi. Come è noto, in origine pericoresi era il nome di una danza la cui caratteristica consisteva nella reciprocità del danzare: uno danza intorno all'altro, l'altro danza intorno a lui, in un costante e reciproco circondarsi. (10) L'immagine di questa danza, dunque, esprime bene la continua tensione reciproca che caratterizza la dinamica intratrinitaria.
Essa, infatti, è sempre protesa alla edificazione reciproca. In essa la diversità asserisce se stessa non contraddicendo o negando l'altro, ma divenendo «dono» per l'espressione piena dell'altro. Nella “edificazione reciproca” la diversità si compone nell'unità, si manifesta e ha senso nell'unità, è per l'unità. Le differenze, cioè, non emergono per entrare in conflitto e per competere con l'altro, per mostrarsi ad esso nella loro superiorità, ma per cooperare alla sua espressione e alla sua edificazione. (11)
D'altra parte, ciascuna differenza viene alla luce e raggiunge la sua pienezza soltanto quando si trasforma in “dono”, soltanto se è per l'altro e si delinea in questo suo essere- per-l’altro. Pur avvolta nel suo insondabile mistero, la vita della Trinità manifesta all'uomo un paradigma relazionale in cui ognuno deve agli altri la sua vita personale e in cui le molteplici differenze si dispiegano soprattutto come molteplicità di doni reciprocamente interdipendenti, in un 'unica vita fondata sull'amore vicendevole.
Si delinea così un modello (12) di relazione nel quale ogni identità esprime se stessa senza negare la reciproca interconnessione con l'altro; si configura un percorso nuovo all'interno del quale coesistono insieme diversità e appartenenza, distinzione e unità, sviluppo di ciascuna delle personalità coinvolte e vita di comunione.
Se nell'antica Grecia l'affermazione di sé implica il sacrificio dell'altro, sicché Crono mangia i propri figli ed Edipo uccide il proprio padre; nel paradigma trinitario, che Gesù svela all'uomo, i termini della relazione con l'altro si capovolgono radicalmente. L'affermazione di sé non passa più attraverso la cancellazione dell'altro, ma segue una strada del tutto nuova, quella del “donarsi” e del “donarsi di ritorno”, che è propria della reciprocità.
Nella prospettiva trinitaria, la mia accoglienza dell'altro e delle sue differenze non solo conferma questi nella sua specifica distinzione da me, ma “espande” il mio stesso universo esistenziale, mi «fa essere” in misura maggiore, sicché la mia vita e la mia realizzazione personale risultano indissolubilmente legate all'altro. (13)
Se, poi, il riconoscimento e l'accoglienza, così come nella dinamica trinitaria, assumono il carattere della reciprocità, allora l'esperienza relazionale acquista una valenza qualitativa tale da fare esprimere, con autentica pienezza, ciascuno dei partecipanti. Il paradigma relazionale che Gesù svela all'umanità, infatti, scardina il tradizionale modo di concepire i rapporti fra gli uomini non solo in quanto capovolge le vecchie logiche, ma soprattutto perché propone la relazione con l'altro come “luogo” di incontro con Dio e con se stessi.
La possibilità di penetrare nel mistero di Dio e nel mistero della mia stessa esistenza è legata all'altro, alla sua misteriosa presenza nella mia vita. Nella misura in cui la mia esistenza quotidiana si “apre” all'altro e si pone in ascolto del mistero che in lui si cela, Dio si disvela a me e, con Esso, si disvela il senso compiuto del mio vivere. Più mi «abbandono” all'incontro con l'altro e mi espongo al “rischio” di questo evento misterioso, più mi appartengo.
Questa sorta di. “sacralità” dell 'incontro con l'altro, già nota al pensiero cristiano, trova un'autorevole conferma non solo in alcuni filosofi contemporanei, ma anche nelle più attuali ricerche condotte nell'ambito delle scienze umane. (14)
3. La relazione con l'altro nella ricerca contemporanea
Nel corso della seconda metà del '900 l'altro e l'alterità sono stati molto spesso al centro della riflessione filosofica (15) Gadamer, ad esempio, esprimendo alcune sue considerazioni sul futuro dell'Europa, sottolinea che l'altro non è soltanto l'altro da me, cioè l'assolutamente e il radicalmente altro, ma è anche l'altro di me, cioè colui il quale partecipa della mia stessa umanità e del quale, in vario modo, io sono responsabile. (16)
Lévinas, da parte sua, pone in rilievo il forte nesso che unisce l'identità stessa dell'io con la responsabilità per altri. A suo giudizio, infatti, la possibilità che ogni essere umano ha di definire l'identità del proprio io è legata non solo alla relazione con l'altro, ma soprattutto all'assunzione, da parte dell'io, di una responsabilità etica nei confronti di lui. (17)
Anche Ricoeur esplora in modo originale la dialettica del sé e dell'altro da sé, affermando che l'uomo trova il proprio senso e la propria costituzione nel rapporto con l'altro. Egli sostiene, a questo riguardo, che l'altro non si “aggiunge dal di fuori” all'identità di ognuno, ma esso (l'altro) contribuisce a fondare, a costituire e a dare senso all'identità stessa. (18)
Più di recente il filosofo cattolico Marion sottolinea come la relazione che ci unisce all'altro, l'amore, non è un aspetto periferico e secondario dell'esistenza umana, ma ne è il centro. La
soggettività individuale, a suo parere, non nasce da una istanza conoscitiva (cosa posso conoscere?), ma da un bisogno relazionale (c'è qualcuno che mi ama?). (19)
Da queste riflessioni, appena accennate, emerge con evidenza, pur nella differenza dei toni, un modello antropologico che pone l'accento sulla dimensione relazionale dell'uomo. Non è l'individuo, ma l'essere con, l'essere umano in reciprocità l'aspetto che viene posto in maggiore risalto. La relazione con l'altro, il reciproco incontrarsi e riconoscersi, individuati come aspetti centrali e salienti della esperienza intersoggettiva, divengono, in questa prospettiva, elementi originari e costitutivi per ogni uomo.
Ciascun sé, infatti, è “rivelato” a se stessoSul versante psicologico, durante questi ultimi decenni, sono in particolare le teorie evolutive e le ricerche in ambito psico-sociale a sostenere un modello antropologico per molti aspetti prossimo a quello dei pensatori ai quali si è già fatto cenno.
Daniel Stern, ad esempio, individua nelle relazioni con l'altro il principio organizzatore primario dello sviluppo infantile. Il delinearsi dell'identità, la comparsa del senso di sé implicano il contemporaneo delinearsi dell'altro e il configurarsi della relazione con lui. Il senso del sé viene, a giudizio di Stern, “organizzato” e in qualche modo “rivelato” al bambino dal senso che per lui l'altro assume nella relazione.
La vita psichica, nelle ricerche di questo autore si rivela profondamente connessa all'altro e alla relazione con lui che ognuno sperimenta fin dai primi anni di vita. È questa interazione con l'altro che, fin dall'inizio di ciascuna esistenza, dà origine all'esperienza del sé, fatta di emozioni, sentimenti, affetti, difficilmente sperimentabili fuori da un contesto relazionale.
È convinzione di Stern che soltanto attraverso il reciproco riconoscersi e “sintonizzarsi”, reso possibile dalla mutua condivisione della relazione intersoggettiva, gli uomini possono dominare i loro sentimenti di insicurezza, di solitudine, di isolamento. (21)
Secondo Trevarthen la tendenza a stabilire rapporti intersoggettivi (cioè rapporti attraverso cui è resa possibile la “condivisione” dell'esperienza soggettiva di ciascuno) è una capacità umana innata. Dalle ricerche di questo autore la relazione intersoggettiva emerge con grande evidenza come un bisogno psicologico primario. (22) La mancata soddisfazione di questo bisogno, cioè la mancata esistenza di adeguate esperienze di condivisione, provoca nel bambino il blocco di un funzionale sviluppo psicologico e nell'adulto innesca la sofferenza del disagio psichico.
Alla luce di queste considerazioni, dunque, la relazione intersoggettiva, in quanto esperienza di mutua condivisione e di reciproco riconoscimento, appare non solo come condizione decisiva per il benessere e lo sviluppo di ogni singolo individuo, ma si rivela soprattutto come dimensione cardine per la sopravvivenza stessa del genere umano e per la sua ulteriore, potenziale, evoluzione.
Bruner, (23) a sua volta, afferma che la piena espressione dell'attività mentale di ogni uomo dipende in modo inestricabile dalla sua vita relazionale, in definitiva dal rapporto con l'altro, dal sostegno e dall'aiuto di un altro. Anche le ricerche di questo autore confermano che la mente umana sviluppa e matura la propria organizzazione attraverso l'interazione reciproca con gli altri, con menti diverse. Èattraverso l'interazione reciproca che gli interlocutori costruiscono i significati e danno senso alle vicende di cui sono co-protagonisti.
Bruner concepisce il Sé e la vita di ogni essere umano come un “testo”, che prende forma e senso solo nella misura in cui è narrato, interpretato, reinterpretato, condiviso, Non a caso il riconoscimento reciproco è considerato da Bruner come uno dei processi psicologici più importanti per l'elaborazione e lo sviluppo del Sé. Senza il riconoscimento reciproco non è possibile comunicare, elaborare significati condivisi, cogliere le intenzioni dell'altro, in una parola non è possibile la vita umana.
Il reciproco riconoscimento diventa, così, indispensabile per la sopravvivenza stessa della specie. Narrandosi all'altro e ascoltando le altrui narrazioni, riconoscendo l'altro ed essendo da lui riconosciuto, l'individuo non solo trova l'accesso alla propria identità soggettiva, al proprio Sé, ma modifica in modo positivo e alimenta in modo vitale la comunità a cui appartiene.
Dalle ricerche degli autori fin qui ricordati emerge con evidenza un modello antropologico molto utile alla nostra riflessione. In esso l'altro non si pone come mio antagonista, non mi contraddice, ma, al contrario, costituisce il termine essenziale di un processo attraverso il quale io posso appropriarmi di me stesso e delle mie potenzialità più nascoste.
Dunque, non una relazione fatta di negazione e di insanabile conflitto, quella che mi lega all'altro, ma un rapporto di reciproca implicazione, in cui l'uno risulta indispensabile alla vita e alla crescita dell'altro. Ne consegue che, ponendoci da questa prospettiva, la piena realizzazione di sé non avviene asserendo se stessi a discapito dell'altro o contro l'altro o nonostante l'altro, ma può aver luogo soltanto attraverso l'esperienza di condivisione e di reciproco riconoscimento.
Tale conclusione trova interessanti riscontri persino nell'ambito della psicobiologia (24) e della neurobiologia. (25) Numerose ricerche, infatti, dimostrano che le relazioni interpersonali hanno il potere di influenzare in modo significativo lo sviluppo delle strutture cerebrali non solo nei primi anni di vita, ma anche nel corso dell'intera esistenza umana. Mentre, al contrario, l'assenza di adeguate esperienze interpersonali può portare a fenomeni di morte cellulare e può indurre processi di inibizione del potenziale genetico che ogni cervello umanò possiede.
Anche in questo specifico ambito della ricerca è stato dimostrato che le relazioni interpersonali più adeguate e funzionali allo sviluppo del cervello sono quelle che creano momenti di significativa “corrispondenza”, che hanno cioè carattere di “reciprocità” e che rendono, quindi, possibile l'esperienza di riconoscere e di essere riconosciuti.
Abbiamo cercato, fin qui, di porre in evidenza quale siano lo spazio e l'attenzione che il pensiero contemporaneo e le più attuali ricerche in campo scientifico riservano alla relazione con l'altro, soprattutto sotto l'aspetto cardine della reciprocità. Essa emerge come l'elemento nodale e come la condizione indispensabile per lo sviluppo della mente, per la piena realizzazione di sé, per la crescita individuale, per la sopravvivenza stessa dell'intera specie umana.
In un passaggio epocale, come quello che stiamo vivendo, nel quale ogni possibilità di incontro sembra tragicamente preclusa, come attuare e sostenere in concreto l'apertura all'altro? Come trasformare, nella nostra quotidiana esistenza, la relazione con l'altro in un luogo di reciproco riconoscimento e il conflitto con lui in una fonte di crescita vitale? E, in fine, come “ripensare”la santità?
Per meglio rispondere a questi non facili interrogativi, vorremmo prima soffermarci sulla testimonianza di un uomo a noi contemporaneo che, per molti aspetti, si avvicina ad un modello di santità estremamente attuale e del tutto coerente con le riflessioni che sono fino a questo punto emerse. Alludiamo a Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, oppositore del nazismo fino all'estremo sacrificio della propria vita.
4. Verso un nuovo modello di santità
Bonhoeffer (26) parte da un interrogativo di fondo: Cosa è per noi oggi il cristianesimo? Cosa è per noi veramente Cristo?
A suo giudizio è ormai passato il tempo in cui era possibile rispondere a queste domande parlando agli uomini attraverso le “parole della religione”; è passato il tempo in cui era possibile rivolgersi all'interiorità e alla coscienza dell'uomo. Il tempo a cui stiamo andando incontro è, infatti, un “tempo completamente non religioso», in cui gli uomini non sono o “non possono più essere religiosi”, in cui le fondamenta stesse del “nostro cristianesimo” sembrano essere del tutto scalzate.
In un mondo ormai “non-religioso”, cosa significa essere Chiesa, essere comunità, vivere da cristiani, parlare con Dio? Come è possibile, in un tale contesto, che Cristo diventi il signore anche dei non-religiosi?
Per attraversare questo tempo e per parlare agli uomini di questo tempo, occorre riscoprire Cristo in un'ottica di fede totalmente rinnovata, in cui Dio si rivela nel “tu”, nella relazione con l'altro e nella responsabilità verso di lui.
Per molti secoli gli “uomini religiosi” hanno parlato di Dio come di un deus ex machina che è soluzione ai problemi insolubili, antidoto alla debolezza e ai limiti umani. Ma Dio, secondo Bonhoeffer, non sta “al di là”, dove vengono meno le capacità umane. Egli, al contrario, sta “al centro del villaggio”, dove gli uomini si incontrano e si pongono in relazione fra loro.
Nell'epoca moderna “il mondo è diventato adulto» e Dio, inteso come deus ex machina, soccorso ai limiti e alla morte dell'uomo, è divenuto “superfluo», “inutile”, non più “necessario”. Dio non entra più in concorrenza con l'uomo ormai divenuto maggiorenne. Dio non si manifesta più nella sua rassicurante onnipotenza, della quale è possibile oggi fare a meno; ma si nasconde nel misterioso silenzio della debolezza di Cristo e di ogni uomo che incontro.
In questo mutato contesto storico e culturale, la misura della santità è data dal riconoscimento e dall'accoglienza dell'altro; la misura della responsabilità è definita unicamente dalla necessità, dal bisogno, dalla sofferenza di cui l'altro è portatore. È da questo esclusivo “esserci-per-altri”, incarnato compiutamente da Cristo, che scaturisce la santità, “l'azione responsabile personale”, l'apertura al rischio dell'incontro, il superamento della “mediocrità” borghese, il delinearsi dell'ántropos téleios, cioè dell'uomo intero, completo, che non conosce distinzione tra interiorità ed esteriorità.
