I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

A questo punto è possibile e doveroso, nella nostra riflessione, confrontarci col dato biblico. Si tratta di un capitolo ben noto e ampiamente studiato, ma i testi biblici veramente rilevanti sono proprio molto pochi, e tutti a mio parere di non immediata interpretazione.

La rivelazione della misericordia di Dio come bontà benevola e costante, come amore fedele e forte, a dispetto delle debolezze dell'uomo, manifesta a questi il vero volto del Padre, capace di pazientare e pronto a perdonare...

Venerdì, 24 Novembre 2006 21:25

Rinnegare se stessi (Matta el Meskin)

Rinnegare se stessi

di Matta el Meskin

Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi. Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l'arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell'Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l'amore divino s'accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. "Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest'amore". Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte agli ordini delle vostre guide, agli errori dell'anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.

La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall'abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà. Questa era la via seguita dai Padri nell'istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: "Sì", "Volentieri" e "Ho peccato", tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l'abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.

Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l'ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l'amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell'amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell'amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. "Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mc 8,34).

Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell'uomo naturale è il suo proprio io; quest'uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri. Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.

Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un'autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c'è l'odio di se stessi, cioè l'odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell'ingannevole schiavitù di questo mondo.

Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall'inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.

Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l'io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest'ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!

L'io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione. Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso.

D'altra parte, se l'io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell'auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.

1. Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l'io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo "padrone" nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell'incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.

Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l'anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.

Abbiamo chiamato questo sentiero "il grande inganno", proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell'illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall'inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l'opera di un uomo veramente morto a se stesso e che vive nell'amore divino, formando un solo spirito con Cristo.

2. Il secondo falso sentiero può essere chiamato l'inganno esplicito. Qui l'io non può convincere il suo "padrone" a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti. Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all'inganno di fronte agli altri. Qui l'io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo "padrone".

Questo è il motivo per cui l'abbiamo chiamato il sentiero dell'inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo "il grande inganno", dato che in quel sentiero l'io inganna anche il suo "padrone".

In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell'io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un'usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all'onore.

3. Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l'io non può convincere l'individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l'io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l'io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell'adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l'uomo è tenuto a riconoscergli. Qui il rifiuto dell'amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L'io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.

"Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?». Avete detto: «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D'ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l'empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve" (Mal 3, 13-18).

Nella vocazione monastica non c'è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c'è la morte a se stessi, oppure c'è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l'inimicizia da parte di Dio. O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo; oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell'io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall'anima. Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.

L'autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.

Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l'io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l'io coincide con l'uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.

Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi. È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell'amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l'io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell'io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?

Nessuno pensi che il processo della morte dell'io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l'intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegnamo a Cristo il nostro "io" impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l'Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.

Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l'io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all'uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.

L'io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell'offerta di doni, della cortesia, dell'adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l'io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.

Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l'essere onorati e rispettati dalla gente.

L'io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall'accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l'inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.

Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l'occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all'inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l'orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell'altra, davanti agli angeli e ai santi!

L'io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito. Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l'amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore. L'uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo ed è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.

L'io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato; questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango. L'uomo il cui io è morto, invece, si considera all'ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.

L'io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l'ultimo posto, ma, d'altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.

Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l'adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell'obbedienza ai comandamenti di Cristo.

Ricordate sempre che chi sceglie l'ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, "colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà".

Il segno invece che l'io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l'ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!

Se l'io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l'amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!

Quanto invece all'io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L'anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.

Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l'io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L'io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l'io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé. Quest'uomo si inebria dell'amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.

Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, "Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui" (2Cor 10,15); "Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi" (2Cor 3,5); "Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me" (2Cor 12,6); "Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda" (2Cor 10,18).

È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l'io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s'inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell'umiltà di un tempo. Ama l'onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell'insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell'amaro rimorso per il passato di umiltà. L'io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell'albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l'io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall'albero della vita e anche dall'albero della conoscenza.

Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell'abisso.

Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com'è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. "Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? [...]. Come alcuni [...] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo" (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.

Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni. Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!

Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell'io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L'individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com'è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all'animo debole dall'ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l'io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l'io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l'io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo.

Siate dunque attenti e vigilanti fin dall'inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell'io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell'anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.

L'io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l'io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.

L'io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.

L'io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l'io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.

* * *

Coraggio, fratelli! Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.

(tratto da Matta el Meskin, Comunione nell’amore, Qiqajon 1986, pp. 127-140 )

Venerdì, 24 Novembre 2006 21:13

Dialogo Islamo-Cristiano (Halim Noujaim)

Dialogo Islamo-Cristiano
di Halim Noujaim
Direttore della scuola Terra Sancta College - Nazareth

Introduzione

Molti sono i pareri contraddittori riguardo al dialogo islamo-cristiano.
Molte le posizioni contraddittorie riguardo allo stesso argomento. Difficilmente possiamo trovare su questo argomento una posizione equa e stabile.

In questa mia esposizione cercherò di prendere una posizione media, fin tanto è possibile, riguardo alla serietà del dialogo e della sua necessità in una società come quella della Terra Santa.

Noi francescani e specialmente noi che operiamo in Terra Santa, non possiamo ignorare questo argomento, perché è punto focale nella nostra spiritualità francescana di Terra Santa. Come possiamo dimenticarlo, quando l’Assisiate fu tra i pionieri del dialogo tra cristiani e musulmani! Inoltre molte nostre istituzioni sociali e religiose vivono questa realtà quotidianamente!

Se osserviamo la storia cristiana in Terra Santa, troviamo che i cristiani di queste regioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni molto difficili, mettendo in pratica la parola del Signore: "come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" perché "il discepolo non è più grande del maestro".
Dopo l’islamizzazione di queste regioni, in Terra Santa si ebbero tre religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Di conseguenza l’autorità civile, lungo i secoli, apparteneva ad una o all’altra religione. Molte volte le "religioni" si sono fronteggiate con guerre dure e sanguinose. Conflitti e guerre per la sopravvivenza.

Ora tocca a noi capire che il nostro destino è di vivere insieme, prendendo lezioni dal passato, lontano e vicino, e accettare di formare una società multi religiosa, basata sulla uguaglianza, e sulla giustizia.
Il dialogo tra le tre religioni è così una esigenza irrinunciabile della Terra Santa.


La salvezza è generale
.

Siccome lo Spirito opera anche nei seguaci delle altre religioni, ne consegue che pure loro possono salvarsi.

La Chiesa incoraggia i suoi figli a riconoscere i valori morali, spirituali, sociali e culturali che esistono nelle altre religioni, anzi li sprona a mantenere e sviluppare questi valori, attraverso il dialogo e la cooperazione, con intelligenza, comprensione e amore, testimoniando la fede e la vita cristiana.

Questa apertura positiva verso le altre religioni non cristiane, non significa che dobbiamo sottovalutare le contraddittorietà che esistono tra queste religioni non cristiane e la rivelazione cristiana, ma dobbiamo tenere presente e mettere in luce le diverse posizioni e principi fondamentali esistenti nelle altre religioni.
Gli insegnamenti cristiani asseriscono che i non cristiani aderendo oggettivamente alle prescrizioni giuste delle loro religioni, con buona fede, possano salvarsi con la stessa salvezza che Cristo ha donato all’umanità, seguendo i dettami delle loro coscienze, anche se non credono che Cristo sia il loro salvatore.
Si può affermare, secondo san Paolo, che l’uomo si salva se crede nella esistenza di Dio Renumeratore, e che Dio giudica l’uomo secondo le sue opere.

Commentando questo pensiero, Kanawati, studioso del Dialogo Islamo-cristiano, afferma: "Se voglio dialogare con un musulmano, non debbo incominciare mettendolo all’inferno per la sua fede, ma debbo affermargli che potrà salvarsi se si realizzano in lui alcune condizioni che non sono impossibile, pur rimanendo musulmano. Solo così sarà possibile iniziare un proficuo dialogo.

San Paolo afferma che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini e che arrivino alla conoscenza della verità; (1) e la stessa affermazione la troviamo nel libro degli Apostoli. (2)

Mentre nel cristianesimo la salvezza è estesa a tutti i popoli di buona volontà, nell’Islam non troviamo questa dichiarazione, nonostante che alcuni si sforzino a generalizzare la salvezza. Si basano su una frase del Corano che dice: ad ogni popolo Iddio manda un suo Messaggero.

Il teologo Al Ghazali (1058-1111), afferma che "se i non musulmani sono leali e moralmente buoni, possono salvarsi". Mentre Mahmoud Ayyoub, dice che l’Islam non è tanto chiaro in questo argomento, infatti afferma: "La dottrina musulmana dice che onorare Dio è sufficiente per salvarsi e per guadagnare la felicità eterna nella seconda vita". E, di seguito, afferma "che davanti a questa dottrina i musulmani si trovano ad un bivio: come conciliare il loro diritto come una comunità di credenti e accettare il diritto degli altri ad esistere…" Finora non si sono resi conto dell’insegnamento del Corano, che vede nell’unicità del genere umano e la molteplicità delle religioni e delle culture, come una prova dell’unicità di Dio.

Recentemente dice Mohammad Sa’iddin che "il primo principio del dialogo islamo-cristiano è l’invito chiaro a Dio e alla religione musulmana… E si considera il dialogo un’applicazione pratica dell’invito alla religione musulmana". (3) Ad ogni modo sembra che l’Islam non possa rinunciare alla sua professione di fede che si riassume nel credere in Dio e in Maometto come suo messaggero, e, senza questa professione di fede, non c’è salvezza per l’uomo. Questa ultima affermazione i cristiani non la potranno mai accettare.

Così abbiamo visto che, secondo il cristianesimo e l’islam, le vie della salvezza dell’uomo sono molteplici, anche se ciò non è tanto chiaro, per i musulmani, e non si possono restringere a un popolo escludendo gli altri, perché non si può limitare la misericordia di Dio, a non espandere la sua giustizia e il suo amore per comprendere tutte le religioni e i popoli che vivono onestamente entro le differenti religioni. Dio non può che essere ad una distanza unica da tutti gli individui e da tutte le religioni, dalla creazione dell’uomo fino ai nostri tempi. (4)

Il dialogo in senso generale


Il dialogo è tra due o più interlocutori che sono su posizioni diverse con lo scopo di arrivare ad un punto di intesa.

Il dialogo è uno scambio di idee, fonte di arricchimento per tutti gli interlocutori.

Il dialogo non si limita alla convivenza pacifica e serena, ma ha lo scopo di sradicare il fanatismo religioso, perché, cristiani e musulmani, lavorino insieme nella educazione, nella giustizia sociale, nello sviluppo della società, per raggiungere fini ottimali dei diritti e dei doveri dell’uomo.

Il dialogo è accogliere che l’altro abbia il diritto di avere un parere differente dal mio, anzi è meglio che sia così, e in ciò si applica il detto di Voltaire: "sono in contrasto con te fino alla morte, e fino alla morte difendo il tuo diritto di esporre il tuo parere". (5)

Alcuni hanno creduto che il dialogo sia un conflitto tra il vero e il falso. Perciò il suo scopo principale era di convertire l’interlocutore alla propria fede religiosa, se non voleva andare all’inferno. Alcuni sono arrivati ad insultare e bestemmiare l’altra religione, ed è ciò che causò molte guerre tra le religioni, duranti i secoli passati.

