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Domenica, 27 Giugno 2010 11:48

Romero santo, 30 anni di attesa

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Anche Nigrizia, come tanti amici di Oscar Romero, ha voluto ricordarlo a 30 anni dalla sua morte. Era il 24 marzo del 1980 e monsignore stava celebrando la messa nella cappella dell'ospedale delle Suore della Divina Provvidenza, a San Salvador.

All'offertorio, una pallottola lo colpì al cuore. Istintivamente si aggrappò all'altare, rovesciandosi addosso tutte le ostie da consacrare. Cadde in una pozza di sangue ai piedi del crocifisso. Quasi che questi gli dicesse: «Oscar, ora la vittima sei tu».

"Sentire con la chiesa" era il suo motto di vescovo. Chiesa intesa, il suo popolo, che egli amava  e voleva servire. La sua gente da subito ne ha fatto l'icona del pastore che offre la propria vita per i più deboli e dei poveri. E lo ha proclamato santo.

Dal 1996 il processo della sua canonizzazione, dopo la chiusura della fase diocesana, è approdato a Roma. Postulatore della causa è mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni ed espressione della Comunità di sant'Egidio. Indossa la croce che Romero portava al momento della morte. In passato aveva lasciato intendere che la pratica procedeva spedita. Invece, i tempi del processo sembrano dilatarsi all'infinito.

È lecito chiedersi perché. Possibili strumentalizzazioni politiche? Resistenze da parte dei settori tradizionalisti che ritengono Romero rivoluzionario ed estremista, figura controversa e conflittuale, dimentico della diplomazia, vescovo di frontiera e di lotta, politico, insomma? Lui, in verità,  chiedeva solo di applicare la dottrina sociale della chiesa. Dottrina che il potere giudicava troppo aperta, “catto-comunista”.

Il vescovo non sapeva granché di politica; di marxismo quasi nulla. A lui interessava la gente del Salvador, per la quale pretendeva giustizia e pace. Aveva capito che la chiesa, ovunque, non solo in America Latina o nel Salvador, deve annunciare il Vangelo sulla via della giustizia e della pace. Per lui, i poveri, i deboli e gli oppressi, oltre che esseri umani, erano "divini". Perché di loro Gesù ha detto: «Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Insomma, una passione senza confini per la sorte dei poveri. Che è elemento ineliminabile della tradizione della chiesa, che da sempre riconosce la predilezione del povero come scelta stessa di Dio.

Romero ricorreva ad Agostino e Tommaso d'Aquino per giustificare chi si sollevava contro la tirannia sanguinaria. Citava la Populorum progressio. E per dire che «il vero peccato è l'ingiustizia sociale», riprendeva gli scritti di Ambrogio contro l'oppressione dei poveri e le parole di Neemia sull'usura e lo sfruttamento. Le sue omelie raccontavano le sofferenze che i contadini, i catechisti, i sacerdoti subivano. Elencava gli abusi che il popolo pativa - uccisioni, rapimenti, torture, sparizioni, distruzione di case e campi - e che spezzavano il suo cuore di pastore.

Sembrano pesare ancora su di lui le sue ultime visite romane, piene di incomprensioni. Non basta che s'ispirasse all'amico e consolatore, il vescovo argentino Eduardo Francisco Pironio, che Paolo VI avrebbe elevato a cardinale nel 1976 e nel cui pensiero Romero rinveniva una formulazione della teologia della liberazione molto aderente al Vangelo e alla dottrina sociale della chiesa. Ma si tratta pur sempre di teologia della liberazione e... non va bene.

Bisogna a tutti i costi "spiritualizzare" la figura di Romero. Puntando i riflettori in modo esclusivo sui suoi interessi spirituali e sulla sua vita interiore, fatta di rosari, devozione al Sacro Cuore e alla Madonna, preghiera, sacramenti, meditazione. Il primo Romero, insomma, quello "conservatore", che piaceva al potere. Facendo sparire il secondo Romero, quello che, divenuto arcivescovo di San Salvador, si convertì a Cristo presente nel popolo, che riscoprì nel corpo martirizzato dell'amico gesuita Rutilio Grande.

Quella di Romero e stata una spiritualità calata nella realtà. Una fede vissuta come impegno a costruire la pace, fondata sulla solidarietà e sulla giustizia. Mai si e rifugiato in un mondo irreale. Pericolo frequente nella storia della chiesa, specie nelle persone "spirituali". «Poiché non sono della terra, credono di essere del cielo. Poiché non amano gli uomini, credono di amare Dio» (Peguy).
Come tanti altri sacerdoti dell'America Latina, Romero è stato ucciso da persone che si dicevano cristiane e che vedevano in lui un nemico dell'ordine sociale occidentale. Romero, vittima della società occidentale cristiana, quindi.

Naturalmente lui, dal cielo, avrà certo la pazienza di sorridere e di aspettare che noi, suoi sostenitori così diversi, ci mettiamo d'accordo. E non dimentica di aver detto: «Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Un vescovo muore, ma la chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai».
In Africa Romero ha avuto i suoi emuli: Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu (Rd Congo); Pierre Claverie, francese d'Algeria, vescovo di Orano; Joachim Ruhuna, arcivescovo di Gitega (Burundi). Tutti uccisi nel 1996, perché schierati dalla parte della giustizia e per la vita. Qualcuno aveva suggerito che il Sinodo africano li proclamasse beati per acclamazione. Non se n'e fatto nulla. Ciò non toglie che gli africani li considerino santi, perché fedeli al popolo di Dio fino alla morte.


Nigrizia Aprile 2010

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