Non si può essere “uomini completi” da soli, ammonisce Bonhoeffer, ma unicamente insieme ad altri. L'uomo intero, infatti, ponendosi davanti a Dio e all'altro, vive tanto dall'“esterno” verso l'“interno”, quanto dall'“interno” verso l'“esterno”. Egli non relega Dio “in qualche ultimo spazio segreto”, ma sa riconoscerLo negli eventi della vita e soprattutto nella presenza ineludibile dell'altro.
In questa prospettiva “non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella sofferenza del mondo”. (27) È possibile, dunque, continuare, in un mondo “non-religioso”, a testimoniare Cristo, a parlare di Dio, soltanto se si è capaci di “esserealdiquà” della vita, cioè capaci di essere-per-altri, stando pienamente radicati nella propria concreta quotidianità.
L'autentica trascendenza è l'esserci-per-altri mostrato e incarnato da Gesù. Solo dall'esserci-per-altri fino alla morte nasce l'onnipotenza e l'onniscienza. Il rapporto con Dio, nella riflessione di Bonhoeffer, non è il rapporto con un essere astratto e lontano, benché il più alto e potente che si possa pensare, quanto piuttosto una nuova vita che si sostanzia concretamente nell'esserci-per-altri, partecipando così all'esserci stesso di Gesù.
Il trascendente, secondo Bonhoeffer, non è l'irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta e che è raggiungibile: «Dio in forma umana! Non il mostruoso, il caotico, il lontano, l'orribile in forma di animale, come nelle religioni orientali; ma neppure nelle forme concettuali dell'assoluto, del metafisico, dell'infinito ecc.; e neppure la greca forma divino-umana dell'uomo in sé; bensì “l'uomo per altri” e perciò il crocifisso”. (28)
Il cristiano (come la Chiesa) è soltanto se esiste per altri: è questa la convinzione che Bonhoeffer esprime attraverso acute riflessioni teologiche, ma soprattutto testimonia attraverso un coraggioso impegno in difesa della dignità umana, gravemente negata dalla follia nazista.
La lezione di Bonhoeffer ci orienta decisamente verso un suggestivo e più attuale modello di santità, che nella relazione con l'altro trova il suo principale criterio di riferimento e la sua esigente misura. Alla luce di queste preziose intuizioni, come “rivisitare” in modo nuovo i nostri rapporti con gli altri? E, in particolare, come reinterpretare le dinamiche conflittuali, i blocchi emotivi e le molteplici disfunzioni che quotidianamente sperimentiamo nei nostri contatti interpersonali?
5. Il conflitto come luogo d'incontro e di accoglienza
L'irripetibile unicità di ogni essere umano si esprime continuamente attraverso la sua diversità. I contorni della sua singola individualità si delineano attraverso il suo differente modo di sentire, di valutare, di percepire. Potremmo dire, al riguardo, che non può esserci identità individuale senza diversità. Allo stesso modo non può esserci autentico dialogo o vera integrazione se non a partire dall'esistenza della diversità. (29) Non a caso, ad esempio, san Francesco amava descrivere il frate perfetto, integrando fra loro le diverse caratteristiche dei suoi primi compagni, additando quale modello da imitare la fede e la povertà di Bernardo, la semplicità e la purezza di Leone, la cortesia di Angelo, il buon senso di Masseo, la pazienza di Ginepro. (30)
Ma la diversità non è solo fonte di dialogo e di integrazione. Essa, inevitabilmente, porta con sé anche la separazione, la distanza, il conflitto. È soprattutto nel conflitto che la presenza dell'altro e la sua diversità diventano per noi particolarmente misteriose, si trasformano in una realtà del tutto incomprensibile ed inaccettabile.
Ogni volta che sperimentiamo una relazione conflittuale con l'altro, egli ci appare puntualmente in tutta la sua radicale “differenza” da noi, e questo lo rende ai nostri occhi distante, estraneo, quasi un nemico ostile a cui contrapporsi con forza. Qualsiasi contesto sociale o comunitario, prima o poi, non tarda ad esprimere situazioni di conflitto che rendono estremamente difficile la possibilità di rapportarsi con l'altro. (31)
Posti di fronte al conflitto, ci difendiamo da esso relazionandoci con l'altro in modo non autentico, negando, accusando, aggredendo secondo modalità palesi o mascherate. Le situazioni di conflitto ci rendono inevitabilmente più vulnerabili, riducono la nostra funzionalità psichica, aumentano la nostra autodifesa, ci spingono con più facilità al giudizio e alla chiusura, producono una sorta di “cecità relazionale” che ci impedisce di “vedere” realmente l'altro.
Ciascuno dei contendenti inizia a “leggere” e a “punteggiare” la realtà in maniera diversa dall'altro non interpretando in maniera corretta i messaggi che riceve o non fornendo adeguate informazioni al suo interlocutore. Una “punteggiatura» arbitraria e faziosa degli eventi rende l'interazione conflittuale ancora più confusa e ambigua.
Tale arbitrarietà, poi, è spesso alimentata dall'immagine che ognuno ha di sé, dalle paure e dalle ferite che la sua storia personale gli ha lasciato in eredità. Sicché, non di rado, la percezione che si ha dell'altro risulta fortemente deformata dalle nostre stesse fragilità, dalle nostre “proiezioni”. Da questo punto di vista il conflitto con l'altro, prima ancora che manifestarci la sua diversità, ci permette di prendere contatto con le nostre parti vulnerabili e con i nostri problemi irrisolti, cioè con l'estraneo che è in noi.
A motivo di ciò, il conflitto costituisce un momento molto importante sia per il migliore sviluppo dei rapporti interpersonali, sia per la crescita della singola persona. Il conflitto con l'altro, infatti, non solo mi «obbliga” a prendere atto della sua radicale diversità, ma soprattutto mi costringe a guardare i limiti della mia condizione, che in questa “presa d'atto” emergono.
Nel conflitto sperimento in modo inedito l'estraneità ostile dell'altro, ma anche l'estraneità ostile di quella parte di me stesso che ho estromesso dalla mia consapevolezza. Lo “straniero” che incontro fuori. di me, in definitiva, ha molto a che vedere con lo “straniero”che abita dentro di me e col quale ostinatamente rifiuto di confrontarmi. (32)
Il travaglio di ogni conflitto è dovuto non solo alla faticosa accoglienza della diversità altrui, ma anche alla sofferta riappropriazione di parti della nostra identità per lungo tempo estromesse o rifiutate (fantasmi del passato, paure antiche, fragilità emotive ecc.). Il conflitto con l'altro si alimenta non solo di problemi “esterni”, reali e obiettivamente rilevabili, ma anche di problemi «in-terni», ancora aperti e insoluti, che ognuno di noi si porta dentro, insieme al timore di affrontarli.
Visto da questa prospettiva, il conflitto diventa il luogo dove “aprirmi” all'accoglienza dello “straniero”, interno ed esterno, oppure il luogo dove posso perpetuare la sterile chiusura verso i miei limiti, proiettandoli all'infinito sull'altro che ho di fronte.
Il conflitto diventa insolubile e distruttivo quando “sacrifica” una delle parti in causa, quando culmina nell'annullamento di essa e nella sua “cancellazione”. Al contrario, la dinamica conflittuale si compone e si rivela indispensabile momento di crescita quando si trasforma in occasione di “reciproco riconoscimento” e di “vicendevole accoglienza»; quando, cioè, ciascuno dei contendenti è capace di prendersi cura della propria distinzione e al contempo sa come “ospitare” la differenza irriducibile dell'altro.
Ciò che rende difficile la composizione di ogni conflitto è, tuttavia, il fatto che in esso sperimentò la “negatività” del limite che grava sulla condizione umana, mia e altrui. La “finitudine” in me si manifesta sotto forma di istanza sempre aperta, di bisogno sempre insoddisfatto; mentre nell'altro si palesa puntualmente come incapacità a comprendermi definitivamente.
Ma è proprio questa finitudine che fonda e rende possibile il dono di sé, l'apertura all'altro, la trasformazione di ciò che si oppone a me e mi limita in luogo di comunicazione e di condivisione. Il fatto che la negatività del limite sia possibilità di reciproca apertura, di incontro, di vicendevole dono di sé, non è una teoria, né un astratto postulato, ma una persona: Gesù. In Gesù ogni finitudine umana viene trasformata in “porta di accesso all'altro”, in luogo di incontro “dal basso” fra Dio e l'uomo, fra l'uomo e l'uomo. (33)
Lo scacco del primo Adamo è essenzialmente uno “scacco dei rapporti umani”, che porta in sé l'impossibilità di comunicare, di sanare i conflitti, di pervenire ad una comunione piena. Nel primo Adamo si manifesta una esperienza relazionale monca, sbiadita, in-compiuta. Solo nel secondo Adamo la relazione viene svelata all'uomo in tutta la sua potenzialità e pienezza. (34)
Introducendo la dinamica trinitaria nei rapporti umani, Gesù sollecita la libertà dell'uomo ad “autolimitarsi”per donarsi all'altro, per farlo essere e per farlo, a sua volta, capace di autodonarsi, in una continua “relazione di reciprocità”, che è il novum da riscoprire. Gesù ci rivela, infatti, una verità che ancora oggi appare lontana dall'essere stata compresa e cioè che l'altro “mi fa essere” e io, a mia volta, sono nella misura in cui affermo l'altro. (35)
Tale verità può essere colta in tutta la sua immensa profondità solo se ci accostiamo a Gesù sapendo che il suo “modo di essere uomo” discende direttamente dalla Trinità. Egli, infatti, è un dono che il Padre fa a noi uomini per comprendere come diventare «uomini interi”. Gesù, però, è un “donato” che, a sua volta, ci fa un suo dono: l'Eucaristia, (36) modello e chiave di lettura di ogni relazione umana.
6. L'Eucaristia come chiave di lettura dei rapporti interpersonali
L'Eucaristia, il dono del “donato”, racchiude in sé lo stesso mistero di Gesù e ci indica costantemente lo stesso cammino che Egli ha fatto: “dono - sacrificio -risurrezione/comunione”. La celebrazione eucaristica è la celebrazione del modo di essere uomo che Cristo ha incarnato nella storia, facendosi dono fino al sacrificio di sé sulla croce, fino all'abbandono del Padre, per poi giungere alla risurrezione. Nell'Eucaristia si ripropone quotidianamente a noi la vicenda di Cristo che, Crocifisso e Abbandonato, risorge nell'unità e nella comunione piena con il Padre, facendosi modello, mai completamente compreso, del nostro modo di rapportarci con l'Altro e con gli altri. (37)
Quando inizia un'importante relazione di amicizia o un coinvolgente rapporto di coppia o, ancora, una significativa esperienza di comunità, l'altro ci appare attraente e luminoso, una risorsa della quale non potremmo fare a meno, un “salvatore” in grado di ascoltarci sempre e di capirci compiutamente. Desideriamo, per questo, stare con lui e con lui condividere ogni cosa che ci appartiene. A lui ci piace donare il nostro tempo, la nostra attenzione, noi stessi.
Successivamente, però, l'altro inizia a deluderci, non risponde più alle nostre aspettative, perde l'iniziale luminosità, ci mostra, in tutta la loro crudezza, i suoi limiti. È il difficile momento che ogni rapporto attraversa e nel quale viviamo la morte dei nostri sogni, delle nostre attese, dei nostri progetti. Il dono, prima spontaneo e irrefrenabile, adesso si trasforma lentamente in duro e amaro sacrificio. L'apertura all'altro, che prima agivamo con gioiosa impazienza, adesso diventa una pesante sofferenza da cui fuggire. Intesa diventa la tentazione di “evadere” dalla relazione o di “rassegnarsi” passivamente ad essa.
La via che porta alla “rifondazione” del rapporto con l'altro si intraprende quando siamo capaci di assumere in prima persona i nostri bisogni; quando rinunciamo per sempre a quello che dall'altro avremmo voluto e che lui non ci ha potuto o saputo dare; quando siamo in grado di elaborare la nostra rabbia e il nostro risentimento, aprendoci così, nel perdono, ad un rapporto reale e creativo. L'altro, nella fase della “rinascita”, diventa allora amico della nostra solitudine, fratello del nostro limite, compagno di una rinnovata crescita.
Tutte le relazioni umane, pur nel loro molteplice configurarsi, presentano una costante dinamica che si articola nei passaggi prima ricordati: la fase in cui predominano l'amore che dona e l'amore che riceve; la fase in cui subentrano il limite, la delusione, l'amore che muore; la fase in cui la relazione finalmente risorge, ridiventando comunione piena ed autentica. Si tratta della medesima dinamica che l'Eucaristia ci ripropone, celebrando la morte e la risurrezione di Cristo.
Ogni patologia della relazione umana (crisi di coppia, conflitti familiari, tensioni all'interno di una comunità ecc.) è sempre riconducibile ad una nostra “stanchezza” o ad un nostro “ritardo” nei confronti del mistero racchiuso nella morte e risurrezione di Cristo. Le relazioni umane possono pervenire alla loro pienezza solo se vengono percepite e vissute da noi come una realtà che partecipa della vita trinitaria e ad essa costantemente si apre.
Il rifiuto di questo mistero, invece, porta con se la chiusura e la fuga dall'altro, provoca l'inaridimento nostro e di ogni rapporto di cui siamo protagonisti. In ogni momento della nostra giornata possiamo scegliere di morire per amore, per costruire una comunione autentica con l'altro, o possiamo scegliere di morire per miope sterilità, per arida chiusura in noi stessi. Posto di fronte a questo continuo dilemma, ciascuno di noi trova nell'Eucaristia un forte richiamo a vivere i rapporti umani in una «logica nuova”, quella di Cristo.
In questa prospettiva, l'Eucaristia non rimanda ad una intimistica e solipsistica unione con Dio, ma ad una comunione con Lui che costantemente è generata dal rapporto con l'altro. Quando ci nutriamo dell'Eucaristia, viene nutrita in noi la capacità di accogliere l'altro, di fecondare in vita ogni momento di morte che l'altro ci procura ferendoci o deludendoci.
Mentre ci trasforma in Cristo, facendoci “altri Lui”, l'Eucaristia ci rende fertili nella nostra vita relazionale, ci fa protagonisti di rapporti liberi e liberanti, riempie di senso l'amore e la morte che ogni giorno sperimentiamo vivendo accanto all'altro.
7. Alcune considerazioni conclusive
L'uomo del nostro tempo potrà risorgere dalle ceneri della cultura occidentale se saprà incarnare questo “nuovo” modello relazionale che Gesù propone e che ruota interamente attorno alla “reciprocità”. Non solo io riconosco e accolgo l'altro da me, ma questi, a sua volta, riconosce e accoglie me. La mia e la sua identità si esprimono, senza per questo negare la comunione. La “relazione di reciprocità” si profila così come esperienza nella quale possono insieme coesistere e svilupparsi personalità singola e comunione.