Il vero dialogo non mira alla conversione della seconda parte alla nostra religione, ma mira al consolidamento di ognuno degli interlocutori nella propria religione per costruire un nuovo mondo fondato sulla giustizia e sulla pace.

Il dialogo può evolversi su problemi dottrinali, ma non per convincere l’altra parte della falsità della sua dottrina, ma per chiarire all’altro la propria.

La religione non parla solamente del paradiso, ma anche dei problemi sociali, come: la difesa dei deboli, degli oppressi, degli emarginati, degli abbandonati, ecc....

"Incontrarsi, sedersi tutti insieme: cristiani e musulmani, come un tentativo per capire meglio la nostra umanità, e la nostra relazione con la verità divina nonostante i vari nomi che le diamo... in realtà è atto incoraggiante. Speriamo di poter sentire l’invito divino e che possa riempire le nostre anime e vivificarle. (6)

Il dialogo è il modo nel quale i cristiani incontrano i seguaci di altre tradizioni religiose per camminare insieme verso la verità e per lavorare insieme in progetti di comune interesse… Il dialogo con persone di altre religioni ci ha insegnato che come cristiani possiamo vivere la nostra fede in maniera più integra e possiamo essere veri testimoni di Cristo attraverso la collaborazione con gli altri credenti. (7)

Il dialogo interreligioso favorisce una collaborazione dei vari interlocutori per preparare dei piani comuni sui problemi mondiali, sull’oppressione e sulla giustizia tra le religioni, nel nostro caso tra l’Islam e il Cristianesimo.

Insomma il dialogo pone la sua forza nell’accettazione dell’altro, nonostante la diversità dei punti di vista, ma con carità, amore e sincerità.
Il Dialogo nell’Islam e nel Cristianesimo

Teoricamente le due religioni invitano alla convivenza reciproca e pacifica e al dialogo tra gli adepti.

L’Islam:

Nel Corano ci sono dei versetti che invitano al dialogo, come: "O gente del libro (cristiani e ebrei), venite ad una parola di intesa tra voi e noi". (8) In realtà la parola di verità e di giustizia, è quella che mette ordine tra tutti. Sembra che il Corano inviti affinché gli incontri siano fraterni, ricavando da essi (incontri) il bene e le lezioni morali che avvicinano l’uomo all’uomo.

Riguardo ai cristiani il Corano dice: "Non discutete con la gente del Libro se non in cose migliori". (9) Dice Mohammad Munir Sa’adiddin che "noi, musulmani e cristiani, siamo una famiglia sola; ci unisce la fede in Dio e la rivelazione divina".

"Il dialogo in cose migliori significa - sempre secondo Sa’adiddin - che dobbiamo scegliere la parte migliore nel comportamento reciproco, e seguire la strada migliore nello scegliere le parole e le espressioni giuste in un metodo pacifico e tranquillo… fino a diventare tutti buoni amici". (10)

Un altro autore musulmano, commenta una terza frase del Corano che dice: "O popoli, vi abbiamo creati maschio e femmina e abbiamo creato vari popoli e razze, affinché venite a conoscenza che i migliori ( i credenti) tra di voi sono i più pii". (11)

Lo scrittore Mahmoud Ayyoub commentando la stessa frase dice: "Iddio vuole manifestare l’unità nella molteplicità, e invitare gli uomini al dialogo…" e aggiunge "Dio non vuole soltanto la conoscenza reciproca, gli uni dagli altri, ma vuole che gli uni rispettino gli altri, anzi Iddio vuole che impariamo come possiamo intenderci gli uni con gli altri". (12)

Un altro autore dice che "per fede io sono obbligato a porger la mia mano all’altro, affinché lui mi conosca, e io conosca lui". (13)

Secondo il Corano, Dio asserisce che Maometto non può portare chiunque alla conoscenza di Dio, cioè portar ad abbracciare la fede musulmana, ma è Dio stesso che porta chi vuole lui alla fede. (14)

Leggiamo nella Hadith (15) musulmana che non ogni credente è musulmano e neppure ogni musulmano è credente. Perciò non tutti quelli che pretendono di essere musulmani, sono necessariamente tali, ma sono tali solamente quelli che sono pii, devoti e pieni di timor di Dio. Perciò, è possibile trovare dei veri credenti che non siano musulmani, come è possibile trovare dei musulmani che non sono dei veri credenti. Dio solo conosce l’intimo dell’uomo e Lui solo distingue il vero credente dal non credente.

Cristianesimo:
Nel cristianesimo troviamo l’invito all’apertura a tutti i popoli. Questo invito già lo troviamo nell’Antico Testamento specialmente quando dichiara che la Salvezza si estende a tutti i popoli e non solo agli israeliti.

Cristo Signore, nonostante che nel Vangelo affermi che è stato inviato per i figli d’Israele, lo troviamo a conversare con la samaritana, la cananea e fare miracoli a beneficio dei pagani, come il centurione. Cristo loda la fede dei pagani (Dialogo e Proclamazione, n. 21) … e invia i suoi discepoli a portare il Vangelo a tutte le genti senza distinzione tra popoli, razze e religioni.

Papa Paolo VI, dice (16) : "La religione musulmana merita la nostra ammirazione per tutto quello che c’è di vero e buono nell’adorazione di Dio", e di nuovo, nel suo discorso a Kampala, in Uganda, ha espresso il suo profondo rispetto per la fede che i musulmani hanno, ed ha auspicato la speranza che "ciò che noi possediamo in comune possa servire a unire cristiani e musulmani, sempre più strettamente, in una autentica fraternità". (17)

Questa affermazione di Paolo VI, causò scompiglio nella chiesa cattolica. Alcuni sono arrivati a pensare che la missione della Chiesa di convertire i popoli alla fede di Cristo, perché possono salvarsi, non era più necessaria, purché i credenti delle altre religioni vivessero la propria fede con coerenza.

Dopo un lungo silenzio, il Papa pubblica la "Evangelii Nuntiandi", per chiarire la posizione della Chiesa, e dire che, nonostante la presenza di alcuni elementi buoni e veri nelle altre religioni, tuttavia rimane solamente la religione di Cristo, che la Chiesa proclama, attraverso l’Evangelizzazione, ad essere l’unica religione che pone la persona umana, oggettivamente, in relazione con Dio. In altre parole la nostra religione stabilisce effettivamente un’autentica e viva relazione con Dio, che le altre religioni non sono riuscite ad avere. (18)

Attualmente la dottrina della Chiesa in questo campo dice che i cristiani non devono pensare di possedere tutta la verità, e quelli delle altre religioni non hanno nulla di vero. Piuttosto devono essere pronti a riconoscere la presenza dello Spirito nell’altro. Non possiamo porre limiti all’azione dello Spirito.


Anche se si trova qualche cosa di buono nelle altre religioni, tuttavia non si deve pensare che ogni cosa sia perfetta nelle varie tradizioni religiose del mondo. Esse hanno anche i loro lati oscuri. Possono includere riti degradanti o pratiche che sono moralmente discutibili. Questi elementi sono quindi soggetti a giudizio.

Perciò quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non deve andar perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio… Papa Giovanni Paolo II dice che "il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa". (19)

Questo dialogo può assumere molte forme, ovunque stiano insieme persone di differenti religioni: cercare di vivere in armonia, fianco a fianco, lavorare insieme a beneficio della società, chiarire le idee sull’altro attraverso scambi formali, condividere esperienze spirituali ecc...

Sappiamo, che le relazioni fra persone di differenti religioni non sempre sono facili. Possono sorgere tensioni. Mediante il dialogo, i cristiani e gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, e a rispondere, con crescente sincerità, all’appello personale di Dio e al dono gratuito che egli fa di se stesso. (20)

Giovanni Paolo II, a più riprese parla chiaramente della presenza dello Spirito Santo anche nelle altre religioni. E, nell’Enciclica "Redemptor Hominis", afferma chiaramente la presenza dell’opera dello Spirito oggigiorno persino fuori del Corpo Visibile della Chiesa".(6) Questa affermazione è da intendersi nel senso che, "secondo Giovanni Paolo II, l’azione dello Spirito della verità è limitata a ciò che vi è di buono nella vita dei musulmani e nella loro religione". (21)

Nel discorso agli 80.000 giovani a Casablanca, il 19 agosto 1985, Papa Giovanni Paolo II, dopo d’aver affermato che cristiani e musulmani hanno molte cose in comune, come credenti e come uomini, parla pure di differenze, che non possiamo sottovalutare: "La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. Evidentemente, quella fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Inoltre, aggiunge il Papa, che "dobbiamo rispettarci, e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio". (22) Ad ogni modo "il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza (23) e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza" , e "il Papa classifica le altre religioni come teologicamente immature, incomplete e bisognose di aiuto".


I principi del Dialogo Islamo-cristiano


Per avere un vero e autentico dialogo interreligioso, bisogna tener conto di alcuni principi:

1 - Un Dialogo non un monologo

La verità non può essere ristretta ad una sola religione, e cioè affermare che, per esempio, esista solamente nella religione cristiana e le altre religioni non possiedono niente di vero o di giusto. La stessa cosa vale per la religione musulmana. Queste idee, assolutiste e possessive di verità, hanno causato tanti conflitti nel passato e hanno causato molte vittime sia dell’una che dell’altra parte, senza arrivare ad un risultato positivo.

Lo stesso si dica riguardo agli interlocutori. Sono i due protagonisti che debbono dialogare, e l’uno deve sentire l’altro e accogliere le idee dell’altro per poterle discutere. Solo così avremo un vero dialogo.

Infine se c’è da cedere qualche cosa riguardo alle credenze religiose, non deve essere da una parte sola, ma da parte dei due interlocutori.

2 – Il Dialogo richiede libertà, rispetto e valutazione reciproca


Il dialogo interreligioso non può essere che tra due interlocutori o due gruppi, che si rispettano, e che credano che anche nell’altra religione vi sono delle verità da valutare, anzi da portare alla luce e alla conoscenza di tutti.

Il rispetto vicendevole è fondamentale per un dialogo tra il cristianesimo e le altre religioni, specialmente la musulmana e l’ebrea, per lavorare insieme per giungere alla giustizia sociale, ai valori morali, alla pace e alla libertà. (24)

3 – Il Dialogo richiede una conoscenza reciproca tra gli interlocutori
:

Noi tutti, cristiani e musulmani, viviamo insieme in una sola comunità sociale, ma spesso ci ignoriamo, e perciò molti concetti e pregiudizi influiscono sul nostro modo di agire. Spesso il nostro vicino lo consideriamo il nemico numero uno, solamente perché professa un’altra religione.

