PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO
di GianMarco Schiesaro
MC Febbraio 2007
Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre (Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai riflettori della modernità e scorre sui binari tranquilli della tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà, tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modernità non deve stupire: internet sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale, circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli standard stabiliti dalle organizzazioni internazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di cataclismi naturali.
SE LA SALUTE VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato. Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti: la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989, offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30 paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese. Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina - sostiene Maria - è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato nella maggior parte dei centri sanitari.
LA «GRAAMEN PHONE»: PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa. Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni, fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus, inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale, solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani. La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata. Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale, molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.
CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org) trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti, che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.
«VENDO CAPRE»: SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet... Ci sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè...».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Internet) serve a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cooperative locali, che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi: dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione. Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che, grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?
MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di utenti contemporaneamente. Perché - è la domanda ricorrente - non incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all'ingresso in massa del mondo del business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti», destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente) a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di retorica e da un'assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto sulle fasce più deboli della popolazione.