La comunione è una “realtà terza” che si stabilisce e si consolida a partire dalle due personalità singole che si “riconoscono” e si “accolgono” nella piena “reciprocità”. Si tratta di una “realtà terza” che non è né in me, né nell'altro, ma “tra” me e l'altro. Ed è in questo “tra”, (38) in questa “realtà terza”, che trova spazio «la presenza di Cristo” nella storia dell'uomo. (39)
Quella reciproca non è una relazione qualsiasi. Essa presenta caratteristiche che la configurano come un esito ulteriore e qualitativamente specifico della relazione interpersonale. La reciprocità nel riconoscimento e nell'accoglienza dell'altro, nel dono e nella comunicazione di sé, dischiudono un nuovo modo di stare insieme, di vivere-con-l'altro, in cui è racchiusa tutta la novità della “relazione cristiana”, intesa come incarnazione della “relazione trinitaria”.
Una delle personalità più rappresentative della spiritualità contemporanea, Chiara Lubich, sostiene che si va a Dio non solo attraverso l'altro, essendo-per-l'altro, ma anche «insieme” all'altro, “con” l'altro. (40)
Tale intuizione trova conferma nella Novo millennio ineunte, soprattutto laddove il Santo Padre sottolinea la necessità di promuovere una “spiritualità di comunione” che sia capace di permeare la vita della Chiesa a tutti i livelli: fra i Vescovi, fra le diverse vocazioni, fra i membri di ogni famiglia, in ciascuna comunità. È in questa prospettiva che la Chiesa diventa “casa e scuola di comunione».
Una comunione che nasce dalla capacità di sentire l'altro “come uno che mi appartiene, per saper condividere le sue gioie, le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia”. (41) Ogni forma “esteriore” di comunione risulta vana ed inutile senza una autentica “spiritualità di comunione”, capace di «fare spazio” all'altro in una costante e viva reciprocità. La stessa celebrazione eucaristica, colta da una prospettiva comunitaria, diventa il momento nodale per una rigenerazione radicale e permanente dei rapporti fraterni.
Il nuovo millennio, ricorda il Santo Padre, dovrà vederci impegnati a sviluppare ogni ambito e ogni strumento necessari a garantire e ad assicurare la comunione, il “vivere-con”, Se tale esortazione vale per ogni comunità cristiana, essa ha un valore ancora più specifico e particolare per le comunità religiose, come in più passaggi viene ricordato nel documento Congregavit nos in unum Christi amor.
Se in un lontano passato la via alla santità era soprattutto una via “individuale”, fatta di isolamento ascetico dal mondo e di mortificazioni corporali, nel corso del secondo millennio diventa sempre più nitido un nuovo modello di santità, attento alla sofferenza del prossimo e tutto imperniato sull'essere- per-l'altro.
In questa ottica si diventa santi non allontanandosi dall'altro, isolandosi da lui, sfuggendolo, ma attraverso di lui, essendo per lui. È una scelta di vita che traspare ampiamente nell'esistenza eroica di tanti Padri Fondatori, i quali hanno saputo negli ultimi secoli testimoniare l'amore e la predilezione della Chiesa per gli ultimi.
La tensione alla vita comunitaria, espressa oggi da diversi movimenti di spiritualità, le energiche esortazioni che emergono dalla lettera apostolica Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, ribadiscono l'esistenza di un terzo modello di santità. In esso la via alla santità non solo ruota intorno alla presenza dell'altro ed è scandita dall'essere per l'altro, ma soprattutto è percorsa con l'altro, in sua compagnia, insieme a lui e in comunione con lui, in un rapporto di piena e continua reciprocità.
È nota la famosa affermazione del teologo Karl Rahner, secondo cui il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. (42) L'esperienza mistica di Dio alla quale egli allude è quella che può fare solo chi ama l'altro, il suo prossimo. “Penso - afferma Rahner - che in una spiritualità del futuro l'elemento della comunione fraterna, d'una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada”. (43)
Una vita di comunione, interamente originata e alimentata dall'amore reciproco, costituisce di certo la via alla santità del nuovo millennio; la sola che possa testimoniare Cristo ad un mondo ormai divenuto "non religioso”; la sola capace di coniugare insieme l'asserzione della personalità individuale con l'appartenenza ad una comunità, di integrare armoniosamente le molteplici differenze nell'unità.
La “santità di comunione” si svela, a questo punto, non solo come una via di “riedificazione” della Chiesa contemporanea, ma soprattutto come l'unico percorso possibile attraverso il quale operare oggi quel “salto”evolutivo che permetta all'umanità di “assimilare” nella sua storia, in modo definitivo, la presenza di Cristo, l'uomo intero.
(tratto da AA.VV., Protesi verso il futuro… per essere santi, Roma 2003, pp. 105-132).
Note
(Per motivi di spazio le note sono pubblicate a parte).
di Enzo Bianchi
Il mio contributo, certo del primato dell'Evangelo, va alle fonti, alla parola di Dio, per rileggere e ricomprendere lo shalom, la pace evangelica. Per arrivare ad una visione cristiana della pace si possono percorrere due vie: la prima è quella di fare un discorso primario, diretto, senza mediazioni, un discorso che nasce solo dall'ascolto della Parola; l'altra via è quella di aprire un discorso che tenga conto dei dati biblici ma che, volendosi capace di ricezione anche da uomini non cristiani, si apra alla sapienza umanistica, cerchi un dialogo, un confronto con essi. Questa seconda via è quanto mai necessaria e urgente ed io non penso affatto a minimizzarla, tuttavia in questa occasione preferirei fermarmi alla prima possibilità, sia perché credo sia primaria ed essenziale per percorrere poi la seconda, sia perché è innanzi tutto a livello biblico che si registra una scarsità di contributi sulla pace anche nel periodo (gli anni sessanta) che vide una fecondità di interventi su questo tema; inoltre non vorrei che restassero delle diffidenze nei confronti dell'annuncio di pace biblico, soprattutto per quel che riguarda l'Antico Testamento, purtroppo così sovente ritenuto, nella storia della chiesa, fonte di teologia della guerra, almeno di quella detta «Guerra Santa».
Occorre subito fare una precisazione sul linguaggio biblico perché purtroppo il nostro termine «pace» nel linguaggio corrente risulta molto depauperato rispetto ai termini shalom dell'Antico e eirene del Nuovo Testamento. Queste precisazioni sono ovvie, ma vale la pena di ricordarle sempre perché noi siamo troppo abituati a pensare la pace come semplice assenza di guerra, come tranquillità, calma. In realtà, lo shalom biblico è molto di più, è un concetto che positivamente esprime un valore assoluto in una gamma amplissima di significati e in una dinamica che rende sovente difficile la distinzione tra la pace di Dio e la pace con Dio e quella molto più materiale tra gli uomini. Già i LXX han dovuto forzare la lingua greca nel tradurre shalom con eirene dando a quest'ultimo termine un significato più esteso, un contenuto mai posseduto dal greco. Come cogliere la portata del termine shalom non solo quale opposto di guerra (come in Qo. 3,8 shalom/milhama) ma nella fedeltà al linguaggio biblico? Vale la pena di riportare alcuni esempi presi direttamente dal testo biblico. Quando Assalonne, ribellatosi al padre Davide, cade in battaglia, dei messaggeri ne portano lanotizia. Davide, che attendeva la fine delle ostilità, domandò a quelli: «c'è pace (shalom) per il mio figlio Assalonne?». Saputo che era caduto morto, Davide piange. (cfr. 2 Sam. 18, 19-19,5). La pace allor qui non è fine delle ostilità ma è vita piena e salvezza. La pace tra Davide e Assalonne poteva giungere non con la semplice fine della ribellione, con la vittoria del re sul rivoltoso, ma con la prosperità, con la vita piena di entrambi. Ma shalom è anche salute fisica, felicità, prosperità materiale. Non solo gli ebrei si salutano con la formula shalom (cfr. Gn. 29,6; 2 Sam. 18,28) ma quando formulano una preghiera chiedono la pace, augurano la pace per una persona, per il popolo, per gli abitanti della città santa di Gerusalemme (cfr. Sal. 122,6-9; 128,2-6; 147,15-14 ecc.). In questi casi la pace è strettamente collegata con la benedizione; anzi è il segno della sua dilatazione sul popolo e sul credente insieme; non è mai un bene individuale, tanto meno un bene soltanto collegato con un'entità collettiva. È un bene promesso ai poveri, atteso dai poveri, capito dai poveri.
A volte c'è una localizzazione dello shalom biblico in un soggetto, in una persona, ma la sua destinazione è il popolo di Dio e quando lo shalom è sulla città, sulla terra, nonlo è in modo astratto, dovendo raggiungere ciascunodei credenti. Né va dimenticato che lo shalom come calma, quiete, situazione in cui si vive senza angoscia e in cui regna la felicità non èuna esperienza soltanto psicologica ma è concreta, quotidiana, integra, che tocca l'uomo biblico tutto intero. Non c'è una pace interiore, una pace spirituale senza che ad essa corrisponda un'esperienza umana nell'esterno, nel concreto, nel materiale! Perfino la situazione a volte invidiabile del malvagio che prospera, che sta bene, che soddisfa i suoi bisogni è detta shalom (cfr. Sal. 73,7 shalom reshaim).
Questa pace biblica, però, non è un'utopia, non sta in un passato perduto, ma è una possibilità che Dio offre all'uomo, è una pace nella storia! Essa fa parte, dunque, dell'annuncio profetico e non è accessoria rispetto all'annuncio del Dio unico e fedele, il Dio dell'Alleanza fatta in ogni carne. Quest'alleanza sarà sempre alleanza di Pace (berit shalom) mentre la sua rottura significherà morte, distruzione, desolazione. Non han forse ragione gli esegeti nel tradurre shalom quando esso appare col suo più pieno significato con il termine salvezza? Frutto e risultato dell'Alleanza con Dio è la salvezza, è la pace, rapporto di riconciliazione e di scambio tra i credenti del patto, in cui Dio dà ciò che possiede: la vita, la gioia, la pace, la salvezza!
Il criterio ermeneutico per cui pace e salvezza sono sinonimi ci è fornito dal grande annuncio dell'evangelo in Is. 57,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene, ché annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio!» e ancora in Is. 54,10: «La mia grazia non ti abbandonerà e il patto della mia salvezza (berit shalom) non vacillerà!». L'annuncio della pace è dunque annuncio della buona notizia, dell'evanghelion, riservato ai poveri. Quando Dio regna, quando il suo regno viene tra gli uomini, allora si manifesta la pace! Luca 4,18: «ai poveri un lieto messaggio (evanghelion)» è l'annuncia della pace. Per questo chi annuncia il regno, annuncia la pace, chi mostra di essere sotto la signoria di Dio si mostra servo e artefice della pace, chi accoglie il Regno di salvezza accoglie la pace.
A questo punto se noi dovessimo fare la storia della pace nella rivelazione dovremmo percorrere tutta la storia di salvezza. Mi limito, dunque, a fissare alcuni rapporti che servano di riferimento essenziale ad un discorso biblico.
Pace e violenza
Di fronte allo shalom, alla pace veterotestarnentaria non sta la guerra (milhama) ma la violenza (hamas). La guerra è una delle forme che minacciano la pace, è il pericolo più grande e manifesto, ma ve ne sono altrianaloghi e tutti possono convergere nell'espressione hamas indicante la violenza essenziale, radicata nel cuore dell'uomo ma capace di ferire tutto l'ordine di relazioni tra gli uomini, tra l'uomo e le cose, tra l'umanità e Dio. Non dimentichiamo che il messaggio biblico ci proviene proprio da un ambiente di violenza, il Medio Oriente, dove la storia è fatta di guerre, di rivoluzioni, di invasioni e dove sovente la violenza è legalizzata, eretta a sistema. L'esperienza di Israele si colloca in questo spazio, anzi la nascita stessa di Israele e della sua coscienza di popolo avvengono nella violenza patita nella schiavitù egiziana. Una delle prime domande che si pone il credente israelita è proprio questa: dadove viene la violenza? Chi l'ha introdotta nel mondo? Perché il rapporto personale tra uomo e uomo è minacciato dall'odio e dalla violenza? La risposta è formulata a più riprese e in forte crescendo nei primi capitoli della Genesi.
C’è una violenza primaria insediata nel cuore dell'uomo che si manifesta addirittura nell'immagine e nella somiglianza di Dio ormai perduta, nell'Adam maschio e femmina. Il rapporto stesso uomo e donna è minacciato dal dominio, da un atteggiamento di violenza, e questo per una presa di posizione di entrambi nei confronti di Dio. Le scelte dell'uomo non sono mai concluse e irrelazionate nella sfera umana ma sono inerenti al rapporto con il Creatore (cfr. Gn. 23,24). La storia di Caino e di Abele è una risposta successiva. La relazione tra uomo euomo, la relazione profonda tra fratelli, si spezza per una rivalità, una lotta. Caino agricoltore e Abele pastore impersonano due condizioni sociali tra cui scoppia la violenza. Caino fa il sacrificio a Dio separato da quello di suo fratello, si separa nel riconoscimento dell'Unico Creatore e nella sua libertà uccide il fratello. Il monoteismo non poteva essere che una fraternità; spezzata questa fraternità, appare l'omicidio (Gn. 4, 3-16) La violenza si espande vertiginosamente e si costruisce sulla crudeltà e sulla vendetta. Lameck può cantare: «Ho ucciso un uomo che mi aveva graffiato, un ragazzo per un mio livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, io Lameck, settantasette» (Gn. 5,23-24). Dal rifiuto di Dio cresce la violenza e si estende a tal punto che «la terra era corrotta e piena di violenza» (Gn. 6,11). Dio, frustrato nella suaqualità di creatore, constata che la terra «per causa degli uomini erapiena di violenza» (Gn. 6,13), che conil suo male poteva solo meritare il diluvio.
Dio però non accetta che questa violenza separi per sempre l'uomo da Lui e ricompare la pace con la nuova umanità sfuggita al diluvio. Dio si vincola all'uomo, a ogni carne, e gli garantisce la salvezza attraverso l'alleanza. In questa alleanza cosmica Dio non chiede altro che il rispetto della vita dell'uomo: «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello!» (Cfr. Gn. 9,5). Così Dio non abbandona l'umanità omicida a se stessa ma ascolta il grido di quelli che patiscono violenza, si china su di loro e promette pace, salvezza.
