Nel 1989, John Williamson, dell’Istituto di economia internazionale di Washington, dopo aver partecipato a una riunione di rappresentanti di paesi dell’America Latina per disegnare le riforme necessarie per far uscire il sub-continente dalla crisi del debito estero e recuperare la crescita che la regione non aveva avuto nella década perdida degli anni ’80, scrisse un articolo in cui espose ciò che, a suo giudizio, era un «accordo unanime» sulle politiche che i paesi poveri avrebbero dovuto varare per diventare più ricchi. Quell’accordo — noto come “Consenso di Washington” — altro non era che una trama cospiratoria dell’imperialismo, deciso a garantirsi uno spazio egemonico in America Latina, sostituendo le dittature militari con governi neoliberisti.
Molti presidenti — assistiti dai Chicago Boys (giovani economisti formati all’università di Chicago sotto l’egida di Milton Friedman e Arnold Harberger) — si affrettarono a “rottamare” il patrimonio nazionale con privatizzazioni irresponsabili e processi di “deregolamentazione” delle leggi sul lavoro, riducendo le rispettive nazioni in casas de mãe-joana (luoghi di gozzoviglie) del capitale transnazionale. Esempi di questa accondiscendenza agli interessi della Casa Bianca e di solenne disprezzo dei diritti fondamentali dei poveri sono stati i presidenti Collor de Mello (Brasile), Menem (Argentina), Fujimori (Perù), Arias (Costa Rica), Pérez (Venezuela) e Salinas (Messico).
Il “Consenso di Washington” servì ad accelerare le privatizzazioni e a promuovere la corruzione, lasciando come eredità debiti esteri spaventosi, inflazione accelerata, disoccupazione, dilapidazione delle industrie nazionali, concentrazione delle terre nelle mani di pochi e spostamento dei capitali dalla produzione alla speculazione.
Come reazione a ciò, assistiamo oggi al sorgere di un nuovo consenso, che definirei “Consenso-Sud”: quello dei paesi latino-americani guidati da partiti e presidenti impegnati a ridurre le disuguaglianze sociali. Dopo le dittature militari e i governi liberisti, sta sbocciando una primavera democratica, consolidata dall’elezione di leader politici che dicono no a quella politica che aveva applaudito all’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), appoggiato l’invasione dell’Irak da parte di George Bush padre, e coltivato il sogno dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), proposto da Clinton come fine del Mercosul (Mercato comune del Sud America).
Le vittorie di Chávez in Venezuela, Kirchner in Argentina, Lula in Brasile, Morales in Bolivia, Vázquez in Uruguay, Correa in Ecuador, Ortega in Nicaragua e il vescovo Lugo in Paraguay, sommate alla “rettifica” cubana di Raoul Castro, disegnano una nuova geopolitica continentale, capace di neutralizzare l’ingerenza degli Usa in America Latina.
È vero che alcuni governi non sono stati del tutto coerenti con le promesse elettorali (in Brasile e Argentina la riforma agraria è ancora un tabù; altrove si minaccia di rompere il “Consenso-Sud” per firmare unilateralmente l’accordo di libero commercio con gli Usa). È vero che non siamo ancora a quella democrazia partecipativa che coniuga suffragio universale con garanzia di accesso per tutti ai diritti economici e sociali basilari (tutti votano, ma molti hanno fame; tutti hanno il diritto all’educazione, ma molti bambini non sono a scuola; tutti hanno il diritto alla salute, ma pochi riescono a goderla, grazie a schemi assicurativi di medicina privata). Ma è anche vero che l’America Latina non ha mai conosciuto un periodo tanto democratico quanto quello presente.
La vera novità è che i paesi del “Consenso-Sud” s’impegnano a combattere la misera e l’inflazione, non criminalizzano i movimenti sociali, moltiplicano meccanismi di consultazione popolare e riscattano la funzione dello stato come agente di sviluppo sociale ed economico. In politica estera, rafforzano i progetti di cooperazione socio-economica tra i paesi (come il Mercosul e l’Alternativa bolivariana per le Americhe — Alba), si aprono all’asse Sud-Sud (Cina, India e Sudafrica) e riallacciano relazioni con l’Africa e il mondo arabo, diminuendo il peso dell’egemonia anglo-sassone.
Oggi la sfida è dare continuità a questo processo. È necessario che i governanti non cadano nella tentazione di un “neo-caudillismo” (caudillo: parola spagnola per indicare un leader politico-militare a capo di un potere autoritario): forti del proprio carisma personale, potrebbero cercare di stabilire canali diretti con i poveri, scavalcando la mediazione dei partiti e dei movimenti sociali. Sta qui il pericolo. Senza partiti rappresentativi, dotati di un progetto storico e di rigore etico, e senza un’accresciuta capacità di singoli e gruppi di controllare la propria vita attraverso il protagonismo dei movimenti sociali, il “Consenso-Sud” rischia di passare alla storia come un’altra speranza fallita.
Bisogna, quindi, annaffiare i fiori di questa primavera e svellere quanto prima ogni erba cattiva, perché la nuova stagione produca davvero frutti di giustizia e di libertà.
di Frei Betto
Nigrizia giugno 2008