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Venerdì, 18 Gennaio 2008 18:50

Tuareg / Rivolte in Mali e in Niger - LA NAZIONE CHE NON C’È, C’È!

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Tuareg / Rivolte in Mali e in Niger
LA NAZIONE CHE NON C’È, C’È!

Angelo Turco
Nigrizia/Novembre 2007

I venti della ribellione spazzano il deserto. Temust n imajeghan, il paese dei tuareg, è di nuovo in fiamme. Parecchie cancellerie sono in allerta. E si capisce. La regione è sensibile e ogni faccenda che riguarda i nomadi, per la loro grande mobilità transfrontaliera, si trasforma in un problema internazionale. Le armi crepitano. In Mali la dissidenza è guidata da Ibrahim Ag Bahanga, cui si è aggiunto di recente il colonnello Hasan Fagaga: la rivolta va avanti da più di un anno, sia pure in fasi che alternano tregua e violenza.

In Niger i combattimenti sono iniziati in febbraio, sotto le bandiere del Movimento nigerino per la giustizia (Mnj), guidato da Agaly Alambo. Il profilo securitario degli eventi non sfugge a nessuno. E però, da Algeri a Tripoli, da Ouagadougou a Nouakchott, da Niamey a Bamako, da Washington a Parigi, da New York a Bruxelles e ad Addis Abeba, andando in giro per le diverse capitali che pure dovrebbero essere interessate, per un motivo o per l’altro, a quel che capita nel cuore del Sahara, si ha l’impressione, ancora una volta, che una “questione tuareg” non esista e non sia mai esistita.

Eppure, a fine agosto viene annunciata la saldatura dei movimenti insurrezionali, con la creazione di un’Alleanza tuareg Niger-Mali (Atnm), mentre il 19 settembre è addirittura promulgato, via internet, l’atto di fondazione della Repubblica Toumoujgha, «con la città storica di Agadez come capitale politica».

Intossicazione mediatica? Forse. Certo è che la gestione politica di questa crisi sembra del tutto inadeguata, a cominciare dal volo piatto dell’Unione africana, pur presieduta da un rispettabile uomo di stato maliano come Alpha Oumar Konaré. Del resto, il grande pubblico continua a filtrare i problemi degli imajeghan – così i tuareg chiamano sé stessi in tamajeq, la loro lingua – con la trama delle retoriche sugli “uomini velati”, gli “uomini blu”, avvolti nel mistero delle loro remote origini, mischiate ai ricordi di vecchi film sulla legione straniera impegnata in epiche gesta per la pacificazione del Sahara.

Eppure, i tuareg combattono da 130 anni per veder riconosciuta la propria dignità di popolo. Dapprima contro i colonizzatori francesi, a partire dalla famosa missione Flatters, schiacciata nel 1881 a In-Uwahen. Quindi, contro gli stati indipendenti, che ereditano dalla Francia il sistema delle frontiere coloniali e, con esso, il principio dell’inesistenza di una nazione tuareg. Secondo la ricostruzione del geografo Edmond Bernus, grande specialista del mondo tuareg, Temust n imajeghan si estende su sette stati sahelo-sahariani (Niger, Mali, Burkina, Algeria, Libia, Mauritania, Nigeria), senza contare le diaspore (Ciad, Sudan). Tuttavia, gli imajeghan vivono per metà in Niger e per un altro terzo almeno in Mali.

Il sogno dell’unità politica tramonta nel 1919, con l’annientamento delle armate di Kaosen. Nel 1957 fallisce il tentativo di dar corpo all’Organizzazione comune delle regioni sahariane (Ocrs), del tutto strumentale agli interessi petroliferi della Francia. Di fatto, nell’ultimo mezzo secolo i tuareg hanno continuato a battersi per preservare la loro cultura e il loro patrimonio identitario. Da tempo, in Niger e in Mali soprattutto, gli antichi irredentisti chiedono solo il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza, alla pari con gli altri popoli che vivono in quegli stati.

Da tempo dismessi gli abiti della secessione, i tuareg si ostinano a domandare l’autonomia amministrativa per le loro terre ancestrali nell’ambito degli ordinamenti statali. In risposta, una sconcertante sequenza di spedizioni militari, repressioni, promesse non mantenute, intese sancite internazionalmente ma non rispettate. Ultimo, l’accordo di Algeri dello scorso anno, firmato dal governo maliano e dalla ribellione, ma poi quasi ignorato da Bamako.

Gheddafi in campo

Intanto, sulla trama della dissidenza tuareg sono andati aggrumandosi altri e preoccupanti motivi di tensione. Nella fascia sahelo-sahariana un attivo banditismo transfrontaliero alimenta traffici d’ogni tipo: armi, esseri umani, droga. La penetrazione jihadista, particolarmente del gruppo Al-Qaida per il Maghreb islamico, viene segnalata da più parti. E non è un caso, forse, se proprio in queste settimane si registra una ripresa degli attentati nel nord algerino. Val la pena tuttavia sottolineare che i rapporti della ribellione tuareg con le bande del terrore – qaidisti o salafisti – sono costellati di frizioni e scontri aperti. Insomma, per niente tranquilli.