Anche nell'alleanza mosaica al Sinai, alleanza con cui Dio si sceglie un popolo tra tutte le genti, una delle clausole del patto è: «Tu non ucciderai» (Es. 20,13), formula categorica senza repliche né eccezioni. L'israelita non dovrà esercitare la violenza, dovrà invece, attraverso l'osservanza dei Comandamenti, creare una situazione di vita sociale e familiare in cui la violenza non abbia spazio per introdursi. Non esiste nell'Antico Testamento nessuna giustificazione per la violenza e quando si prescrive quel famoso codice del taglione (Es. 21,23-24) in realtà si cerca di arginare la violenza, di metterle un limite, affinché non si estenda come nel caso di Lameck e di tutta l’esperienza medio-orientale antica. Anche le guerre di conquista della terra da parte di Israele sono narrate non come resoconto di guerre storiche ma come un preludio del giudizio delle Nazioni alla fine del mondo.
grande messaggio deuteronomistico Dio mette davanti lo shalom e la violenza, la benedizione e la maledizione, la vita e la morte. Ora qui è evidente (basta leggere il capitolo 28 del Deuteronomio) che la pace, lo shalom, faparte della costituzione di Israele. Ciò che Dio enuncia sotto forma di benedizione è esattamente la definizione piena della parola pace, shalom. Questo significa che la violenza può solo sorgere per libera scelta dell'uomo che percorre le vie dell'infedeltà a Dio e alla sua legge. La guerra sarà nient'altro che una delle punizioni per l'infedeltà: «Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica... io metterà pace nel Paese: nessuno vi incuterà terrore e la spada non passerà per il vostro Paese (Lv. 26,3.6) ma se non mi ascolterete e non metterete in pratica tutti questi comandi... manderò contro di voi la spada vindice della mia alleanza» (ib. v. 14; 25). Le vie della pace sono dunque praticabili, la violenza, le guerre non sono un fato ineluttabile che pesa sugli uomini: Israele sa e annuncerà che la pace è una possibilità per l'uomo che rimane in alleanza con Dio.La pace dono di Dio
insieme viene data anche la pace con Dio, la riconciliazione con il Signore. È qui che si misura la portata teologica e religiosa della pace! Ed è proprie questa qualità della pace che è testimoniata in una singolare espressione del Salmo 85,9; 11: «Il Signore annuncia la pace per il suo popolo, i suoi fedeli. Si incontrano amore e verità, si baciano pace e giustizia». Può essere per noi scandaloso ma nella Bibbia la parola pace, pur essendo anche impegno umano è essenzialmente dono di Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi, per il quale l'uomo può predisporre situazioni, per il quale deve invocare il Signore ma in definitiva quando le aspirazioni degli uomini alla pace. Sono corrisposte, ciò appare sempre come dono di Dio.Lo shalom non nasce da un regolamento internazionale dei conflitti né dalla coesistenza pacifica perché la pace è nella storia ma non è della storia è nel mondo ma non è del mondo. Noi siamo portati a pensare che essa possa nascere da un'evoluzione di fattori storici, di cause interne al mondo ma non è così. Potrebbe anche darsi che un'evoluzione, un nuovo ordine politico internazionale, un ulteriore sviluppo dei rapporti tra le nazioni possa offrire dei mezzi diversi dalla guerra per la risoluzione dei conflitti ma noi per questo cesserebbe la violenza e forse assisteremmo, e già vi assistiamo, al sorgere di vinti e vincitori senza che si siano prima schierati degli eserciti e si siano messe in moto le macchine micidiali della guerra atomica. La guerra non è che un aspetto del confronto crudele e violento tra i poteri. Questa illusione di pace infraumana l'aveva già avuta come tentazione Israele quando pensò che avere un re significasse garantirsi la pace. In nome dell'ideologia monarchica dominante Israele avrà un re, ma il profeta non attenderà mai la pace da lui! Il profeta ammonisce che «il re non dovrà avere un gran numero di cavalli, né dovrà accrescere la sua cavalleria, la sua armata» (cfr. Dt. 17,16; 1 Sam. 8,11-18) ma a questo programma il re non si atterrà e non sarà mai degno di essere un ministro di Dio.
Neanche Davide sarà degno di edificare un tempio al Signore avendo guerreggiato durante la vita e avendo sparso il sangue davanti a Dio sulla terra. Solo il re pacifico, solo Melkisedeck Re di Salem, solo il Sommo Sacerdote Gesù saranno degni di edificare al Signore una vera dimora tra gli uomini (cfr. 1 Re 5,17; 1 Cr. 22,7; 10; Eb. 7,1-28). Neanche Davide, avendo usato violenza, può rappresentare interamente la missione religiosa di Israele. La pace che annunciano i profeti quale menuha, riposo gioioso e pacifico, dono storico e salvifico ad Israele e in particolare ai poveri, agli umili, ai curvati (anawim) di quel popolo verrà solo da Dio; a tal punto che i profeti attendono questo dono da un bambino appena nato, il cui nome è principe della pace (per shalom) e nel cui regno la pace non avrà fine. Sarà lo zelo del Signore Shevaot a fare questo (Is. 9,5-6) con un intervento diretto, divino! In quei giorni la parola del Signore, il devar Adonai, parola-evento, farà sì che gli uomini «forgeranno le loro spade in aratri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is. 2,4).
Cosa devono fare allora gli uomini? Non restare passivi ma salire verso Gerusalemme, visione di pace, camminare nella luce del Signore, ascoltare e mettere in pratica la sua parola. La pace, lo shalom, dipende da questo, non da uno sforzo umano che vorrebbe procurare la pace a partire dalla volontà, dalle operazioni umane. Appare chiaro a questo punto che la pace è una persona, il Messia, l'Emmanuele, il Dio-con-noi! ed è una pace non solo per Israele, ma una pace internazionale, tra tutti i popoli, tutti i figli di Adamo, una pace cosmica che riconcilia il Cielo e la Terra, la Creatura e il Creatore. È una pace in cui i nemici storici di Israele, i grandi imperi di Egitto e di Assiria, saranno solo popoli accanto a Israele, una benedizione in mezzo alla terra e saranno benedetti dal Signore quali popoli che gli appartengono (Is. 19,23-25). Il Messia è dunque la pace e la pace è l'opera del Messia il quale «toglierà i carri da guerra da Efraim, i cavalli da Gerusalemme e farà sparire l'arco da guerra. Egli annuncerà la pace alle nazioni e il suo regno si estenderà dall'uno all'altro mare...» (Zac.2,10). Egli apparirà «giusto e vittorioso, cavalca sopra un asino e sopra un asinello» (Zac. 9, 9-10). La pace allora non può essere altro che dono non utopico ma profetico, non atemporale ma storico, non celeste ma nel mondo. I poveri: i soli soggetti ad annunciare la pace.
Gli uomini che vogliono farsi annunciatori di questa pace non potranno fare altro che adottare, in tutta la storia di Israele e poi nella storia cristiana, i metodi e le qualificazioni della pace messianica: essi dovranno essere operatori di pace nella mitezza e non nella violenza, nella debolezza non nella forza, nella povertà non nel possesso, nel servizio non nel potere. Se un credente annunciasse una pace diversa da questa non sarebbe altro che un banditore di pseudo-profezie. È chiaro percepire come sia più facile, più realistico per un cristiano che si crede capace di dialogo umanistico con gli uomini indicare altre vie di pace, ma questo sarebbe un annuncio falso. Anche per il popolo di Dio ci fu la tentazione di ascoltare questi profeti chiamati tecnicamente «profeti di pace» (hannavi asher jinnave leshalom: Ger. 28,9). Essi annunciano la pace a basso prezzo, la collocano nelle alleanze e nei trattati internazionali, la ricercano presso i potenti regni vicini di Israele, la proclamano in una situazione di ingiustizia che non può lasciare spazio all'autentico shalom. Costoro che «hanno visioni personali di pace» (Ez. 13,16), che gridano pace, pace quando pace non c'è (Ger. 6,14) peccano non tanto nel promettere la pace (anche i profeti autentici la promettono!) quanto nel cercarla e dichiararla trascurando il peccato, non discernendo il giudizio di Dio, non attendendola da lui come dono (cfr. Is. 6,13 5.; Ger. 14,13 e 26,16, 28; 1Re 22,5 Mi. 3,5 s.).
Purtroppo quanti ministri di falsa pace, obbedienti allo pseudos della profezia, sono ancor oggi numerosi tra i cristiani e sovente sono tali in buona coscienza e con retta intenzione. Ma costoro che ingannano il popolo dicendo: pace! pace! e pace non c'è! «hanno avuto visioni false, hanno detto parole del Signore mentre il Signore non li ha inviati» (Ez. 13,6).
Pace e giustizia
Se è vero che la pace è un dono di Dio e non un problema tecnico, funzionale, intramondano, è pur vero che esistono delle condizioni per la pace. Ma guai a noi se cercassimo ancora una volta di mettere noi queste condizioni, di essere noi a determinarle con le nostre forze! Di nuovo restiamo scandalizzati perché vorremmo essere protagonisti e artefici della pace, armati della sola volontà di pace. Ma la parola di Dio ci svela che queste nostre paci sono tutte fittizie essendo la pace strettamente legata alla nostra condizione di giustizia. Ma quale uomo è giusto se Dio non lo previene con il dono della sua sedaga? Per la Bibbia l'ingiustizia è misconoscimento di Dio, è generata dall'idolatria, mentre la giustizia è legata alla conoscenza di Dio (daat Ihwh). Quando i profeti con le loro invettive e minacce attaccano i ricchi, i nobili, i prepotenti, gli oppressori, i gaudenti, non si fermano mai nello spazio dell'etica e della morale ma denunciano la radice dell'ingiustizia che sta nell'errato atteggiamento verso Dio. La conoscenza di Dio non determina soltanto l'atteggiamento intellettuale dell'uomo ma tutto il suo operare, il suo stare nella società umana.
È significativa a questo proposito la minaccia di Geremia verso il re Joakim che costruiva case sontuose facendo lavorare il prossimo senza pagare il salario per il lavoro compiuto. Geremia lo condanna facendo il confronto con il padre, il quale «mangiava e beveva certo, ma praticava il diritto e la giustizia e c'era pace. Questo non significa conoscermi?» (Ger. 22,15-16). La pratica della giustizia, la liberazione dell'oppresso mostrano la conoscenza di Dio e portano la pace. Ma se tale conoscenza di Dio non c'è, se c'è idolatria, allora la pace non è possibile perché la giustizia è infranta. L'uomo deve essere integrato nella conoscenza di Dio se vuole essere un operatore di giustizia e avere il dono della pace, non in virtù di una disposizione arbitraria ed estrinseca, ma in virtù del legame che vi è tra i differenti aspetti della stessa realtà storica. La pace esige di fatto un uomo nuovo, un uomo rifatto da Dio.
Israele capì questo dopo la distruzione di Gerusalemme, l'olocausto, la distruzione dei tempio, la deportazione a Babilonia. Geremia, Ezechiele e il terzo Isaia saranno i profeti che aiuteranno il popolo a capire questo legame inscindibile tra pace e giustizia. La morte, la devastazione sono diventate ineluttabili a causa dell'ingiustizia di Israele ma Dio promette un cuore nuovo, un'alleanza nuova, una nuova legge inscritta nel cuore in una economia che non prevede più l'assoluta fedeltà di Israele ma soltanto l'assoluta fedeltà di Dio (Ger. 31,31-33). L'uomo nuovo con un cuore di carne (Ez. 36,25 s.), munito di un nuovo spirito, abbandonando l'idolatria e l'ingiustizia, troverà lo shalom che verrà esteso a tutti i popoli pagani che riconosceranno il Signore, anche all'Egitto (Is. 19,21). Le nazioni fatte discepole del Signore avranno abbondanza di pace perché nell'osservanza della volontà del Signore meriteranno la pace. La pace sarà opera della giustizia, frutto della giustizia sarà la tranquillità e la fiducia per sempre (Is. 32,17) e sulla terra «giustizia e pace si baceranno perché verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal Cielo» (Sal. 85,11-12).
Solo nella conoscenza di Dio «la tua pace diventa come un fiume e la tua giustizia come onde del mare, dice il Signore» (Is. 48,18) e Gerusalemme sarà fondata sulla giustizia (Is. 54,14) avendo per sovrano la pace, per governatore sedaga (Is. 60,17). Il credente non dovrà mai darsi pace finché non sorga la giustizia come stella sul popolo di Dio (Is. 62,1): una giustizia vista da tutti i popoli come dono dell'Amante all'Amata, elargizione della sua santità, della sua fedeltà, della sua misericordia che salva in radice l'uomo e il popolo. Noi siamo tentati di dire che la Pace è possibile solo quando esiste la giustizia intersoggettiva tra le componenti sociali, nazioni o persone: questo è vero in una certa misura ma non dobbiamo pensare che la pace sia dono alla nostra giustizia perché è già dono questa stessa possibilità di giustizia, la giustizia di Dio!
Pace e vangelo
Il Nuovo Testamento non aggiunge un'ulteriore rivoluzione a questa pace veterotestamentaria che abbiamo delineato in alcuni punti focali. Il Nuovo Testamento proclama semplicemente che questa pace è in atto dal momento in cui Dio ha visitato il suo popolo «guidando i nostri passi sulla via della pace» (Lc. 1.79). L'intervento di Dio teso a evangelizzare la pace è diventato definitivo attraverso Gesù di Nazareth perché intervento messianico. Quando il bambino principe della pace ci è stato dato a Betlemme, gli Angeli non possono far altro che annunciare la pace agli uomini oggetto della benevolenza divina (Lc. 2,14) e quando Gesù appare ad annunciare il Regno di Dio, annuncia la realizzazione possibile della pace nella sua signoria. Dunque il Vangelo non è altro che annuncio della pace compiuta in Cristo, pace resa possibile dalla presenza in mezzo agli uomini del Figlio di Dio. Con la sua morte in croce, subendo la violenza che il mondo intero scaricava su di lui, Gesù effondeva il suo spirito che è spirito di pace «distruggendo in sé l'inimicizia, abbattendo il muro di separazione che teneva separati giudei e pagani, creando un uomo nuovo» (Ef. 2,13-18).
La pace ormai è Cristo, è Gesù di Nazareth, è quella parola che Dio ha mandato ai figli di Israele per evangelizzare la pace! (At. 10,36). La pace dono di Dio; la pace legata alla giustizia, la pace messianica non è solo annunciata ma è donata, lasciata ai discepoli di Cristo risorto che si presenta con il saluto della pace: «Pace a voi» (Lc. 24,36; Gv. 20,19 s.). Ma Gesù non è solo portatore di pace, anzi proprio perché porta la pace autentica, prima è anche portatore di divisione, di spada: è segno di contraddizione (Lc. 2,31-34; 12,51; Mt. 11,12). Egli non può essere uno di quei profeti di pace e per questo richiede ai discepoli una violenza contro le loro membra (Mc. 8; 9,42-48), contro la loro vita (Mc. 8,34-36) contro i loro possessi (Mc. 10,29-30). Come lui è entrato nella pace di Dio dopo un aver sofferto la morte, il discepolo che non è più del maestro deve entrare nella volontà del Padre attraverso il carico della propria croce, luogo di violenza, patibolo reale; questo ci scandalizza ancora di più che l'annuncio della pace veterotestamentaria e dobbiamo confessare che come cristiani abbiamo sovente un concetto errato della pace evangelica.
Ha pace chi entra in comunione con Dio, chi accetta di essere amato da Dio, chi confessa realmente Gesù come Signore e lo attende come il Veniente, Colui che mette fine alla scena di questo mondo per aprire Cieli nuovi e Terra nuova. Solo chi sa di essere stato amato da Dio quando gli era ancora nemico e riconosce quest'amore nella Croce di Cristo (Rm. 5,10) sa distinguere la pace del mondo dalla pace dono di Dio del Messia (cfr. Gv. 14,27). Se il discepolo ha accolto questa pace può e deve proclamarla come primo annuncio, deve farsi messaggero del Vangelo: «Pace a questa casa» (Lc. 10,5-7) e può soprattutto mostrarla, farsi esegeta dello shalom nella vita concreta, nella compagnia degli uomini. Possedendo il Regno di Dio pur nella povertà, nell'afflizione, nella fame e nella sete di giustizia, resterà mite, misericordioso e sarà operatore di pace, un figlio di Dio! (Mt. 5,3-10). È vero che Gesù non porta nessun cambiamento delle forze storiche, ma dà ai poveri, agli umiliati, una potenza che sta tra le componenti della storia: è una potenza disarmata, una violenza dei pacifici che è però efficace. Questi poveri che sono la chiesa autentica dovranno amare i nemici, fare del bene ai delinquenti e perdonare settanta volte sette, quante le volte della vendetta di Lameck che è presente in ogni generazione umana. Costoro, sull'esempio di Gesù, non ricorreranno alla forza, non useranno la spada, non impareranno l'arte della guerra, non si difenderanno. Sono infatti seguaci di un Signore che è Agnello sgozzato ma ritto in piedi, vincitore del male.
