È la storia della prima guerra civile liberiana, che si è conclusa con il defenestramento e la brutale uccisione del presidente Samuel Doe e con la presa del potere del ribelle per via elettorale, al termine di una campagna segnata dal macabro slogan «ho ucciso tua madre, ho ucciso tuo padre, vota per me», che gli è valso il 75 per cento dei consensi alle elezioni del 1997. Ma è anche la storia della guerra civile sierraleonese e degli interessi contrapposti per il controllo dei ricchi giacimenti diamantiferi di quel paese. È poi la storia della seconda guerra civile liberiana, quella che si è conclusa prima con le dimissioni di Taylor e il suo esilio dorato a Calabar in Nigeria, nel 2003, poi infine con il suo arresto nel 2006 e la sua incarcerazione su richiesta del Tribunale speciale dell'Onu per la Sierra Leone. Proprio il suo ruolo nella sanguinosa guerra del paese vicino è oggi in questione in un processo che solo la comparsa di Naomi Campbell è riuscita a portare sotto i riflettori dei media. Imputato di undici capi di accusa, da crimini di guerra a crimini contro l'umanità, lui si è sempre dichiarato «non colpevole», nonostante le numerose testimonianze contrarie. Il suo coinvogimento nel conflitto sierraleonese è acclarato, anche se ancora manca quella smoking gun che proverebbe la sua colpevolezza: appena giunto alla presidenza, Taylor aveva subito cominciato ad appoggiare il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) di Fonday Sankoh, che lo riforniva in diamanti in cambio di kalashnikov e Razzi Rpg.
In quegli anni folli, il presidente e i suoi accoliti avevano trasformato Monrovia in una specie di enorme bazaar, frequentato da trafficanti d'armi di ogni calibro, che venivano a vendere e ripartivano con le valigette piene di diamanti. La presidenza liberiana si era imposta come «l'intermediario d'affari»: piazzava le gemme del Ruf, nonostante l'embargo delle Nazioni unite, e intanto faceva finta di mediare tra i ribelli e il governo di Freetown. Mentre Taylor giocava al pompiere piromane, il mondo osservava sgomento e impotente le azioni dei miliziani di Sankoh, quei bambini soldati allucinati dalla droga che avevano eletto a proprio svago il taglio delle braccia di chiunque incontrassero sulla propria strada. «Manica lunga o manica corta?», la domanda che ponevano prima di operare si è imposta nell'immaginario collettivo, anche grazie al blockbuster hollywoodiano con Leonardo Di Caprio Blood Diamonds. Taylor era parte di un sistema o ne era l'ingranaggio principale? Molti lati di quella vicenda sono destinati a rimanere senza risposta, a cominciare dai variegati e contrapposti appoggi di cui ha goduto il ribelle divenuto presidente durante la sua ascesa politica, dal colonnello Gheddafi, al presidente ivoriano Felix Houphouët-Boigny, dal reverendo nero Jessy Jackson al tele-predicatore evangelico Pat Robertson. La stessa foto della cena del settembre 1997 a Pretoria con Nelson Mandela e Graça Machel lo vede circondato da un parterre non certo degno di un sanguinario signore della guerra. Il fatto è che l’uomo sapeva essere tanto brutale con i suoi nemici, quanto affabile in situazioni pubbliche.
Taylor è stato l'uomo di tutti e di nessuno: di Samuel Doe, che lo ha cooptato nel proprio governo, salvo poi cacciarlo quando si è accorto che aveva dirottato su un conto americano a suo nome 900mila dollari; degli statunitensi, che lo hanno aiutato a uscire discretamente dal carcere in cui era rinchiuso a Plymouth (Massachusetts) proprio per andare a rovesciare Doe; dei francesi, che avrebbe aiutato a sbarazzarsi del troppo idealista Thomas Sankara in Burkina Faso. Signore della guerra, presidente, predicatore battista, sposo tre volte e padre di numerosi figli, Taylor rimane un enigma. Quando lo hanno arrestato, nel 2006, costringendo il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo a venir meno alla parola data al momento in cui gli aveva offerto asilo nel proprio paese, hanno dovuto trasferirlo in tutta fretta all'Aja. Perché godeva di eccessivi appoggi e simpatie nella regione e il suo processo sarebbe stato politicamente destabilizzante sia per la Liberia, che aveva appena eletto con Ellen Johnson-Sirleaf la prima donna presidente dell’Africa, che per la Sierra Leone, ancora segnata dalle ferite della guerra civile.
Quando fu costretto a lasciare la presidenza, sotto gli attacchi congiunti dei ribelli provenienti dalla Guinea e dalla Costa d'Avorio, ormai troppo implicato per poter beneficiare del sostegno dei suoi vari ex amici in giro per il mondo, disse di «accettare obtorto collo questo ruolo di agnello sacrificale» e promise con tono profetico che la storia alla fine gli avrebbe dato ragione. In una famosa intervista alla Bbc di pochi anni prima, quando l'intervistatore gli chiese un commento al fatto che molti lo consideravano nulla più che un assassino, rispose che «a suo tempo, anche Gesù Cristo era stato accusato di essere un assassino».
Questo è Taylor, l'uomo oggi alla sbarra all’Aja che gioca a fare la vittima. La partita di ieri, con l'intervento ipermediatizzato della modella diventata testimone, ha giocato a suo favore. Vediamo se alla fine la storia gli darà effettivamente ragione e se potrà dire che, come Gesù Cristo, anche lui è (politicamente) morto e poi risorto.