Nel dialogo dobbiamo lasciare che l’altro parli con tutta libertà di se stesso, delle sue credenze religiose e noi, da parte nostra, dobbiamo essere aperti a quel che afferma, anche se sono contrari alle nostre credenze, soffermandoci su ciò che ci accomuna e non su ciò che ci divide. Anche noi dobbiamo presentare le nostre credenze, senza togliere o nascondere nessuna verità per la scusa che urtano l’interlocutore, il quale le deve accogliere, come abbiamo accolto le sue.

4 – Dobbiamo liberarci dai sentimenti negativi del passato
Nessuno può negare che vi siano state delle reazioni negative nel passato tra cristiani e musulmani, e Papa Giovanni Paolo II lo afferma dicendo che "Cristiani e musulmani vissero insieme per secoli, alle volte in pace e altre volte in conflitti atroci e sanguinari". (25)

Per aver un dialogo sincero e proficuo, bisogna liberarsi da questo passato negativo per mezzo della conoscenza reciproca, la mutua comprensione. In questo modo si semina l’amore, la fratellanza e l’uguaglianza tra tutti i membri della stessa società formata da religioni diverse.

5 – Il Dialogo dà il diritto al singolo di rimanere fedele alla sua fede
:

Come abbiamo il diritto di vivere e praticare la nostra religione con tutta libertà, così anche gli altri hanno lo stesso diritto.

Dobbiamo aborrire il fondamentalismo religioso e incoraggiare e incrementare le pratiche religiose. La nostra testimonianza a Cristo ci spinge a vivere sempre la nostra vita cristiana in ogni luogo in cui ci troviamo e in ogni tempo. E’ Dio che gratuitamente chiama alla fede chi vuole.

6 – Accettare la differenze tra il cristianesimo e l’islam


Ci sono molte differenze di credenze religiose tra l’islam e il cristianesimo ed è per questo che dobbiamo accoglierle e rispettarle per poter continuare il dialogo e giungere ad una completa conoscenza della verità.

Tipi di dialogo

1 – Dialogo di vita:

Il dialogo è il mezzo in cui i cristiani e i musulmani s’incontrano per camminare insieme verso la verità e per lavorare insieme in progetti di comune interesse…

Il dialogo richiesto dalla regola francescana con persone di altre religioni ci ha insegnato che, come cristiani, dobbiamo vivere la nostra fede in maniera più integra ed essere veri testimoni di Cristo nella collaborazione con gli altri credenti, proprio come scrive S. Francesco nel capitolo 16° della Regola non bollata, dove si legge: "I frati - che vivono tra i musulmani (saraceni) - non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, e confessino di essere cristiani".

Dai cristiani di oggi ci si attendono atteggiamenti, non di confronto e di conflitto, ma di vero spirito di collaborazione… La semplice ma salda testimonianza di Francesco d’Assisi… ci spiega che cosa voleva dire Gesù quando invita i suoi discepoli ad essere "il sale della e la luce del mondo". San Francesco è oggi venerato non solo dai cristiani ma anche da molti seguaci di altre tradizioni religiose. (26)

E’ questo il dialogo che conviene alle società, multi religiose, come la nostra: discutere i problemi di divergenza e solverli con oggettività e razionalità, favorendo una convivenza pacifica e vera collaborazione in tutti i campi del sapere.

2 – Dialogo di servizio sociale
:

Collaborazione dei cristiani e musulmani per sviluppare i progetti del servizio sociale, per arrivare a stabilire la giustizia sociale, per aiutare gli abbandonati dalla società e per difendere i diritti dell’uomo

3 – Dialogo nelle attività spirituali
:

I cristiani e i musulmani che vivono una vita spirituale di relazione intima con Dio, debbono scambiarsi queste esperienze.

4 – Dialogo teologico
:

Lo scopo di questo dialogo è di chiarire i dubbi e le false idee che uno ha riguardo all’altro. Riguardo ai dogmi della propria religione, per giungere ad una convivenza pacifica e al rispetto reciproco. Questo dialogo non mira a trovare la vera religione, ma ad accettare il principio della molteplicità delle religioni in una società come la nostra.


Ostacoli al dialogo

Per raggiungere un dialogo fruttuoso e serio è necessario risolvere alcuni problemi che sono di grande ostacolo al dialogo stesso:

1 – L’idea sbagliata del Corano sul cristianesimo
.

I musulmani credono che l’islam sia l’unica religione completa, e tutto quello che vero, è presente nel Corano e quindi non hanno bisogno di imparare niente agli altri. Inoltre credono di conoscere la religione cristiana meglio degli stessi cristiani. (27)

In realtà, però, il Corano parla di un cristianesimo che non è genuino. Maometto si era fatto l’idea del cristianesimo venendo a conoscenza di alcune sette non cattoliche. Di conseguenza la dottrina cristiana che il Corano combatte anche noi non l’accettiamo. Per es. Il Corano presenta la divina Trinità composta da Dio Padre, da Gesù e da Maria, oppure dal Padre che diventa Figlio e, a sua volta, diventa Spirito Santo.

Il dialogo Islamo-Cristiano non può iniziare su questi concetti di un cristianesimo ereticale. Infatti i nostri dogmi non sono quelli combattuti dal Corano e perciò la prima condizione per un buon dialogo è far conoscere la nostra vera fede.

L’ignoranza dei musulmani della religione cristiana cattolica , ha influito molto
nell’ostacolare il vero dialogo islamo-cristiano, perché, come dicono gli arabi
"l’uomo è nemico di quel che ignora".

2 – Tolleranza Islamica

La tolleranza in questo caso significa la permissione ai cristiani di vivere nella società musulmana, pagando la (jiziat) (28) che è una tassa speciale obbligatoria a tutti i non musulmani, che vivono in un governo musulmano, senza godere di uguali diritti dei musulmani.

Questo principio della tolleranza religiosa nella società musulmana, ebbe inizio con l’incontro di Maometto con i cristiani di Najaran, di cui ne parleremo più avanti, e si confermò nella garanzia che diede il Califfo Omar agli abitanti di Gerusalemme, quando i musulmani occuparono la Città Santa. Da quel tempo gli storici musulmani si gloriano di quel principio di convivenza tra cristiani e musulmani. Però, se quel principio fosse giusto, io non credo che tanti cristiani avrebbero lasciato la loro fede per abbracciare l’Islam. Se in quel tempo non dava uguale diritto agli abitanti delle differenti religioni nell’impero musulmano, tanto meno lo da oggi per i popoli del ventunesimo secolo.

I musulmani credono che con questo principio hanno dato l’esempio a tutti i popoli, che nella nazione musulmana possano vivere popoli di differenti religioni senza essere disturbarti nell’esercizio della loro religione.

Però questa tolleranza non offre a tutti uguali diritti, perché in una simile società, vi sono almeno due classi sociali: coloro che tollerano e i tollerati, il capo e il suddito, il forte e il debole... Quindi in realtà i tollerati si sentono umiliati, ciò è vero specialmente in una società del ventunesimo secolo, dopo la promulgazione dei diritti dell’uomo, e dopo la diffusione del principio di uguaglianza di tutti gli uomini, senza considerare che siano maggioranza o minoranza.

3 - L’idea dei cristiani sull’islam
:

Storicamente, i pensatori cristiani hanno parlato molte volte duramente di Maometto, dei musulmani e dell’islam, che è stato considerato come una eresia del cristianesimo. L’islam, secondo molti, è una religione della perdizione, del terrorismo e dell’egoismo. Quest’idea persiste tuttora, specialmente dopo il dramma dell’ 11 settembre 2001. Altri affermano che l’islam sia la religione del diavolo, e Maometto sia un anticristo. (29) Queste idee sulla religione dell’interlocutore, non favorisce il successo di un dialogo interreligioso, nella nostra regione.

I cristiani debbono guardare ai musulmani con un nuovo spirito, considerandoli non come nemici, ne come scolari distratti o vittime da salvare; ma li dobbiamo considerare come fratelli. Quindi i cristiani debbono liberarsi dai pregiudizi passati e pensare che incontrando altri, diversi da noi, hanno sempre qualche cosa da imparare.

4 – Stato e Religione
:

L’islam non pone distinzione tra lo Stato e la Religione. Per i musulmani i due enti sono uniti, sono un’unica realtà. Questo influisce negativamente nel dialogo

con i cristiani perché per questi ultimi le due entità sono intrinsecamente separate, mentre per i musulmani lo stato è a servizio completamente della religione. Però il cristiano non può essere in nessun modo a servizio della religione musulmana. Per avere un fruttuoso dialogo questo punto deve essere risolto.

5 – Qualche Verità si trova anche fuori della propria religione

Questo principio deve essere accettato non solo in teoria ma anche in pratica. Nessuno può essere certo che solo lui possiede la Verità, e nemmeno che possegga tutta la verità e addirittura fuori delle sue credenze non c’è niente di vero. I musulmani difendono con entusiasmo, persino colla spada il principio che dice che fuori del Corano non c’è niente di vero. (30) Perciò essendo difficile per loro ammettere l’esistenza di qualche verità nel cristianesimo che non sia compresa nel Corano, quindi, senza che loro risolvano questo problema sarà difficile avere un dialogo con loro.

Per aver un dialogo sincero e oggettivo, i musulmani debbono abbandonare l’idea che fuori del Corano non c’è niente di vero, e i cristiani debbono ammettere che c’è qualche cosa di vero nelle altre religioni, come ci insegnano specialmente gli ultimi Papi. Senza ammettere questo principio il dialogo è destinato al fallimento.


Dialogo Islamo-cristiano: Sguardo storico.

Prima dell’occupazione musulmana gli abitanti del Medio Oriente erano completamente cristiani, ma in pochi anni furono islamizzati, e rimasero pochi cristiani, fermi nella loro fede. (31)

All’inizio la collaborazione tra cristianesimo e musulmanesimo era buona e continuò specialmente nel campo filosofico, della medicina e nel campo culturale in genere perché i cristiani, rimasti nella loro fede, si sentivano parte integrante della società araba, in fondo pensavano che gli arabi venuti dalla penisola arabica, erano la liberazione loro dall’oppressione bizantina.

Dice Maurice Bormans: "Il dialogo Islamo-cristiano iniziò con i cristiani di Najran al tempo di Maometto, quando andarono a discutere dei problemi religiosi con il capo della nuova religione, il quale offrì ai cristiani una sfida per provare la veracità della nuova religione, però i cristiani di Najaran, non l’accettarono, preferendo la proposta di pagare le tasse o farsi musulmani... Così iniziò il dialogo, e continuò per vari secoli, che in molti casi finì con degli scontri religiosi, politici e culturali, per causa delle incomprensioni e offese reciproche, che portarono a delle guerre sanguinarie”. (32)

Scrive lo scrittore musulmano, Ahmad Amin, che i musulmani conquistarono il Medio Oriente, abitato dai cristiani. Quando la guerra, con la spada, cessò, i musulmani iniziarono quella religiosa con una propaganda a largo raggio invitando tutti all’islam. Presentarono prove per convincere i popoli conquistati ad aderire alla nuova religione, ma anche questi ultimi dovettero portare prove e contro prove in difesa della loro fede e dimostrare la falsità della religione degli occupanti.