È questo il luogo in cui si verifica la fedeltà della chiesa al Signore, il luogo in cui noi possiamo misurare la nostra qualità di discepoli! L'unico modo per vincere la violenza non sarà mai quello di difenderci o di prepararci a fare una violenza difensiva. Il cristiano dovrebbe avere un tale orrore delle armi da non dare mai il suo contributo per la corsa folle agli armamenti, per l'installazione di missili che vorrebbero difendere la pace. È una vergogna questa nostra timidezza in questi giorni e si può solo comprendere se sappiamo vedere tutta l'ambiguità della nostra martyria di pace nel quotidiano, nella vita di ogni giorno, fraterna, sociale, politica. Il cristiano sa che questo fa parte della scena del mondo che passa e per questo deve uscire in fretta dal sistema della violenza inserendosi nell'economia della pace messianica. Di fronte alla guerra, alla violenza, il cristiano deve fare un discernimento e, sapendo che il mistero di iniquità è in atto nella storia umana (2Ts. 2,7), non aggiungere la voce a quanti dicono: «pace e sicurezza» come se il mondo di per se stesso potesse giungere alla pace (cfr. 1Ts. 5,3).
Di fronte alla violenza subita il cristiano non può far altro che diventare ministro del perdono di Dio: questa è la sua iniziativa di pace che immette nella storia energie divine, forze messianiche capaci di vincere il male con il bene (Rm. 12,14). Forse in questo caso il cristiano rischia di vedere elevarsi contro di se tutto l'odio del mondo, può anche essere ucciso, perseguitato, ma sarà colui che non ha adorato né la bestia né la sua immagine (Ap. 20,4). Il Regno di Dio consiste nella pace portata da Cristo al mondo, ma pegno e anticipazione profetica di questa pace dobbiamo essere noi cristiani, la chiesa, noi portatori della pace di Cristo nella compagnia degli uomini.
di Dom Bernardo Olivera, abate o.c.s.o
Abate Generale dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza
INTRODUZIONE
Ancora una volta vorrei dare un contributo antropologico nel contesto della nostra formazione monastica. L’uscita di una mezza dozzina di giovani monaci adulti negli ultimi due anni mi ha tatto pensare. In quasi tutti i casi, c’è stato un paio di dati in comune: la scoperta dell’amore umano incarnato in una donna concreta e la relativizzazione totale di tutto ciò che era stato vissuto precedentemente. Sembra che la scoperta dell’amore umano abbia fatto diventare irreale la ricerca monastica di Dio.
Ovviamente, non si tratta ora di mettere in discussione la vocazione di questi giovani; si tratta, piuttosto, di interrogarci sulla formazione che abbiamo offerto loro. Alcune domande pertinenti potrebbero essere le seguenti: su quali basi umane è stato costruito il grattacielo spirituale? Che tipo di antropologia stava alla base, era il presupposto del processo formativo? Siamo convinti che la grazia edifica sulla natura? Favoriamo forse delle dicotomie, pur affermando il contrario? Perché le giovani monache non fanno esperienze simili? Forse le donne sono più realiste, anche se noi, uomini, siamo più carnali? Reprimiamo la dimensione istintiva per privilegiare quella razionale? Diamo gran valore a ciò che è spirituale a detrimento di ciò che è corporale? Continuiamo a leggere come allegorie i testi biblici sull’amore, svuotandoli del loro spessore umano? Coltiviamo il senso di appartenenza alla comunità? E si potrebbe continuare così, con altri interrogativi analoghi.
Non è mia intenzione rispondere direttamente alle questioni che ho appena suggerito. Tuttavia, i paragrafi che seguono offriranno qualche abbozzo di risposta, Il tema che tratteremo può essere formulato con queste parole: «Annotazioni antropologiche sul desiderio a servizio della formazione monastica». Tratterò quindi il tema in una forma parziale ed incompleta (si tratta si semplici «annotazioni») e il mio approccio sarà principalmente antropologico, pur senza dimenticare che l’antropologia cristiana trova il suo significato proprio e completo nell’ambito della teologia.
Il seguente testo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica mi è servito da ispirazione e sarà utile come punto di partenza:
Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha iscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo, Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in Lui quel/a pienezza di verità e di felicità che cerca senza posa. Per natura e per vocazione, l’uomo è pertanto un essere religioso, capace di entrare in comunione con Dio, Questo intimo e vitale legame con Dio conferisce all’uomo la sua fondamentale dignità (cap. I,2).
Questo testo del magistero pone il desiderio in stretta relazione con l’immagine di Dio nella creatura umana; il desiderio fontale o strutturale spinge la creatura alla ricerca della pienezza del Creatore e fa di lui un essere religioso e degno.
Non è necessario dire che questo testo del Catechismo affonda le sue radici nella tradizione agostiniana. Effettivamente, come non ricordare queste celebri parole del Santo dì Ippona: «Ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (5. Agostino, Confessioni 1,1.1). La Regola di Benedetto e gli scritti di San Gregorio Magno furono gli strumenti principali attraverso i quali, nel corso del Medio Evo, venne trasmessa la spiritualità agostiniana ai monasteri d’Occidente. Questa è la linfa che nutre e dà vigore alla nostra tradizione cistercense, Bernardo di Chiaravalle trova qui il fondamento della sua dottrina spirituale.
Il tema del desiderio occupa un posto centrale nell’antropologia cistercense. Il linguaggio mistico dei nostri Padri esprime e manifesta l’esperienza del desiderium. Cinque termini fondamentali si riferiscono ad essa: desiderium, affectus, amor, caritas, contemplatio, nuptiae. Inoltre, Bernardo utilizza diversi sinonimi nei suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici, ad esempio: suspirare (sospirare, 59,4), appetire (desiderare, 47,5), sitire (avere sete, 7,2), sospendere (essere sospeso, 172), clamitare (chiedere a grande voce, 74,7), se afflictare (affliggersi, 31,5), inhiare (anelare, essere a bocca aperta per l’avidità, come un uccellino che aspetta il cibo da sua madre 28,13), deficere (venir meno, 28,13), fIere (piangere, 58,11). Tutto ci dimostra l’importanza del tema e costituisce un altro motivo per riflettere su di esso nell’oggi in cui viviamo.
Inizieremo consultando la rivelazione biblica, per indicare il posto centrale che occupa i[ desiderio nell’antropologia ebraico-cristiana. Considereremo quindi l’etimologia del termine, i suoi paradossi e l’onnipresenza del desiderio nell’esperienza umana, in modo speciale nella sessualità, nella religione, nella psicologia e nelle culture. Concluderemo con alcune riflessioni sulla relazione del desiderio con la virtù teologale della speranza. Ad ogni punto, cercherò di trarre delle conclusioni e di sottolineare alcuni aspetti in rapporto alla formazione monastica.
1. Desiderio e immagine e somiglianza
Nell’antropologia biblica, troviamo un termine che riveste una importanza fondamentale per capire l’esperienza umana del desiderio. Questo sostantivo appare fin dalle prime pagine della Bibbia: Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne una nefesh vivente (Gen 2,7).
Una semplice consultazione dei dizionari e degli studi di teologia biblica dell’Antico Testamento dimostra che nefesh ricorre circa 754 volte nella Sacra Scrittura, con un’amplia gamma di significati: alito, soffio, anima, vita, gola, appetito, desiderio, essere vivo, vita, persona. Per quanto ci interessa, basterà dire che può indicare:
- Un organo fisico-corporeo che permette di respirare o inghiottire: la gola, il collo (Is 51,23; Sal 69,2; Pr 3,22; 25,25), la bocca (Is 5,14; Pr 28, 25), e perfino lo stomaco (Is 29,8; Pr 6,30; Sal 107,9).
- La funzione fisiologica relazionata con tali organi: la respirazione (Gen 35,18; Lam 2,12; Gb 11,12), la sete (Sal 78,18; Pr 16,26), la voglia di cibo (Dt 23,25; Pr 12:10; Sal 106,15).
- In senso traslato, la tensione della brama o del desiderio (1Sam 20,4; Pr 19,2; Sal105,22).
Questo vuol dire che nefesh può essere utilizzato anche per designare l’uomo vivente come essere di desiderio, strutturato verso la relazione con l’altro/Altro per la realizzazione di se stesso. In questo senso potremmo tradurre liberamente il testo di Gen 27 nel modo seguente: e l’uomo divenne un desiderante vivo. Quando l’amata del Cantico parla dell’amato come dell’amore della mia anima, è come se dicesse: colui che è desiderato dai miei desideri! (Cf 1,7; 3,1-4; cf. è,6; 6,12). Leggiamo anche nel Salmo 130,6: la mia anima (la mia nefesh) è protesa verso il Signore come le sentinelle verso il mattino. In altre parole: la struttura della mia persona in quanto essere di desiderio è orientata verso Dio, come la sentinella che attende l’aurora (Cf Sal 42,2.6.12; 43,5).
Come abbiamo appena visto, il termine nefesh viene tradotto a volte anche con anima, vita o anche con un pronome personale; difatti, quando è utilizzato in relazione con i sentimenti, indica globalmente il centro vitale della persona: il suo sentire, il suo reagire ed anche il suo decidere (Gdc 18;25; 2 Sam 5,8; 17,8; Is 19,10; 38,15; Pr 11,25; 14,10; Ger 42,21; ecc.).
Questa dottrina biblica è stata assunta da S. Agostino, che afferma: il desiderio è il seno del cuore (Confessioni, 10,8). Alcuni filosofi moderni si pongono nella stessa ottica, uno di essi non esiterà ad affermare: il desiderio è l’essenza dell’uomo (Spinoza, Etica, IV, 18).
A partire da questo desiderio fontale e strutturale, noi, esseri umani, viviamo desiderando e moltiplicando desideri, I nostri desideri risvegliano tutta una costellazione di sentimenti: viviamo desiderando e sentendo. Questa realtà così fondamentale del nostro vivere umano deve occupare un posto privilegiato nei nostri programmi di formazione monastica. Il monastero sarà una scuola di carità nella misura in cui saprà educare i desideri e ordinare gli affetti.
2. Etimologia e significato
Un essere umano si comporta come tale quando funziona in forma «desiderante», affettiva, volitiva, cosciente ed intelligente. Cioè, il desiderio, l’affettività, la volontà, la coscienza e l’intelligenza sono le funzioni psichiche fondamentali del comportamento di un essere umano, uomo o donna. Il desiderio è una struttura di base, prima di differenziarsi in desideri diversi. Questo desiderio fontale soggiace alla nostra affettività e alla nostra volontà, Ma che cosa ci insegna l’etimologia del sostantivo desiderio rispetto all’esperienza indicata dallo stesso termine? Tra le diverse possibili etimologie, mi soffermo sulla seguente. La parola «desiderio» deriva dal latino: de-siderare, che si compone di una particella privativa (de) e di un derivato verbale (da sidus-eris: stella), da qui si ottiene: sentire la mancanza di una stella.
La cultura cinese c’i insegna anch’essa qualche cosa di interessante a questo proposito. Il termine «speranza» (wang, in mandarino) si scrive con un ideogramma composto da due parti. Nella parte inferiore, un uomo in piedi su una piattaforma, guarda verso l’alto; nella parte superiore: la luna crescente. Questo vuoi dire che la speranza viene rappresentata mediante un essere umano che attende e desidera che giunga la luna piena. Questo stesso ideogramma, in giapponese, è usato in riferimento al desiderio (nozomi) e alla tensione del desiderio (nozomu).
Quando dunque parliamo di desiderio, ci esprimiamo metaforicamente e ci riferiamo al movimento verso qualche cosa o verso qualcuno assente, che si mostra ed è percepito come buono ed attraente. Più in particolare, il desiderio implica un sentimento di assenza, di ricerca di ciò che è assente, un trattenere l’assente reso presente e un nuovo sentimento di assenza per l’insoddisfazione di quanto che si trattiene nel presente. Bernardo di Chiaravalle descrive concisamente questa esperienza del desiderio: tutti gli esseri dotati di ragione, per tendenza naturale, sempre aspirano a ciò che loro sembra migliore, e non sono soddisfatti se manca loro qualche cosa che considerano migliore (Dil, 18).
Da quanto abbiamo detto finora si può dedurre una lezione importante per il processo di maturazione personale. Solamente quando riconosciamo la nostra «carenza» strutturale possono emergere il mondo e gli altri in quanto diversi e con tuffo il loro potenziale di significato e di missione da compiere.
L’accettazione della mancanza e dell’assenza, con la solitudine esistenziale che ne consegue e che ci caratterizza come esseri umani, è un requisito imprescindibile per stabilire relazioni con gli altri. Difatti, solo quando riconosciamo di essere persone carenti può emergere l’altro in quanto altro e divenire compagno. Per nessuno, noi siamo tutto, e nessuno può essere tutto per noi. Questa è una condizione perché possano esserci: la coppia, l’amicizia, la fraternità, la comunità e la solidarietà. Ma sempre ci sarà una distanza, una separazione e una differenza costitutive. Tutto è presenza e assenza, anche nella comunione più intima.
Quando il nostro desiderio è stato configurato e delimitato dalla separazione, dalla differenza e dall’assenza, si potrà evitare questa triplice tentazione:
- La fusione con l’altro/a che finisce con distruggere l’amore: un rischio abbastanza comune nel processo della formazione monastica iniziale.
- La cosificazione dell’altro/a a servizio di sé: un rischio possibile per i superiori/re carenti di una sufficiente maturità umana.
- L’autoeliminazione a servizio di quello si suppone sia il desiderio dell’altro: un rischio di non poche giovani in formazione, che cercano di compiacere alle loro formatrici.
3. Paradossi e dimensioni
Il desiderio è una realtà paradossale e onnipresente nella nostra vita umana. Ci pone in movimento e in ricerca a partire da una mancanza e da una insoddisfazione. Desiderare è riconoscersi incompleti, in uno stato di carenza ed in presenza di qualche cosa di assente il cui possesso appare come una soddisfazione o un piacere. Da qui deriva una conseguenza importante: ogni desiderio risveglia dei sentimenti; sotto la riattivazione dell’affettività soggiace il desiderio.
3.1. Paradossi
Qualcuno ha affermato che, a causa del desiderio, viviamo un certo disagio o ansia e, di conseguenza, questa esperienza di disagio sta alla base di ogni attività umana. Ma qualcun altro ha risposto: se non abbiamo qualcosa da desiderare, saremo felicemente dei disgraziati. Molti paradossi del desiderio sono diventati sentenze o massime popolari, ad esempio:
- Non pretendere che le cose siano come vorresti, desidera che siano come sono.
- Se tu potessi soddisfare la metà dei tuoi desideri, raddoppieresti le tue inquietudini.
- Quanto più desideri tanto più senti la mancanza.
- È più stimolante un desiderio impaziente che essere saziati di piacere.
