Vita nello Spirito

Mercoledì, 14 Marzo 2007 00:50

Il sano equilibrio delle emozioni (Frei Betto)

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di Frei Betto
 

Composti di fango e spirito, siamo un fascio di stupefacenti sentimenti. Che però teniamo in ghiacciaia, per paura di essere noi stessi. Se solo li sapessimo liberare…

Prendete un film. Se visto nella sala giusta, ogni fotogramma ci stupisce. La trama tocca la nostra sensibilità e ci trasporta al di là di noi stessi. È un vero trascendersi, spinti dal quel senso estetico che sa far rinascere l’altro noi, addormentato nel profondo del nostro spirito, drogato dall’attivismo. Quando usciamo dalla sala, la città brilla in modo diverso ai nostri occhi.

O prendete un rincontro. La nostra vita è O.K, in famiglia tutto procede bene, i figli sono sani, il matrimonio si barcamena tra i molti doveri e i piccoli piaceri... All’improvviso, girato l’angolo di una strada, o entrati in un ristorante, o mentre siamo in viaggio, ecco che c’imbattiamo in una persona che la mente ha cercato di escludere dalla nostra vita. Fingiamo di non vederla, ma lei ci segue come un carico che ci opprime e turba. La mente s’inquieta, l’immaginazione ci fa impazzire. Tre mostruose gorgoni si svegliano in noi: invidia, calunnia e odio. Dopo aver esiliato le tre orrende sorelle dalla testa spaventosa nei più remoti meandri della memoria, ecco che il casuale incontro risveglia le tre fiere. Evitiamo che gli sguardi s’incrocino, sveltiamo il passo... Ci sono persone che sanno suscitare ciò che di più satanico c’è in noi. Decidiamo di ignorarne l’esistenza, ma il destino fissa il rincontro. E le emozioni, ululanti come venti impetuosi, scoperchiano il tetto della ragione e sconvolgono i sentimenti. Se un rimpianto è sopravvissuto, allora ci si scambia due parole, brevi saluti – «Come va?» –, ma poi ce la diamo a gambe. Per un attimo solo, usciamo dal nostro guscio, affascinati dalla poesia che si riverbera nel profondo di noi stessi. Condividiamo il meglio di noi, come un sapore che il palato sa assaporare ma non trattenere.

Un ritratto, un bastone da passeggio, uno scialle: sacramenti di chi se n’è andato, lasciandoci orfani. Meri oggetti, ma c’è tutto un mondo racchiuso in essi. Solo gli occhi del cuore lo sanno cogliere. La donna delle pulizie, ignara, ha gettato nelle immondizie quel biglietto del teatro, ingiallito dal tempo. Sacrilegio di chi non sa il significato che esso conteneva: il ricordo di un amore che non muore. Una saudade, profonda, forte, feconda... Lo struggimento che accompagna un ricordo bello, forse finito, forse no. Chi può saperlo? Nessuno dispera del tutto. Ecco la singolarità del nostro essere nella sua piena libertà! Ora siamo “plurali”. Evocazione di Dio, dell’amato, della diletta, di un momento indimenticabile... Il gusto della vita. Mistero che solo l’intimità sa scorgere e, pertanto ci trasfigura di dentro e di fuori.

Un toccamento, uno sguardo, una parola... ed ecco la gola secca, una vampa in petto, le lacrime agli occhi. Il nostro mondo ha i confini di una piccola tribù. Come se nello scrigno dell’amore non ci fosse molto spazio, ma solo quel tanto che basta per recar gioia a questa breve esistenza.

Il ritorno a casa. La città giace tra le falde del monte e la luce generosa del porto. Sbarchiamo in cerca di un passato vivo solo nella memoria. Non c’è più l’elevato palco di pietra; il porto è un acquitrino d’imbarcazioni senza vita. La passeggiata lungomare ha perso il suo incanto. Andiamo alla ricerca di un tempo che è passato. Gli amici se ne sono andati. Gli alberi di mango hanno ceduto il posto ai lampioni. Il campetto di calcio è diventato il parcheggio di un supermercato.

Tuttavia, premiamo per vedere l’invisibile: la casa della madrina, una volta merceria, è oggi una gelateria; il fiume è sparito sotto il cemento di un viale. Vaghiamo per la città cercando quel bambino che gioca a nascondersi in una profonda piega del nostro essere. Come sarebbe bello se, girato l’angolo, ci trovassimo sulla stessa strada di una volta, vedessimo parcheggiato il vecchio furgoncino del signor Jacinto, e, su in altro, la finestra dalla quale Marinalva si sporgeva nella speranza di vedere arrivare ancora una volta il commesso viaggiatore che se n’era andato, portandosi via, assieme ai campioni dei medicinali e ai cataloghi delle ferramenta, il suo cuore.

Ammirate un’opera d’arte: una tela, una scultura, una poesia, un romanzo... C’è tutto in essi. Il pittore riesce a ritrarre nella sua opera le nostre sembianze più oscure e fantasiose. Sa far vibrare con intensità i sentieri più onirici dei nostri boschi segreti. E noi rimaniamo stupefatti davanti al dipinto, mentre il nostro sguardo lo penetra in profondità. Davanti a una scultura, i nostri occhi rimodellano ogni sua forma, ogni sua curva, ogni sua rientranza: l’emozione ne coglie l’anima. «Parla!». Il marmo e il bronzo rivivono in noi. Una poesia risuona come musica che c’invita a un ballo di fantasie alate. Un romanzo ci trasporta lungo percorsi mai sospettati: ci immedesimiamo in questo o quel personaggio e il significato dell’esistenza sembra tessersi tra le pagine del testo.

Una felice sorpresa, come un abbraccio, un dono, un anniversario ricordato... L’età non sembra più contare. Veniamo trasportati nell’imponderabile. Simuliamo reticenze solo per non rilasciare nell’aria le emozioni, come palloncini nell’azzurro del cielo. Ecco il cielo limpido. Ecco i venti favorevoli. Siamo noi che levitiamo al di sopra della ragione, delle argomentazioni logiche, delle apparenti certezze che generano soltanto illusorie sicurezze.

Composti di fango e spirito, siamo un fascio di stupefacenti emozioni, che però teniamo in ghiacciaia, per paura d’essere noi stessi.

(da Nigrizia, Gennaio 2007)

Letto 1833 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 22:39
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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