Questa propaganda religiosa portò a discussioni sterili e causò gravi perdite materiali, culturali e morali da ambo le parti, senza parlare delle guerre sanguinarie con innumerevoli vittime umane. I risultati di tutto ciò furono falsificazioni delle verità. (33)

Bormans conclude affermando che furono 14 secoli di storia comune, nei quali prevalsero le discussioni e le discordie (tra cristiani e musulmani), invece della comprensione e cooperazione. (34)

Quattordici secoli di malintesi, discordie e guerre feroci: guerre tra bizantini e musulmani, discriminazione religiosa, guerre crociate, impero ottomano con la volontà di islamizzare l’Europa fino ai movimenti fondamentalisti attuali.

Il dialogo teologico Islamo-Cristiano iniziò nel settimo secolo, e continuò per molti secoli dopo. Solo Francesco d’Assisi, Raimondo Lullo e pochi altri fecero eccezione e tentarono un altro modo di dialogare coi musulmani.

Le relazioni tra cristiani e musulmani prima del secolo ventesimo, hanno avuto dei rimbalzi lungo i secoli, invece di vivere in un’atmosfera fraterna e pacifica.

Nel ventesimo secolo, con Louis Massignon, ebbe inizio una nuova scuola di Dialogo, per far conoscere l’Islam quale religione che crede in un unico Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

Una diecina di anni prima del Concilio Vaticano II, c’è stato un cambiamento in campo cristiano riguardo all’atteggiamento da tenersi verso l’islam. Alcuni hanno rifiutato l’idea dei secoli passati nei riguardi della religione musulmana, e hanno iniziato ad inculcare lo spirito di rispetto e di stima, di fratellanza e di amicizia, di comprensione e di collaborazione.

Tutti questi cambiamenti hanno preparato il terreno al Concilio Vaticano II, di promulgare i decreti e i documenti conciliare riguardo al rispetto della Chiesa Cattolica verso l’Islam, dando inizio a passi enormi nello stabilire il dialogo reciproco tra la Chiesa e l’Islam.

Il Concilio Vaticano II e il Dialogo Islamo-Cristiano


Il Concilio Vaticano II afferma che l’umanità forma una famiglia umana unica, che ha avuto origine da Dio. Dice S. Paolo che Dio ha dato ai cristiani "il servizio della riconciliazione". Ebbene questo servizio non si può dare se non nel vero dialogo con i credenti delle altre religioni, un dialogo fondato sui principi del rispetto vicendevole, dando il valore necessario alla dignità della persona umana. A base di tutto ciò ci deve essere la libertà, specialmente, quella religiosa.

Il Concilio Vaticano II, con il documento "Nostra Aetate", ha aperto nuovi orizzonti verso le altre religioni e in modo particolare verso l’Istam. I cristiani hanno corrisposto a questa apertura con centri di studio delle altre religioni; in molte università hanno istituito la facoltà delle religioni comparate, e delle religioni non cristiane ecc...

I cristiani incominciarono a considerare più oggettivamente e positivamente le altre religioni specialmente l’Islam, e si specializzarono nei vari campi della islamologia, dimostrandosi all’altezza del momento.

Però non troviamo la stessa preparazione nella parte musulmana. In questo campo uno scrittore musulmano della Tunisia dice che "la Chiesa Cattolica approfittò delle grandi scuole teologiche e le grandi questioni sorte nel mondo cristiano, in questo modo la Chiesa diventò più preparata nel campo del dialogo con l’Islam, che l’Islam stesso. Questo non deve scoraggiare l’Islam dal dialogo, ma lo dovrà incoraggiare a fare tutto il suo possibile per raggiungere la stessa preparazione dei cristiani, se non addirittura di più. (35)
Un altro autore dice che i due interlocutori debbono avere una buona preparazione teologica, ma purtroppo lo studio della teologia cristiana, fino a poco tempo fa, era assente dalla cultura dell’interlocutore musulmano, "l’ignoranza è il nemico numero uno del dialogo e della pace. Il rispetto dell’altro non ci può essere che conoscendolo bene, perché la conoscenza è la strada ordinaria per il futuro". (36)

Il Concilio Vaticano II afferma: "La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche quelli nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita e i valori morali, la pace e la libertà.

"Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà". (37)

Il Concilio Vaticano II, con questa sua dichiarazione ha aperto una nuova era nella storia della Chiesa, specialmente nelle sue relazione con l’Islam. Parlando di questo cambiamento J. Hoeberichts afferma che: "L’idea e la pratica del dialogo e cooperazione con seguaci dell’Islam e le altre religioni non trovarono solamente la loro strada nella vita delle chiese, ma anzi formano una parte essenziale di essa (chiesa)". (38)

Tentativo di San Francesco per un dialogo interreligioso
:

Francesco pensava in modo differente da quelli della sua epoca. I suoi contemporanei volevano distruggere l’Islam, che aveva occupato i Luoghi Santi cristiani, distrutto molte chiese e costretto molti cristiani a rinnegare la fede e farsi musulmani.

Gli europei hanno voluto dare una dura lezione all’Islam riprendendo i Luoghi Santi con la forza delle armi, ma, in realtà, in meno di due secoli dovettero lasciare l’Oriente e tornarsene a casa.

Proprio al tempo delle crociate appare il Poverello di Assisi che non accoglie il comando della Chiesa di partecipare alle guerre. Invece della spada alza la Croce, simbolo dell’amore e non dell’odio, della costruzione e non della distruzione e dice ai suoi fraticelli di precederlo nei Luoghi Santi.

I suoi frati giungono in Oriente nel 1217. Francesco li raggiunse, due anni dopo, in Palestina e in Egitto, con l’intento di tentare la strada dell’avvicinamento con la religione musulmana. Chiede di colloquiare e di dialogare con il sultano musulmano e, dopo tanti ostacoli, riceve il permesso. Passando attraverso molti pericoli arriva davanti al sultano, Al Malik Al Kamel Al Ayyubi.

Lo storico Ernoul, autore del libro delle Cronache (1227-1229), descrive l’incontro avvenuto in modo molto semplice, ma espressivo. Nel racconto si nota che il Cardinale Legato Pontificio, a malincuore diede a Francesco il permesso di andare dal Sultano. Francesco, poi, nel colloquio col sultano, non nascose lo scopo per cui era venuto alla sua presenza, e cioè di volergli salvare l’anima, e questo era possibile solo accettando la religione cristiana. Per raggiungere questo scopo era pronto a sostenere la sfida di camminare, con i teologi musulmani, a piedi scalzi, sul fuoco. La religione di colui che rimaneva incolume sarebbe stata la vera religione. Davanti a questo sfida i teologi musulmani si ritirarono ordinando al sultano, in nome della religione, di uccidere Francesco e il suo compagno. Il magnanimo sultano invece di ucciderlo offrì a Francesco e al suo compagno, di rimanere suoi ospiti, ma Francesco non accettò. Allora il sultano offrì molti doni che Francesco non accettò. Francesco, vedendo che non era possibile la conversione del sultano, se ne tornò nel campo crociato.

Il tentativo di Francesco fallì, però i risultati dell’ incontro rimangono tuttora.

Si parla di una amicizia speciale tra Francesco e il sultano Kamel Al-Ayyubi, amicizia che si prolungò ai successori, sia di Francesco che del sultano. I figli di Francesco, i frati della corda, rimarranno in Terra Santa a fianco, oppure come vuole la Regola francescana, tra i musulmani, testimoniando con la vita la fede cristiana e francescana, e alcuni moriranno martiri. Questa amicizia rimarrà viva finchè si troveranno in campo cristiano "altri Francesco" e in campo musulmano "altri Kamel Al-Ayyubi". Così iniziò il dialogo della vita, che è conforme alla vita e spiritualità francescana, da sete secoli e più.

Frutti dell’incontro:

Negli scritti di Francesco non si trova alcun cenno su questo incontro, forse per questo alcuni dubitano della sua storicità. Che sia storico o meno questo incontro, non è questo il momento per verificarlo, però è vero, almeno in spirito, quello che Ernoul scrive nelle sue cronache compilate al tempo di Francesco o un anno o due dopo la morte del santo. Molti affermano che questo incontro abbia influito nello stendere il capitolo sedicesimo della Regola non Bollata, e il capitolo dodicesime di quella bollata, dove si parla dei "frati che vogliano andare tra i musulmani (saraceni)". Nessun altro fondatore di Ordini religiosi ha scritto qualcosa di simile.

Francesco Gabrielli scrive su questo incontro: "E’ un fatto incoraggiante pensare nello spirito angelico e pacificante di Francesco e confrontarlo con la prudenza tollerante e gentile del suo ospitante musulmano il sultano Al-Kamel, forse l’eccellente spirito in cui si distinsero i due interlocutori, appaga il desiderio di sapere qualche cosa di quell’incontro". Continua Gabrielli e dice "che noi mai possiamo conoscere i sentimenti che ebbe Francesco nel suo colloquio col sultano... senza dubbio quest’incontro ebbe un’eco nel determinare la missione di Francesco tra i non cristiani. Una cosa è certa: come frutto di questo incontro i seguaci di Francesco i suoi frati continuarono la sua missione e hanno vissuto e tuttora vivono tra i musulmani, e hanno protetto la presenza cristiana in Oriente e hanno vivificato il cristianesimo nella regione dove è nato, dopo che era prossimo a morire".

Considerazioni sull’incontro

Si può considerare quest’incontro come:

1 – Miracolo.

L’incontro è avvenuto in tempo in cui i due eserciti: crociato e musulmano erano schierati per la guerra, anzi si erano già scontrati. Nonostante ciò i due si incontrano e parlano di pace, di amore, di fratellanza.

2 – Incontro di conoscenza e di apertura:

Francesco parla francamente dei suoi principi religiosi, e, il suo amore per il sultano e per la salvezza della sua anima, lo spinge ad offrirgli la miglior cosa che ha, e quindi invita il sultano ad abbracciare la fede cristiana; mentre il suo interlocutore ascoltava con compiacenza e soddisfazione, e si meravigliava per il coraggio e la semplicità do Francesco e delle sue parole. Tutto questo è una cosa eclatante.

3 – E’ un incontro storico e singolare nel suo genere.Francesco con difficoltà ottenne il permesso di andare dal sultano e, dopo tanti ostacoli e pericolo di essere scomunicato, viene accolto con massimo rispetto dal sultano. Lo studioso del dialogo interreligioso, Youakim Moubarak, afferma: "La figura di Francesco rimane una luce che illumina la storia cristiana nel campo delle sue relazioni con l’Islam" e "Francesco rimane eccellente e singolare nella storia della Chiesa e del dialogo cristiano-musulmano, che fino a questo tempo nessuno dei suoi frati o dei cristiani, è arrivato al suo livello".

Infine dice G. K. Chesterton (1930) che "l’incontro fu uno dei più grandi avvenimenti storici, e se i cristiani e i musulmani avessero ascoltato Francesco la storia delle relazioni tra cristiani e musulmani si sarebbero realizzate.