Tutto ciò allarma l’Algeria, sollecita nell’aiuto logistico alle truppe regolari maliane impegnate nella repressione anti-tuareg. Ma allarma ancor più gli americani, che hanno individuato in questa zona uno dei fronti caldi della lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente il Mali nelle operazioni miranti a dare sicurezza al nord; la stessa ambasciata americana a Bamako ha ammesso che un aereo militare, fatto bersaglio dai tiri della ribellione, è tornato integro alla base.

Dopo il Corno d’Africa, questa è la regione dove militarmente gli Usa sono più impegnati nel continente. Le esercitazioni antiterroristiche si susseguono, nel quadro di programmi pluriennali che coinvolgono una decina di paesi. Questa, del resto, è una delle aree in cui il Pentagono medita di installare il comando militare unificato per l’Africa (Africom), ma deve fare i conti con l’opposizione sia dell’Algeria che della Libia.

Per quanto ambiguo come al solito, Gheddafi ha un ruolo importante nella partita che si sta giocando. Molti credono che sia lui a soffiare sul fuoco della dissidenza tamajeq, infiammando le passioni irredentiste, con il miraggio del “Grande Sahara”, uno spazio politico per i popoli del deserto. Gli osservatori notano che il braccio armato della dissidenza è passato attraverso i campi di addestramento libici, formandosi nei ranghi della “Legione verde”, il corpo d’élite costituito alla fine degli anni ’80 e impiegato di preferenza nelle operazioni all’estero.

Sollecitato dal presidente nigerino, Mamadou Tandja, a fare da mediatore nel conflitto, il colonnello avrebbe posto come precondizione il riconoscimento dell’Mnj. La “Guida” non ama che lo si menzioni a proposito della dissidenza tuareg. A questo riguardo, ha inaugurato una strategia destinata probabilmente a fare scuola. Denuncia, infatti, per calunnia i giornali che fanno cenno alla sua posizione e alle sue presunte responsabilità. Nell’impossibilità di esibire prove giuridicamente valide in tribunale, gli organi di stampa rischiano condanne pecuniarie elevate, al punto da metterne in forse la sopravvivenza.

Porte chiuse a Niamey

A complicare enormemente il quadro c’è l’uranio, in cima alle esportazioni del Niger, che è il terzo produttore mondiale e di gran lunga il primo dei paesi africani. La Francia si trova da sempre in posizione di monopolio nello sfruttamento del minerale nigerino, iniziato nel 1971 sul sito di Arlit, nell’estremo nord.

Da molti mesi, Tandja è impegnato nella rinegoziazione del prezzo dell’uranio con l’Areva, gigante francese dell’industria nucleare. Il 1° agosto, un risultato importante: l’aumento di quasi il 50% del prezzo, passato a 40.000 franchi cfa al kg, con effetto retroattivo al 1° gennaio 2007. Risorse aggiuntive preziose per uno dei paesi più poveri del mondo. Il fatto è che l’uranio è un minerale strategico per la Francia, e ogni negoziato si pone nel quadro degli accordi di cooperazione militare franco-nigerini. In più, a fine anno i permessi di sfruttamento decadono e sarà necessario un riassetto complessivo del dossier minerario.

È in questa prospettiva che entrano in scena altre multinazionali del settore: canadesi, australiane e soprattutto cinesi. Attraverso la China Nuclear Engineering and Construction Corporation (Cnec), il dragone asiatico avrebbe incamerato una decina di permessi di prospezione, qualcosa come la metà di quelli complessivamente in gioco. In questo quadro s’iscrive l’attacco dell’Mnj in aprile al sito di Imuraren, uno dei più ricchi dell’Areva. E se, da una parte, Nicolas Sarkozy moltiplica le dichiarazioni di simpatia e di amicizia nei confronti del Niger, dall’altra non sono pochi nella capitale Niamey coloro che pensano che l’Areva abbia qualcosa a che fare con la ribellione, al fine di dissuadere i concorrenti cinesi.

Il fardello sociale di questo ginepraio si fa sentire nei due principali paesi interessati. Un sentimento di malessere si diffonde in Mali, dove i combattenti tuareg sempre più vengono accostati ai terroristi, per i loro metodi di violenza indiscriminata a causa della disseminazione nella zona di mine antiuomo. Tanto più apprezzabile, quindi, è l’apertura del governo. Grazie agli sforzi del presidente Amadou Toumani Touré, l’Algeria ha offerto le risorse finanziarie per rimettere in moto il processo di attuazione degli accordi di Algeri.

L’atteggiamento nigerino, viceversa, è di chiusura. Amnesty International, con le associazioni umanitarie nigerine, denuncia l’emanazione dello “stato di attenzione”, che sospende i diritti fondamentali ed è all’origine degli arresti e torture della popolazione civile. L’intimidazione della stampa è all’ordine del giorno.

Moussa Kaka, direttore della radio privata Saraouniya e corrispondente di Rfi e di Rsf, viene arrestato a Niamey il 20 settembre, con l’accusa di «attentato all’autorità dello stato». È tuttora in prigione.

Per quanto tempo ancora il presidente Tandja potrà ignorare le aspirazioni degli imajeghan e considerare la dissidenza tuareg come un’orda di banditi?

Letto 4014 volte Ultima modifica il Martedì, 04 Marzo 2008 23:11

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