- Una felicità difficile da raggiungere, la si gode il doppio.
- Il desiderio diminuisce quando abbondano le occasioni e le facili soddisfazioni.
- Il molto diventa poco quando si desidera un po’ di più.
Ci angustiamo di fronte alla possibilità dell’insuccesso: possiamo fallire e non raggiungere quello che vorremmo. Ma può succedere il contrario. Tuttavia, tra il nostro desiderio e la sua realizzazione si dà una grande distanza: le nostre realizzazioni sono di solito corte, in confronto alle nostre speranze. Nulla ci colma pienamente, la sazietà è fugace, il desiderio ci lascia al di qua di quello che desideriamo, il desiderio ci lascia sempre affamati: un milione di baci non spegne il desiderio di baciare! Il desiderio sembra saziarsi soltanto di infinito e di eternità.
Se il fine del desiderio fosse [lasciarci in] una penosa insaziabilità, il mondo e noi, creature umane, saremmo un assurdo e un senza senso. Per questo è necessario non dimenticare mai che il desiderio ci permette di vivere e ci trasforma in esseri di speranza. L’attesa e la speranza sono esperienze vissute, radicalmente umane: se sono proteso nella speranza, sono vivo. In definitiva, il desiderio ci espone non solo all’angustia ma anche e soprattutto alla speranza.
Il desiderio invita a uscire da se stessi, pone in contatto con gli altri, mette in relazione. È esperienza di incompiutezza e di limite, ma anche possibilità di essere più e meglio. Mettendoci in rapporto con gli altri, il desiderio permette a noi di porci come soggetto: Io sguardo dell’altro risveglia il mio proprio sguardo. Fare attenzione ai nostri desideri ci permette di conoscere noi stessi per dire chi siamo. Abbiamo qui un compito fondamentale nel processo di formazione, soprattutto nella tappa iniziale: verifica che cosa e chi desideri, e saprai chi sei.
È vero che il desiderio ci mette in movimento e alla ricerca di qualcosa o di qualcuno di cui avvertiamo la mancanza: crea una tensione verso qualcosa di più. Ma questo «di più», in ultima istanza, lo possiamo ricevere soltanto come dono e regalo. Per questo, il desiderio è anche spazio, apertura, accoglienza del dono e, soprattutto, accoglienza di colui che dona.
È anche vero che, tra i paradossi del desiderio, bisogna segnalare la sua ambiguità: può essere buono o cattivo; il desiderio può deviare, Il verbo desiderare (hamad) viene utilizzato in Gen 2,9 in senso positivo: Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi (lett. desiderabili) alla vista e buoni da mangiare. Ma nel capitolo successivo lo stesso verbo è usato in riferimento al desiderio da cui nasce il peccato: Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito (lett. desiderabile) agli occhi ... (Gen 3,6). Tuttavia, nel Cantico dei Cantici troviamo un riferimento a questa situazione, ma prima del peccato, quando la sessualità ancora era fonte di piacere, di gioia e di felicità in Dio: Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palata (Ct 2,3).
L’apostolo Paolo denuncia senza ambagi l’ambivalenza del desiderio: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste (Gal 5,16-17).
Ogni persona, uomo o donna, che abbia deciso di seguire Cristo sotto la mozione dello Spirito, dovrà vivere concretamente un’ascesi del desiderio per orientarlo verso il bene ed evitare il male. Si tratta di un’ ascesi che ha un’importanza primaria negli anni di formazione iniziale, ma che assume un’importanza permanente e continua, in tutto il corso della vita.
3.2. Dimensioni
Il desiderio fontale e strutturante del nostro essere umano genera tutta una gamma di molteplici aspirazioni, brame, aneliti, ansie, appetiti, voglie, ambizioni, passioni, capricci... che nella vita di ciascuno di noi progressivamente vanno prendendo forma con il passare del tempo. Tutto questo dà origine a una tipografia del desiderio estremamente varia, in stretta relazione con le vicende (gratificazioni, fantasie, relazioni) della propria biografia personale.
Ma può accadere, e di fatto succede, che gli obiettivi autentici del desiderio siano repressi e, di conseguenza, ignorati; i sogni sono una via che facilita l’emergere dei desideri ignorati. Quanto più grande è l’ambito dei desideri repressi ed esclusi, tanto meno autentica diviene la vita: non si sa più quello che si vuole! Si confonde il volere con le velleità e il capriccio con il desiderio. E in questo modo si possono imboccare strade completamente sbagliate e si può finire col trovarsi in qualsiasi genere di vocazioni frustrate.
Analogamente, l’ignoranza e l’incompatibilità dei nostri desideri può paralizzare la nostra vita o dare origine a un conflitto insopportabile, fra gli uni e gli altri. Probabilmente, questa è una delle cause più frequenti delle nostre «nevrosi» temporanee o permanenti. D’altra parte, la dispersione dei desideri o il loro non avere oggetto concreto è di solito causa di ansia e di disagio diffuso.
La radicalità della struttura del desiderio e la varietà infinita di oggetti che sembrano soddisfarlo fa sì che il desiderio sia presente in quasi tutte le dimensioni della nostra vita. È importante che vi sia chiarezza, per poter scegliere e rinunciare, mettere ordine e vivere in modo integrato, in armonia. Vediamo sinteticamente come si manifesta il desiderio in alcune dimensioni dell’esistenza umana.
- Dimensione biologica: brama, attrazione ed unione sessuale.
- Dimensione affettiva: tenerezza, affezione, innamoramento, romanticismo.
- Dimensione ludica: humor, scherzo, sport.
- Dimensione pragmatica: laboriosità, capacità di servizio.
- Dimensione interpersonale: paternità, maternità, fraternità, amicizia, socievolezza.
- Dimensione gerarchica: autorità, politica.
- Dimensione possessiva: proprietà, commercio.
- Dimensione intellettuale: ricerca, informazione, scoperte.
- Dimensione estetica: bellezza, arte.
- Dimensione altruistica: gratuità, beneficenza, sacrificio.
- Dimensione religiosa: assoluto, infinito, al di là, Dio.
Il desiderio è quindi una struttura fondamentale dell’essere umano in relazione con una carenza e/o assenza. Il desiderio, come abbiamo appena visto, si apre su un’ampia gamma di dimensioni e di esperienze interdipendenti, alcune delle quali sono più comuni di altre; tra queste, le due seguenti:
- Prima di tutto, il desiderio è presente nell’ambito del nostro mondo sessuale ed affettivo. Qui trova la sua origine e il maggior campo di sviluppo. La sessualità è la dimensione della vita dove più grande è la promessa di giungere a un’unione che rompa i limiti della differenza, dell’assenza e della distanza. L’affettività, ovviamente, alimenta e dà vita a molti tipi di relazioni interpersonali, come la paternità e la maternità, la fraternità e l’amicizia.
- Ma forse, è l’ambito religioso quello che offre la possibilità di colmare le aspirazioni e gli aneliti più profondi. Di fatto, il desiderio trova nella religione: amore, protezione, sopravvivenza, trascendenza, trasformazione. I monaci e le monache, in tulle le grandi religioni, sono persone che vivono un desiderio irresistibile di Dio, Dio è per loro attrattiva e fascino più grande di qualsiasi altra cosa; su questa base, può poggiare una vocazione monastica cristiana ed evangelica.
4. Desiderio, sessualità e religione
Abbiamo già fatto riferimento all’origine ultima del desiderio umano: il fatto di essere creati a immagine di Dio. La psicologia del profondo indica anche l’origine esistenziale del desiderio: il fatto di nascere separandoci da nostra madre. A partire da questa duplice origine, il desiderio tende verso un duplice fine: la pienezza nella comunione beatificante con Dio (fine divino) e la complementarità nell’unione gradevole e gioiosa con l’altro/a (fine interpersonale).
Il desiderio spirituale, il cui fine è la comunione con Dio, si potrebbe chiamare: anelito beatificante. E il desiderio corporale-affettivo, il cui fine è relazione interpersonale, eterosessuale o no, si potrebbe definire: appetito sessuale ed eros personale. Per cui potremmo dire che: il sesso è desiderio biologico, l’eros è desiderio personalizzato, e l’anelito spirituale è desiderio divinizzato.
Ora, l’appetito sessuale saziato è causa di piacere, l’eros interpersonale produce gioia, ma da solo l’anelito beatificante apre ad una felicità incommensurabile.
La tabella seguente permette di sintetizzare in modo più chiaro le affermazioni fatte fin qui:
Due dimensioni fondamentali del desiderio umano | ||
Religiosa | Corporale-affettiva | |
Origine | Creazione a immagine e somiglianza del Creatore | Separazione dal seno materno al momento della nascita |
Nome | Anelito beatificante | Appetito sessuale (sesso) Eros personale (affettività) |
Fine | Comunione con Dio | Unione complementare con l’altro/a |
Effetto | Felicità | Piacere (sessuale) Gioia (affettiva) |
4.1. Desiderio e sessualità
L’eros personale e l’appetito sessuale hanno qualcosa in comune: sono due forze che ci permettono di uscire da noi stessi e di sradicare l’egoismo occulto nel nostro essere. Ciononostante, l’eros ed il sesso sono realtà diverse. È importante che sia ben chiaro ciò che li differenzia:
- Il sesso produce tensione e distensione corporea, l’eros personalizza e dà senso, illuminando e guidando questa esperienza. L’eros favorisce l’intimità tra le persone, mentre il sesso solo rende possibile la relazione tra i corpi.
- Il sesso senza eros termina nel proprio corpo, mentre l’eros, anche senza sesso, è orientato verso l’altro/a.
- L’atto sessuale è il simbolo più potente della relazione tra due persone di relazione e l’eros è l’intimità nella relazione.
- L’eros va molto più in là del sesso; se il sesso è soglia, l’eros è traversata.
L’eros in quanto desiderio di comunione, pienezza e gioia interpersonale con una persona amata permette di sentirsi appagati e di donare pienezza. L’eros, così considerato, è attraente e terribile: attraente, per la sua promessa di pienezza; terribile, perché chiede di abbassare i controlli o lasciare da parte ogni controllo. L’intimità affettiva risveglia l’eros, e questo è attraente; allo stesso tempo, l’intimità a cui invita l’eros chiede di abbassare sempre di più i controlli, e questo è causa di timore di paura. Molte volte, i celibi e le vergini che hanno scelto di essere tali, non sanno dove tracciare la frontiera per essere fedeli alle loro scelte. L’eros, nella relazione tra un uomo e una donna segue di solito la dinamica seguente:
- sentimento piacevole per il fatto di stare insieme;
- impulso a creare intimità accorciando la distanza che separa;
- tacere per «entrare in contatto» e sentire;
- la gioia, lasciata al suo proprio impulso, può correre alla ricerca del piacere.
La rinuncia e l’autocontrollo che implica la scelta della verginità e del celibato non devono costituire un impedimento perché noi, uomini e donne, sappiamo vivere e trascorrere un momento gradevole insieme. Chi non sa vivere con gratitudine questi momenti sani e cordiali, di solito compensa con fantasie ciò di cui si priva o reprime.
La cultura occidentale, invadente nei confronti delle altre culture, ha asservito l’eros al dominio del sesso. È vero che non siamo più sotto la tirannia della rivoluzione sessuale della fine degli anni ‘60; in quel frangente si è passati dal piacere proibito al piacere obbligatorio; il sesso divenne coercizione e si stabilì la dittatura dell’orgasmo imposto, imprescindibile e obbligatorio. Nella maggior parte delle nostre società si vive tuttavia una sessualità che si è svincolata dalle norme e, molte volte, si riduce a un gioco, a discapito delle persone. I nostri giovani, uomini e donne, provengono da questa società e da questa cultura.
D’altra parte, certe spiritualità sublimi e certi «soprannaturalismi» privi di appoggio sulla natura hanno prodotto lo stesso effetto della rivoluzione sessuale secolare: la morte deIl’eros, cioè del desiderio interpersonale. Difatti, noi, donne e uomini pii, cercando di soggiogare la carne finiamo con l’uccidere la carne e l’affezione, l’appetito e l’eros...
Forse sarà necessario proclamare e programmare un’altra rivoluzione, per restituire all’eros interpersonale tutto il suo fascino e tutta la sua apertura verso l’assoluto e il trascendente. La «rivoluzione erotica» non è una rivendicazione dell’erotismo in quanto maschera delle pulsioni genitali, ma una promozione dell’eros per umanizzare e sublimare il nostro sesso.
4.2. Desiderio e religione
noto che la religione è fonte di soddisfazione per le aspirazioni più fondamentali delle creature umane. Il linguaggio divino è il linguaggio dei sentimenti profondi, che stanno alla radice dei desideri di base del cuore umano. È qui dove si situa l’origine della conversione, della fede, della giustizia e dell’amore. La Scrittura ci offre numerosi esempi: Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre (Ger 20,7); Tu mi scruti e mi conosci (Sal138); Non ardeva forse il nostro cuore..? (Lo 24,32). Attraverso questo linguaggio, Dio seduce i nostri cuori per aprirli a Gesù Cristo e alla sua Buona Novella. La seduzione di Dio è liberatrice ed esige una nostra libera risposta.In questo contesto, possiamo chiederci: il desiderio-anelito di Dio poggia sul fondamento del desiderio-appetito sessuale? In altre parole: esiste un continuum (senza soluzione di continuità) tra la dimensione biologica del desiderio e la sua dimensione religiosa?
Molti psicologi non esitano a dare una risposta affermativa alla domanda che abbiamo appena formulato. Alcuni teologi avrebbero dei dubbi: tra la natura e la grazia si dà un salto qualitativo. Altri teologi, senza negare la gratuità della grazia divina, affermano l’esistenza di una continuità tra la persona umana, corpo-anima a immagine di Dio, e l’unione con Dio. Essi affermano, con i teologi medioevali: l’essere umano è capax Dei!, la grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona).
Per San Bernardo, non esiste nell’essere umano un «desiderio specifico» che lo orienti verso Dio. È l’unica forza umana del desiderio che, a partire dall’appetito biologico orientato dal libero arbitrio, spinge a cercare e a trovare Dio. Nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, la simbologia erotico- sessuale si riferisce al desiderio dell’anima santa, che è alla ricerca di Dio e dell’unione con lui. La brama e l’eros sono a servizio della carità.
Sia come sia, al di là del dibattito teologico, resta chiaro che senza il desiderio-eros personale la ricerca di Dio diventa qualcosa di artificiale, mentale, inconsistente, vuoto, e crolla come un castello di carte di fronte alla presenza e alla relazione concreta con qualcuno che colpisce il nostro cuore e mobilita la nostra corporeità. lo sono del parere che, al riguardo, noi uomini siamo più vulnerabili delle donne, nella misura in cui siamo più teorici e propensi all’astrazione.
Abbiamo già indicato fin dall’inizio che il desiderio di Dio è costitutivo della natura umana. In tutti gli esseri umani si dà una capacità innata di Dio, esiste un orientamento verso di lui che precede la scelta morale. È in questo senso che la creatura umana è stata creata a immagine di Dio.