Francesco trovò nel sultano una persona amante della pace, i pensieri dei due personaggi si completarono e crearono una vera amicizia e fratellanza, che durò per tutta la loro vita".

4 – E’ una risposta alla sfida di Maometto coi cristiani di Najran.

La sfida che Maometto proponeva ai cristiani di Najran per costatare la vera fede non fu accettata dai cristiani per paura di un possibile fallimento.

Allo stesso modo la sfida posta da san Francesco di camminare scalzo su tizzoni roventi non fu accolta dai teologi musulmani per la stessa ragione dei primi.

Così Francesco pareggiò la sconfitta dei cristiani con Maometto.

Lezioni dall’incontro:

Anche se la storicità dell’incontro è messa in dubbio, tuttavia abbiamo da parte di alcuni studiosi delle interpretazioni.

Alcuni sostengono che al momento del commiato di Francesco dal sultano, questi gli abbia chiesto di pregare per lui affinché Iddio gli facesse scoprire qual’è la vera religione e che fede piacesse a Dio. Se ciò fosse vero, sarebbe già un buon successo.

La maniera francescana del dialogo tra le religioni, specialmente con l’Islam, non è tra superiori (cristiani) e sudditi (musulmani), ma servizio fraterno, e questo modo di agire si sta riproponendo sempre di più in questi giorni.

Fuori da questo metodo sarà molto difficile costruire una vera società di più religioni. La fratellanza e l’uguaglianza dovranno regnare sovrane. Ogni individuo troverà il dovuto rispetto per il suo patrimonio culturale e religioso e, nella collaborazione si edificherà una società nella pace e nella giustizia.

Quando Francesco chiese ai suoi frati di essere obbedienti anche ai musulmani e di evitare contese e discordie, non era un inviarli ad incontrare un possibile martirio, ma la genuina testimonianza al Vangelo: sale della terra, lievito per tutta la grande massa musulmana. I frati, seguendo l’esempio di Cristo e di Francesco, di fronte alle difficoltà e alle persecuzioni rimasero e rimangono ai loro posti con pazienza e umiltà.

Francesco sperimentando la presenza dell’amore di Dio tra i musulmani e che Dio aveva rivelato a loro la sua bontà, li accolse così come sono.

Questo in realtà è il dialogo della vita, della testimonianza al Vangelo che Francesco chiede ai suoi frati. Vivere con apertura verso gli altri della stessa società, anche se sono di un’altra religione; condividere insieme gioia e dolori, problemi e preoccupazioni, con sentimenti di fratellanza universale.

Questi principi potevano sembrare utopie o immaginazioni al suo tempo, ma ora, dopo il Concilio Vaticano II, li troviamo come via ordinaria per un fruttuoso dialogo interreligioso e interculturale.

Conclusione


Dice il vescovo greco cattolico Cirillo Bustros parlando del dialogo: "Il Dialogo è una attitudine spirituale, prima di qualunque altra cosa. L’uomo si presenta davanti al suo Signore dialogando con Lui, eleva la sua anima, purifica il suo cuore e sentimenti... Il dialogo è una spiritualità che ci trasporta dalla lontananza alla prossimità dell’uno all’altro, dal rifiutare l’altro alla sua accettazione, dalla discordia alla concordia, dalla condanna alla misericordia, dall’inimicizia alla familiarità, dal conflitto alla fratellanza... Il dialogo con l’altro significa conoscere e riconoscere l’altro come nostro complemento... In questo modo il dialogo diventa un arricchimento reciproco, senza cedere nulla di quel che crediamo, o pensiamo e senza rinnegare la nostra personalità e la nostra esistenza... Senza dubbio il fondamentalismo religioso è il più grande nemico del dialogo". (39)

Dice Mohammad Talibi: "Il dialogo richiede una pazienza lunga, ci fa continuamente accostare l’uno all’altro, ci fa godere l’amicizia invece della negligenza e dell’inimicizia, pianta una fratellanza tra i due interlocutori nonostante le divergenze nei pensieri e nelle credenze religiose. Il dialogo non comporta l’arrivo a delle soluzioni comuni, e non richiede d’imporre l’accordo tra i due interlocutori, ma il suo scopo è di fornire la discussione di elementi di chiarificazioni dei problemi, e da una maggior apertura agli interlocutori per vincere se stessi e non rimanere fossilizzati nelle loro posizioni che sono le sole vere. La strada alla luce è lunga e Dio l’ha voluta piena di misteri. (40)

Papa Giovanni Paolo II dice: "E’ mio ardente desiderio che i capi religiosi e i teologi, musulmani e cristiani, presentino le nostre due grandi comunità religiose, come comunità che stanno in un rispettabile dialogo e non mai più come comunità in conflitto. E’ importante che i musulmani e i cristiani continuino ad esplorare insieme le questioni filosofiche e teologiche, per arrivare ad una conoscenza molto più oggettiva e universale delle credenze religiose di ogni parte dei due interlocutori. Una migliore conoscenza ci porta sicuramente, a livello pratico, a trovare dei metodi nuovi per presentare le nostre due religioni non in opposizione l’una con l’altra, come fu nel passato, ma in collaborazione per il bene della famiglia umana...
Il dialogo interreligioso è molto effettivo quando nasce da un’esperienza del vivere insieme giorno per giorno, con la medesima comunità e cultura...

Per tutto il tempo in cui i musulmani e i cristiani hanno offeso gli uni gli altri, abbiamo bisogno di chiedere perdono dall’Altissimo Dio, e di offrire l’uno all’altro il perdono. (41)

In conclusione, il cristianesimo e l’islam rimarranno due religioni differenti, il dialogo teologico tra di loro non mira a sopprimere una delle due, e nemmeno a sopprimere le differenze tra loro due. Nel dialogo abbiamo la possibilità di chiarire queste differenze, ed eliminare le vecchie divergenze, e i giudizi a priori contro l’una o l’atra delle due religioni, sorte lungo la storia delle due religioni. Il cristianesimo e l’islam sono due religioni che conducono ad onorare lo stesso Dio Uno e Misericordioso, e a considerare tutti gli uomini, fratelli, figli dello stesso Dio Creatore.

(conferenza tenuta a Gerusalemme il 26/11/2002)

Note

1) Tim. 4:2.
2) Atti 10: 34-35.
3) Mohammad Munir Sa’iddin: Al-Machriq, rivista semestrale dell’Università di S. Giuseppe, Beirut, gennaio-giugno 2002, pag. 76-77.
4) Mons. Gregorio Haddad: "Il Dialogo delle Culture e delle religioni", p. 25, Luaizeh University, Lebanon.
5) L’università di Louaizeh: "Il Dialogo interculturale e interreligioso".
6) Mahmoud Ayyoub: "Studi sulle relazioni tra cristiani e musulmani", I Vol. L’università del Balamand (Libano), 2000, pag. 208.
7) Felix A. Machado, sotto-segretario Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso, Pentecoste, 2000.
8) Corano: Surat El Imran (3). n. 64.
9) Corano: Surat Al ‘Ancabout (29), n. 46.
10) La rivista "Al-Mashriq", luglio-dicembre, 2000, pag. 514-515.
11) Corano: Surat El-Hajarat (49), n. 13
12) Mahmoud Ayyub: opera citata, pag. 205-208.
13) "Il Dialogo interculturale e intereligioso", opera citata pag. 61.
14) Corano: Surat Kisas (28), n. 56.
15) Tradizione musulmana, oppure al Hadith, sono dei detti o fatti, che ci sono stati rimandati da vari autori e che hanno la loro origine da Maometto.
16) Nella "Ecclesiam suam", 6 agosto 1964.
17) J. Hoeberichts: "Francesco e l’ Islam", ed. Messaggero Padova, Italia, 2002, pag. 235.
18) J. Hoeberichts, opera citata pag. 236, cfr. pure Giovanni Paolo II: "Redmptoris Missio", n. 55.
19) Redemptoris missio 55.
20) Dialogo e Annuncio n. 40 Michael L. Fitzgerald, Segretario del ontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso 30 maggio 2000.
21) J. Hoeberichts, "Francesco e l’Islam", Edizione Messaggero Padova, 2002, pag. 240.
22) J. Hoeberichts, opera citata, pag. 245-246.
23) Giovanni Paolo II: "Redemptoris Missio", n. 55.
24) Papa Giovanni Paolo II: "Esortazione Apostolica per il Libano", n. 89.
25) Papa Giovanni Paolo II: "Esortazione Apostolica per il Libano", n. 90.
26) Felix A. Machado, sotto-segretario Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Pentecoste, 2000.
27) Al-Machriq, rivista semestriale dell’Università S. Giuseppe, Beirut, luglio dicembre, 2002 pag. 358-359.
28) Attualmente questa tassa non viene pagato, ma lo fu per molti secoli.
29) Al-Machriq, opera citata, pag. 360-361.
30) Dice il Corano: "Ammazzati gli infedeli dovunque li incontrerete… e li lascerete liberi soltanto quando crederanno e pregheranno…(10:5), e più esplicetamente degli ebrei e cristiani dice: "Combattete quelli che non credono in Dio , e nel giorno del giudizio generale… e quelli che non sono dei seguaci della vera fede, di quelli che hanno avuto il Libro (la gente del libro che sono i cristiani e gli ebrei), fino a che paghino la Jiziat (la tassa imposta ai non musulmani), umiliandosi e sottomettendosi ai musulmani" (10:29).
31) I musulmani quando occuparono il Medio Oriente, offrirono ai cristiani della regioni tre scelte: - farsi musulmani. - pagare la Jiziah (tassa obbligatoria ai non musulmani), oppure il combattimento (la guerra). La rivista Al-Machriq, citata più sopra, pag. 360.
32) Bormans, Maurice: "Orientazione nel dialogo interreligioso", pag. 25-26.
33) Documenti moderni per il dialogo… , 51.
34) Orientazioni per un dialogo tra cristiani e musulmani, nella traduzione araba, libreria dei paolisti – Libano – 1981, pag. 156.
35) Mohammad Talibi: "L’Islam: Libertà e Dialogo", casa editrice Annahar, Beirut, Libano, 1999, pag. 19-23.
36) Al-Machriq, rivista semestrale dell’Università di S.Giuseppe, Beirut, gennaio-giugno, 2002, pag. 72-73.
37) Nostra Aetate n. 3, 28 ottobre 1965, e anche nella Costituzione "Lumen Gentium", n. 16, si legge: "Il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale".
38) J. Hoeberichts: opera citata, pag. 235.
39) Mons. Cirillo Bustros: "Le Relazioni Islamo-Cristiane", Libano, pag. 228.
40) Vari autori: "Documenti moderni per il dialogo tra cristiani e musulmani", Libano, 1992, pag. 69.
41) Il Papa Giovanni Paolo II, Discorso tenuto nella Grande Moschea Omayyade di Damasco, il 6 maggio, 2001.

