Lo scorso aprile in Sudan, paese a maggioranza islamica, si sono svolte le elezioni generali. Non succedeva dal 1986. II presidente-dittatore uscente, Omar El-Bashir, ha vinto con il 68,24% dei voti. Un risultato, per certi versi, anomalo, perché non conforme alla tradizione a cui ci hanno abituati i rais dei paesi islamici (arabi soprattutto), i quali sono rieletti con oltre il 90% delle preferenze. In Algeria, nell'aprile 2009, Abdelaziz Bouteflika è stato riconfermato per un terzo mandato con il 90,24% dei voti. Nel settembre scorso, i tunisini hanno eletto per la quinta volta consecutiva Ben All con l'89,9% dei voti; ma la media delle preferenze da lui ottenute nelle cinque elezioni è stata pari al 96%. In Egitto, Hosni Moubarak è al potere dal 1981: alle elezioni del 1987, 1993, 1999 aveva ottenuto più del 95%; in quelle del 2005 il "consenso popolare" è sceso alI'88%, semplicemente perché non correva da solo, come in precedenza.
Ma c'è di peggio. Vi sono governanti di paesi arabi che il voto nemmeno lo considerano. Gheddafi è al potere in Libia dal 1969. In Siria la famiglia al-Asaad è giunta a quota 39 anni di potere assoluto (29 del padre e 10 anni del figlio Bashar).
Questo è lo specchio desolante del panorama politico nella quasi totalità dei paesi arabi (ad eccezione del Libano). E il futuro non sembra incoraggiante. Imitando il siriano Hafez al-Asaad, Moubark e Gheddafi stanno preparando il terreno per passare il potere ai figli, come succede nelle monarchie assolute (Marocco, Arabia Saudita e Giordania). In effetti, questi dittatori, giunti al potere illegittimamente (quelli citati hanno tutti un background militare), stanno operando per il consolidamento di un nuovo regime politico ibrido: repubblicano nella forma e monarchico (assoluto) nella sostanza.
II rifiuto del pluralismo politico da parte dei regimi arabi porta molti studiosi a sostenere la tesi "culturalista", secondo la quale nella cultura araba prevale un'inclinazione innata all'autoritarismo, soprattutto a causa della religione islamica, che è incompatibile con la democrazia. In realtà, sono gli stessi regimi dittatoriali arabi a evocare il "pericolo islamista" per rafforzare il loro totalitarismo. Dicono che un'apertura politica favorirebbe i partiti islamisti che strumentalizzano la cronica crisi economico-sociale. Ma non ci dicono chi sono i principali responsabili di tale drammatica crisi.
In genere, le crisi economiche sono scintille che provocano il cambiamento politico. Ma non nei paesi arabi. In Algeria, Tunisia, Egitto, ecc... i governi sono riusciti a separare la liberalizzazione economica da quella politica. La loro partecipazione (parziale è selettiva) all'economia di mercato non è accompagnata da una diffusione delle libertà pubbliche; al contrario, la repressione politica è sempre più grave. Sostengono che non è possibile gestire contemporaneamente la transizione da un'economia statalista a quella di mercato e la transizione dall'autoritarismo alla democrazia. Ritengono che, senza una classe media stabile e un'adeguata crescita economica, la democratizzazione awantaggerebbe solo gli islamisti. E’ una visione che calza perfettamente con gli interessi degli Usa, che mettono tra le loro principali priorità la stabilità dei regimi a loro sottomessi - anche se autoritari - e l'esclusione dei nemici islamisti dalla scena politica.
Questo approccio, in realtà, è una sottile strategia che permette alle dittature arabe di evitare la democratizzazione con il pretesto di salvaguardare la democrazia dal "pericolo Islam". Ma davvero l'islam è incompatibile con la democrazia?
In un regime di pluralismo politico, la pratica democratica si basa sulle nozioni di consultazione, suffragio, alternanza, controllo e critica costruttiva. L’islam esorta la collettività dei fedeli a partecipare attivamente alla gestione del bene comune. In questo senso, la visione islamica del modo di governare è in linea con la pratica democratica. Essa prevede la shoura (consultazione), la mobayaa (scelta collegiate della guida della comunita.); l'amr bit maarouf wa nahy ani almunkar (diritto-dovere di critica). E c'è un altro concetto importante: la mouhasaba (la "contabilità politica") a carico di chi governa, il quale ha il dovere di presentare il bilancio della sua gestione del bene comune e rispondere alle critiche del popolo.
Quindi, in teoria, il modello di governo islamico non è incompatibile con la democrazia, perché condivide con essa i principi e gli strumenti tecnici della gestione della polis. II primo califfo Abou Bakr disse: «Sono stato designato come vostro capo, ma non sono migliore di voi. Se agisco bene, sostenetemi. Se agisco male, correggetemi». Un insegnamento che, evidentemente, non collima con gli interessi dei tiranni arabi e di chi, dall'esterno, li sostiene politicamente e militarmente.
di Mostafa El Ayoubi, da Nigrizia giugno 2010