Alcuni autori medievali, soprattutto i cistercensi, si distanziano alquanto dalla tradizione agostiniana in un punto molto concreto, pratico. La dottrina agostiniana sembra tracciare una frontiera netta tra l’«uomo esteriore» e l’«uomo interiore», fra la carne (sessualità) e lo spirito: la prima è causa di perdizione così come il secondo è causa di salvezza. Questa spiritualità può in tal modo risultare dualista e con fondamento insufficiente nello spessore corporeo dell’essere umano.
Molti Padri spostano la frontiera e fanno guadagnare terreno alla carne. L’eros e l’affezione spontanea, che si radicano nel sesso, sono chiamati a svolgere un ruolo importante nella ricerca di Dio. Ascoltiamo Guglielmo di San Thierry nel suo Commento al Cantico dei Cantici:
«Di conseguenza, nel momento in cui consegna agli uomini il cantico dell’amore spirituale, lo Spirito Sacro riveste la sua relazione spirituale e divina [con gli esseri umani], con immagini esterne desunte dall’amore carnale, perché soltanto l’amore comprende pienamente le cose divine. L’amore carnale, però, è chiamato a unirsi a quello spirituale e a trasformarsi in lui, poiché solo l’amore capterà rapidamente ciò che gli è simile. E come è impossibile che il vero amore, avido di verità, possa dilungarsi o soffermarsi per molto tempo sulle immagini, rapidamente passerà per questa via conosciuta alla realtà che prima aveva evocato attraverso delle immagini. Quindi l’uomo, pur essendo un uomo spirituale, in ragione della dimensione corporale della sua natura, abbraccerà le delizie dell’amore carnale, e, una volta assunte grazie allo Spirito Santo, le porrà a servizio dell’amore spirituale. Per questo, appare qui una donna che, senza nessun pudore, emerge con impeto da un luogo sconosciuto e, senza dire chi è, né da dove viene, né a chi si dirige, esclama: “Che mi baci con il bacio della sua bocca!”» (Esp Cant 24).
Guglielmo si pone in quella grande corrente spirituale che propone la ricerca del volto del Signore a partire da ciò che noi siamo in forza della creazione, per poter giungere ad essere per la grazia ciò che possiamo essere.
Sono cosciente che questa dottrina / pratica può avere i suoi rischi ed essere motivo di timore. Le frontiere sono meno chiare e il mondo interiore è più complesso. Restano alcuni interrogativi: fin dove si può scendere per potersi appoggiare con piede sicuro su se stessi e risalire con sicurezza e potenza verso il mondo dello spirito?
Il problema fondamentale, sia per i medievali sia per noi, sta in questo: come trasformare l’eros in carità. Probabilmente, la soluzione di questo problema è diversa per gli uomini e per le donne. Le donne potrebbero erotizzare indebitamente l’amore di carità, noi potremmo ridurlo a dimensione fisica o non saper cosa fare delle risonanze carnali che si potrebbero avere di tanto in tanto.
La trasformazione delI’eros interpersonale in anelito spirituale non è facile, ma è possibile. Questo implica, innanzi tutto, assumere consapevolmente e pacatamente la propria sessualità a partire dalla pulsione fisica. Quindi, concentrare l’esperienza nell’eros inteso come desiderio di pienezza, comunione interpersonale e gioia in questa comunione. Da ultimo, lasciare che l’eros trascenda ogni adesione definitiva con qualsiasi creatura, perché diventi anelito di unione e beatitudine in Dio.
L’alternanza di assenza e presenza, di consolazione e desolazione gioca un ruolo molto importante nella purificazione dell’eros e nella sua trasformazione in anelito di Dio.
In questo contesto, dovremmo localizzare e potenziare nella nostra formazione la devozione cistercense all’umanità di Gesù, la contemplazione dei «misteri» di Cristo prima della Pasqua, che conduce alla ricerca e alla comunione con la sua persona divina e gloriosa. Di più, sarebbe necessario attualizzare la spiritualità sponsale, intesa come «dono reciproco in comunione feconda», una spiritualità che presenta indubbiamente delle ricchezze, benché non sia esente da difficoltà che si possono sanare con una corretta pedagogia. Quanto più sani, pieni e felici noi saremo se queste parole dell’asceta Giovanni Climaco fossero realtà nelle nostre vite: Felice l’uomo il cui amore per Dio è come l’eros dell’innamorato per la sua amata! (Scala, 30,5).
Desiderio e psicologia umanista
La psicologia contemporanea di approccio umanistico parla del «potenziale umano». Con queste parole, ci informa che l’essere umano possiede un capitale naturale per crescere e raggiungere un modo dì essere e di vivere pienamente personale. In questo contesto, si colloca la dottrina sui bisogni o le tendenze umane, una dottrina che completeremo con la realtà antropologica del desiderio.
Un bisogno ha questa particolare caratteristica: ci chiude nel presente e in noi stessi; il desiderio, invece, ci apre e ci lancia verso il futuro e verso gli altri, I bisogni si possono soddisfare facilmente: una volta raggiunto l’oggetto adeguato, si elimina la tensione suscitata nell’organismo (l’acqua appaga la mia sete). Ma nessun oggetto presente può soddisfare completamente il desiderio, perché in ultima istanza, il desiderio rimanda a un passato e a un futuro, a cui nessun presente può dare una risposta compiuta ed esaustiva.
Ora, tanto i bisogni di quanto i desideri sono «tendenze» tese verso la soddisfazione, per uscire da uno stato carenza o privazione fisica, psichica o spirituale. È facile constatare che questa tendenza verso la soddisfazione gioca un ruolo di primaria importanza in qualsiasi teoria o pratica sulla motivazione umana.
Cerchiamo di sintetizzare e classificare queste tendenze (bisogni e desideri) in tre gruppi:
- biologico: aria-respirazione, acqua-sete, cibo-alimentazione, sonno-riposo, sesso-accoppiamento-riproduzione, casa- abitazione-vestito...
- psicologico: sicurezza-protezione, amore-appartenenza, stima di sé, stima degli altri, convivenza-associazione...
- spirituale: bellezza, bontà, verità, giustizia, ordine, pienezza, significato, libertà, perfezione, religione, spiritualità, mistica...
È facile constatare che le tendenze cosiddette biologiche sono più dei bisogni che dei desideri; mentre le tendenze psicologiche e spirituali sono dell’ordine del desiderio.
Queste tendenze — bisogni e desideri — non sono presenti tutti contemporaneamente, né con la medesima urgenza. Esiste una certa gerarchia degli stessi. In generale, ognuno dei diversi livelli si fa sentire nella misura in cui il livello precedente è stato soddisfatto. È evidente che la situazione concreta di una società e o di un gruppo può facilitare o impedire la soddisfazione dei bisogni, moltiplicarli o confondere i bisogni con i desideri.
L’esperienza insegna che molto difficilmente si accede alla soddisfazione dei desideri spirituali quando si soffre di una grave carenza per quanto riguarda i bisogni biologici o i desideri psicologici. Chi soffre di sonno, a fatica si potrà dedicare con efficacia alla ricerca del significato della Parola di Dio. Allo stesso modo: una insufficiente stima di sé condiziona la libertà e l’apprezzamento della bontà della vita.
Quanto abbiamo appena detto ha un’incidenza pratica nell’ambito della formazione monastica. Nella maggior parte dei nostri monasteri, i bisogni biologici dei membri sono coperti. Ma non sono sicuro di poter affermare la stessa,cosa per quanto riguarda i desideri psicologici, che frequentemente servono da supporto per i desideri spirituali. Sarebbe anche il caso di chiederci se le nostre comunità sono esperte nell’arte di sviluppare desideri spirituali aperti all’esperienza mistica di comunione con Dio e se tutto è ordinato a questo fine.
6. Desiderio e cultura capitalista
Le grandi culture umane si sono poste e si pongono in modo diverso di fronte al desiderio. La cultura orientale tende verso la liberazione del desiderio; certe correnti buddiste considerano che coloro che si liberano del desiderio si liberano dall’«io» e giungono a una libertà piena; uno dei nomi del nirvana è, appunto, «annichilamento della sete» (tanhakkhaya); estirpata la sete del desiderio, cessa ogni sventura e sofferenza.
La cultura greca classica insegnerà a controllare i desideri; Aristotele elogia Platone perché afferma che l’educazione consiste nell’insegnare a desiderare ciò che è desiderabile. Ritroviamo la stessa dottrina in S. Tommaso d’Aquino, quando commenta il Padre nostro nella Somma Teologica: La preghiera è una interprete del nostro desiderio davanti a Dio; domanderemo correttamente solo ciò che correttamente possiamo desiderare. E nella preghiera del Padre nostro non solo si chiedono tutte le cose che si possono desiderare correttamente, ma anche nell’ordine in cui si devono desiderare; in questo modo non è soltanto una regola per le nostre petizioni, ma anche una norma di tutti i nostri sentimenti (informativa totius nostri affectus) (II-II, 83:9).
La cultura medievale occidentale, impregnata di cristianesimo, come abbiamo visto, ha posto il desiderio a servizio della ricerca di Dio. Si può persino pensare che alcuni dei commentari al Cantico dei Cantici fossero uno strumento pedagogico in funzione della trasformazione del desiderio. Invece, la cultura occidentale nord-atlantica contemporanea, manipola i desideri a servizio del commercio e dell’economia, Consideriamo brevemente questo ultimo punto
Il sistema economico capitalista si sta imponendo nel mondo attuale per il motivo seguente: diventa sempre più capace, su scala mondiale, di produrre «cultura» generando un’antropologia di massa con un sistema di valori e di bisogni che corrisponde al modello economico da lui offerto.
Per raggiungere il suo obiettivo, il capitalismo affronta i desideri in un modo che gli è proprio: li confonde intenzionalmente con i bisogni e poi tenta di modellarli o di conferire loro una forma particolare. Come già abbiamo detto, i bisogni si possono appagare e sono strettamente connessi con la dimensione sociale. I desideri profondi sono insaziabili e sono strettamente connessi con l’interiorità, la profondità e l’originalità dell’essere.
Le teorie capitaliste sono pensate in funzione della soddisfazione dei bisogni- desideri. Ma non si tratta, innanzi tutto, della soddisfazione dei bisogni-desideri di lucro degli imprenditori, bensì della soddisfazione dei bisogni-desideri dei consumatori. Il lucro è una conseguenza della soddisfazione dei bisogni-desideri del cliente che consuma.
Ma, oltre a soddisfare, si tratta anche di manipolare e di creare dei bisogni-desideri. E, poiché i bisogni sono innumerevoli e il desiderio e’ illimitato, infinita sarà la possibilità di lucro. Il capitalismo non educa i desideri, ma piuttosto li confonde con i bisogni, li produce, li riproduce e li plasma artificialmente. In questo modo, il consumatore (che ha potere d’acquisto), assume e consuma quello che desidera e anche quello che non desidera, ma di cui crede fermamente di avere bisogno.
Nel mondo capitalista, i mass media obbediscono alla legge del massimo profitto economico. Non sono affatto neutrali; anche se si proclamano «indipendenti», i mass media sono alleati politicamente ed economicamente, I profitti derivano dalla pubblicità o dalla propaganda. Il telespettatore, l’ascoltatore o il lettore vale secondo il tempo quotidiano che trascorre davanti alla televisione, all’ascolto della radio o nella lettura di giornali e periodici. Il proprietario dei media vende a chi vuol fare pubblicità un certo numero di lettori, ascoltatori e telespettatori e ore di consumo; in altre parole, si vendono udienze/pubblico. Per questo, lo scopo che persegue la programmazione è accattivarsi il maggior numero possibile di udienze/pubblico durante il maggior tempo possibile. I media, soprattutto la televisione, sono orientati in modo da mantenere il desiderio dello spettatore attaccato allo schermo o al microfono, mediante stimoli ben programmati. Ed è in questo modo che i bisogni-desideri diventano profitto economico e vengono manipolati per lo stesso fine.
L’educazione dei nostri desideri, nel contesto monastico, non può ignorare questa manipolazione dei desideri. É necessario saper discernere per poter fare scelte libere e giuste. D’altra parte, il passaggio dal lavoro manuale al lavoro commerciale in molti nostri monasteri, ci costringe ad entrare, in qualche modo, in questa manipolazione capitalista e pubblicitaria dei desideri. È possibile passare da soggetto manipolato a soggetto manipolatore. Non è facile tracciare la frontiera tra la dimensione economica e quella apostolica, tra l’aspetto lucrativo e quello pastorale. L’etica commerciale dei monaci non si può allineare con l’etica commerciale dei secolari. È un tema su cui riflettere, come qualcuno/qualcuna ha già fatto notare, per evitare ambiguità che possono minacciare il fondamento del progetto formativo e della trasmissione del carisma monastico alle giovani generazioni. Difficilmente noì potremmo insegnare a pregare il Padre nostro, come principio che ordina dei nostri desideri e regola i nostri sentimenti, se al tempo stesso cooperiamo con la manipolazione degli uni e degli altri.
7. Desiderio e speranza cristiana
La virtù della speranza corrisponde al desiderio di felicità che Dio ha posto nel nostro cuore quando ci ha creati. Questa speranza dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. S. Agostino lo esprime così: Tutta la vita di un buon cristiano è un santo desiderio. Ma quello che desideri, non lo vedi; tuttavia, desiderando, dilati la tua anima così che possa riempirsi quando giungerà il tempo della visione (In Io.ep. tr. IV: 6).
Questo desiderio e questa speranza aperti verso l’escatologia, devono costituire il dinamismo più potente per lavorare con perseveranza e fedeltà. La speranza non è evasione dal mondo e proiezione verso il cielo, è piuttosto: un impegno nel tempo e un fondamento che poggia sulle basi eterne del cielo. La Chiesa cammina sulla terra e lavora in essa come un cittadino che contempla il cielo. In definitiva: Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente(1Tim 4,10).
La presenza di Gesù Cristo risorto al cuore della Chiesa e del mondo è la fonte della nostra speranza. Questa presenza ci spinge a desiderare, anche gemendo, la manifestazione gloriosa del Signore e a lavorare di buona Iena per un mondo migliore.
Non c’è dubbio che una delle caratteristiche della vita monastica è appunto la sua apertura escatologica e il suo realismo terreno, fondato sul desiderio e sulla speranza. La storia secolare del monachesimo attesta questa duplice realtà: il desiderio di Dio e l’anelito del cielo, radicali in realizzazioni culturali significative e creative.
Alcune delle nostre comunità nel mondo nord-occidentale sono oggi provate nella loro speranza. Il progressivo invecchiamento, la mancanza di vocazioni, la diminuzione dei membri, la povertà di persone competenti e l’incertezza del futuro sono, certamente, una prova difficile da attraversare. Ma costituiscono anche un’opportunità e un’occasione. L’opportunità di vivere una vita monastica trasparente al vangelo, spoglia di aderenze ormai prive di significato, libera ed agile nel suo ritmo quotidiano, a dimensioni domestiche, come di una famiglia, nell’economia e negli edifici, centrata essenzialmente sulla ricerca e l’incontro con il Signore nella comunione e nella carità.