Reciprocità: moschee per chiese?
di Giuseppe Scattolin

Nei nostri rapporti con i musulmani c'è, a mio parere, o molta ignoranza o molta ingenuità. In ogni caso, mi pare che pochi si rendano conto che essi esigono da noi tutti i diritti senza concedere nulla nei loro paesi. Le nazioni islamiche risultano, infatti, in fondo alla lista per quanto riguarda i diritti umani e noi chiudiamo gli occhi su tutto... Si sa bene che nell'Arabia Saudita nostro grande amico in mammona-petrolio - non solo non c'è libertà religiosa (per cui, un musulmano che volesse cambiare religione viene sistematicamente messo a morte), ma è addirittura proibita qualsiasi manifestazione religiosa non islamica. Al punto che, se uno celebra la messa, anche se nel segreto della sua casa, può essere messo in prigione ed espulso. Ma tutto ciò è sistematicamente ignorato dai nostri politici e dai nostri maitre-à-penser televisivi. Possibile che non ci si renda conto che stiamo noi stessi aprendo il nostro paese al più retrogrado oscurantismo religioso, cioè quello islamico? È tempo che si cominci a dare l'allarme. Osi tratta di vera parità - e, quindi autentica reciprocità - o non si-tratta. Punto e basta!

Giulio Crescetino - Napoli


"Reciprocità vera". È un’espressione – quasi una invocazione! – che ricorre spesso, soprattutto in occasione di incontri con il mondo islamico. In essa si avverte tutta l’amarezza di chi si sente preso in giro da tante belle parole, proclamate anche da persone autorevoli, ma che, in pratica, lasciano il tempo che trovano.

Pertanto, la reazione normale è quella di sbattere i pugni sul tavolo e dire: «O vera reciprocità, oppure si chiude... E "gli estranei" se ne tornino a casa loro, ché noi stiamo meglio senza di loro!».

Posta in questi termini, la questione sembra molto semplice. Non si tiene conto, però, che la realtà - soprattutto quella umana - è molto più complessa. Non si tratta di condurre una compravendita: io ti do una moschea, se tu mi dai una chiesa.

Innanzitutto, ognuno vede la realtà dal proprio punto di vista. Se noi, in Europa, ci possiamo lamentare dei "fastidi" che la presenza dei musulmani causa nelle nostre società, dovremmo, per lo meno, ammettere che anche essi hanno delle rivendicazioni nei nostri confronti, tenendo presente il passato coloniale. Potrebbero anch'essi, quindi, sentirsi in diritto di sbattere i pugni sul tavolo. Ma a suon di pugni sbattuti non si va molto lontano. Ed è facile immaginare che i pugni, prima o poi, possano facilmente cambiare direzione: dal tavolo alla faccia dei contendenti!

Il problema che sta alla base della questione della reciprocità è, in realtà, molto più profondo e serio. Si tratta della questione dei diritti umani. Dobbiamo operare insieme per creare società umane pluraliste, in cui le differenze non sono eliminare, marginalizzare e combattere (come lo furono nel passato), bensì accolte e rispettate. E, questo, nel discorso che va molto al di là delle contrattazioni tipo "una moschea in cambio di una chiesa". Occorre, invece, promuovere all'interno di tutte le società una vera "rivoluzione culturale" (ben diversa da quella ideo-politico-partitica di Mao Tsedong, la "grande guida" della Cina moderna).

Una rivoluzione culturale degna di questo nome richiede, innanzitutto, un serio lavoro culturale a lungo termine. I diritti umani saranno accertati e rispettati, se e quando tutte le persone delle nostre società "globalizzate" saranno formate alla loro conoscenza e alla loro pratica. La storia della nostra vecchia Europa dovrebbe insegnarci qualcosa in materia. Non bastò, infatti, ghigliottinare il re per riconoscere e dare ai cittadini francesi i loro diritti. Proprio gli autori della Grande Rivoluzione si rivelarono, alla fine, i peggiori dittatori (e quelli della rivoluzione comunista non sarebbero stati di meno).

Ma come si può realizzare una simile "rivoluzione culturale"? Molti gli ambiti di un simile impegno! In primo luogo, metterei le scuole. In Egitto, ad esempio, noi missionari occidentali abbiamo un'importante presenza scolastica, con migliaia di studenti e studentesse, nella stragrande maggioranza musulmani, che frequentano le nostre scuole; anzi, fanno la gara a iscriversi ad esse. Ma la domanda è: abbiamo maturato un vero progetto formativo per studenti e professori, in cui la dimensione dialogica è parte integrante del programma? Questo è un punto di capitale importanza, dato che le scuole sono chiamate a essere i primi luoghi di dialogo e di apertura verso gli altri, autentiche palestre e laboratori per la conoscenza e il rispetto dei diritti umani.

Oltre alle scuole, ci sono tante altre opere di promozione umana in quasi tutti gli ambiti della società. La nostra presenza in tali ambiti deve contribuire a far crescere e maturare una nuova mentalità di vero dialogo interreligioso e interculturale.

Prima di lamentarci e assumere atteggiamenti di rifiuto, dovremmo domandarci se stiamo facendo buon uso delle occasioni che ci sono offerte per creare questa nuova mentalità di apertura e dialogo a tutto campo, la sola in grado di garantire una vera reciprocità in materia di diritti umani.

Non nego che occorra agire anche a livello diplomatico e giuridico per esigere da tutti gli stati il rispetto dei questi diritti. Un'azione non esclude l'altra. Credo, tuttavia, che la vera carta vincente è da ricercare in una formazione capace di cambiare alla base la mentalità di ogni popolo e di ogni individuo, perché ogni persona esca dal "tribalismo tradizionale" e si apra a una vera mondialità, avvertita come arricchimento umano comune.

(da Nigrizia, aprile, 2005, pag. 74)

Venerdì, 24 Novembre 2006 00:35

Lezione Sesta. L'Alleanza

Lezione Sesta
L’ALLEANZA

1. I cristiani chiamano il loro libro con il nome di “Testamento”: esso si divide in Antico e Nuovo. Questo titolo vuole essere riassuntivo del contenuto della Bibbia, indicare il filo conduttore e l’idea matrice di tutto il testo ispirato. In realtà, ci troviamo di fronte all’idea e alla realtà centrale della Bibbia. Giustamente, Alonso Schöckel ha definito l’alleanza «il sacramento fondamentale del popolo eletto». Testamento è sinonimo di alleanza, patto.

Giunto ad un grado superiore nella padronanza di se stesso, lo spirito della Terra scopre in sé un bisogno man mano più vitale di adorare: dall’evoluzione universale, Dio emerge, nelle nostre coscienze più grande, e più necessario che mai.

L'affermazione del titolo non è un'iperbole né una provocazione, ma un allarme sui pericoli di certi modi di intendere e vivere erroneamente la religione. Pericoli non ipotetici ma consentiti storicamente. È meno pericoloso un agnostico umanista integrale che un credente nell'errore. Come imperfetto seguace di Gesù, intendo offrire un'ipotesi di pensiero, contributo modesto ma sincero in un'epoca di crisi, tanto religiosa come di civiltà.

Dal sacrificio di Abele
a quello di Cristo
di Marcel Neusch


Di Abele, la liturgia ha colto tre aspetti: è chiamato «Giusto», il suo sacrificio è stato gradito da Dio, egli costituisce una prefìgurazione del sacrificio del Cristo. La preferenza di Dio per il sacrificio di Abele è il solo tratto che viene direttamente dal racconto biblico: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gn 4,4-5). La cosa appare ingiustificata. Se, al contrario di quello di Caino, il sacrificio di Abele fu gradito a Dio, non è ad in relazione alla sua qualità di giusto, od in relazione alla natura dell'offerta. Non ci si può impedire di pensare a un'altra scelta di Dio, altrettanto arbitraria: «Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (Ml 1 ,2-3, citato in Rm 9,13).

Il sangue dl Cristo e quello di Abele

La rilettura cristiana andrà oltre. Allungherà la catena delle spiegazioni nel passato e nel futuro. Prima del sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto. Secondo la Lettera agli Ebrei, la differenza concerne la loro fede: «Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino...» (Eb 11,4); mentre Giovanni accusa la mancanza d'amore e pone il cristiano davanti a una scelta: «Non come Caino, che era dal Maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere sue erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste» (1 Gv 3,12). Per quanto coerenti, queste spiegazioni sono assenti dal racconto biblico nel quale è dopo il rifiuto del suo sacrificio da parte di Dio, e non prima, che Caino si rivela malvagio.

Nella lettura cristiana, il sacrificio di Abele aderisce soprattutto a un nuovo statuto: è inteso come una prefigurazione, pertanto resta incompiuto e sarà portato a compimento dal Cristo (At 3,14).

Dove è la differenza? Se il sangue del Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24), è per la trasformazione della vendetta in perdono. Avendo subito la stessa sorte dei giusti del passato, «dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria...» (Mt 23,35) il Cristo ha scelto la riconciliazione al posto della vendetta (cfr. Gn 4,10; Ap 16,6). C'è una dissimmetria tra il sacrificio di Abele e quello del Cristo. Tra l'uno e l'altro si opera una nuova relazione tra l'uomo, Dio e gli altri uomini. Pur dicendo che il sacrificio di Cristo porta quello di Abele a maggiore perfezione, il confronto si stabilisce tuttavia meno tra due tipi di sacrifici - l'offerta di animali da parte di Abele o il sangue versato dal Cristo -che tra due esistenze entrambe definite come giuste, a dispetto dell'ingiustizia di cui essi furono vittime. Così si annuncia un cambiamento radicale, già fondato nell'Antico Testamento. Ciò che ha valore agli occhi di Dio non è il sacrificio, ma la disponibilità alla sua volontà. La lettera agli Ebrei farà dire al Cristo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,4-7). Il racconto di Caino e Abele già rivela, nelle sue riletture, che un rito sacrificale separato dall'impegno verso il prossimo non sarebbe gradito a Dio. Il rito è allora ridimensionato e, in taluni casi, anche rifiutato.

Al centro del sacrificio: l'amore

Bisogna arrivare a ciò che costituisce il centro del sacrificio: l'agapé. A questo proposito, il rito può diventare un ostacolo, a meno che non sia in relazione con un al di qua e un al di là. Al di qua del rito, al di qua anche delle disposizioni d'animo dei sacrificanti, si colloca un dono originario: Dio dona l'animale come cibo (Gn 9,3-4), e non gli si può mai offrire altro che quello che lui ha donato. Ogni sacrificio presuppone dunque una rinuncia di possesso nel cuore del sacrificante, per esprimere che il dono è accolto. Ma c'è anche un al di là del rito: l'amore. Se, nel racconto di Caino e Abele, nulla è detto sul dono iniziale di cui essi sono beneficiari - dono della terra per Caino, degli animali del gregge per Abele - i loro gesti di offerta lo implicano. Inoltre, l'al di là del rito è fortemente sottolineato, in negativo: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4,8).

Questa violenta contro il fratello è la negazione stessa del significato del rito appena compiuto. Davanti al rischio di una frattura tra l'etico e il religioso, alcuni profeti giungono al punto di negare che il sacrificio sia di istituzione divina, per non considerare altro che le due dimensioni al di fuori delle quali non c'è più senso: l'ascolto della voce del Signore e la giustizia verso il prossimo. «Aggiungete pure i vostri olocausti ai vostri sacrifici e mangiatene la carne! In verità io non parlai nè diedi comandi sull'olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dal paese d'Egitto. Ma questo comandai loro: Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; e camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici. Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio» (Ger 7,21-28).

Nella tradizione cristiana, la critica più aspra contro il sacrificio la dobbiamo ad Agostino. I due luoghi classici che gli servono a «spiritualizzare» il sacrificio (cfr La città di Dio, X, 5) sono da un lato la Lettera agli Ebrei: «Non scordatevi della beneficienza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace»; e dall'altro il profeta Osea: «Voglio l'amore e non il sacrificio» (Os 6,6). Ai sacrifici pagani, falsi sin dalle radici, e anche «agli antichi sacrifici dei santi», ridotti a non essere che «figure», sant'Agostino oppone il «vero sacrificio», quello del Cristo, precisando che questo trae il suo valore non dall'immolazione, ma dalla fedeltà al Padre. Se il sacrificio del Cristo merita di essere definito come verissime, è perché esso è espressione di un amore che è andato «sino in fondo». Ne risulta che, per i cristiani, il «sacramento quotidiano» (l'eucaristia), non ha valore che in rapporto da un lato a ciò di cui fa memoria: la vita donata del Cristo, e dall'altro a ciò che essa produce: una vita giocata al seguito de Cristo. Troviamo anche il criterio che distingue i rispettivi sacrifici dei due fratelli, Caino e Abele. Agostino scrive: «Non ci fu carità in Caino; e se non ci fosse stata più carità in Abele, Dio non avrebbe gradito la sua offerta. Avendo entrambi offerto un sacrificio, l'uno i frutti del suolo, l'altro i primogeniti del gregge, perché, secondo voi, fratelli miei, Dio ha rifiutato i frutti del suolo e gradito i primogeniti del gregge? Dio non ha guardato le mani, ma ha visto il cuore: vedendo che l'offerta dell'uno era accompagnata dalla carità, gradì il suo sacrificio; vedendo che l'offerta dell'altro era accompagnata dall'invidia, non gradì il suo sacrificio» (Commento alla prima lettera di S. Giovanni, V, 8). Senza questo nucleo di carità, il sacrificio è privo di senso.

Il sacrificio dinanzi alla critica

Una valanga di critiche si è riversata sul sacrificio. La maggior parte rientra nell'ottica del sacrificio come riparazione di un debito che l'uomo, di fronte ad un Dio terribile e geloso, non finisce mai di scontare. Secondo Freud, il cristianesimo sarebbe la miglior soluzione del complesso di Edipo, che grava sull'inconscio dell'uomo a partire dal primo omicidio, e che nessuna religione è mai riuscita a risolvere. Vero despota orientale, Dio non poteva essere soddisfatto che da un sacrificio totale del figlio, che pagasse per tutti gli altri! Questo genere di teologia, molto diffuso all'epoca, anche nella Chiesa, costituisce inoltre lo sfondo della critica di Nietzsche per il quale la morte sacrificale del Cristo segna la fine della Buona Novella. «In un solo colpo, ecco già fatto l'Evangelo! Il sacrificio espiatorio, e nella forma più ripugnante, più barbara, il sacrificio dell'innocente per i peccati dei colpevoli! Che spaventoso paganesimo! - Gesù aveva tuttavia abolito l'idea di "colpa", aveva negato ogni barriera tra l'uomo e Dio: aveva vissuto l'unità "Dio-uomo", e l'aveva vissuta come la sua "Buona Novella", e non come un privilegio!» (L'Anticristo, § 41).

Ma, se si vuole rendere giustizia al «sacrificio» cristiano, bisogna cominciare col disfarsi da certi pregiudizi. Sacrificare significa donare, ma si può donare per due motivi; per ricevere in cambio, o perché si è gi ricevuto. Nel primo caso, il rischio è quello di una devozione mercenaria: si fa un dono in vista di un contraccambio. Nel secondo caso prevale la logica del rendimento di grazie poiché il «sacrificante» è nella condizione di chi contraccambia: riconosce che Dio lo ha preceduto, sia che si tratti del dono della vita che delta salvezza.

Il contraccambio non può tuttavia ridursi alla semplice offerta di una cosa: «Il sacrificio, nella sua totalità, siamo noi stessi», dice sant'Agostino. «Perché questi due uomini, Abele che significa pianto (luctus) e il fratello Seth che significa resurrezione, sono la figura della morte del Cristo e della sua resurrezione dai morti. Da questa fede nasce quaggiù la città di Dio» (La città di Dio XV, 18).

Più acuto di Nietzsche, Kierkegaard ha visto che tale era già la logica del sacrificio di Abele. Ciò che dà valore al suo sacrificio, è la vita. Il vero cristiano non ha bisogno né di giorni sacri, né di luoghi per i suoi sacrifici, e neppure di altare, perché il vero sacrificio è l'esistenza nella sua totalità, si estende a tutti i giorni della settimana. C'è una priorità: «Va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23). Ecco l'alternativa, scrive Kierkegaard nel suo Discorso per la comunione del venerdì (1848) «Quale sacrificio, pensi tu, gli sia più gradito: quello che fai riconciliandoti con colui che ha qualche cosa contro di te, cioè sacrificando a Dio la tua collera - o l'offerta che potresti deporre sull'altare? Ma se il sacrificio di riconciliazione è il più caro a Dio, a Cristo, allora anche l'altare è là dove il sacrificio più gradito a Dio si compie… Non dimenticare che là dove esso si compie, vi è anche l'altare».

Nel sacrificio del Cristo vi è una carica sovversiva che fa esplodere l'idea stessa di sacrificio. Se c'è una lezione da trarre, già implicita nei sacrifici di Caino ed Abele, è che l'esistenziale deve avere la precedenza sul sacrificale, la relazione verso gli altri sul culto a Dio perché, diceva Levinas, Dio ha tutto il tempo per attendere, mentre il servizio del prossimo non tollera né ritardi né interruzioni.

* Teologo, Assunzionista - Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, n. 43)

Giovedì, 23 Novembre 2006 23:33

Dio: fedele e inafferrabile (Giuseppe Bellia)

Dio: fedele e inafferrabile
di Giuseppe Bellia



Quando il lento processo di progressiva identificazione dell'insegnamento sapienziale con la Torah cominciò ad affermarsi nella prassi interpretativa del giudaismo rabbinico della diaspora, si avviò un profondo e inarrestabile mutamento nella sensibilità religiosa del popolo ebraico e nel modo di concepire il suo rapporto con la divinità. Si era compreso, in terra d' esilio, che l' effettiva esperienza di Dio non avrebbe più avuto il riverbero grandioso delle solenni teofanie tramandate dai racconti di fondazione o l' alone mistico degli oracoli trasmessi dalla fervida attività profetica: l'incontro personale avrebbe avuto il sapore più familiare della quotidianità, attraverso l' ascolto attento e, soprattutto, lo studio della parola divina ormai sigillata nella tradizione testuale. Le vicende umilianti dell'esilio e quelle deludenti del ritorno, insieme alI' impatto devastante che le culture egemoni esercitavano sulle giovani generazioni, facevano scricchiolare la fiducia di molti israeliti nel valore o nel significato da assegnare alla testimonianza dei padri su YHWH, sicché s'imponeva un necessario riesame e una seria rilettura dei testi fondanti, per avere una raffigurazione più solida e attendibile del Dio della fede, utile per quei tempi di transizione e di crisi. I frutti maturi e le conseguenze estreme di questa laboriosa metamorfosi antropologica e teologica si sarebbero visti nel lungo periodo, approdando finalmente, dopo l'appassionata denuncia morale di Giobbe e il realismo sconcertante del compassato Qohelet, alle più mature icone di Siracide e Sapienza.

Verso un nuovo volto di Dio

Il libro dei Proverbi, pur nella complessità della sua molteplice stratificazione redazionale, rivela il travaglio di questo delicato passaggio verso una di- versa e non meno avvincente visione di Dio, colto nella sua verità più profonda e nascosta, raggiungendo così un volto meno appariscente, attraverso gli strumenti del processo interpretativo della rivelazione accolta dai padri, Si sta- va gradualmente acquisendo la consapevolezza che la conoscenza personale della divinità non si realizzava più nella remota eccezionalità di un incontro diretto con Dio, ma nell' oscura ordinarietà dell' esperienza di fede che, mediante le pratiche interpretative delle tradizioni religiose precedenti, conduce- va a scoprire una nuova, intima e più coinvolgente presenza di Dio nel mon- do e nella storia. Questo percorso teologico, a guardare il legalismo ottuso dei consolatori molesti di Giobbe o le glosse interpretative dei pii correttori di Qohelet, non fu agevole e dovette incontrare non poche resistenze, come si può leggere tra le righe della stessa redazione finale di Proverbi, dove inerzie conoscitive e il rischio di penose distorsioni e mistificazioni, hanno convinto a inquadrare in senso teologico i punti più difficili da arginare.

È tuttavia merito della riflessione speculativa dei sapienti scribi d'Israele aver prospettato, e con molta audacia, a partire dal IV secolo a.C., la concretezza di un incontro personale con Dio, attraverso la mediazione di una sapienza personificata che, all'inizio (1,20-33) e alla fine (8; 9,1-6.11) della prima sezione, è raffigurata come amabile figura femminile.

In realtà la sapienza è presentata come intimamente legata alI' opera creatrice di YHWH di cui dispensa generosamente i doni materni che permettono ogni forma di vita. Il volto di Dio resta però velato e misterioso, infatti, è sua gloria nascondersi (25,2); e il suo governo del mondo è esercitato con discrezione, per mezzo di una moltitudine di intermediari, finalmente presieduti da una sapienza creatrice e ordinatrice. L'introduzione di questa figura mediatrice serviva a far quadrare i conti di chi prendeva atto, con i suoi strumenti conoscitivi, dell'apparente contraddizione tra antropologia e teologia, fra l'insondabile trascendenza divina e la sensatezza dei giudizi morali formulati dall'uomo. La razionalità del precetto divino consegnato alla fede dei credenti, consenti- va al sapiente, attraverso un'accurata opera di ricognizione di causa-effetto, di formulare il prevedibile esito del giudizio di Dio sulle azioni dell'uomo: ma proprio il giudizio ultimo di Dio era inarrivabile e la figura di YHWH restava sempre un mistero inscrutabile che lo sforzo conoscitivo dei sapienti non poteva mai riuscire a imbrigliare dentro gli schemi di una teodicea rigida e conclusa. Il Signore si offre come un misericordioso e giusto sovrano, insieme fedele e inafferrabile, che garantisce l'affidabilità del giudizio morale del sapiente, mentre nel contempo si sottrae a ogni cattura idolatrica da parte dello stesso credente.