Forse, perché questo sia possibile, non è necessario cercare di conformarsi [a un certo stile] con toppe e rammendi, bisogna desiderare una vita monastica nuova, in un nuovo cielo e in una terra nuova, dove un uomo e una donna nuova possano nascere di nuovo. Bisogna scegliere ciò che è più impossibile, più difficile, più utopistico. Bisogna saper dire: «si, ma non ancora». Bisogna diventare generatori e generatrici di speranza, testimoniando che la lupa allatterà degli agnellini, che la guerra sarà soltanto un termine da cercare in dizionari sorpassati, che le armi saranno pezzi da museo, che la parola data sarà più valida di mille documenti di fronte a notaio pubblico, che tutti abbandoneranno il potere per cominciare a servire, che i sordi comporranno sinfonie, che tutte le città saranno pavimentate da verdi giardini, che i deserti saranno popolati della presenza divina e che i monaci e le monache saranno fermento di comunione là dove ci sono ancora vestigi di discordia.
Osiamo pensare, sempre nel clima dell’utopia, che una vita monastica così rinnovata potrebbe risultare attraente per i giovani di oggi che, come quelli di ieri, cercano Dio. E, con maggiore sicurezza, possiamo affermare che questa vita monastica sarà un mezzo favorevole per comunicare il carisma dei nostri Padri alle nuove generazioni.
Ad ogni modo, anche se non succederà nulla di quanto abbiamo detto, se nonostante i nostri desideri resteremo soli e di fronte alla morte, possiamo credere che tutti ci ricorderanno con gratitudine e nessuno dimenticherà che siamo stati, in questa vita, dei pellegrini della speranza, che abbiamo saputo cantare al cielo mentre costruivamo la comunità monastica terrestre.
Il nostro pellegrinare monastico si alimenta della «preghiera del desiderio», che ci permette di perseverare nel deserto e nella notte. Questa semplice vita orante è un grido di speranza in un mondo che cerca di dare un senso alla sua esistenza. Voglia Dio che tutti noi possiamo elevare lo sguardo ed unire le nostre voci cantando:
«O vero meriggio, pienezza di calore e di luce, dimora del sole, sterminio delle ombre, che prosciughi le lagune ed espelli le impurità! O solstizio perenne, quando il giorno mai più tramonterà! O luce meridiana, o temperatura primaverile, o bellezza estiva, o abbondanza autunnale, riposo e festa dell’inverno!» (San Bernardo, SC 33,6).
1) Conferenza ai Capitoli Generali, ottobre 2005.di Luciano Manicardi
Il vizio cosiddetto della “gola” dovrebbe piuttosto essere chiamato “voracità” o, secondo il termine greco gastrimarghìa con cui lo definisce Evagrio, “follia del ventre”. Un altro termine utilizzato dai Padri è laimarghìa, “follia della gola” e indica piuttosto la “golosità”. Secondo Doroteo di Gaza la differenza tra i due atteggiamenti consiste nel fatto che l’uno riguarda la quantità di cibo, l’altro la sua qualità: «A volte si è tentati sulla qualità del cibo: uno, ad esempio, non vuole necessariamente mangiare molto, ma desidera cibi delicati. Costui, quando mangia un cibo che gli piace, è talmente dominato dal piacere che prova, che lo tiene a lungo in bocca, masticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. E questo si chiama golosità, che in greco si dice laimarghìa. Un altro è tentato sulla quantità del cibo, non cerca cibi buoni, non gli importa che siano delicati, desidera soltanto mangiare; di qualsiasi cibo si tratti, non desidera altro che riempirsi il ventre. E questa si chiama voracità, che in greco si dice gastrimarghìa» (Scritti e insegnamenti spirituali 15,161).
di Gianni Borsa
La Commissione europea ha insediato i nuovi membri di Ege, il comitato di consulenza che affronta temi delicatissimi per la vita e il futuro dei cittadini del continente “In questo campo sono essenziali la ragione e il dialogo”
Non bastano le idee chiare, la volontà politica (ammesso che ci sia) e un solido bilancio per costruire la “casa comune”. Occorre mettere in relazione le leggi e le azioni comunitarie con i principi etici, per dare solide fondamenta all’integrazione e per rispondere alle esigenze più vere e profonde dei cittadini Ue. E’ con questo intento che da diversi anni opera a Bruxelles il Gruppo europeo per l’etica nella scienza e nelle nuove tecnologie (European Group on Ethics in Science and New Tecnologies, sigla Ege), chiamato ad affiancare l’attività della Commissione.
Il Presidente dell’esecutivo, José Manuel Durao Barroso, cui spetta la nomina dei 15 componenti di Ege, ha recentemente provveduto in tal senso. Il gruppo si è riunito a fine ottobre per l’insediamento, mentre a novembre e dicembre ha avviato i propri lavori, cominciando a sviscerare argomenti di estrema delicatezza: l’impiego delle nanotecnologie nella medicina e la ricerca sulle cellule staminali. “Ciò che conta in uno spazio di confronto di questo tipo è anzitutto la ragione – ha dichiarato all’agenzia di stampa “Sir”, Carlo Casini, presidente del Movimento della Vita, unico rappresentante italiano in Ege -. Si tratta di sviluppare un dialogo serrato su temi quali la dignità umana, il diritto alla vita, l’uguaglianza sostanziale tra i soggetti, lo spazio e i limiti della ricerca, la difesa dell’ambiente…”.
Oltre edonismo e consumismo
Ege è un comitato “indipendente, pluralista e interdisciplinare”, incaricato di fornire pareri alla Commissione in vista di nuove direttive comunitarie o riguardo la conduzione di politiche Ue che abbiano significativi risvolti etici. Alla sua presidenza è stato eletto lo svedese Goran Hermerén. Tra i componenti, il cui mandato scadrà nel 2009, sono presenti esperti di vari paesi e con differenti competenze: tre giuristi, sei scienziati e sei studiosi di materie sociali.
“Sono convinto – afferma Casini – che ci sia una sorta di inquietudine culturale e politica a livello europeo quando si affrontano i temi di bioetica non solo dal punto di vista economico (posto che, ad esempio, le biotecnologie possano produrre ricchezza). Se si va oltre l’aspetto consumistico e edonistico, emergono posizioni articolate e si incontrano attenzioni e profonde sensibilità da persone di varia provenienza e formazione; il dialogo tra credenti e non credenti si fa più serrato”.
Fra i tempi di competenza della Commissione europea, in cui Ege può essere chiamato a svolgere il suo ruolo consultivo, troviamo la clonazione animale, la protezione dei dati personali, la cosiddetta “carta di identità genetica”. “Con l’avanzare della ricerca scientifica – aggiunge Casini – questi casi saranno sempre più numerosi e di estrema importanza nella vita di ciascuno di noi”.
Emmanuel Agius, docente di etica e di filosofia morale dell’Università statale di Malta, aggiunge un’osservazione di metodo: “La ragione è essenziale nel nostro operare. Ma la ragione,i principi, la scienza devono essere calati nella storia, nel vissuto dell’Europa di oggi. Nel nostro impegno in Ege è importante considerare gli orientamenti dell’opinione pubblica. E’ questa Europa, comunità di valori, che dobbiamo sostenere nel suo processo di integrazione”. E conclude: “io credo che i cittadini ambiscano a una Ue fondata sui diritti, su grandi progetti. Ege dovrebbe aiutare a tradurre certi valori in pratiche quotidiane, suggerendo pareri che riguardano il processo normativo o le decisioni pratiche delle istituzioni comunitarie. L’Europa chiede infatti risposte etiche ai bisogni della gente e alle sfide del futuro”.
(da Italia Caritas)
di Piero Pisarra
Il governatore d’Egitto si recò un giorno nel deserto di Scete per conoscere abba Mosè, ex brigante divenuto uno dei più famosi eremiti. Avvicinandosi al luogo che gli era stato indicato, incontrò un vecchio al quale chiese dove si trovasse la cella del grande anacoreta. “Che volete da lui?”,replicò l’uomo, “è un pazzo e un eretico”. Senza dargli retta, il governatore proseguì sulla sua strada arrivò alla chiesa più vicina, dove seppe che l’anziano che aveva incontrato altri non era che lo stesso Mosè”.
di John Nellykullen
E’ vero che oggi l’ateismo militante non è più attestato come negli anni sessanta, ma l’orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse.
Nel magistero post-conciliare
di Paolo Gamberini
Le affermazioni della dichiarazione non furono per nulla scontate. E si può riscontrare una certa “dialettica” tra i documenti del Concilio. Il magistero tuttavia non ebbe tentennamenti e continuò la strada aperta dal documento. Alla luce degli ultimi avvenimenti, vediamo quanto ciò sia stato importante.
Il concilio Vaticano Il ha avviato un diverso modo di comprendere la Chiesa: non più in termini esclusivi, ma in dialogo nei confronti del mondo. In particolare, la dichiarazione conciliare Nostra aetate ha segnato l’inizio di un diverso approccio con i non cristiani. Benché il documento fosse stato pensato originariamente per ridefinire le relazioni con gli ebrei, si comprese subito la necessità di estenderlo alle altre religioni, in particolare all’islam.
A questo riguardo Paolo VI istituì due speciali commissioni, connesse ai due segretariati creati all’indomani del Concilio: una per le relazioni con l’ebraismo, collegata all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani (ora Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) e una per le relazioni con l’islam, connessa all’allora Segretariato per i non cristiani, il quale nel 1988 assunse il nome di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, per sottolineare l’apertura dialogica della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni.
Tensione dialettica
Secondo lo spirito della dichiarazione, «la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (2): anche in esse è possibile non solo cercare sinceramente, ma incontrare veramente Dio. Va tenuto presente, però, che nei vari documenti del Concilio permane pur sempre una certa tensione. Se da un lato le varie religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (2), da un altro lato si afferma che questa Verità è il Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6). Non solo. Per la dichiarazione Dignitatis humanae: «L’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica» (1).
La prospettiva ermeneutica, adottata dai vari documenti conciliari, lascia aperta la dialettica tra l’apprezzamento delle altre esperienze religiose e il riconoscimento della novità insuperabile di Cristo. Il Concilio comprende questa tensione secondo lo schema dei cerchi concentrici. Al centro c’è Cristo e il suo Corpo, cioè la Chiesa cattolica: della pienezza salvifica di Cristo e del suo Corpo in vari gradi partecipano le altre Chiese e le altre religioni (cf Lumen gentium 16): tutti sono ordinati al popolo di Dio e orientati alla Verità di Cristo.
Questa prospettiva ermeneutica, e la tensione che essa implica nella relazione con le altre religioni, è presente anche nei vari documenti del magistero postconciliare. Tra i testi più significativi ricordiamo: il documento del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso L’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (1984), l’enciclica Redemptoris missio (RM) di Giovanni Paolo II (1991), il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991), il documento Cristianesimo e religioni della Commissione teologica internazionale (1997), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (2000).
In questi vari testi del post-concilio la Chiesa cattolica cerca di articolare ulteriormente la tensione cui prima si accennava. Centrale è l’affermazione della Redemptoris missio che comprende le altre religioni come mediazioni parziali dell’unica mediazione insuperabile di Cristo (5 e 29). Le altre religioni (con i loro riti e testi sacri), pur non avendo in sé stesse efficacia salvifica, possono essere mezzi di salvezza per la grazia di Cristo. Questo è un punto fermo del magistero postconciliare, che vuole appunto conciliare l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo con la presenza dei semi del Verbo e dell’azione dello Spirito di Dio nelle altre religioni: infatti, il credente delle altre religioni non è salvato individualmente dalla grazia di Cristo, ma attraverso l’appartenenza alla propria tradizione religiosa (RM 28).
Dialogo e annuncio è certamente il testo “più aperto” tra quelli del post-concilio. Questo documento fonda il valore positivo delle altre religioni non tanto sulla dimensione antropologica (la ricerca religiosa dell’uomo) quanto sulla dimensione teologica: «I cristiani non devono dimenticare che Dio si è anche manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura» (48). Questa manifestazione di Dio nelle altre religioni, benché sia parziale e misteriosa, costituisce il fondamento per il dialogo interreligioso.
Eventi vicini a noi
Si risente fortemente qui l’eco dell’evento di Assisi del 27.10.1986. A commento di questa intensa esperienza interreligiosa e spirituale, Giovanni Paolo Il affermò che «ogni preghiera autentica è mossa dallo Spirito Santo». In varie occasioni papa Wojtyla ha manifestato con gesti profetici la volontà di proseguire sul cammino inaugurato dalla Nostra aetate: convocando un’assemblea interreligiosa in Vaticano (28.10.1999), visitando la moschea degli Omayyadi a Damasco (6.5.2001), indicendo un giorno di preghiera e di digiuno al termine del Ramadan all’indomani dell’atto terroristico alle Twin Towers (14.12.2001) e invitando per una seconda volta ad Assisi i rappresentati delle varie religioni a pregare per la pace (24.1.2002). Senza l’operato di Giovanni Paolo Il non si sarebbe così chiaramente affermato lo spirito della Nostra aetate nella Chiesa del post-concilio.
Anche Benedetto XVI ha riaffermato più volte l’eredità lasciatagli dal suo predecessore: Commovente è stato l’incontro con la comunità ebraica e musulmana a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18 e 20.8.2005) e la visita ad Auschwitz durante il viaggio apostolico in Polonia (28.5.2006). Le dure reazioni islamiche ad alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa all’università di Ratisbona in Germania (12.9.2006) e le precisazioni del Vaticano, hanno permesso di chiarire ulteriormente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica in merito al dialogo interreligioso, e in particolare con l’islam. Il Papa intende incoraggiare un dialogo franco e sincero con le altre religioni, purché sia fatto con grande rispetto reciproco, nel chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza.
Il discorso di Ratisbona, incentrato sul rapporto tra logos (ragione) e religione, e l’intenzione di accorpare il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso con quella per la cultura, nominando il cardinale Paul Poupard presidente di ambedue i consigli, rivelano la strategia di Benedetto XVI per il prosieguo di questo dialogo interreligioso: contraddistinta sia dalla condivisione di una ragione comune aperta al trascendente, che dalla comune esperienza di Dio presente nelle varie religioni.
Il gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo, di sostare in preghiera nella Moschea blu, durante il pellegrinaggio in Turchia (28.11-1.12.2006), ha evidenziato come il Papa di Roma e il Gran Muftì dì Istanbul credono nell’unico Dio, pur comprendendolo in maniera differente. Già nel secolo XI papa Gregorio VII, rivolgendosi all’emiro Hammadid an-Nasir, gli ricordava che «tu e noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo».
* docente alla Pontificia facoltà teologica di Napoli, sez. San Luigi
(da Vita pastorale n. 2, 2007)
Bibliografia
Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, “Dialogo e annuncio”, in Il Regno Documenti, 36, 1991, pp. 464-477 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, EDB 2000, Bologna, Commissione teologica internazionale, “Il cristianesimo e le religioni”, in La civiltà cattolica 1997/I pp. 146 183 Cozzi A , “Le religioni nel Magistero post-conciliare Problemi ermeneutici”, in Teologia, 28 (2002), pp. 267-309; Coda P.. (ed,), L’unico e i molti, la salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL 1997, Roma.
di Dario Vitali *
La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.
Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.
La redazione definitiva
Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.
Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».
E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».
All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.
Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».
«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».
Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.
E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).
Sui giudei
Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.
Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.
Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».
La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.
Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».
D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).
L’iter della dichiarazione
Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.
La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.
Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.
Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.
Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».
Importanza del documento
La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.
Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.
In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.
Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.
Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.
Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.
* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma
(da Vita Pastorale n. 2, 2007)
Bibliografia
Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.