Il redattore di Proverbi, nel tentativo di comporre la statica visione teologica della tradizione deuteronomista con la lezione aggressiva e inevitabile della storia, ha rischiato di presentare un Dio inappagante, dalla configurazione discontinua, dove le zone d' ombra evidenziavano elementi di irrisolta ambiguità. Accanto a una serie di passi rassicuranti che confortano lo scriba timorato sul giudizio etico di Dio, si possono allineare una serie di massime e di aforismi, oltretutto provenienti dalle raccolte più antiche, dove appare in tutta la sua evidenza l'imprevedibile e incommensurabile realtà divina. Vediamo prima alcune affermazioni in linea con la teodicea della tradizione.

«In tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri. Salute sarà per il tuo corpo
e un refrigerio per le tue ossa» (3,6.8).

«Onora il Signore con i tuoi averi
e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno di grano
e i tuoi tini traboccheranno di mosto» (3,9-10).

«Non temerai per uno spavento improvviso, ne per la rovina degli empi quando verrà,
perchè il Signore sarà preserverà il tuo piede «Il Signore non lascia
ma delude la cupidigia
la tua sicurezza,
dal laccio» (3,25-26). (...)

Ed ecco altri passi in cui Dio mostra la sua imprevedibile e incontenibile trascendenza:

«AlI 'uomo appartengono i progetti del cuore, ma dal Signore viene la risposta della lingua.
Tutte le vie dell'uomo sembrano pure ai suoi occhi, ma chi scruta gli spiriti è il Signore» (16,1-2).

«Il cuore dell'uomo pensa molto alla sua via,
ma è il Signore che dirige i suoi passi» (16,9 e 19,21).

«C'è una via che sembra diritta all'uomo, ma sbocca in sentieri di morte» (16,25).

«La casa e il patrimonio si ereditano dai padri,
ma una moglie assennata è dono del Signore» (19,14).

«Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo
e come può l'uomo comprendere la propria via?» (20,24).

«Il cuore del re è un corso d'acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole» (21,1).

«Non c'è sapienza, non c'è prudenza, non c'è consiglio di fronte al Signore.
Il cavallo è pronto per il giorno della battaglia,
ma al Signore appartiene la vittoria» (21.30-31).

E infine, con disincantato realismo, si osserva:

«Il ricco e il povero si incontrano,
è il Signore che ha creato l'uno e l'altro» (22,2).

«Il povero e l'usuraio si incontrano;
di tutti e due il Signore illumina gli occhi» (29,13).

Il redattore ultimo ha cercato di far confluire i detti più sconcertanti sulla condotta divina, frutto di una consolidata esperienza umana, difficilmente contestabile, dentro le sponde rassicuranti di una visione teologica innovativa che doveva tuttavia conservare elementi di continuità con la tradizione.

A questo serviva la sezione d'introduzione dei cc. 1-9 e la conclusione di 31,10-31: sposare la sapienza e rallegrarsi dei suoi frutti fino a tesserne l'elogio, significa assegnarle un ruolo guida in ordine al volere divino, in pratica coincidente con la stessa funzione ermeneutica svolta dall'attività scribaIe. Insomma, la via additata per trovare una composizione tra le affermazioni tradizionali della fede e le contrastanti conclusioni del comune buon senso, consisteva proprio nell' incontro felice e benedetto con la Sapienza, sposa e madre. Si proponeva in questo modo un'esperienza religiosa imperniata sulla convergenza tra iniziativa sapienziale e corretta comprensione della Torah, che solo con Ben Sira si spingerà verso quella mirabile e feconda identificazione della sapienza con il libro della legge (Sir 24,23), che grande ripercussioni avrà nel pensiero giudaico e protocristiano.

La parola luogo d’incontro con Dio

A grandi linee, è questo l'articolato quadro religioso delineato dall'ingegnosa e irrisolta teodicea di Proverbi. Il tentativo di coniugare l'affabile e misteriosa trascendenza divina con la dignitosa e terrigena immanenza dell'uomo era iniziato, ma l' esegesi di maniera non sembra poter dire altro su questa controversa ermeneutica teologica: si devono allora tentare altre vie di accesso. L'approccio delle scienze umane, attraverso una rigorosa interrogazione sociologica e antropologica del testo e con l' apporto delle altre fonti, può tentare di circostanziare e contestualizzare la portata reale di queste asserzioni contraddittorie, consentendo alla teologia implicita di uscire dalle nebbie di una tradizione sapienziale che un perdurante luogo comune insiste nel volere astorica e atemporale. In realtà, proprio nella complessità della trama storica e non solo nel chiuso universo letterario, va invece ricercato l'ambiente originale, il linguaggio e la stessa intenzionalità comunicativa di ogni nuova esperienza religiosa.

Se si guarda alla culturologia di Proverbi, a quanto è condiviso e accettato, implicitamente, da parte dello scrivente e dei suoi destinatari, ritengo si possano far emergere alcuni tratti indicativi sfuggiti ad altre investigazioni. Nel libro, accanto all'assenza della funzione templare e davanti a un ruolo defilato della legge, emerge come centrale il primato indiscusso assegnato alla parola viva del sapiente (padre o maestro), oppure del suo antitipo (il malvagio e la prostituta). L'analisi lessicografica, pur con i suoi limitati parametri quantitativi, comprova il ruolo svolto dal campo semantico che ruota attorno a dbr (parola), in un contesto, è bene precisarlo, dove non si dà una presenza autorevole della profezia, della divinazione, del sacerdozio e della legge. Giustamente, è stato fatto notare che «la parola è lo strumento principale nel campo della sapienza e dei suoi contrari», abbracciando sia la parola precettiva della legge, sia quella subdola dei perversi traviatori; e ancora, quella persuasiva dell'anziano e quella aggressiva del beffardo, quella limpida della sapienza e quella seducente della straniera. Inquesta prospettiva si può inoltre vedere l'analisi statistica di termini come «bocca», «labbra» e «lingua», attorno ai quali si sviluppa la cosiddetta «morale del linguaggio».

Il tema della parola è accompagnato da quello dell' ascolto che il figlio, il giovane, il suddito e il discepolo devono dare al consiglio, all'insegnamento o al precetto. Da notare che il redattore presenta il giovane non come inesperto ma come ingenuo (1,4), come chi è «senza genere»: si tratta del giovane che, non avendo ancora ricevuto il seme del precetto divino e l'acqua della parola del saggio o, alI' opposto, il veleno mortale del seduttore o la chiacchiera fuorviante del malvagio, non è in grado di conoscere il bene e il male e non può quindi assumere un comportamento buono o cattivo. L'israelita sapeva che la parola accolta nel cuore, germinando, produce necessariamente il suo frutto (Is 55,10-11): o il sapere secondo Dio o l'inganno del conoscere in proprio. Davanti a questa parola originaria e originante il cuore del giovane si può disporre, dunque, in due modi contrapposti: o all'apertura dell'ascolto o alla chiusura dèl rifiuto, incamminandosi così rispettivamente verso i sentieri luminosi della sapienza o verso i luoghi scabrosi della stoltezza. Per il saggio che permane in un atteggiamento di ascolto si apre la possibilità di diventare «giusto», mentre per lo stolto che si radica in un atteggiamento di rifiuto si spalanca davanti a lui I'habitus dell' empietà e del cinismo. L' interferenza o la sovrapposizione costante che in tutto il libro si stabilisce tra il tema della lingua e termini connessi («bocca» 27 volte, «labbra» 37 volte e «lingua» 16 volte), con le categorie etiche della stoltezza e della saggezza, disegna a tinte forti le contrapposte tipologie del giusto e dell' empio, a seconda del differente esito che la parola di Dio produce nel cuore docile o ribelle.

Questa articolata visione antropologica, imperniata sul primato della parola, ha un sicuro valore storico, perchè spiega il senso della funzione sapienziale in un'epoca di mutamento, collocandosi proprio nel punto d'incontro del testo biblico con la concreta società religiosa in cui il libro è stato prodotto, accolto e trasmesso. La centralità della parola viene così a coincidere con il ruolo sociale dello scriba sapiente e con il suo impegnativo compito pedagogico, dal momento che in un tempo di offuscamento degli ideali e davanti alI' assenza delle autorità, tradizionali o istituzionali, si poteva fare affidamento solo sull'autorevolezza morale di un'argomentazione paziente e persuasiva, affidata alla parola del saggio.

L'irruzione poderosa della parola nella vita del popolo d'Israele aveva prodotto però un effetto non meno sconvolgente nella sua sensibilità religiosa e nella sua diveniente teologia. Come spiega Beauchamp, le interpellazioni originarie della legge e dei profeti avevano cominciato a far posto allo stesso soggetto interpellato: la parola originaria di Dio alI'uomo aveva generato nel cuore del credente la parola di risposta a Dio, facendo accogliere anche questa parola umana come degna di fiducia. Si realizzava così una metamorfosi sorprendente che indicava la reale portata della mutazione antropologica in atto e della stessa intelligenza di fede, che invitava i credenti a entrare in un' età più adulta della storia della salvezza. L'impressionante svolta ermeneutica avvenuta nel processo scritturale d'Israele imponeva all'israelita di ricercare la presenza illuminante di Dio in quel rapporto personale che ogni credente, da li in avanti, doveva stabilire con le pagine sacre, attraverso lo stadio e la preghiera. Il luogo privilegiato dell'incontro con Dio si stava ormai spostando inesorabilmente dal tempio alla sinagoga e la sapienza creatrice e interprete non aspettava il credente dentro gli spazi sacri del recinto templare, ma veniva incontro anche nel cuore dissacrante delle caotiche città della dispersione: gli è solo richiesto di condurre nella quotidianità un'esistenza autentica, misurata dalla docilità all' ascolto della Torah mediata dal saggio.

Studio assiduo della Parola e vigile esistenza quotidiana sono, dunque, per i sapienti i luoghi indissolubili di un percorso di conoscenza che cominciava a dire qualcosa d'inedito della presenza nascosta del Dio dei padri, rivelando anche qualche nuova, timida, linea raffigurativa del suo volto.

Quale sviluppo?

In una città adagiata lungo le rive dell'Oronte, quando i gruppi ebraici non avevano ancora acquistato peso politico e il culto sinagogale non aveva ancora assunto forma istituzionale, un ceto intellettuale colto e timorato in un oscuro tempo di mutazione aveva interpretato, nelle pagine di Proverbi, la ricerca della sapienza come tentativo sponsale di incontrare Dio nel proprio luogo e nel proprio tempo. L'opera di mediazione di questi scribi sapienti, attraverso un processo teologico non sempre lineare, permetterà alle generazioni successive di entrare a piccoli passi nel segreto di una presenza divina nascosta fin dentro l' opaca quotidianità della storia.

Lezione magnifica e duratura che dalla tradizione sapienziale giungerà fino al disvelamento pieno del volto di Dio in Cristo, come ci tramanda Matteo a conclusione del parlare in parabole del rabbi galileo: ogni scriba divenuto discepolo saprà trarre dal tesoro della parola accolta «cose nuove e antiche» (M t 13,51). E com'è annunciato nella dirompente rivelazione di Gesù alla samaritana: non c'è luogo o tempo dell'esistenza dove Dio non si lascia incontrare da chiunque lo cerca «in spirito e verità» (Gv 4,24).

(da Parole di vita 1, 2003)

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